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Editoriale

La tutela dei beni culturali: consolidamenti ed estensioni

di Giuseppe Piperata [*]

The protection of cultural heritage: consolidations and extension
Recent legislative and jurisprudential developments have made interesting changes to the protection function of cultural heritage. The article points out that strategies for governing cultural heritage cannot be entrusted exclusively to the state protection function.

Keywords: Cultural Heritage; Protection; Differentiated Regionalim.

1. Alcune dinamiche nell’impianto giuridico che regola le funzioni di tutela del patrimonio culturale recentemente sono cambiate. Altri mutamenti, invece, potrebbero ancora intervenire per effetto di processi in atto destinati a incidere sulle strategie e le azioni di governo e di protezione dei nostri beni culturali.  A tali novità è dedicato il presente numero di Aedon, quasi un fascicolo monografico, che si propone non solo di dar conto di ciò che è cambiato o che potrebbe cambiare a proposito dei poteri di tutela in materia di beni culturali, ma soprattutto di interrogarsi sulle implicazioni derivanti per effetto di tali cambiamenti sull’intero settore. Si tratta, del resto, di cambiamenti che operano spesso in direzioni diverse, in alcuni casi, orientati verso il consolidamento dell’impianto tradizionale, in altri, invece, incentrati sull’estensione del regime di tutela a nuovi ambiti di intervento.

A volte, forse troppo ingenuamente, chi si interessa al diritto del patrimonio culturale è portato a pensare che lo statuto della tutela che caratterizza la protezione di tali beni sia ormai affidato ad un quadro giuridico di riferimento stabile e con radici profonde nei più tradizionali poteri amministrativi presenti da sempre nel sistema di governo del settore. È, invece, con riferimento alla valorizzazione che ci si aspetta una maggiore innovazione, non fosse altro perché essa rappresenta un compito obbligatorio che il legislatore ha affiancato alla tutela soltanto in una fase più recente e che presenta alcuni ambiti non ancora del tutto definiti. Si aggiunga, poi, che la tutela è da iscrivere al novero delle funzioni pubbliche, con la conseguenza che qualsiasi dinamica in grado di modificarne l’assetto deve essere accompagnata da adeguata prudenza - visti i principi in gioco, i poteri attribuiti e gli interessi da comporre - e da maggiore attenzione in termini di rispetto delle garanzie che in questi casi l’ordinamento mette in campo.

Così però non è. E non ci si deve stupire più di tanto se anche per la tutela dei beni culturali si registrano fasi nelle quali integrazioni arricchiscono un quadro sistemico già consolidato o innovazioni ne rideterminano il perimetro di azione. Una di queste fasi è quella attuale, nella quale già sono intervenuti interessati provvedimenti legislativi e orientamenti interpretativi che aprono nuovi scenari per la protezione e la conservazione dei beni culturali. Contribuiscono a tale dinamismo anche quelle pratiche amministrative che pur essendo state introdotte per governare interessi e settori diversi da quello culturale possono rivestire un importante ruolo anche in quest’ultimo. La pianificazione dello spazio marittimo è un interessante esempio di tale fenomeno: il piano, strumento imposto dall’Unione europea agli Stati membri e destinato definire i possibili usi, commerciali e non, del mare, rileva anche come strumento funzionale alla protezione del patrimonio culturale, in special modo subacqueo, e allo stesso tempo occasione per contemperare le esigenze della tutela del paesaggio con quelle dello sviluppo sostenibile.

2. Tra le novità legislative in materia di tutela dei beni culturali un posto di primo piano è sicuramente occupato dalla legge 9 marzo 2022, n. 22, contenente alcune disposizioni dirette a implementare la disciplina penalistica riguardante il settore del patrimonio culturale. Con la legge del 2022 è stato inserito nel Codice penale un nuovo titolo nel libro secondo interamente dedicato alla definizione dei reati contro il patrimonio culturale: dal furto alla ricettazione, dal riciclaggio all’illecita esportazione, dalla distruzione fino al saccheggio - giusto per ricordarne alcuni -, tutte fattispecie che richiamano condotte sanzionate in quanto idonee a mettere in pericolo beni culturali e paesaggistici. La cronaca quotidianamente riportata dalla stampa nazionale a proposito di vandalismi e scempi di ogni sorta sta a testimoniare l’emergenzialità del fenomeno e la conseguente opportunità anche di una via penale alla tutela del nostro patrimonio culturale, già di per sé fragilissimo. La Rivista si è già occupata del tema con un primo commento di carattere generale all’intera riforma del 2022. In questo numero, invece, viene offerto un approfondimento a proposito del reato di furto di beni culturali, per metterne in luce i tratti caratteristici ed anche il rapporto con altri reati, come il furto semplice.

Ma a proposito del versante legislativo, sempre centrale e attuale rimane la questione del riparto competenziale tra Stato e regioni a proposito della definizione della legislazione in materia di patrimonio culturale, così come introdotto dalla riforma del Titolo V Cost. del 2001. Questo numero della Rivista si apre proprio con uno scritto che prova a fare il punto su tale rapporto. Sono passati oltre venti anni dalla riscrittura dell’art. 117 Cost. e ancora rimane difficile perimetrare in maniera stabile gli spazi spettanti al legislatore statale e a quello regionale, anche a causa del consueto atteggiamento del primo tendente ad attrarre nella sua sfera tutto ciò che riguardi la disciplina dei beni culturali, a cui si contrappone invece il tentativo del secondo di individuare possibili ambiti residuali di intervento.

Un ulteriore e ipotetico fattore di instabilità potrebbe a breve determinarsi per effetto dell’approvazione in sede parlamentare del c.d. d.l.l. Calderoli, contenente le disposizioni per promuovere l’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, Cost. La disposizione costituzionale, infatti, immagina un percorso articolato e negoziato attraverso il quale attribuire alle regioni ordinarie “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” in determinate materie, tra le quali rientra anche quella della tutela dei beni culturali. Il disegno di legge definisce i principi generali che devono ispirare il processo di differenziazione regionale e soprattutto dettaglia le modalità attraverso le quali arrivare alle intese tra Stato e regioni interessate propedeutiche al trasferimento delle funzioni. In particolare, tale trasferimento è condizionato dalla definizione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Al riguardo, qualche passo in avanti è stato già fatto, dato che è stata costituita la Cabina nazionale di regia, come richiesto dalla legge di bilancio per il 2023 (legge 197/2022), e il Ministro ha nominato i membri del Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, da garantire su tutto il territorio nazionale (CLEP), che ne supporterà il lavoro; lavoro non semplice, considerato che a tali strutture spetterà disegnare il nucleo essenziale e uniforme delle prestazioni di cittadinanza per ogni singola materia, condizione fondamentale per evitare che la differenziazione regionale si trasformi in un processo di disgregazione istituzionale e territoriale, con conseguente amplificazione dei divari sociali ed economici già adesso presenti nel Paese.

Difficile prevedere oggi, una volta approvata la legge, quante regioni chiederanno nuovi spazi di autonomia differenziata e quante lo faranno anche con riferimento alla tutela del patrimonio culturale e per quali funzioni. Se si guarda ai tentativi finora promossi da alcune regioni, le richieste di trasferimento hanno avuto portata diversa: alcune molto ampie, in quanto dirette ad ottenere il trasferimento complessivo delle funzioni di tutela e di valorizzazione e, conseguentemente, della titolarità dei beni presenti sul territorio regionale; altre, invece, più contenute, in quanto circoscritte al trasferimento di alcuni compiti e di alcuni beni - come quelli librari - nella prospettiva di maggiore efficientamento del sistema di gestione regionale del patrimonio culturale. Come in passato (ad esempio, quando, subito dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale, la regione Toscana progettò un ipotetico modello di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., proprio con riferimento alla materia della tutela dei beni culturali), la Rivista intende seguire con particolare attenzione tali processi, nella consapevolezza che se verrà attivato il processo di differenziazione regionale, gran parte degli attuali quadri regolativi in materia di tutela del patrimonio culturale dovranno essere rivisti.

3. C’è un’altra novità recentemente intervenuta in tema di tutela dei beni culturali alla quale gran parte del presente numero della Rivista è dedicato. Si tratta della sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 13 febbraio 2023, n. 5, con la quale è stato affrontato il tema della estensione del potere ministeriale di apposizione del vincolo di destinazione d’uso su di un bene culturale. Il tema è sicuramente tra quelli di maggiore rilevanza per il diritto del patrimonio culturale e l’orientamento interpretativo che con la pronuncia il Giudice amministrativo propone merita di essere preso in seria considerazione non solo per una sua possibile condivisione o meno, ma anche per valutarne le implicazioni sul piano organizzativo e funzionale che è destinato a determinare sull’intero sistema di protezione del patrimonio culturale.

Per analizzare la sentenza sono stati organizzati due incontri: il primo dalla Direzione di Aedon, il 15 marzo a Bologna, presso la Scuola di specializzazione Spisa; il secondo dal Presidente Giuseppe Severini, il 29 dello stesso mese a Perugia presso il Centro studi giuridici e politici della Regione Umbria. Gli interventi e le relazioni di quasi tutti i partecipanti ai due incontri sono pubblicati nel presente numero di Aedon: un focus tematico con tanti contributi che la Direzione ha ritenuto di non sottoporre al consueto processo di referaggio per offrire subito ai lettori una prima e originale riflessione a più voci sulla pronuncia da parte di studiosi del settore dei beni culturali, la cui autorevolezza, tra l’altro, è un dato ormai acquisito.

La questione della legittimità o meno dei vincoli ministeriali diretti a destinare un bene culturale rispetto ad un uso specifico, in quanto funzionale alla protezione dello stesso, occupa ormai da molto tempo il nostro Giudice amministrativo, il quale negli anni ha elaborato diversi orientamenti interpretativi al riguardo. Con il suo intervento nomofilattico, l’Adunanza plenaria risolve in punta di diritto la questione, scegliendo la linea interpretativa che considera del tutto legittimo il vincolo di destinazione d’uso su di un bene culturale se adeguatamente motivato. Del resto, secondo il giudice, una simile ricostruzione non è in contrasto con i principi costituzionali, né può essere esclusa alla luce del diritto positivo. Accanto ai vincoli negativi, pertanto, sui beni culturali sono ammessi anche vincoli positivi, di natura conformativa e, anzi, il vincolo positivo può convivere con altri vincoli (il c.d. doppio vincolo), purché ci sia ovviamente un’adeguata motivazione che ne giustifichi l’imposizione.

La sentenza non si ferma qui. L’estensione della tutela viene realizzata anche rispetto alle espressioni di identità culturale collettiva, così come previste dall’art. 7-bis del Codice dei beni culturali. Si aggiunge in questo modo un ulteriore strumento di tutela a disposizione dell’autorità statale, che può anche prescindere dall’avvio in parallelo di un procedimento per il riconoscimento del regime UNESCO sulle espressioni di identità culturale collettiva che si intendono proteggere. Ecco allora che è possibile configurare un “approccio integrato e dinamico” della tutela dei beni culturali, con strumenti che consentono la “tutela delle cose” nella loro materialità e realtà fisica, mentre altri permettono di realizzare la “tutela delle attività” nella loro rappresentazione immateriale e espressione di identità culturale collettiva.

Insomma, per il Giudice amministrativo la tutela dei beni culturali si può realizzare non solo proteggendoli in negativo, ossia impedendo usi poco compatibili con i caratteri materiali del bene stesso, ma anche in positivo, attraverso l’imposizione di obblighi di continuità di un uso specifico degli stessi. Un cambio di prospettiva significativo e notevole per una giurisprudenza tradizionalmente propensa a ritenere il vincolo legittimo solo se diretto alla imposizione di obblighi di non facere e non di obblighi di facere.

Alla luce di ciò, non meraviglia il fatto che nella maggior parte dei contributi raccolti in questo numero emerga una lettura in chiaroscuro della sentenza, dove forse sono più le ombre ad essere evidenziate come prevalenti rispetto alle luci, in essa pur presenti. Soprattutto, la sentenza non convince fino in fondo riguardo alla interpretazione data all’art. 7-bis d.lgs. n. 42/2004. Sicuramente la disposizione è, come segnalato, una norma dal “significato incerto”. Tuttavia, l’Adunanza plenaria preferisce valorizzare quella possibile interpretazione della disposizione che le consente di estendere la tutela ministeriale prevista dal Codice al di là della materialità del bene. Un’operazione interpretativa, questa, coraggiosa, ma indubbiamente discutibile per diversi aspetti. In primo luogo, perché sembra fondarsi su quadri interpretativi presi a riferimento non sempre condivisibili, come il richiamo - a fondamento di alcuni passaggi - parziale della giurisprudenza costituzionale datata e in parte superata sulla primarietà dell’interesse culturale ex art. 9 Cost. rispetto ad ogni altro interesse. E in secondo luogo, poiché pare prescindere da tutte le implicazioni che l’estensione della tutela anche alla continuità nell’uso del bene possa determinare, ad esempio, sulle capacità organizzative del Ministero chiamato ad esercitare il compito corrispondente, o sulla natura del potere di vincolo che subirebbe una “trasformazione genetica” - non più (e solo) un potere dichiarativo e di tutela, ma anche un potere per promuovere forme di identità culturale collettiva -, o su possibili derive “panculturali”, ecc.

Non è nostra intenzione dare ai rilievi appena formulati il significato di aspra critica alla sentenza pronunciata dal Giudice amministrativo. Anzi. La scelta interpretativa di estendere i poteri ministeriali di vincolo oltre la materialità dei beni culturali era una delle opzioni possibili. Tale scelta può non convincere fino in fondo. Ma è indubbio che il Giudice amministrativo nel preferirla sia stato spinto dalla esigenza di risolvere alcune questioni di fondo del diritto dei beni culturali che forse dovrebbero trovare in un rinnovato quadro regolativo una adeguata soluzione. Sotto questo profilo, la sentenza ha il merito di richiamare l’attenzione sul diritto del patrimonio culturale e soprattutto ricordare i problemi (vecchi e nuovi) ancora aperti, a cominciare dalla nozione di bene culturale, un concetto giuridico ancora troppo indeterminato, come ricorda il giudice, come tale destinato a condizionare l’esercizio del potere ministeriale di tutela, spesso invocato da più parti come extrema ratio per garantire interessi pubblici e aspettative di singoli e delle comunità che potrebbero trovare in altri strumenti adeguata soddisfazione.

Insomma, ci auguriamo come Rivista che la sentenza non venga vista come l’affermazione della tutela e della sua estensione come unica via per un governo efficiente del nostro patrimonio culturale. La tutela non può essere enfatizzata come l’unico valido approccio per le politiche relative al patrimonio culturale e la tutela non può essere solo ostentata come ambito esclusivo di sovranità ministeriale.

I problemi del settore della cultura sono tanti, a partire dai confini del patrimonio culturale e delle nuove manifestazioni che potrebbero rientrarvi, e non basta estendere la tutela ministeriale al di là della materialità del bene culturale. Risolverli, come dimostra la sentenza dell’Adunanza plenaria, non è un’operazione facile, a partire dalla scelta delle modalità con le quali intervenire: rivedendo il Codice del patrimonio culturale e riscrivendo le sue categorie fondamentali a partire dalle tipologie dei beni (come qualcuno inizia a proporre)? valorizzando l’uso anche di altre leve come quella urbanistica, fiscale, ecc.? promuovendo una maggiore collaborazione tra gli attori (pubblico-privato; centro-periferia)? Se queste sono oggi le questioni sul tavolo, allora, non fermiamoci (solo) a leggere la sentenza come una delle tante pronuncie con le quali il Giudice amministrativo indica l’orientamento interpretativo da seguire nell’esercizio di un importante compito amministrativo. Proviamo a considerarla, invece, come un primo e utile contributo per promuovere un confronto che non si fermi all’estensione dei confini della tutela come unica strategia possibile per il governo del settore culturale nel nostro Paese.

 

Note

[*] Giuseppe Piperata, professore ordinario di Diritto Amministrativo dell’Università IUAV di Venezia, Santa Croce, 191, Tolentini, 30135, Venezia, piperata@iuav.it

 

 

 

 



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