Digitalizzazione del patrimonio culturale
Lo statuto proprietario del bene culturale nell’epoca della sua riproducibilità digitale
di Loris Di Cerbo [*]
Sommario: 1. I beni culturali, la tecnica e il diritto di proprietà. - 2. Lo statuto proprietario delineato dal Codice Urbani: la proprietà pubblica funzionalizzata e la proprietà privata conformata. - 3. La riproduzione dei beni culturali e la riproduzione della logica proprietaria. - 4. Dalla cultura dell’appartenenza a quella della fruizione: i beni comuni. - 5. L’“industria culturale” e la deriva autoritaria: un orizzonte di senso per i beni culturali.
Lo scopo di questo articolo è principalmente quello di evidenziare la differenza tra l’attuale normativa sulla proprietà del patrimonio culturale e il paradigma dei beni comuni. A tal fine, l’articolo è diviso in due parti. Nella prima, si mostra come il modello dominicale pervada l’attuale struttura proprietaria del patrimonio culturale (a cui è dedicato il §2), ostacolandone anche la riproduzione, il riuso e di conseguenza la fruizione (come discusso nel §3). La seconda parte del contributo descrive i principi che connotano la teoria dei beni comuni, tra i quali la separazione tra regole di proprietà e regole di fruizione è la più importante (§4). Infine (§5), si mostra come l’apparato teorico alla base dell’elaborazione della teoria dei beni comuni consenta di inquadrare correttamente il percorso verso cui tale fruizione dovrebbe essere indirizzata: il potenziale derivante dalla crescente facilità di fruizione dei beni culturali - favorita dalle moderne tecnologie - dovrebbe essere indirizzato esclusivamente verso la democratizzazione dell’accesso al patrimonio culturale piuttosto che essere funzionalizzato allo sfruttamento commerciale e alla promozione culturale autoritaria da parte del governo.
Parole chiave: proprietà dei beni culturali; riproduzione digitale; commons.
The proprietary status of the cultural good in the age of its digital reproducibility
The purpose of this article is primarily to highlight the difference between the current regulation about the ownership of cultural heritage and the paradigm of the commons. To this end, the paper is divided into two parts. In the first, it shows how the dominical model pervades the current ownership structure of cultural heritage (§2 is devoted to this), also hindering its reproduction, reuse and consequently its fruition (as discussed in §3). The second part of the contribution describes the principles that connote the theory of the commons, among which the separation between rules of ownership and rules of fruition is the most important (§4). Finally (§5), it is shown how the theoretical apparatus underlying the elaboration of the theory of the commons allows for the correct framing of the path toward which such fruition should be directed: the potential arising from the increasing ease of fruition of cultural property - fostered by modern technologies - should be directed exclusively toward the democratization of access to cultural heritage rather than being functionalized for commercial exploitation and authoritarian cultural promotion by the government.
Keywords: ownership of cultural property; digital reproduction; commons.
1. I beni culturali, la tecnica e il diritto di proprietà
Da oltre un secolo la tecnica ha radicalmente stravolto il rapporto che intercorre tra l’essere umano e il mondo dell’arte. La fotografia, il cinema e più recentemente internet hanno notevolmente amplificato la capacità di diffusione dell’arte, facilitandone di conseguenza la fruizione, e avvicinando il grande pubblico ad un mondo un tempo riservato al ceto dell’alta borghesia.
Già intorno agli anni ’20 del XX secolo, un poeta e scrittore del calibro di Paul Valery intuì, quasi profetizzando, le infinite potenzialità della tecnica e la profondità con cui essa avrebbe inciso sul godimento delle opere d’arte. “Sans doute” - scriveva il poeta francese - “On saura transporter ou reconstituer en tout lieu le système de sensations, ou plus exactement, le système d'excitations, que dispense en un lieu quelconque un objet ou un événement quelconque. Les œuvres acquerront une sorte d’ubiquité”. La diffusione della fotografia e del cinema faceva preannunciare al poeta francese scenari (“serons-nous alimentés d'images visuelles ou auditives, naissant et s'évanouissant au moindre geste, presque à un signe”) di straordinaria attualità [1].
Walter Benjamin colse appieno le conseguenze che la tecnica avrebbe provocato nel mondo dell’arte, e in uno dei suoi saggi più famosi, risalente agli anni ’30 - L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica - notò come la fotografia e il cinema, da un lato, avessero disintegrato l’“aura” dell’opera d’arte (“L’hic et nunc dell’originale [che] costituisce il concetto della sua autenticità”) e, dall’altro lato, avessero mutato la sua stessa funzione (“Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica”). Ma parallelamente ai cambiamenti interni al modo di concepire l’arte, Benjamin mostrò altresì, con estrema lucidità, come la tecnologia avesse completamente stravolto la relazione tra l’arte e il popolo. La possibilità di rendere fruibile l’arte ai ceti meno abbienti della società, il “rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine”, era diventata per le masse, oramai, “un’esigenza vivissima”, insopprimibile, tanto quanto “la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione” [2].
L’esigenza di fruizione e la tendenza alla riproduzione, descritte da Benjamin, si acuirono notevolmente già nell’immediato Secondo dopoguerra, allorquando la grande disponibilità di stampe fotografiche consentiva agli appassionati d’arte di poter osservare la riproduzione dei dipinti e delle sculture conservate in tutto il mondo, standosene comodamente a casa propria. Proprio insistendo su tale opportunità, nel 1947 l’intellettuale André Malraux pubblicò un pamphlet dal titolo bizzarro: Le Musée Imaginaire, ove si apriva all’idea di un museo personale che ciascuno avrebbe potuto creare nella propria dimora raccogliendo le fotografie delle opere d’arte situate nei luoghi più disparati.
Con il trascorrere dei decenni, e con l’evolversi della tecnica, la fruizione e la riproduzione delle opere d’arte hanno raggiunto livelli straordinariamente elevati. Basti pensare che, al giorno d’oggi, nell’epoca della riproducibilità digitale, l’accesso alle opere d’arte è di una facilità estrema: grazie ad Internet, non occorre recarsi nel luogo in cui è esposta un’opera d’arte, né è necessario raccogliere fotografie e immagini, essendo sufficiente interrogare il web per poter compiere, ad esempio, un tour virtuale dei principali musei mondiali [3].
È proprio a partire da tali sintetiche considerazioni inerenti alla crescente facilità di fruizione e alla crescente domanda di godimento delle opere d’arte - e, più in generale, dei beni culturali [4] - che può forse trovare parzialmente spiegazione la polemica attuale sui corrispettivi richiesti dal ministero della Cultura per la riproduzione e per il riuso delle immagini dei beni culturali. La polemica è sormontata nell’aprile del 2023, allorquando il ministero della Cultura, tramite il decreto ministeriale n. 161, ha emanato le linee guida con cui sono stati definiti gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi di concessione richiesti per l’uso di spazi e per la riproduzione dei beni culturali in consegna ad istituti e luoghi della cultura dello Stato. Lo scopo delle linee guida era quello di omogeneizzare le tariffe e i canoni richiesti dagli istituti pubblici, sia per quanto concerne gli affitti delle sale, sia per la riproduzione (tramite le fotografie, le immagini digitali, i videoclip ecc.) delle opere d’arte. A tal fine, alle linee guida sono state allegate delle tabelle contenenti i coefficienti che consentono di quantificare il canone minimo da corrispondere in ogni situazione.
Il decreto ha suscitato fin da subito una reazione compatta e critica, con numerosi appelli provenienti dall’editoria, dal mondo accademico e dalle associazioni di promozione del patrimonio culturale. Perfino l’Accademia dei Lincei e la Corte dei conti hanno criticato il ministero, con quest’ultima che ha giudicato in “controtendenza” la scelta di imporre un tariffario nel campo del riuso e della riproduzione delle immagini, “così incidendo su temi centrali connessi allo studio ed alla valorizzazione del patrimonio culturale nazionale, nonché ad una più ampia circolazione della conoscenza” [5]. A seguito delle numerose proteste, il ministero della Cultura è dunque ritornato (anche se solo parzialmente) sui propri passi e, mediante l’emanazione del d.m. n. 108 del 21 marzo 2024, ha ampliato le maglie della riproduzione gratuita delle immagini dei beni culturali introducendo una serie di esenzioni dal pagamento, soprattutto in favore dell’editoria, e ciò sia per le pubblicazioni scientifiche e divulgative, sia per le pubblicazioni realizzate nell’esercizio del diritto di cronaca.
Il nuovo decreto ministeriale, tuttavia, non ha placato le obiezioni. È noto, infatti, che ostacoli alla riproduzione dei beni culturali non provengono soltanto dai decreti ministeriali prima citati (i quali traggono origine dagli artt. 106 ss. del Codice Urbani), bensì anche dalla distinta normativa in tema di diritto d’autore, che rende difficile persino l’esercizio del diritto di cronaca. Ed è proprio a causa di queste difficoltà che, nell’edizione del 30 maggio 2024, il quotidiano La Repubblica ha deciso di lasciare intere pagine in bianco, prive delle immagini delle opere d’arte ivi menzionate, accusando espressamente la Società Italiana degli Autori ed Editori (Siae) di rendere impossibile l’attività giornalistica a causa degli ingenti corrispettivi richiesti [6].
La riproduzione delle immagini dei beni culturali soggiace, infatti, ad un complicato intreccio normativo tra Codice dei beni culturali (e decreti ministeriali attuativi) e diritto d’autore; settori normativi, questi, ispirati a finalità diverse: l’uno volto a preservare e valorizzare il bene culturale, l’altro finalizzato ad incentivare l’attività creativa e intellettuale [7]. Nonostante la divergente finalità delle due discipline, comune ne resta tuttavia la matrice la quale - come si mostrerà in maniera più dettagliata in prosieguo, ma come è d’altro canto facilmente intuibile - è da individuare nel diritto di proprietà [8].
Ed è proprio l’istanza proprietaria che induce, anche negli ultimi tempi, alla creazione e alla predisposizione di nuove tecnologie volte a “recintare” ciò che il web rende illimitatamente accessibile, e a far diventare artificialmente scarse cose che potrebbero esistere in abbondanza. È il caso, da ultimo, dei Non-Fungible Token (Nft), ovvero algoritmi registrati sulla blockchain e contenenti una serie di informazioni relative ad un determinato oggetto digitale (che può essere rappresentato anche da un’opera d’arte, nel qual caso di parla di “cripto-arte”), e utilizzate in modo tale da proibire l’accesso al contenuto digitale da parte di tutti coloro che sono sprovvisti delle apposite licenze. Il fenomeno degli Nft rappresenta paradigmaticamente, come è stato efficacemente fatto notare, il diffondersi, anche nel mondo virtuale, “di un fenomeno simile a quello del c.d. enclosure”, ovvero la trasformazione di un bene da res communes omnium a bene privato [9].
Già da queste considerazioni preliminari è possibile tracciare le principali coordinate del nostro discorso. La tecnica ha stravolto il rapporto che l’essere umano ha con il mondo dell’arte e della cultura, potenzialmente sottraendo il bene culturale al godimento esclusivo da parte del ceto elitario, e ponendo le basi per una diffusione democratica della cultura. La stessa tecnica, nondimeno, è in grado di reprimere siffatte virtualità multiple. In tale contesto, un ruolo fondamentale di guida è svolto dal diritto, quale meccanismo che permette di governare lo sviluppo e l’utilizzo delle nuove tecnologie. Tuttavia, un uso non sempre felice dello strumento legislativo ha consentito di rigenerare anche nello spazio digitale i diritti classici e di limitare la circolazione dei beni, anche immateriali, rafforzando la più importante delle prerogative che caratterizzano l’istituto proprietario nel diritto privato moderno: lo ius excludendi alios [10]. Ancora oggi, dunque, nonostante la tecnica apra opportunità e orizzonti straordinari al libero godimento dei beni culturali, il “terribile diritto” (la proprietà, e le sue diverse declinazioni) costituisce il principale ostacolo alla democratizzazione culturale e alla diffusione di una politica che si preoccupi, oltre che di tutelare la “grande bellezza” e di proteggere il copyright, di porre i beni culturali al centro di una strategia di integrazione sociale [11].
Con ciò, si badi, non si intende demonizzare la proprietà dei beni culturali e la proprietà intellettuale, né sottovalutare il ruolo del mecenatismo privato e il “valore del contributo gratuito e generoso di tante entità private” proprietarie delle cose d’arte [12], quanto piuttosto porre in luce l’esigenza di riorientare l’asse normativo, troppo a lungo attratto verso il polo dominicale, nell’opposta direzione del modello democratico. Certamente, in un quadro di interessi contrapposti così composito, che suscita animati e vivaci dibattiti anche in dottrina, individuare il corretto bilanciamento tra l’esigenza di controllo pubblicistico sull’utilizzo dei beni culturali, il diritto alla fruizione e alla diffusione della cultura, il diritto di cronaca, il diritto di proprietà privata e il diritto d’autore e non è - ça va sans dire - un facile esercizio. E tuttavia, per il giurista (anche non engagé) la complessità non può costituire una valida scusante per sottrarsi al giudizio e al dovere di indicare quali debbano essere i princìpi attraverso cui provare a districare il difficile intreccio di interessi.
Un utile contributo alla discussione può essere fornito, a nostro avviso, dalla riflessione intorno ai beni comuni, la cui pietra angolare è appunto costituita dalla critica nei confronti del modello proprietario di stampo dominicale. Non a caso - proprio enfatizzando la scissione tra appartenenza e fruizione, tra titolarità e godimento - nel disegno di legge redatto dalla commissione Rodotà i beni culturali venivano espressamente fatti rientrare (insieme a molti altri) nella categoria dei beni comuni, intesi come beni di cui - indipendentemente dalla titolarità pubblica o privata - “deve essere garantita la loro fruizione collettiva”.
Sebbene tale proposta non sia stata convertita in legge, ancora oggi - nella recente letteratura, non soltanto giuridica - si tende a qualificare i beni culturali quale esempio paradigmatico di beni comuni [13]. Tesi, questa, che trae linfa dalla giurisprudenza della Cassazione la quale - oltre ad aver riconosciuto, in un precedente rimasto tuttavia isolato, la categoria dei beni comuni [14] - ha legato la salvaguardia dei valori culturali (e ambientali) alla funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42 Cost., sottolineando che “il sistema di tutela del paesaggio, dell’ambiente o del patrimonio storico e artistico giustifica l’affermazione di limitazioni all’uso della proprietà dei beni vincolati alla luce dell’equilibrio costituzionale tra gli interessi in gioco, che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte alle esigenze di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali, in attuazione della funzione sociale della proprietà” [15].
Beni culturali, riproduzione tecnica, proprietà, beni comuni: queste, dunque, le parole intorno alle quali verte il nostro discorso. Lo scopo di questo contributo è principalmente, infatti, quello di evidenziare la distanza che intercorre tra l’odierno modello proprietario che contraddistingue lo statuto normativo dei beni culturali (e la loro riproduzione) e il diverso paradigma dei beni comuni. A tal fine, lo scritto si suddivide in due parti. Nella prima, si cercherà di mostrare come il modello dominicale pervada l’attuale assetto proprietario dei beni culturali (a ciò è dedicato il §2), ostacolandone anche la riproduzione, il riuso e di conseguenza la fruizione (come si dirà nel §3). Nella seconda parte del contributo, invece, si descriveranno i princìpi che connotano la categoria giuridica dei beni comuni, tra i quali rientra la separazione tra regole di appartenenza e regole di fruizione (§4). In un secondo momento (§5), infine, si mostrerà come l’apparato teorico che sottende l’elaborazione della categoria dei beni comuni consenta di inquadrare in maniera corretta la strada verso cui tale fruizione dovrebbe essere indirizzata: le potenzialità derivanti da una sempre maggiore facilità di godimento dei beni culturali - favorita dalle moderne tecnologie e dalla tendenza alla riproduzione dell’immagine di questi beni - dovrebbero essere destinate esclusivamente alla democratizzazione dell’accesso ai beni culturali piuttosto che essere funzionalizzate allo sfruttamento commerciale oppure alla promozione culturale (e autoritaria) da parte degli apparati governativi.
2. Lo statuto proprietario delineato dal Codice Urbani: la proprietà pubblica funzionalizzata e la proprietà privata conformata
È stato efficacemente sostenuto che la “formazione di un ordinamento del patrimonio culturale” rappresenta la “storia dell’emancipazione del valore sociale dal valore economico privato” dei beni culturali [16]. Questa storia ha inizio quantomeno verso la fine dell’Ottocento, periodo in cui si andava progressivamente abbandonando “la legislazione di stampo tipicamente liberale”, la quale “escludeva la necessità di un regime differenziato dei beni culturali” e li assoggettava pienamente “al regime della proprietà privata” [17]. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio dello scorso secolo iniziò così a prendere piede, seppur in forma embrionale, uno statuto differenziato dei beni culturali, che aveva quale propria finalità principale la tutela e la conservazione del bene stesso [18]. Con la legge Nasi del 1902 e la legge Rosadi del 1909 vennero introdotti, inoltre, ulteriori vincoli pubblicistici al regime delle cose d’arte, tant’è che - scrive Cammelli - “nasce per questi beni una sorta di doppia titolarità che costituisce il passaggio chiave, politico e giuridico, del regime di tutela e che rimane tra i fondamenti della disciplina organica dell’intero settore dettata poi dalla legge Bottai del 1939 che, confermata e rafforzata dai principi in materia dalla Costituzione italiana, rimarrà sostanzialmente invariata fino ai giorni nostri” [19].
La disciplina contenuta nel Codice Urbani del 2004 prosegue lungo questa stessa direttrice di senso. Al suo interno, infatti, possono essere rinvenute numerose disposizioni che limitano le prerogative del proprietario privato, al quale viene anzitutto sottratto il c.d. ius abutendi. Ad esempio, già all’art. 1, comma 5 si prevede che “I privati proprietari, possessori o detentori di beni appartenenti al patrimonio culturale [...] sono tenuti a garantirne la conservazione”. Analogamente, all’art. 20 si stabilisce che i beni culturali (sia pubblici che privati) non possono essere “distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione” [20]. Anche altre facoltà del proprietario vengono compresse: una corposa e intricata disciplina è prevista, infatti, in relazione alla circolazione e al commercio dei beni culturali pubblici e privati (sia nel territorio nazionale sia internazionale) [21], nonché in relazione alla facoltà di espropriazione dei beni privati [22].
In linea generale, la presenza di una pluralità di vincoli sui beni culturali di proprietà privata fa sì che la situazione di appartenenza di tali beni possa essere definita come una “proprietà conformata alla luce degli interessi generali” [23], ovverosia non una proprietà piena e assoluta (secondo il modello ottocentesco dello Stato liberale) [24], bensì una proprietà la cui disciplina riflette il fatto che su questi beni si innestano anche interessi pubblici e collettivi, di modo che al proprietario è consentito godere e disporre dei beni nei limiti stabiliti dal legislatore [25]. Questo dato conferma, ancora una volta, la validità di una visione pluralista del modello proprietario, legittimata dalla formulazione dell’art. 42 della Costituzione: non esiste, dunque, un’unica proprietà, ma sono configurabili tante proprietà poiché esistono eterogenee discipline proprietarie sagomate in base al bene che ne è oggetto [26].
Tuttavia, se la libertà del proprietario privato è fortemente incisa per quanto concerne la conservazione e la circolazione dei beni culturali, le diverse funzioni della valorizzazione e della fruizione sono caratterizzate da una disciplina decisamente meno pervasiva. Mentre, infatti, per i beni culturali di titolarità dello Stato la valorizzazione (si vedano gli artt. 6 e 112) e la fruizione (artt. 101 ss.) si impongono come finalità inderogabili - da cui deriva che la proprietà pubblica dei beni culturali può essere inquadrata come una titolarità funzionalizzata al godimento pubblico [27] - nel caso di beni culturali privati tali finalità tendono ad attenuarsi fino a collocarsi nel diverso piano dell’incentivazione [28].
Più nel dettaglio, quanto alla valorizzazione, essa consiste in un’attività diversa dalla mera conservazione del bene [29] (affermatasi solo in tempi più recenti, soprattutto a partire dalla Commissione Franceschini del ’64), il cui scopo risiede nella promozione del bene culturale intesa come fattore di diffusione della cultura (valorizzazione d’uso, dunque, piuttosto che valorizzazione di scambio). L’attività di valorizzazione non è vincolata per il proprietario privato, ma è solo incentivata. A tal proposito, infatti, è stato correttamente sottolineato, come “la valorizzazione del patrimonio culturale privato è attività svolta su iniziativa dei privati interessati, i quali, in quanto proprietari, sono liberi di scegliere le forme attraverso le quali realizzarla [...] con la conseguenza che i soggetti pubblici sono spinti a sostenere le iniziative private in modo da poter concordare con questi le tecniche di valorizzazione cui sottoporre i beni di loro proprietà” [30].
Analogamente, anche per quanto concerne la fruizione del bene culturale, in linea generale il proprietario privato non è obbligato a garantirne il libero accesso, salvo che tale bene non rivesta un interesse culturale eccezionale (si veda, in particolare, l’art. 104 del Codice Urbani). A tal proposito, in dottrina è stato evidenziato come per i beni culturali di proprietà privata l’esigenza di fruizione collettiva viene ad essere necessariamente “ponderata con la riserva di potere e di dominio sulla cosa riconosciuta al proprietario od al titolare di diritti reali”, di modo che la fruizione collettiva di beni privati viene assicurata solo in ipotesi specifiche ed eccezionali [31].
Diversamente, invece, i princìpi della massima valorizzazione e della libera fruizione innervano la disciplina dei beni culturali di titolarità pubblica ma, anche in tal caso, la crescente facilità con cui essi (alle condizioni previste dagli artt. 53 ss. del Codice Urbani) possono essere alienati - in tendenziale deroga rispetto alla tradizionale demanialità che caratterizzava i beni culturali secondo la previsione del codice civile - acuisce il rischio di una loro privatizzazione, così soffocando le aspirazioni di libero godimento da parte della collettività [32].
Già da questa prima analisi, emerge chiaramente come lo statuto proprietario dei beni culturali rifletta in maniera assai forte la logica dominicale che ne fa da sfondo, la quale con il passare del tempo risulta essere stata duramente scalfita dalla disciplina pubblicistica (mossa dall’interesse di preservare i beni culturali situati nel territorio nazionale) esclusivamente per quanto concerne taluni profili - quali la tutela, la conservazione e la circolazione del bene - mentre non altrettanto può dirsi con riguardo alla facoltà di godimento (nell’interesse della collettività), che resta assoggettata alla regola dello ius excludendi alios.
3. La riproduzione dei beni culturali e la riproduzione della logica proprietaria
In maniera distinta rispetto alla fruizione, il legislatore disciplina altresì la riproduzione dei beni culturali, ed è su questa normativa che occorre focalizzare l’attenzione, sia per completare l’analisi circa lo statuto normativo vigente dei beni culturali, sia per mostrare come la logica dominicale (che si riflette tanto nel Codice Urbani, quanto nella tutela autoriale) governi anche la riproduzione dei beni culturali, ostacolandone il libero godimento.
L’art. 107, al comma 1 detta un principio di ordine generale, tale per cui gli enti pubblici che abbiano in consegna i beni culturali possono consentirne la riproduzione [33]. L’art. 108, invece, disciplina i princìpi da seguire nel fissare i canoni di concessione d’uso e i corrispettivi connessi alla riproduzione di beni culturali, i quali sono poi determinati nel loro ammontare dall’amministrazione concedente [34]. In ogni caso - ed è questo un aspetto cardine della normativa in oggetto - il comma 3 dell’art. 108 esonera dal pagamento dei corrispettivi le riproduzioni richieste (o eseguite) da privati per uso personale o per motivi di studio, nonché le riproduzioni richieste da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, e purché attuate senza scopo di lucro (fermo restando, in ogni caso, il rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente). Inoltre, il comma 3-bis dell’art. 108 (introdotto nel 2014) consente la libera riproduzione di beni culturali (senza necessità di ottenere la previa concessione d’uso e di versare un corrispettivo) attuata senza scopo di lucro e con modalità tali da non mettere in pericolo la conservazione del bene, così come è consentita la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo tale da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro [35].
Dal sintetico ma complesso quadro normativo preso in analisi, emerge chiaramente come “l’utilizzo dell’immagine di un bene culturale sia subordinato al previo ottenimento di una concessione d’uso solo qualora la riproduzione venga utilizzata per fini economico-commerciali ed in questo modo la presenza (o l’assenza) di lucro si attesta come stella polare tra uso libero o meno dell’immagine” [36]. La riproduzione di un bene culturale in consegna ad istituzioni pubbliche, in altri termini, soggiace ad un regime di privativa a seconda che esso sia destinato o meno allo sfruttamento commerciale.
Ed è proprio sulla scorta di tale principio che la giurisprudenza di merito si è pronunciata, anche di recente, concedendo alle autorità pubbliche la tutela giurisdizionale (anche cautelare, di tipo inibitorio) nei confronti di utilizzi non autorizzati, e per finalità di lucro, dell’immagine dei beni culturali in consegna presso soggetti pubblici. È questo, ad esempio, il recente caso che ha coinvolto lo stilista Jean Paul Gaultier, colpevole di aver utilizzato sui propri abiti (senza l’autorizzazione della Galleria degli Uffizi di Firenze) l’immagine della Venere di Botticelli. Oppure il caso che ha coinvolto il David di Michelangelo, il cui busto era stato riprodotto su una nota rivista ma sovrapponendovi il volto di un modello, così - secondo la pronuncia del Tribunale di Firenze - “svilendo, offuscando, mortificando, umiliando l’alto valore simbolico e identitario dell'opera d’arte e asservendo la stessa a finalità pubblicitarie e di promozione editoriale” [37].
Tali precedenti giudiziari hanno sollevato un acceso dibattito. Tuttavia, ad una valutazione d’insieme, pare potersi affermare che la normativa appena descritta - consentendo la libera riproducibilità esclusivamente per finalità non commerciali - ha l’indubbio pregio di favorire la fruizione dei beni culturali per scopi personali, al contempo ponendo un ostacolo, seppur non assoluto [(essendo superabile tramite il pagamento del corrispettivo, da calcolarsi sulla scorta “dei benefici economici che ne derivano al richiedente”, ex art. 108, comma 1, lett. d)] allo sfruttamento economico e alla mercificazione del bene culturale di pubblico dominio [38].
In dottrina, tuttavia, non sono mancate critiche nei confronti di questa impostazione legislativa, ritenuta colpevole di adottare in maniera ingiustificata il modello proprietario non soltanto con riguardo al corpus mechanicum del bene culturale, bensì anche alla sua mera immagine, con l’effetto di riconoscere in capo all’autorità pubblica un diritto di esclusiva sulle riproduzioni anche indirette (aventi ad oggetto, cioè, riproduzioni già esistenti), e dando così vita ad una sorta di “pseudocopyright di Stato” anche sui beni in pubblico dominio (per le quali la tutela autoriale è scaduta ovvero non è mai esistita) [39].
È stato fatto notare, inoltre, come il controllo sull’attività di riproduzione potesse essere ritenuto opportuno in epoca passata, in cui la tipologia dei mezzi tecnici (legati alle riproduzioni analogiche) faceva sì che occorresse recarsi nel luogo in cui era situata l’opera d’arte per ritrarne un’immagine. Al giorno d’oggi, però, “la tecnologia è profondamente mutata e tanto la captazione quanto la successiva circolazione dell’immagine in ambiente digitale - si pensi al più banale degli smartphone - non implicano più alcun problema in termini di rivalità nel consumo” [40]. Seconda questa tesi, dunque, il controllo sulle modalità di utilizzo dell’immagine e di tutela in caso di uso commerciale per finalità incompatibili con il valore simbolico del bene culturale (spesso declinato, tra l’altro, in chiave nazional-identitaria), dovrebbe essere assicurato da “liability rules e non già da property rules” [41].
L’applicazione del modello dominicale e le limitazioni alla riproducibilità (e, di conseguenza, alla fruibilità) dei beni culturali si riscontrano - in maniera ancora più netta - nella legislazione sulla tutela del diritto d’autore [42], in cui a prevalere sono le “istanze privatistiche” e ad essere sacrificate sono “le esigenze del pubblico dominio o della pubblica fruizione” [43]. Occorre infatti considerare che la tutela autoriale pone numerosi ostacoli alla riproduzione dei beni culturali in virtù, in primo luogo, dei diritti morali in capo all’autore dell’opera avente interesse storico-artistico (i quali sono imprescrittibili) e, in secondo luogo, dei diritti di utilizzazione economica (i quali si protraggono, come noto, fino ai settant’anni post mortem auctoris) [44].
La tutela autoriale, d’altro canto, non concerne solo le opere d’arte in sé, ma potrebbe altresì proteggere le stesse sue riproduzioni. La legge sul diritto d’autore, infatti, predispone diversi regimi applicabili alle fotografie, a seconda che esse: presentino un carattere di creatività (e, in tal caso, riceveranno la tutela piena del diritto d’autore); siano fotografie c.d. “semplici” (contraddistinte da un minore carattere creativo e protette tramite i c.d. diritti connessi, ovvero da diritti più limitati rispetto a quelli previsti per la tutela piena del diritto d’autore); oppure rappresentino un mero duplicato dell’originale (e, in tal caso, non riceveranno alcuna protezione) [45]. L’effetto, che consegue all’applicazione della tutela autoriale anche alle riproduzioni delle opere d’arte, consiste in una pericolosa espansione della logica proprietaria orientata alla “quasi perpetuità dei diritti autoriali o para-autoriali”, in danno alla pubblica fruizione delle opere d’ingegno avente rilevanza artistica [46].
Proprio per porre un parziale freno a tale logica perversa, e in particolar modo per arginare la prassi dei musei di far valere diritti connessi sulle riproduzioni fotografiche di beni oramai privi della tutela autoriale, il legislatore europeo è intervenuto con la direttiva (UE) 2019/790 (“Sul diritto d'autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale”), recepita nel nostro ordinamento tramite il d.lg. 8 novembre 2021, n. 177. L’art. 14 della citata direttiva europea, rubricato “Opere delle arti visive di dominio pubblico”, stabilisce che: “Gli Stati membri provvedono a che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, a meno che il materiale risultante da tale atto di riproduzione sia originale nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore”. In altri termini, le opere di arti visive non più protette dal diritto d’autore devono essere liberamente riproducibili, e tali riproduzioni (purché non aventi carattere creativo) non potranno beneficiare (a loro volta) della tutela autoriale [47].
Questa novità, benché accompagnata da molta enfasi, non elimina radicalmente tutti i rischi legati allo sfruttamento di opere in pubblico dominio: sia perché la soglia di creatività richiesta affinché una riproduzione acquisti, a sua volta, la qualifica di opera originale distinta e autonoma dall’opera riprodotta (e dunque assoggettata alla piena tutela autoriale) è alquanto bassa; sia perché il diritto europeo consente l’apposizione di vincoli contrattuali aventi ad oggetto un’entità immateriale sfornita di protezione, di modo che “anche se l’opera originaria è in pubblico dominio, e la sua riproduzione recente non sia tutelabile, il vincolo contrattuale può produrre effetti restrittivi” [48]. Inoltre, a causa dell’infelice recepimento della novella europea, la novità di cui al citato art. 14 varrà esclusivamente per le opere di arti visive nelle mani dei privati, posto che la disciplina dettata dal Codice Urbani non viene affatto intaccata [49], con la conseguenza che in tal modo viene a realizzarsi una deprecabile eterogenesi dei fini tale per cui, nei casi di beni culturali in pubblico dominio (e dunque non assoggettati alla tutela autoriale), i maggiori ostacoli alla riproduzione si riscontrato proprio per i beni culturali in consegna agli enti pubblici.
Una più diretta influenza sulla disciplina disegnata dal Codice Urbani sarebbe potuta derivare invece, dalla direttiva (Ue) 2019/1024, che impone la gratuità delle banche dati contenenti dati e documenti in possesso della pubblica amministrazione e organismi di diritto pubblico [50]. Tuttavia, il d.lg. n. 200/2021, nel recepire la normativa europea (e nel modificare l’art. 7 del d.lg. 24 gennaio 2006, n. 36 che regolamenta “l’apertura dei dati e il riutilizzo dell’informazione del settore pubblico”), ha sfruttato lo spiraglio concesso dalla direttiva, e ha ritenuto di non applicare il criterio della gratuità con riguardo alle riproduzioni di opere (in pubblico dominio) raccolte all’interno dei musei, delle biblioteche e degli archivi [51].
Finora, dunque, si è mostrato come la riproduzione dei beni culturali soggiaccia sia alla disciplina prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, sia alla legge sul diritto d’autore, le quali tuttavia pongono - in via tra loro indipendente e dunque raddoppiando il binario di tutela - numerosi ostacoli alla fruizione delle opere d’arte da parte della collettività opponendovi, in vario genere, diritti di privativa. Nonostante le direttive europee avessero fornito l’occasione per rimodellare il quadro normativo, il legislatore italiano ha tentato di limitarne il più possibile gli effetti, conservando uno statuto normativo in cui anche la riproduzione dei beni culturali resta di fondo ancorata a un modello tipicamente proprietario, che vede lo ius excludendi alios proiettarsi anche sul terreno delle immagini della res.
4. Dalla cultura dell’appartenenza a quella della fruizione: i beni comuni
La dottrina ha denunciato da tempo gli ostacoli posti dal diritto alla libera fruizione dei beni culturali. Già negli anni ’70 Massimo Severo Giannini colse con estrema lucidità i termini essenziali di questo problema e - proprio al fine di sottrarre il bene culturale dalle maglie ristrette della proprietà dominicale - propose una tesi destinata a influenzare ancora oggi il dibattitto in materia.
Giannini riteneva che il bene culturale dovesse essere definito come “testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Tale definizione conduce a differenziare il bene culturale rispetto agli altri beni aventi valore patrimoniale, posto che nel bene culturale possono essere rintracciati due elementi qualificanti: l’immaterialità e la pubblicità. La prima qualità si risolve nel fatto che il bene culturale, nonostante “abbia a supporto una cosa”, non “si identifichi nella cosa medesima, bensì, come bene, si aggettivi in quel valore culturale inerente alla cosa”. Il bene culturale, pertanto, “non è bene materiale, ma immateriale: l’essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da queste distint[o], nel senso che esse sono supporto fisico ma non bene giuridico”. In altri termini, secondo questa prospettiva, il pr?pr?um del bene culturale non risiederebbe nella res (che ne costituisce solo il supporto), bensì nella connotazione immateriale che riflette la rappresentatività (cioè, la testimonianza di civiltà) della cosa stessa.
Posta la questione in questi termini, ragionare con le classiche categorie - avvertiva Giannini - sarebbe stato assai deleterio: “la nozione di appartenenza quale viene dalla elaborazione privatistica anche recente” rischierebbe di essere sottoposta, con riferimento ai beni culturali, a “tali e tante di quelle deroghe che ben poco ne resterebbe”. Piuttosto, sarebbe stato necessario mutare radicalmente prospettiva. Poiché se è vero che, in quanto anche bene patrimoniale, la cosa “è oggetto di diritti di proprietà», è altrettanto indubbio che, come bene culturale, la cosa “è oggetto di situazioni soggettive attive del potere pubblico”. Tuttavia - e qui viene in gioco la seconda caratteristica dei beni culturali - l’esercizio di tale potere pubblico deve per forza di cose essere volto a garantire la pubblicità, cioè la fruizione: “il bene culturale è pubblico non in quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione”. Pertanto, il godimento del bene culturale - giusta queste prospettazioni - non potrebbe essere esclusivo del titolare del bene (pubblico o privato), ma dovrebbe essere “aperto” all’universo dei fruitori, inteso come “un gruppo disaggregato e informale di persone fisiche” [52].
L’importanza del saggio di Giannini è nota e riconosciuta. Opportunamente, ad esempio, è stato fatto notare che, in anni caratterizzati dalla dicotomica appartenenza pubblica e privata, Giannini ebbe il merito di aprire “verso rapporti trilaterali, attenti al ruolo del pubblico fruitore” [53]. Le potenzialità insite nella “teoria gianniniana dell’immateriale”, purtuttavia, sono state compresse nel corso degli anni successivi “dalla cultura materialista imperante”, fautrice di una concezione secondo cui la dimensione metafisica del valore culturale coincide con la sua immedesimazione nella res [54]. Parallelamente, anche la tesi della intrinseca fruibilità del bene da parte della collettività è rimasta perlopiù succube di una legislazione fortemente improntata al paradigma proprietario. Come si è mostrato in precedenza, infatti, il modello di proprietà dominicale caratterizza ancora oggi lo statuto dei beni culturali, e sebbene il Codice Urbani dedichi, agli artt. 101 ss., un’apposita disciplina alla loro fruizione, evidenti ne sono ancora i limiti, soprattutto allorquando il bene sia nella titolarità di un soggetto privato.
In questo orizzonte di senso, finalizzato sia a scardinare il binarismo tra proprietà pubblica e proprietà privata, sia a rafforzare il libero accesso della collettività ai danni della facoltà di esclusione del proprietario, si è consumata negli ultimi due decenni la riflessione sui beni comuni, la quale presenta numerosi punti di contatto, seppur non di completa sovrapposizione, con la discussione risalente agli anni ’60 su proprietà e usi collettivi [55].
Il dibattitto intorno ai beni comuni ha avuto il merito di avviare una riflessione critica intorno al regime di governo di taluni beni essenziali per l’intera umanità in quanto necessari per la soddisfazione dei bisogni primari, come l’aria, l’acqua, la salubrità dell’ambiente e di altri ancora. Ma più in generale, questo dibattito ha inteso mettere in discussione l’intera architettura su cui si regge, nella economia di mercato moderna, lo stesso regime di appropriazione delle risorse e dei servizi. Per tale ragione, il concetto di bene comune non è stato declinato con esclusivo riferimento ai c.d. beni comuni naturali, bensì anche con riguardo a tutto ciò che caratterizza la produzione e la riproduzione sociale, come il lavoro, la salute, l’informazione e la cultura [56].
In questa prospettiva si situa, dunque, la critica al modello proprietario, sia privato che pubblico. Se le ragioni che soggiacciono al rifiuto della proprietà privata possono essere facilmente intuibili, occorre evidenziare come la polemica contro la proprietà pubblica nasca dall’intento di contrastare la degenerazione del governo pubblico e dalla volontà di porre un argine all’espansione della logica privatistica anche nel campo che dovrebbe essere dominato dal perseguimento dell’interesse generale [57]. È stato osservato, infatti, come l’idea novecentesca di sostituire il pubblico al privato nella titolarità, nella produzione e nella distribuzione dei beni e dei servizi essenziali, così assicurando una gestione anche democratica delle risorse, si scontri oggi non soltanto con la crisi della rappresentanza, ma anche con la cattura del regolatore pubblico da parte degli interessi privati. La soluzione diviene, allora, la qualificazione del bene come “comune”, con l’effetto di immunizzare il bene dalle logiche di mercato e di imprimere un vincolo di destinazione finalizzato a garantire l’accesso del bene all’intera collettività. Il libero godimento del bene comune diviene così il punto di caduta di una profonda riflessione critica rivolta nei confronti dell’istituto proprietario e, più in generale, nei confronti dell’economia di mercato e della cattiva politica [58].
La riflessione sui beni comuni è sfociata, come noto, in un disegno di legge delega al Governo per la modifica del codice civile. In tale articolato si proponeva l’introduzione, all’interno dell’impianto codicistico, della categoria dei “beni comuni”, intesi come quelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”. I beni comuni - recitava la proposta - “devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge”. Il disegno di legge delega elencava, poi, una serie non tassativa di beni comuni, tra i quali venivano espressamente indicati “i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate” [59].
Dal punto di vista teorico, il perno di questa nuova costruzione giuridica diviene il collegamento tra il mondo delle persone (e dei loro bisogni) e il mondo dei beni, nel senso che vengono anteposte le esigenze dei bisogni costituzionalmente rilevanti al regime proprietario del bene medesimo. La trama viene ad essere quella che astringe, tra loro, i beni con i diritti fondamentali della persona, tale per cui il soddisfacimento dei secondi impone il libero accesso ai primi, indipendentemente da chi ne sia il titolare effettivo [60]. La caratteristica dei beni comuni può essere così individuata nell’autonomizzazione dell’accesso rispetto all’appartenenza. In questo orizzonte di senso, l’accesso “ben può essere inteso come strumento che consente di soddisfare l’interesse all’uso del bene indipendentemente dalla sua appropriazione esclusiva”. Dunque, a differenza della proprietà conformata - in cui il potere di esclusione resta la regola, e la facoltà di accesso l’eccezione - la categoria dei beni comuni aspira a rovesciare completamente il paradigma: pur facendo salva la proprietà (pubblica o privata) del bene, il discorso sull’esclusività viene tramutato in quello sull’inclusività. Adoperando “la vecchia terminologia”, “si potrebbe dire che si passa da una proprietà “esclusiva” ad una “inclusiva”“ [61].
Il disegno di legge delega non è sfociato nell’adozione di un provvedimento normativo. È evidente, tuttavia, come qualora i beni culturali fossero stati riconosciuti formalmente quali beni comuni ciò avrebbe avuto l’effetto di porre le condizioni per una maggiore tutela e fruibilità degli stessi da parte della collettività. Questo risultato - è opportuno specificarlo - sarebbe stato assicurato non già attribuendo alla collettività un potere diretto sulla gestione del bene [62], bensì fornendo a chiunque un rimedio giurisdizionale per la tutela del bene a prescindere dalla titolarità di un diritto soggettivo di natura proprietaria. La proposta della Commissione Rodotà, infatti, prevedeva che “Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque”. In questo modo, chiunque avrebbe potuto rivolgersi alla Magistratura ordinaria al fine di contrastare quegli impieghi totalmente idiosincratici del bene culturale, e in spregio alla naturale destinazione d’uso del bene medesimo. Si sarebbe così inverata la possibilità - lungamente dibattuta soprattutto negli anni ’70 - di agire per la tutela di interessi collettivi [63]. Una problematica, questa, che proprio nell’ambito del diritto alla fruizione del patrimonio culturale e ambientale rinviene un autorevole e noto precedente giurisprudenziale costituito dalla pronuncia resa dalla Corte di cassazione nel lontano 1887, allorquando venne avallata la tesi del comune di Roma con cui si mirava ad ottenere il riconoscimento del “diritto essenzialissimo” di “accedere” all’interno di Villa Borghese per “visitare il Museo ricco d’insigni oggetti d’arte e di antichità” [64].
Quest’ultimo esempio, e più in generale l’intera storiografia sulle res in usu publico [65], mostrano chiaramente come l’esigenza di accedere ai beni culturali rappresenti, difatti, un bisogno non certamente esclusivo degli ultimi decenni, ma una necessità di ogni civiltà e che lo sviluppo tecnologico ha oggigiorno reso più facilmente raggiungibile e, per tale ragione, impellente. La teoria dei beni comuni mira a soddisfare tali bisogni e fornisce, a ben vedere, un bilanciamento pienamente compatibile con la “funzione sociale” della proprietà di cui all’art. 42 Cost. Di contro, nonostante le numerose e apprezzabili aperture legislative verso la libera fruizione, l’attuale disciplina dei beni culturali delinea un quadro normativo ancora troppo attratto verso il polo proprietario, in cui il diritto di esclusione resta la regola (e il diritto di accesso l’eccezione), della cui legittimità costituzionale è lecito dubitare.
5. L’“industria culturale” e la deriva autoritaria: un orizzonte di senso per i beni culturali
Quella dei beni comuni costituisce una categoria giuridica da cui poter ricavare “schemi e tecniche non proprietarie” che consentirebbero di dare maggiore effettività al diritto di fruizione dei beni culturali, predisponendo una via di accesso al rimedio giurisdizionale. E tuttavia - e lungi dall’arrogarsi la prerogativa di individuare e di cristallizzare il senso di una categoria dottrinale - pare di poter intravedere nella riflessione sui beni comuni e nel retroterra teorico che ne fa da sfondo (ispirato ai principi democratici e sociali della Costituzione) [66] un terreno e una categoria, dalla chiara valenza euristica, a cui aggrapparsi per cercare risposte alle diverse problematiche imposte dalla società globale, e un approdo sicuro a cui ancorare i beni culturali anche per contestualizzare e congiungere il diritto alla fruizione del patrimonio culturale con altri diritti costituzionalmente rilevanti.
La fruizione del patrimonio culturale non può risolversi, infatti, nel mero accesso al bene culturale in sé, ma deve tener conto dell’insieme dei bisogni di una persona affinché essa possa apprezzare il valore dell’arte e, al contempo, partecipare attivamente alla generazione di un nuovo patrimonio culturale. Il diritto soggettivo alla fruizione del bene comune non può essere inteso, in altri termini, come un diritto sganciato dalle condizioni materiali in cui vive la persona - quasi come se essa potesse essere vista come un soggetto astratto - ma deve tenere in debita considerazione la finalità, che emerge dai princìpi costituzionali, di garantire una vita dignitosa a ciascuna persona, indipendentemente da quali siano le sue possibilità economiche [67]. Ciò vuol dire che il diritto non può limitarsi a garantire la semplice fruizione del patrimonio culturale, dovendo ad essa affiancarsi anche un pieno diritto sociale a ricevere un’adeguata istruzione, quale che sia l’estrazione sociale dell’individuo [68].
Solo in questo modo si può favorire l’esercizio del ragionamento critico ed evitare che la fruizione dell’opera d’arte - enormemente facilitata dalle moderne tecnologie e dalla sua riproducibilità meccanica - si riduca ad una mera feticizzazione funzionale a nutrire la macchina dell’“industria culturale” [69]. Da tempo è stato infatti evidenziato il pericolo di standardizzazione e di conformismo del mondo della cultura, in cui la tecnologia viene utilizzata strumentalmente per distribuire alle masse opere atte al mero consumo. Per impedire, di conseguenza, che la democratizzazione della cultura venga fagocitata dal dominio dell’industria culturale, occorre costruire ad un diritto che guardi al fruitore non come un mero consumatore, bensì come una “persona costituzionalizzata” che abbia gli strumenti per divincolarsi dagli schemi culturali imposti dal mercato [70].
Al contempo, la categoria dei beni comuni costituisce un’ancora di salvataggio per i beni culturali anche al fine di salvaguardarli da possibili derive “panculturali” e da un esercizio del potere pubblico del tutto illiberale. Lo Stato e le sue articolazioni (in particolar modo, il ministero della Cultura) godono, infatti, di importanti poteri di conformazione dei beni culturali, i quali sono legittimati dai compiti di tutela e di valorizzazione posti in capo ai soggetti pubblici. Tali poteri, a volte, sono anche molto penetranti. Basti pensare alla possibilità per il ministero della Cultura di apporre vincoli di destinazione d’uso ad un certo bene culturale per tutelarne il patrimonio immateriale, vincoli che posso giungere fino a consentire un solo determinato utilizzo del bene medesimo [71].
L’espansione del potere direttivo circa l’uso dei beni culturali pone delle preoccupazioni molto gravi allorquando la decisione relativa all’individuazione di quale sia l’unico impiego legittimo di un bene culturale risulti svincolata da un immediato controllo democratico. L’utilizzo di poteri direttivi in via autoritativa ai fini di promozione culturale va, infatti, sempre guardato con sospetto. Né un siffatto esercizio del potere direttivo può essere giustificato dal richiamo all’art. 9 Cost., comma 1, ove si prevede che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. È noto, infatti, come, l’aver posto la cultura tra i principi fondamentali della Repubblica, significava per i Costituenti rafforzarne la tenuta democratica, come d’altro canto chiarito dall’art. 33 Cost. il quale stabilisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. La cultura e l’insegnamento, dunque, vanno intese in senso critico e quale strumento di resistenza a qualsiasi potere [72].
Il rischio di derive “panculturali” rafforza così l’esigenza di ancorare i beni culturali alla categoria dei beni comuni, il cui immediato effetto sarebbe quello di legare a doppio nodo i beni culturali ad un preciso progetto di società, che sia inclusiva, egualitaria ed in grado di sviluppare una propria e autonoma “egemonia culturale”, solidale ai movimenti di emancipazione sociale, e dunque contraria all’idea di istituire un’autorità centrale a cui delegare la direzione culturale e intellettuale del popolo [73]. Un progetto di società, quindi, radicalmente incompatibile con l’utilizzo strumentale che, in astratto, taluni poteri politici potrebbero voler promuovere attraverso l’apposizione di vincoli di destinazione d’uso finalizzati ad enfatizzare l’aspetto identitario di un popolo. Di contro, allorquando i vincoli di destinazione d’uso li siano ammessi “per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza”; oppure, ancor peggio, quando l’intera promozione del patrimonio culturale venga circoscritta alle sole opere rappresentative dell’identità nazionale, si corre il rischio di ipostatizzare una determinata tradizione culturale, mortificando la piena realizzazione della democrazia pluralista e l’integrazione culturale dei popoli.
In definitiva, se applicata ai beni culturali, la categoria dei beni comuni - con le potenzialità multiple che essa manifesta - consente non soltanto di rafforzare il diritto al godimento del bene, così agevolando la fruizione e liberandola dai lacci e lacciuoli normativi cui il Codice Urbani e il diritto d’autore lo confinano, ma fornisce - la qual cosa è ancor più importante - lo strumentario teorico adatto per indicare la strada verso cui tale fruizione deve indirizzarsi, così evitando di cadere nelle trappole celate dal mercato e dalle derive autoritarie.
Note
[*] Loris di Cerbo, assegnista di ricerca all’Università di Bologna, Via Zamboni 27, 40126 Bologna, loris.dicerbo2@unibo.it.
[1] P. Valery, La conquête de l'ubiquité (1928), in Pièces sur l’art, 2° ed., Gallimard, Paris, 1934, pag. 83 ss., il quale aggiungeva: “Comme l’eau, comme le gaz, comme le courant électrique viennent de loin dans nos demeures répondre à nos besoins moyennant un effort quasi nul, ainsi serons-nous alimentés d'images visuelles ou auditives, naissant et s'évanouissant au moindre geste, presque à un signe. Comme nous sommes accoutumés, si ce n’est asservis, à recevoir chez nous l’énergie sous diverses espèces, ainsi trouverons-nous fort simple d’y obtenir ou d’y recevoir ces variations ou oscillations très rapides dont les organes de nos sens qui les cueillent et qui les intègrent font tout ce que nous savons. Je ne sais si jamais philosophe a rêvé dìune société pour la dis tribution de Réalité Sensible à domicile”.
[2] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Enaudi, Torino, 2014, pag. 35 ss.
[3] Un processo, quello della digitalizzazione delle opere d’arte, che ha conosciuto una forte accelerazione in occasione del lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19, e che ora costituisce una delle principali missioni del Pnrr (missione 1, componente 3). Sugli effetti della pandemia e la digitalizzazione dei beni culturali, si v. M. Cammelli, Pandemia: the day after e i problemi del giorno prima, in Aedon, 2020, 1, pag. 1 ss.
[4] Com’è noto, i beni culturali sono identificati come “le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” (art. 2, comma 2, del d.lg. n. 42 del 2004, c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio). Ulteriori specificazioni sulla nozione di bene culturale sono poi contenute all’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. L’interesse culturale viene verificato, per quanto concerne i beni di titolarità pubblica, mediante il procedimento di “verifica” (di cui all’art. 12 del Codice) e, per i beni di titolarità privata, attraverso la “dichiarazione” ministeriale (ex art. 13 del Codice).
[5] Corte dei conti, Deliberazione 20 ottobre 2023, n. 76/2023/G, consultabile online al sito https://www.corteconti.it/HOME/Documenti/DettaglioDocumenti?Id=250a9d21-c914-43f9-8165-3c60a197b824, spec. pag. 156 ss. In particolare, il decreto ministeriale è stato contestato per il fatto di aver sostanzialmente abrogato le precedenti “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale” - già allegate al Piano nazionale di digitalizzazione, e adottate nel giugno 2022 all’esito di un’ampia fase di concertazione all’interno della pubblica amministrazione - con le quali si introduceva, tra l’altro, il principio di gratuità per le pubblicazioni editoriali.
[6] Si v., in particolare, l’articolo di D. Pappalardo, Se si ferma il diritto di cronaca, in quotidiano La Repubblica, 30 maggio 2024.
[7] G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, in Pol. Dir., 4, 2009, pagg. 587-588; Id., La privatizzazione del patrimonio culturale nell’era digitale, in Parolechiave, 2013, 1, pag. 53 ss. L’intreccio normativo tra le due discipline è ben messo in luce da L. Casini, Riprodurre i beni culturali?, in Aedon, 2018, 3 e da A. Musso, Opere fotografiche e fotografie documentarie nella disciplina dei diritti di autore o connessi: un parallelismo sistematico con la tutela dei beni culturali, ivi, 2010, 2.
[8] In termini generali, circa la comune matrice proprietaria del diritto di esclusiva sulle immagini, si veda G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, cit., pagg. 575-576, il quale fa notare come “Parallelamente alla crescita del valore economico delle immagini, moltiplicata come detto dalle possibilità di digitalizzazione e condivisione in rete, è dato assistere ad una maggiore propensione della giurisprudenza e del legislatore ad estendere le tecniche proprietarie al controllo sulla raffigurazione del bene”. Sui trends iperprotezionistici delle ragioni proprietarie nel capo dei beni immateriali, si v. anche C. Crea, Segni sociali e proprietà escludente, Esi, Napoli, 2023, spec. pag. 83 ss.
[9] G. Sirgiovanni, Il non fungible token nella cripto-arte: la “recinzione” dell’oggetto digitale, in Le Nuove leggi civ. comm., 1, 2024, pag. 232 ss. In tema, si v. anche M. D’Onofrio, La versatilità degli NFT e le loro funzionalità nel campo della circolazione e catalogazione delle opere d’arte, in Aedon, 2024, 1, pag. 81 ss.; M.F. Tommasini, NFT o ‘crypto art’. Inquadramento giuridico e prospettive di tutela nel mercato digitale, in JusCivile, 2023, pag. 616 ss.
[10] S. Rodotà, Tecnologie e diritti, Bologna, Il Mulino, 2a ed., 2021, pag. 55 ss.; G. Resta, Nuovi beni immateriali e numerus clausus dei diritti esclusivi, in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, (a cura di) G. Resta, Utet, Torino, 2010, pag. 3 ss., spec. pag. 14 ss. Paradigmatica, in tal senso, è appunto la disciplina del diritto d’autore, la quale si è modellata sullo statuto proprietario e, “significativamente”, si è diffusa “in maniera corrispondente all’origine e allo sviluppo dei mezzi di riproduzione in serie e, quindi, di diffusione a distanza in via massiva”: in questi termini A. Musso, L'impatto dell'ambiente digitale su modelli e categorie dei diritti d'autore o connessi, in Riv. trim. dir. proc., 2018, pag. 471 ss.
[11] Su questi temi, si v. gli scritti di T. Montanari, Patrimonio e coscienza civile, Castelvecchi Editore, Roma, 2020; Id., Istruzioni per l'uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, minimum fax, Roma, 2014. Sul rapporto tra arte e diritto si v. anche L. Balestra, L’incontro tra la Facoltà giuridica bolognese ed Emilio Isgrò, in Emilio Isgrò. Cancellazione dei Codici Civile e penale, Allemandi, Milano, 2024, pag. 43 ss.
[12] G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3. In tema si v. anche le condivisibili riflessioni di A. Montanari, Donation-based crowdfunding, mecenatismo, beni culturali: liberalità e partecipazione alla vita culturale della comunità, in Europa e dir. priv., 2024, 1, pag. 73 ss.
[13] M.R. Marella, Le opere di Street Art come Urban Commons, in Riv. crit. dir. priv., 4, 2020, pag. 471 ss.; L. Zannini, Beni pubblici, beni comuni, in Le Carte e la Storia, 2010, 1, pag. 15 ss. Cfr., anche se in chiave critica, S. Mabellini, I beni culturali e lo status di beni comuni: un’assimilazione indispensabile?, in Economia della Cultura, 2017, 1, pag. 81 ss., e letteratura ivi citata.; cfr. anche S. Marotta, Per una lettura sociologico-giuridica dei beni culturali come ‘beni comuni’, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) A. Gemma, A. Massaro, B. Cortese e E. Battelli, RomaTrePress, 2017, pag. 37 ss.
[14] Si tratta della nota pronuncia resa a Sezioni unite della Corte di Cassazione, che ha affermato come “là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, “comune” vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini”: Corte cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Rass. dir. civ., 2012, pag. 524 ss., con nota di G. Carapezza Figlia, Proprietà e funzione sociale. La problematica dei beni comuni nella giurisprudenza delle Sezioni Unite.
[15] Cfr. Corte cass. civ. 27 novembre 2013, n. 26496, richiamata anche da F. Longobucco, Beni culturali e conformazione dei rapporti tra privati: quando la proprietà “obbliga”, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, cit., pag. 215. Il medesimo principio è affermato da Corte cass. civ. 19 luglio 2002, n. 10542 e da Corte cass. civ. 4 maggio 2009, n. 10210. Da ultimo, un’ulteriore spinta verso il riconoscimento dei beni culturali quali beni comuni sembrerebbe derivare dalla Convenzione di Faro (sottoscritta in Portogallo nel 2005, ma ratificata dall’Italia solo nel 2020), la quale riconosce il diritto umano (“in particolare per i giovani e le persone svantaggiate”) di partecipare alla vita culturale della comunità e di godere delle arti. Sulla Convenzione di Faro, e sulle conseguenze derivanti dalla sua ratifica, si v. da ultimo G. Volpe, La convenzione di Faro e le ‘comunità di patrimonio’, in Enc. giur., anno VI, 2023, 13, pag. 76 ss.; A. Gualdani, L’Italia ratifica la convenzione di Faro: quale incidenza nel diritto del patrimonio culturale italiano?, in Aedon, 2020, 3, pag. 272 ss.
[16] G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, cit., il quale significativamente evidenzia come siffatto valore sociale debba essere rinvenuto nella “capacità simbolica che è propria delle cose d’arte”.
[17] M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, in Aedon, 2018, 3.
[18] A tal proposito, M. Cammelli, Il diritto del patrimonio culturale: una introduzione, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata e G. Sciullo, 2° ed., Il Mulino, Bologna, 2020, pag. 15 ss. sottolinea come, da un punto di vista storico, il tratto particolare della disciplina dei beni culturali sia da individuare nell’azione autoritativa (da parte dello Stato) di carattere essenzialmente impeditiva, da cui consegue il riconoscimento di un’opera come cosa d’arte e la limitazione al titolare di poterne disporre.
[19] Ibidem. Si v. pure M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, cit., che sottolinea come con la legge Bottai si “consolida, nel solco di una legislazione che aveva cominciato ad affermarsi già nei primi anni del Novecento, la necessità dell'intervento pubblico funzionale alla conservazione del patrimonio culturale del Paese e ne rafforza la relativa azione. Emerge cioè l’esigenza, declinata in chiave autoritaria, di sottrarre la disciplina dei beni culturali al regime negoziale privato, per garantire e preservare la ricchezza del patrimonio culturale della Nazione”. In tema anche G. De Giorgi Cezzi, Lo statuto dei beni culturali, in Aedon, 2001, 3. Tra i giusprivatisti, una ricostruzione dell’evoluzione della disciplina dei beni culturali è stata svolta da E. Battelli, I soggetti privati e la valorizzazione del patrimonio culturale, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, cit., pag. 53 ss.; F. Dell’Aversana, La circolazione dei beni culturali tra norme giuridiche e regole di mercato, in Il diritto dei beni culturali, (a cura di) B. Cortese, RomaTrePress, 2021, pag. 211 ss.
[20] Sul tema, si v. A. Roccella, Conservazione e restauro nella disciplina italiana dei beni culturali, in Aedon, 2011, 3.
[21] Su cui, si v. M. Cenini, Trust per le collezioni d’arte private e regime di circolazione delle opere, in Arte e diritto, 2023, 2, pag. 209 ss.; G. De Cristofaro, La tutela degli acquirenti di opere d’arte contemporanea non autentiche tra codice civile, codice del consumo e codice dei beni culturali, in Riv. dir. priv., 2020, 1, pag. 29 ss.; E. Damiani, Questioni in tema di diritto della circolazione di opere d'arte: i casi De Chirico, in Rivista di Diritto delle Arti e dello Spettacolo, 2020, 2, pag. 93 ss.; G.F. Basini, La prelazione artistica, in I Contratti, 2019, 4, pag. 462 ss.; G. Magri, La circolazione dei beni culturali nel diritto europeo: limiti e obblighi di restituzione, Napoli, Esi, 2011; M. Graziadei, Beni culturali (circolazione dei) (diritto internazionale privato), in Enc. dir., Annali II, t. 2, Milano, Giuffrè, 2009, pag. 91 ss.; A. Mignozzi, La proprietà culturale. Strumenti privatistici di gestione e valorizzazione dei beni culturali, Napoli, Esi, 2007, spec. pag. 160 ss. Più di recente anche L. Casini, La circolazione delle opere d’arte tra semplificazioni e complicazioni, in Aedon, 2023, 3, pag. 388 ss.; V. Verdicchio, Prelazione e permuta, in Europa e diritto privato, 2022, 2, pag. 335 ss.
[22] Su cui si v. le considerazioni di G. Torelli, Contraddizioni e divergenze delle politiche legislative sui beni pubblici, Giappichelli, Torino, 2019, spec. pag. 203 ss.; Id., L’acquisizione sanante nel codice dei beni culturali e del paesaggio, in Aedon, 2016, 2.
[23] Discorre di proprietà conformata dei beni culturali A. Gambaro, I beni, in Tratt. dir. civ. e comm., (diretto da) A. Cicu e F. Messineo e L. Mengoni e continuato da P. Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2012, pag. 324. Sullo statuto della proprietà conformata dei beni culturali, cfr. anche F. Longobucco, Beni culturali e conformazione dei rapporti tra privati: quando la proprietà ‘obbliga’, cit., pag. 213 ss.; R. Di Raimo, La «proprietà» pubblica e degli enti privati senza scopo di lucro: intestazione e gestione dei beni culturali, in Rassegna di diritto civile, 2010, pag. 1101 ss.
[24] Anche se, avverte A. Gambaro, La proprietà, in Trattato di diritto privato, (a cura di) G.Iudica-P.Zatti, Milano, Giuffrè, 2017, pag. 19 ss., uno statuto della proprietà piena e assoluta non è mai esistito, nemmeno nell’epoca immediatamente post-rivoluzionaria.
[25] La Corte costituzionale (con la sentenza del 20 dicembre 1976, n. 245) ha chiarito come i vincoli conformativi apposti ai beni culturali privati non diano luogo a indennizzo allorquando “si riferiscano a modi di godimento di intere categorie di beni”, ovvero “quando sia regolata la situazione che i beni stessi hanno rispetto ad interessi della pubblica amministrazione, sempreché la legge [...] abbia per destinataria la generalità dei soggetti”.
[26] Come noto, nella dottrina italiana il merito di aver inaugurato la riflessione sull’esistenza di diversi statuti proprietari è di S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà (con particolare riguardo alla proprietà terriera), in Atti del terzo congresso nazionale di diritto agrario, Palermo, 19-23 ottobre 1952, Giuffrè, Milano, 1954; Id., La proprietà nel nuovo diritto, Giuffrè, Milano, 1964, passim.
[27] Ricostruisce il dibattito sulla definizione dello statuto della proprietà pubblica dei beni culturali A. Mignozzi, La proprietà culturale, cit., spec. 153 ss. In tema, si v. anche M. Dugato, Fruizione e valorizzazione dei beni culturali come servizio pubblico e servizio privato di utilità pubblica, in Aedon, 2007, 2, il quale evidenzia il complesso quadro normativo in tema di valorizzazione e fruizione, affermando come sia “possibile definire la fruizione dei beni di appartenenza pubblica in chiave di servizio pubblico in senso proprio”. La funzionalizzazione della proprietà pubblica si inserisce, tra l’altro, nella considerazione di ordine più generale secondo cui, mentre la proprietà privata “ha funzione sociale”, quella pubblica “è funzione sociale”, da cui consegue che - con riguardo a quest’ultima - bisognerebbe abbandonare la prospettiva della situazione soggettiva modellata sugli schemi del diritto soggettivo per adottare il criterio di qualificazione della destinazione: cfr. P. Perlingieri, La gestione del patrimonio pubblico: dalla logica dominicale alla destinazione funzionale, in Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, (a cura di) U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 85 ss.
[28] Cfr. L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pubb., 2022, 3, pag. 657 ss., spec. pag. 659 ss., il quale evidenzia: “quando si tratta di dettare la disciplina di tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale, la legge poi articola i pubblici poteri e relativi diritti e limitazioni a seconda che si tratti di proprietà pubblica o di proprietà privata [...] Appare chiaro, allora, che il concetto di fruizione pubblica ha scolorito, sì, ma non ha ancora cancellato la linea di demarcazione del regime dominicale”.
[29] In realtà, i rapporti tra le diverse funzioni di tutela e valorizzazione sono connotati da contorni assai incerti, e ciò si riflette soprattutto sulla definizione del riparto di competenze tra Stato e regioni. La Corte costituzionale ha tratteggiato (con la pronuncia n. 9 del 2004) una definizione delle due funzioni: la tutela è “diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale; ed è significativo che la prima attività in cui si sostanzia la tutela è quella del riconoscere il bene culturale come tale”; al contrario, la valorizzazione “è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa”. Invero, la Corte costituzionale è tornata più volte sul tema dei rapporti tra tutela e valorizzazione; sul tema si v. A. Sau, Beni e attività culturali tra Stato e Regioni: ciò che resta della stagione della regionalizzazione. Guardando alla prossima, in Aedon, 2023, 1, pag. 4 ss.; G. Sciullo, Corte costituzionale e nuovi scenari per la disciplina del patrimonio culturale, in Aedon, 2017, 1; P. Scarlatti, Beni culturali e riparto di competenze tra Stato e Regioni nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Le Regioni, 2018, 4, pag. 645 ss.
[30] Cfr. G. Piperata, La valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata (art. 113), in Aedon, 2004, 1, il quale aggiunge: “Del resto, mentre i soggetti pubblici competenti possono imporre forme di tutela o misure conservative ai privati proprietari dei beni culturali (si pensi, ad esempio, ad alcune delle misure di protezione e conservazione previste dagli artt. 20 e seguenti del Codice), viceversa lo stesso non può dirsi per le attività di valorizzazione”.
[31] Questo accade, ad esempio, nelle ipotesi in cui i beni culturali di proprietà privata siano oggetto di sovvenzioni pubbliche (in tal caso, il ministero può condizionare i finanziamenti alla previsione di accordi che impongono al privato di rendere fruibile il bene; cfr. l’art. 38, Codice Urbani). La libera fruizione può essere imposta, inoltre, attraverso i provvedimenti di tutela e vigilanza; questi provvedimenti, tuttavia, sono “soggetti ad un penetrante scrutinio di ragionevolezza e proporzionalità”: così A. Bartolini, L’immaterialità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1; Id., Beni culturali (diritto amministrativo), in Enc. dir., Annali VI, Milano, Giuffrè, 2013, pag. 100, il quale precisa: “Per i beni culturali di proprietà privata non esiste [...] un principio di accessibilità e fruizione generalizzata, anzi, di norma vale il contrario”. Si v. anche L. Nivarra, I beni culturali sullo sfondo del ripensamento dello statuto dei beni pubblici, in I beni culturali nel diritto. Problemi e prospettive, cit., pag. 71: “Il bene culturale privato infatti è tutelabile senza limiti a fini conservativi, ma non può essere imperativamente destinato a pubblico godimento a meno che non ricorrano le eccezionali condizioni per l’imposizione della visita pubblica. In alternativa l’unica tecnica di valorizzazione dei beni culturali in proprietà privata rimane l’espropriazione”.
[32] Sull’alienabilità dei beni culturali di proprietà pubblica, cfr. da ultimo A. Fantin, La circolazione dei beni culturali immobili di proprietà pubblica a 20 anni dall’emanazione del Codice dei beni culturali: luci ed ombre, in Aedon, 2024, 1, pag. 41 ss., che evidenzia come “L’art. 53 [del Codice Urbani] pur confermando, al comma 1, la natura demaniale dei beni immobili di interesse culturale di proprietà degli enti territoriali, rientranti “nelle tipologie di cui all’art. 822 c.c.” si allontana però significativamente dalla disciplina del Codice civile per quanto riguarda il regime giuridico di tali beni [...] Non a caso per identificare tali beni, oggi non si utilizza più alcuna categoria tradizionale del Codice civile (beni demaniali o beni del patrimonio indisponibile) ma si preferisce classificarli - vista l’eterogeneità - con il termine di “beni riservati”“. In tema, si v. anche A. Pischetola, L’“intrinseca” culturalità dei beni d’interesse storico, artistico o archeologico appartenenti allo Stato, (nota a Corte cass. civ. 24 maggio 2023, n. 14105), in Notariato, 2023, 5, pag. 562 ss. e, a ridosso della modifica legislativa del 2008, A. Serra, L’alienazione e l’utilizzazione dei beni culturali pubblici: gli artt. 53-64, in Aedon, 2008, 3. La privatizzazione del patrimonio culturale pubblico è sempre stata oggetto di critiche; si v., a tal proposito, S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Enaudi, Torino, 2002.
[33] Fatte salve, anzitutto, le disposizioni di cui al comma 2 del medesimo articolo. Tale ultima norma vieta, allo scopo di garantire una corretta conservazione del bene, la riproduzione dei beni culturali che avvenga tramite calchi o per contatto; in tali casi, la riproduzione è consentita esclusivamente in via eccezionale nel rispetto delle modalità stabilite dal ministero della Cultura. La disposizione prosegue consentendo i calchi da copie degli originali già esistenti, nonché i calchi ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto con l’originale. Anche in tali ipotesi, è tuttavia necessaria una previa autorizzazione del Soprintendente.
[34] Si vedano i commi 1, 2 e 6 dell’art. 108; oggi tali corrispettivi sono in via di uniformazione sulla scorta dei decreti ministeriali di cui si diceva all’inizio di questo scritto. Sulla destinazione dei proventi derivanti dalla vendita dei biglietti di ingresso agli istituti ed ai luoghi della cultura, nonché dai canoni di concessione e dai corrispettivi per la riproduzione dei beni culturali, si v. l’art. 110 del Codice Urbani. Per un’analisi storica, e svolta con taglio critico, circa l’evoluzione normativa in materia di concessioni e corrispettivi per la riproduzione dei beni culturali, si v. M. Modolo, Il riuso delle immagini dei beni culturali pubblici (1962-2022): un percorso a ostacoli, in DigItalia, 2023, 2, pag. 123 ss.
[35] L’art. 3-bis è stato introdotto con il c.d. decreto “Art Bonus” n. 83 del 31 maggio 2014, e poi successivamente modificato dalla legge n. 124 del 2017; per un primo commento, cfr. G. Gallo, Il decreto Art Bonus e la riproducibilità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 3. Sulla distinzione tra l’ipotesi di cui al comma 3 e quella di cui al comma 3-bis del medesimo art. 108, si v. K. Kurcani, La riproduzione dei beni culturali: la tutela del bene alla prova della liberalizzazione della sua immagine, in Aedon, 2023, 2, pag. 146 ss., la quale precisa: “L’art. 108 delinea in verità due diverse casistiche: il terzo comma prevede che l’utilizzo dell’immagine sia sì subordinato a rilascio della concessione d’uso, ma non al versamento del canone per tale utilizzo. Tale esenzione opera per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, oppure da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. Il comma 3-bis delinea invece una vera e propria liberalizzazione dell’utilizzo dell’immagine, considerato che non è necessario il rilascio di alcuna concessione”. Sull’evoluzione e sul significato della disposizione di cui all’art. 108, si v. l’approfondita analisi di C. Videtta, Le immagini dei beni culturali. Riflessioni a margine del dibattito, in Aedon, 2024, 2.
[36] K. Kurcani, op. ult. cit.
[37] Tribunale Firenze 21 aprile 2023, in Giur. It., 11, 2023, pag. 2415 ss., con nota di M. Venturello, La tutela dell’immagine dei beni culturali. Sempre di recente, il Tribunale di Venezia, con l’ordinanza del 22 ottobre 2022, ha condannato la società Ravensburger per aver utilizzato l’immagine dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci per la realizzazione dei propri puzzles; in tema si v. A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo), in Aedon, 2023, 2, pag. 138 ss., il quale evidenzia la tendenza della giurisprudenza a ricavare la tutela del diritto all’immagine tra i diritti della personalità piuttosto che a partire dal diritto di proprietà; R. Caso, Il David, l'Uomo Vitruviano e il diritto all'immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, in Il Foro italiano, 2023, 7-8, pag. 2283 ss.; S. Nardi, Il diritto all’immagine del bene culturale, in Rass. di Diritto della Moda e delle Arti, 2022, 2, pag. 518 ss. Per la descrizione di altri casi giudiziari, anche relativi a beni privati in pubblico dominio (casi in cui comunque la giurisprudenza ha riconosciuto, sulla scorta del diritto di proprietà privata, la privativa sull’immagine), si v. G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, cit., pag. 582 ss. Sul tema, si v. anche M. Ricolfi, Le immagini del patrimonio culturale: illusioni perdute o nuove direzioni di marcia?, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 1, 2024, pag. 1 ss., spec. 16 ss., il quale mostra come dalle pronunce giurisprudenziali emerga come l’illiceità della riproduzione non stia tanto nella “appropriazione dell’altrui creatività”, bensì nella “lesione del “patrimonio identitario” e della “memoria della collettività nazionale”“, e assuma dunque un piano valoriale.
[38] Per una meditata riflessione favorevole alla imposizione di corrispettivi per la riproduzione dei beni culturali di titolarità pubblica, si v. G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1, il quale, con un’argomentazione condivisibile, mostra come anche la tesi secondo cui bisognerebbe favorire sempre e comunque la riproduzione dei beni culturali per accrescere la conoscenza del patrimonio culturale provi troppo, poiché “tale effetto positivo lo si ottiene soprattutto attraverso la divulgazione non a scopi commerciali fatta tramite canali istituzionali o pubblicazioni scientifiche”.
[39] R. Caso, Il David, l’Uomo vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, cit., pag. 2283 ss. Forti discussioni si appuntano, inoltre, sulle riproduzioni di beni culturali situati in spazi in luoghi pubblici o aperti al pubblico, visto che nel nostro ordinamento manca un espresso riconoscimento della c.d. “libertà di panorama”; in tema, di recente, R. Aveta, Patrimonio storico-artistico, società digitale e spazio pubblico, in Comparazione e diritto civile, 2023, 1, pag. 157 ss.
[40] Cfr. G. Resta, Beni culturali pubblici: una critica al modello proprietario, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 2023, 2, pag. 143 ss., spec. pag. 149, il quale aggiunge: “Se la logica di fondo è quella del controllo sulla circolazione dell’immagine quale ideale proiezione giuridica dell’Hauserecht, allora le prerogative dominicali possono esplicarsi unicamente in relazione alle singole immagini carpite all’interno del luogo di conservazione del bene in spregio al divieto espressamente o tacitamente apposto dal dominus [...] Esse non potrebbero invece estendersi a tutte le altre immagini del medesimo bene che fossero già immesse nella circolazione giuridica, siano decontestualizzate, rappresentino mere imitazioni dell’originale o rielaborazioni creative di questo (anche per scopi pubblicitari)”. Analogamente, anche G. Sciullo, “Pubblico dominio” e Dominio pubblico” in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019/1024, in Aedon, 2021, 1, pag. 16 ss., il quale pur rifiutando “soluzioni alternative radicali”, evidenzia come la disciplina del codice pare riflettere “l’idea di una fruizione prevalentemente “in presenza”, individuale, condotta dal visitatore “analogico” del museo, biblioteca e archivio. Sembra mancare la dimensione dell’accesso “a distanza”, senza confini temporali e geografici, reso disponibile ai navigatori della rete”. Per un commento sulla disciplina di cui agli artt. 107 e 108, si anche v. A.L. Tarasco, Il problema giuridico ed economico delle concessioni d’uso dei beni culturali, in Il diritto dell’economia, 2017, pag. 747 ss. In tema, anche se in epoca precedente all’emanazione del Codice Urbani, si v. anche C. Scognamiglio, Proprietà museale ed usi non autorizzati di terzi, in AIDA, 1999, pag. 67 ss.
[41] G. Resta, op. ult. cit., pag. 152. Su quest’ultimo aspetto, si v. anche G. Sciullo, Il d.m. 161 del 2023: un’analisi giuridica, in Aedon, 2023, 2, pag. 244 ss., secondo cui “un compromesso che volesse coniugare l’esigenza di una previa o comunque tempestiva valutazione dell’uso dell’immagine del bene con quella della speditezza dell’azione amministrativa avvertita dal cittadino, specie se operatore economico, potrebbe sostanziarsi nell’introduzione di un meccanismo rispettivamente di silenzio assenso (relativo al rilascio dell’atto di consenso) e di Scia/Dia (che viceversa presuppone un’attività liberalizzata). Meccanismi questi in linea di principio esclusi nel settore dei beni culturali (cfr. art. 20, comma 4 e art. 19, comma 1, legge n. 241/1990), ma che per la riproduzione/riuso potrebbero contemperare ragionevolmente le esigenze in campo”.
[42] La legislazione autoriale è espressamente fatta salva dall’art. 107, comma 1 del Codice Urbani, e che dunque si aggiunge ad essa, raddoppiando gli ostacoli alla fruizione collettiva dei beni culturali.
[43] A. Musso, Opere fotografiche e fotografie documentarie nella disciplina dei diritti di autore o connessi, cit. In tema si v. anche G. Finocchiaro, La valorizzazione delle opere d’arte on line e in particolare la diffusione on line di fotografie di opere d’arte. Profili giuridici, in Aedon, 2020, 3, pag. 197 ss.; Id., Alcune riflessioni oltre il decreto n. 161 dell’11 aprile 2023, ivi, 2023, 2, pag. 214 s.
[44] Sul punto, si v. la puntuale analisi di P. Magnani, Profili di tutela del diritto d’autore nella creazione di cataloghi digitali del patrimonio culturale: la protezione della banca dati e la protezione dei contenuti, in Aedon, 2020, 3, pag. 203 ss., la quale sottolinea come, mentre non vi sia dubbio alcuno che per la riproduzione di un’opera protetta dal diritto d’autore sia necessario il consenso del titolare dei diritti patrimoniali, la questione della necessità del consenso del proprietario per le opere in pubblico dominio sia molto più complessa, in quanto il diritto di esclusiva viene ricavato direttamente dal diritto di proprietà. In tema anche G. Resta, L’immagine dei beni, in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, (a cura di) G. Resta, Torino, 2010, pag. 559; A. Poiaghi, Beni culturali e diritto d’autore, in Riv. dir. aut., 2014, pag. 149 ss.; G. Spedicato, Digitalizzazione di opere librarie e diritti esclusivi, in Aedon, 2011, 2.
[45] La distinzione tra le diverse ipotesi, com’è facile intuire, non è affatto semplice. Basti qui evidenziare come, nel caso in cui la riproduzione sia protetta dai diritti connessi (di cui agli artt. 87-92 l.d.a.), all’autore verranno attribuiti diritti di sfruttamento esclusivo per un periodo di vent’anni dalla realizzazione della fotografia. In tema, si v., in particolare, G. Spedicato, Digitalizzazione di opere librarie e diritti esclusivi, cit. Inoltre, occorre anche considerare come la disciplina sulle riproduzioni non concerna esclusivamente le fotografie, bensì anche materiali di tipo diverso, come i testi, i filmati e i supporti fonografici; su questi aspetti, si v. P. Magnani, Profili di tutela del diritto d’autore, cit.
[46] A. Musso, Opere fotografiche e fotografie documentarie nella disciplina dei diritti di autore o connessi, cit.
[47] Significativamente G. Sciullo, “Pubblico dominio” e Dominio pubblico” in tema di immagine dei beni culturali, cit., ha affermato: “Pertanto, la disposizione, quale che sia il suo oggetto preciso, ha un portato normativo evidente: il materiale derivante dalla riproduzione di un’opera delle arti visive “in pubblico domino” è anch’esso “in pubblico dominio”“. Come spiega M. Ricolfi, Le immagini del patrimonio culturale, cit., 7, la norma “mira semplicemente ad evitare che, con l’espediente di realizzare fotografie fedeli e corrispondenti alle immagini delle opere detenute nelle proprie collezioni [...] le istituzioni museali potessero appoggiarsi ad un “nuovo” diritto esclusivo”.
[48] Su entrambi questi profili si v. M. Ricolfi, op. ult. cit., pag. 8 ss.
[49] Non a caso, onde chiarire ogni dubbio sulla reciproca autonomia e non interferenza dei due ambiti normativi, l’art. 32-quater introdotto nel corpo della legge sul diritto d’autore (il cui contenuto ricalca, quasi pedissequamente, l’art. 14 della direttiva) si conclude con il seguente inciso: “Restano ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”. Sul punto, si v. ancora G. Sciullo, op. ult. cit., che spiega come “la ragione della reciproca autonomia fra la normazione della proprietà intellettuale e quella dettata dal Codice [...] va rintracciata nella diversa natura degli interessi tutelati: l’una è posta a garanzia di interessi privati (di autori ecc.), l’altra attiene allo statuto della proprietà pubblica dei beni culturali”.
[50] Tale direttiva si colloca nel più ampio indirizzo della Commissione europea volto a favorire la digitalizzazione del patrimonio culturale, al fine di garantire “maggiori possibilità di accedere ai beni culturali, scoprirli, esplorarli e goderne”, oltre che di favorire al meglio “l’innovazione, la creatività e la crescita economica». Si v. la “Raccomandazione (UE) 2021/1970 della Commissione del 10 novembre 2021 relativa a uno spazio comune europeo di dati per il patrimonio culturale”. Sul punto, si vedano anche le “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei bei culturali in ambiente digitale”, consultabili online all’indirizzo https://docs.italia.it/italia/icdp/icdp-pnd-circolazione-riuso-docs/it/consultazione/index.html, spec. pag. 8 ss.
[51] In generale, per un commento alla direttiva (UE) 2019/1024 e alla sua (in)attuazione, si v. R. Caso, Open data, ricerca scientifica e privatizzazione della conoscenza, in Il Diritto dell'informazione e dell'informatica, 2022, 4-5, pag. 815 ss.
[52] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 3 ss., spec. pag. 31 ss. È opportuno ricordare che lo stesso Giannini aveva preso parte, tra il 1964 e il 1967, ai lavori della Commissione Franceschini, a cui si deve un vero e proprio mutamento di paradigma nella concezione dei beni culturali, il cui intento era quello di “far fuoriuscire le cose d’arte ed i beni storici dalla concezione fondata sul pregio estetico ed artistico, in modo da farle approdare ad una visione più evoluta”: così, A. Bartolini, L’immaterialità dei beni culturali, cit.
[53] L. Casini, «Todo es peregrino y raro...»: Massimo Severo Giannini e i beni culturali, in Riv. trim. dir. pubb., 2015, 3, pag. 987 ss., spec. pag. 994 ss.
[54] Cfr. A. Bartolini, Colpa d’Alfredo, in Aedon, 2023, 1, pag. 45 ss. Per una ricostruzione del dibattitto sulla natura materiale o immateriale dei beni culturali, si v. anche l’interessante analisi di G. Severini, L’immaterialità dei beni culturali?, in Aedon, 2014, 1; Id., L’immateriale economico nei beni culturali, cit., il quale, conducendo una dotta analisi, diversifica tra “immaterialità funzionale” e “immaterialità economica”. Illuminante, inoltre, la lettura del saggio di G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit., il quale opportunamente distingue le diverse declinazioni in cui può parlarsi di “immaterialità” dei beni culturali. L’Autore, infatti, distingue la “declinazione gianniniana” (in cui si dà rilievo “al quid di “immateriale” insito in ogni bene culturale”), dalle ipotesi relative alla riproduzione dei beni culturali (in cui l’immaterialità attiene all’immagine della res), rispetto alle ipotesi, ancora diverse, in cui viene individuato quale bene culturale qualcosa che prescinda totalmente dall’ancoraggio alla res. L’Autore evidenzia pertanto come “la stessa nozione di “valore culturale” insita di necessità nel bene secondo la prospettazione gianniniana evoca l’immaterialità, come pure v'è la immaterialità estrinseca o di proiezione, che si presta tra l’altro a forme sempre più sofisticate e in rilevante espansione e diffusione. Ma i beni immateriali sono un’altra cosa. Sono tali fiabe e giochi, canti popolari e feste patronali, cibi e costumi atavici: hanno cioè ad oggetto attività o meglio testimonianze di antiche e sentite pratiche, dalla festa del patrono al proverbio, dalla rievocazione di antichi palii alla preparazione di un cibo, dalla sagra alla processione religiosa”. Negli ultimi tempi in letteratura si nota una rinascita del dibattito circa la dimensione immateriale dei beni culturali. Tale spinta è dovuta, in particolare, alla disciplina prevista dalla Convenzione Unesco sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (risalente al 2003), da cui ha poi tratto origine l’art. 7-bis introdotto, nel 2008, all’interno del Codice Urbani; sul punto, si v. A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, 2019, 1, pag. 83 ss.
[55] Su cui si v. S. Cassese, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Giuffrè, Milano, 1969, pag. 162 ss. Ma si v. anche L. Casini, op. ult. cit., pag. 994 ss., il quale tuttavia mette in guardia dalla tentazione di designare Giannini quale fautore dei beni collettivi o dei beni comuni.
[56] Cfr. M. Barcellona, Tra Impero e popolo. Lo Stato morente e la sinistra perduta, Castelvecchi, Roma, 2017, 167 ss., il quale opportunamente evidenzia come “Nel riferimento ai ‘beni comuni’ vi è un tasso intenzionalmente elevato di indeterminazione”.
[57] Su cui si v. il saggio di A. Barbera, La rappresentanza politica: un mito in declino?, in Quad. Cost., 2008, 4, pag. 853 ss.
[58] M. Barcellona, op. ult. cit., spec. pag. 178 ss. Invero, occorre dare atto del fatto che in dottrina non vi sia un’unica teoria dei beni comuni; per un’introduzione al dibattito, si v. L. Nivarra, Quattro usi di “beni comuni” per una buona dispag. cussione, in Riv. crit. dir. priv., 2016, 1, pag. 43 ss.; si vedano anche i contributi raccolti in Aa.Vv., Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, (a cura di) M.R. Marella, Ombre Corte, Verona, 2012.
[59] Il disegno di legge delega venne presentato dalla commissione Rodotà durante la XVI legislatura, atti del Senato della Repubblica n. 2031.
[60] S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, 3° ed., Il Mulino, Bologna, 2013, pag. 461 ss., secondo cui “si può accedere a un bene, e goderne delle utilità, senza assumere la qualità di proprietario”.
[61] S. Rodotà, op. ult. cit., pag. 464 ss.
[62] Come ben sottolineato da L. Nivarra, I beni comuni: dalla fruizione alla gestione, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, cit., pag. 157. Ma in una prospettiva che abbraccia anche la gestione collettiva, nonché (e più in generale) la produzione in comune delle opere d’arte, si v. M.R. Marella, Le opere di Street Art come Urban Commons, cit.; in senso contrario, cfr. C. Iorio, Profili giuridici dell’arte urbana, in Rass. di Diritto della Moda e delle Arti, 2023, 2, pag. 169 ss.
[63] Sul punto, si v. gli scritti raccolti in Aa.Vv., Le azioni a tutela di interessi collettivi. Atti del Convegno di studio (Pavia, 11-12 giugno 1974), Padova, 1976, nonché, per un inquadramento sulla stagione politica in cui si inserivano quelle proposte, cfr. P. Costa, L’alternativa “presa sul serio”: manifesti giuridici degli anni Settanta, in Dem. e dir., 3, 1987, 15 ss. Come si sa, il tema coinvolge analogamente tanto il diritto privato quanto il diritto amministrativo, posto che sia la categoria del diritto soggettivo sia quella dell’interesse legittimo si sono strutturate sull’interesse di tipo individualistico. Sul tema, restano ancora valide le osservazioni di R. Orestano, Azione. Diritti soggettivi. Persone giuridiche, Il Mulino, Bologna, 1978, pag. 13 ss. Nell’ambito del diritto amministrativo, si v. anche le considerazioni di V. Cerulli Irelli V., Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2, 2014, pag. 341 ss.; F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Giappichelli, Torino, 2017, spec. pag. 38 ss.
[64] La vicenda giudiziaria trae origine dalla decisione del Principe Borghese di chiudere i cancelli della Villa romana - e con essa la possibilità dei cittadini romani di fruire dei luoghi ameni e salubri, ma anche delle importanti opere d’arte ivi presenti - dopo che, per oltre due secoli e per espressa volontà di un suo antenato (il cardinale Scipione Borghese), la Villa era stata tenuta aperta in modo che “potesse usufruirne il popolo di Roma”. Ripercorre in maniera approfondita gli sviluppi della vicenda A. Di Porto, Res in usu publico e “beni comuni”. Il nodo della tutela, Giappichelli, Torino, 2013, pag. 52 ss.
[65] Su cui si v. ancora A. Di Porto, op. ult. cit., pag. 3 ss.; Id., Salubritas e forme di tutela in età romana. Il ruolo del civis, Giappichelli, Torino, 2014, passim.
[66] Sulle implicazioni teoriche della riflessione sui beni comuni, si vedano anche le considerazioni di P. Grossi, Il mondo delle terre collettive. Itinerari giuridici tra ieri e domani, Macerata, Quodlibet, 2019, pag. 97 ss.
[67] Sul profondo mutamento determinato dall’avvento della Costituzione nell’ambito della categoria giudica del soggetto di diritto, si v. S. Rodotà, Dal soggetto alla persona. Trasformazioni di una categoria giuridica, in Fil. Pol., 2007, 3, pag. 365 ss.
[68] G.L. Conti, Beni culturali e diritto: un incontro di artefatto dopo la novella ambientale della Costituzione, in Beni culturali e diritto. Un dialogo giuridico anche alla luce della recente riforma dell’art. 9 Cost., (a cura di) V. Giomi-P. Milazzo, Pisa University Press, Pisa, 2023, pag. 26, che propone di assegnare al diritto dei beni culturali “un ruolo ancora più ambizioso”: “non più conservare il tesoro nazionale, ma fare in modo che la tutela dell’ambiente e la valorizzazione dei beni culturali procedano nell’interesse di coloro che sono meno fortunati”.
[69] M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, (1947), trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1966, pag. 130 ss.
[70] Seppur nell’ambito di un discorso assai più ampio, sottolineavano alcuni dei numerosi aspetti critici legati alla nascente legislazione consumeristica G. Alpa, Tutela del consumatore e controlli sull’impresa, Bologna, 1977; Id., Diritto privato dei consumi, Bologna, Il Mulino, 1986; V. Roppo, Protezione del consumatore e teorie delle classi, in Pol. dir., 1975, pag. 701 ss. Sull’importanza di tutelare la persona dai pericoli dati dal mondo digitale, si v. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, pag. 408 ss.
[71] Quest’ultima facoltà è stata recentemente legittimata dalla nota pronuncia resa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 13 febbraio 2023, n. 5, punto 3.8, ove si afferma: “Pertanto, l’Amministrazione, nel dichiarare l’interesse culturale del bene, può sia (in negativo) precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res, sia (in positivo) disporre la continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata: e ciò anche in assenza di un processo di trasformazione della res e a prescindere dal suo riferimento a una specifica iniziativa storico culturale di rilevante importanza”. Tale pronuncia, a ben vedere, si espone a molte criticità, soprattutto se analizzata alla luce delle garanzie concesse dagli artt. 41 e 42 Cost. Da tempo, invero, si assiste alla imposizione pubblicistica di limitazioni nell’utilizzo del bene - anche, e soprattutto, nell’ambito della normativa urbanistica e di governo del territorio. Raramente, tuttavia, si è arrivati a giustificare l’imposizione (in positivo) di un vincolo alla “continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata”, a maggior ragione allorquando il vincolo (seppur finalizzato alla conservazione del valore culturale immateriale inerente alla cosa) sia imposto tramite provvedimento amministrativo e l’uso riguardi un’attività economica di tipo imprenditoriale (che, nel caso di specie, concerneva lo svolgimento di un’attività di ristorazione aperta al pubblico con caratteristiche tradizionali della cucina italiana). Riteniamo pertanto condivisibili le osservazioni critiche espresse da C.P. Santacroce, L’Ad. Plen. n. 5/2023 e le “ulteriori restrizioni alla proprietà privata”, in Aedon, 2023, 1, pag. 49 ss.; F. Cortese, Il movimento del diritto. Sull’Adunanza Plenaria n. 5/2023 del Consiglio di Stato, ivi, pag. 34 ss.; G. Morbidelli, Della progressiva estensione della componente immateriale nei beni culturali e dei suoi limiti, ivi, pag. 53 ss. Nell’ambito di un’accurata riflessione sui pro e i contro della sentenza pronunciata dall’Adunanza Plenaria, ha intravisto il rischio di derive “panculturali” G. Piperata, La tutela dei beni culturali: consolidamenti ed estensioni, ivi, pag. 1 ss.
[72] F. Merusi, Commento all’art. 9, in Commentario della Costituzione, (a cura di) G. Branca, Principi fondamentali, Bologna-Roma, 1975, pag. 434 ss. il quale, seguendo l’impostazione del Romagnosi, ritiene che “le istituzioni pubbliche debbono fornire soltanto le condizioni, i presupposti, per il libero sviluppo della cultura. Nella nostra Costituzione tale principio ha voluto in primo luogo significare una negazione del monismo ideologico-culturale proprio dello Stato totalitario fascista”. In tema anche F.S. Marini, Lo stato costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002, pag. 10 ss.; T. Montanari, Art. 9. Costituzione italiana, Carrocci editore, Roma, 2023.
[73] In questo senso, riprendendo argomenti e linguaggio gramsciani, A. Schiavone, L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale, Laterza, Roma-Bari, 2009, spec. pag. 83 ss.