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Sulla riproduzione dei beni culturali

Le immagini dei beni culturali. Riflessioni a margine del dibattito

di Cristina Videtta [*]

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il quadro legislativo di riferimento. Qualche osservazione. - 3. Lucro o non lucro, questo è il dilemma. - 4. Il problema della dimensione immateriale del bene culturale come perno del dibattito. - 5. Qualche rilievo conclusivo.

Images of cultural Heritage. Reflections in relation to the debate
The Autor reflects on the theme of the regulatory framework on the use of the images of cultural property. In particular, the paper explores the art. 108, d.lg. n. 42/2004, highlighting the problems of its interpretation especially after the d.m. 161/2023 and 108/2024. Defined the distinction between intangible cultural heritage and images of cultural heritage, the A. investigates the meaning of the art. 20, c. 1, focusing on the possibility of applying the rule to the use of images of cultural heritage.

Keywords: cultural heritage; reproduction of cultural heritage; use of cultural heritage; intangible dimension of cultural heritage.

1. Premessa

È ormai un po’ di tempo che il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. 22 gennaio 2024, n. 42, d’ora in poi “Codice”), viene tacciato di essere inadeguato e antiquato. Già all’indomani della sua entrata in vigore, da più parti ne sono state evidenziate le rigidità di fronte all’evolvere delle sollecitazioni che provengono soprattutto dal livello internazionale.

A titolo esemplificativo, si può fare riferimento all’impatto della Convenzione UNESCO del 2003 sulla protezione del patrimonio culturale immateriale, ratificata dall’Italia con legge del 27 settembre 2007, n. 167, che ha dato luogo al discusso art. 7-bis del Codice [1]; si può altresì pensare al dibattito suscitato dalla ratifica alla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, cd. Convenzione di Faro (avvenuta con legge 1° ottobre 2020, n. 133), in merito alla nuova definizione di “eredità culturale” [2]; infine, si considerino anche le numerose sollecitazioni in materia di allargamento delle maglie dei limiti alle esportazioni [3] e, per quanto qui di interesse, alla discussione sull’uso dei beni culturali.

Il dibattito sull’immagine dei beni culturali e sulla sua auspicata (totale o, quanto meno, allargata) liberalizzazione, ben si inserisce nel solco di queste discussioni che, pur nelle differenti declinazioni in cui si presentano, presentano alcuni tratti comuni, che così di seguito possono essere sintetizzati.

In primo luogo, la vocazione globale del patrimonio culturale in relazione al quale il diritto alla fruizione del patrimonio culturale si va trasformando in un diritto fondamentale indipendente dalla cittadinanza, imponendo alle normazioni di fornire risposte alle nuove istanze sorte [4].

In secondo luogo, specie a fronte del forte impatto della digitalizzazione del patrimonio culturale [5], l’esigenza di tornare a riflettere sul problema della dimensione immateriale del patrimonio [6]. Infine, ma certo non per importanza, la questione – inevitabilmente intersecata con le prime due, pur non esaurendosi in esse – della crescente domanda culturale, connessa alla maggiore circolazione delle informazioni sul patrimonio culturale (sulla sua esistenza ma anche sulla sua accessibilità) e alla più intensa consapevolezza del suo ruolo (economico ma anche, per quanto qui di interesse, sociale) [7].

2. Il quadro legislativo di riferimento. Qualche osservazione

Il dibattito sulla riproduzione delle immagini dei beni culturali ha trovato nuova linfa a seguito dell’approvazione del d.m. 11 aprile 2023, n. 161, a firma del ministro della Cultura, che reca le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”, di attuazione dell’art. 108, comma 6, del Codice che stabilisce che: “Gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione dei beni sono fissati con provvedimento dell’amministrazione concedente”, su cui lo stesso ministero è recentemente tornato con d.m. n. 108/2024, secondo quanto si dirà più avanti.

È tuttavia dalle norme codicistiche di rango primario che ogni narrazione sul punto deve necessariamente partire.

In disparte la questione dell’uso individuale dei beni culturali disciplinato dall’art. 106 che non costituisce oggetto di queste riflessioni, il tema delle riproduzioni delle immagini dei beni culturali è regolato dagli artt. 107 e 108 del Codice.

L’art 107, fin dalla sua originaria formulazione rimasta immodificata, stabilisce che “il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali” possano consentire la riproduzione (...) dei beni culturali che abbiano in consegna” fatto salvo, oltre alle disposizioni in materia di diritto d’autore, anche il caso in cui la riproduzione di beni culturali “consista nel trarre calchi, per contatto, dagli originali di sculture e di opere a rilievo in genere, di qualunque materiale tali beni siano fatti”, di regola vietata ma “consentita solo in via eccezionale e nel rispetto delle modalità stabilite con apposito decreto ministeriale”; si aggiunge peraltro che “sono invece consentiti i calchi da copie degli originali già esistenti nonché quelli ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto con l'originale”, ma “previa autorizzazione del soprintendente”.

Per quanto concerne la riproduzione di beni in consegna al ministero o ad enti territoriali, dunque, già la versione originaria del Codice la consentiva (evidentemente previo apposito provvedimento amministrativo), a meno che non vi fosse una interferenza “ grave” con le esigenze di protezione del sostrato fisico del bene, come specificato dal comma 2 [8].

Il Codice demanda, poi, al successivo art. 108, la regolazione dei relativi “canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione”; vi si stabilisce, fin dal 2004, che questi siano determinati dall’autorità che ha in consegna i beni “tenendo anche conto: a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente”.

Nella versione del 2004, il comma terzo si limitava a stabilire che “Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici per finalità di valorizzazione. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione concedente”.

Dunque, nella primitiva formulazione del Codice, era prevista una sorta di parallelismo tra l’uso strumentale e precario dei beni culturali e la loro riproduzione, attività – entrambe – ammesse ma solo previo atto di assenso da parte dell’ente che avesse in consegna i beni stessi; simmetricamente, entrambe le attività erano assoggettate al pagamento di un corrispettivo [9]. In particolare, le riproduzioni di beni culturali erano, in linea generale, non già libere, ma comunque “assentibili” (salvo i casi di un rischio per la tutela degli stessi) e soggette al pagamento di un “canone”, fermo restando che quest’ultimo sarebbe stato escluso nei casi specifici indicati dal comma terzo dell’art. 108 citato.

Dunque, due erano i piani dell’esenzione dal canone: da una parte, le riproduzioni richieste da privati per uso personale e motivi di studio e, dall’altra, quelle richieste da soggetti pubblici con finalità di valorizzazione, con ciò escludendosi che qualunque richiesta da privati per il medesimo scopo potesse essere gratuita.

L’impianto iniziale dell’art. 108 ha subito due significativi emendamenti in forza del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, che ha corretto l'art. 108, comma 3, e introdotto il comma 3-bis.

Per quanto riguarda il comma 3 citato, la novella ha esteso l’esenzione dal pagamento del canone anche ai casi di riproduzioni finalizzate ad attività di valorizzazione richieste da soggetti privati (originariamente esclusi) e ha specificato che essa sarebbe stata da applicarsi a patto che tale attività di valorizzazione, per la quale la riproduzione è richiesta, fosse “attuata senza scopo di lucro”.

La riforma “rompeva” dunque il disegno codicistico originario fondato sulla dicotomia soggetto pubblico/soggetto privato tale per cui, a rilevare ai fini dell’applicazione del canone, era la natura (pubblica o privata) del soggetto richiedente; nella nuova versione dell’art. 108, infatti, la gratuità delle riproduzioni di beni culturali effettuate per finalità di valorizzazione veniva a trovare applicazione non solo quando a compierle fossero (come originariamente previsto) soggetti pubblici, ma anche nel caso in cui fossero effettuate da soggetti privati, sempre che – e questa era la vera novità – non ricorressero finalità di lucro, neanche indiretto. La previsione impattava altresì fortemente sullo stesso trattamento dei soggetti pubblici atteso che, nella versione precedente, questi erano esonerati dal canone anche nel caso di compimento di attività lucrative (visto che tale espressione, come si è detto, non compariva precedentemente nel testo dell’art. 108). Ne scaturiva un disegno completamente nuovo, fondato non più sulla natura giuridica del soggetto richiedente quanto piuttosto sul fine, lucrativo o meno, a cui l’attività di valorizzazione era rivolta. La stessa Relazione di presentazione del disegno di legge di conversione afferma come tale impostazione avrebbe consentito di “adeguare l'ordinamento ai princìpi di concorrenza e parità di trattamento tra gli operatori economici imposti dall'ordinamento europeo, evitando di avvantaggiare indebitamente i soggetti pubblici, esonerandoli dal canone, quando agiscano per fini di lucro al pari dei privati” [10].

La stessa novella ha poi aggiunto il comma 3-bis che così recitava: “Sono in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale: 1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni bibliografici e archivistici attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l'esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né, all'interno degli istituti della cultura, l'uso di stativi o treppiedi; 2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro, neanche indiretto”.

Va ricordato, peraltro, come lo stesso comma sia stato poi ulteriormente oggetto di modifica da parte della legge 4 agosto 2017, n. 124, che ha soppresso, al n. 1), il riferimento ai “beni bibliografici”, ha specificato che i beni archivistici esclusi sarebbero solo quelli “sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del presente titolo”, ha aggiunto il doveroso “rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore” [11].

La modifica del 2014 mirava, dunque, a introdurre specifiche ipotesi di liberalizzazione in materia di riproduzione dei beni culturali: il sistema allora vigente, infatti, prevedeva che “qualunque riproduzione dell'immagine di un bene culturale appartenente a un soggetto pubblico, con qualunque mezzo, in qualunque contesto e per qualunque fine effettuata”, dovesse “sempre essere autorizzata” e che fermo restando tale indefettibile obbligo, l'articolo 108, comma 3, del codice prevedeva alcune limitate ipotesi in cui non era dovuto il canone per la riproduzione. L’impianto normativo pertanto non poteva più considerarsi attuale “in particolare con riguardo alle esigenze derivanti dalla circolazione dei contenuti sulla rete internet” e, per altro verso, le restrizioni alla circolazione delle immagini di beni culturali effettuate per scopi non lucrativi (e, in particolare, per finalità di studio o di creazione artistica o letteraria), apparivano non in linea col dettato costituzionale ed in particolare coll’art. 9, comma 1, che pone a carico della Repubblica il compito di promuovere la cultura e con il diritto alla libera manifestazione del pensiero [12].

L’introduzione del comma 3-bis all’art. 108 introduceva così la completa liberalizzazione – dunque con esonero anche dall'obbligo di assenso preventivo – di una serie di attività, sempre che fossero compiute senza scopo di lucro, neanche indiretto, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale. In ogni caso, i terzi eventualmente interessati a sfruttare commercialmente l'immagine reperita in rete avrebbero dovuto chiedere la concessione e versare il corrispettivo dovuto [13].

Invero, la riforma del 2014, pur animata dai condivisibili intenti di cui si è detto, finiva per rinnovare il sistema introducendo tuttavia nuove rilevanti criticità.

In primo luogo, dal punto di vista sistematico, è possibile rilevare come il comma 3-bis operasse (e ancora opera) non solo sul piano economico, ma soprattutto su quello della liberalizzazione di alcune attività di riproduzione. Se contenutisticamente tale operazione fosse apparita senz’altro opportuna, l’intervento normativo sarebbe venuto tuttavia inserito non già all’interno della norma (l’art. 107) dedicata alla previsione di atti di assenso dell’amministrazione per usi e riproduzioni, bensì a quella deputata a quantificare l’ammontare del corrispettivo economico, determinando così una sovrapposizione tra i due piani che ancora oggi genera difficoltà interpretative.

Inoltre, il comma 3-bis generava (e ancora genera) una convergenza tra attività libere e attività gratuite su un campo (almeno in larga misura) comune, dettato dall’assenza di lucro dell’attività, che diviene così il vero punto di discrimine, con tutte le incertezze applicative che questo poteva comportare – ed, in effetti, ancora oggi comporta –, nonostante il più recente intervento del ministero della Cultura (d.m. n. 108/2024 [14]).

In disparte il delicatissimo problema dell’individuazione di una linea di discrimine netta tra attività lucrative e non lucrative [15], va rilevato come la riforma del 2014 abbia finito anche per creare una frizione tra il (vecchio, seppure in parte rinnovato) comma 3 e il (nuovo) comma 3-bis. Se infatti si mettono a confronto le due norme citate, è ben possibile rilevare come i due ambiti di applicazione non siano del tutto sovrapponibili. Se da una parte, infatti, le attività di cui al comma 3-bis sembrano costituire, più che una specificazione, una species del più ampio genus di cui al comma 3; dall’altra parte, la differente terminologia utilizzata nei due commi può quanto meno generare il dubbio che parte delle attività contenute nel primo non siano (quanto meno con certezza) ricomprese nel secondo.

In aggiunta, sembra altresì che il sistema disegnato dal Codice così modificato, introduca una nuova categoria di attività, gratuite e liberalizzate, originariamente non previste, aprendo il problema relativo al tipo di controllo su di esse, le cui sfumate coordinate ne rendono arduo l’inquadramento all’interno di (precise) categorie predefinite.

3. Lucro o non lucro, questo è il dilemma

Dal punto di vista generale, per quanto riguarda la fissazione dei canoni di riproduzione, l’art. 108, comma 1, andava letto in combinato disposto con il comma 6, il che avrebbe determinato un sistema di fissazione dei canoni per così dire, “progressivo”, in cui le amministrazioni concedenti (quelle stesse indicate dall’art. 107 comma 1, ossia il ministero, le regioni e gli altri enti territoriali [16]) avrebbero dovuto fissare gli importi minimi (comma 6) e, sulla base di questi, al momento della concessione avrebbero stabilito il canone per la specifica riproduzione.

La puntuale determinazione del singolo canone – la collocazione del comma 1 all’interno dell’art. 108, e non solo il suo contenuto, fa infatti pensare che tali criteri siano da applicarsi al momento della specifica quantificazione del canone – avrebbe dovuto seguire i parametri di cui al comma 1.

La legge restituiva, dunque, ampia discrezionalità agli enti concedenti, a superamento del sistema disegnato dall’art. 115, comma 7, del d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 (secondo il quale spettava all’allora ministro per i beni e le attività culturali fissare gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni), eliminando la previsione normativa di un tariffario minimo ministeriale [17].

Così fissato il quadro generale di riferimento, il ministero della Cultura è intervenuto con d.m. n. 161/2023 cit., al dichiarato (principale) scopo di valorizzare economicamente il patrimonio culturale pubblico, dettando quelle che ha definito “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione in uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statale”, attuativo dell’art. 108, comma 6, del Codice che prevede che: “Gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione dei beni sono fissati con provvedimento dell’amministrazione concedente” [18].

A questo proposito, prima di tutto, si può rilevare una inversione di rotta rispetto alle scelte del legislatore. Il d.m. n. 161/2023 citato (come anche il successivo d.m. n. 108/2024), infatti, finisce per riproporre lo schema disegnato dal testo unico del 1999 di cui si è detto, sostituendo tuttavia al vecchio sistema basato su una determinazione di importi minimi a livello ministeriale (art. 115, comma 7, T.U.) a cui seguiva, a valle, la determinazione del singolo e specifico canone dovuto (art. 115, comma 2, T.U.), un sistema “a cascata”, per così dire, tri-livello, strutturato in un piano ministeriale di fissazione degli importi minimi (d.m. n. 161/2023), a cui dovrebbe seguire un atto adottato dall’amministrazione concedente, la cui discrezionalità, legislativamente prevista, non parrebbe obliterabile da parte di un decreto ministeriale, ancorché quest’ultimo si ponga come vincolante nella fissazione delle tariffe minime; a valle di tutto ciò, si colloca poi la determinazione dell’ammontare dovuto nel singolo caso computata ai sensi del comma 1.

Sembra si possa osservare che, anche ritenendo la compatibilità dell’impostazione del decreto ministeriale col disegno del Codice [19], il ministero abbia sostanzialmente tradito la ratio dell’impianto legislativo, introducendo un elemento di forte irrigidimento del sistema complessivo che ha finito per privare le singole amministrazioni della discrezionalità che ad esse il legislatore del 2004 aveva voluto attribuire [20].

Dal punto di vista della individuazione del campo di applicazione di detto tariffario, il decreto, ricalcando (necessariamente) l’impostazione codicistica, distingueva tra riproduzioni a scopo non lucrativo o per finalità non commerciali, la cui definizione riprendeva pedissequamente quella dell’art. 108, comma 3 e 3-bis del Codice (“le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale”) e quelle a scopo lucrativo o per finalità commerciali che le linee ministeriali definiscono ex novo (in quanto non menzionate dagli articoli del Codice di riferimento), come “le riproduzioni richieste o eseguite da destinare sul mercato o per la promozione della propria immagine, del nome, del marchio, del prodotto o attività”, secondo un dettato che, a ben vedere, ricalcava in larga misura il testo dell’art. 120 del Codice sul contratto di sponsorizzazione.

Molte le critiche mosse al citato decreto segnatamente sotto il profilo della difficoltà di distinguere nel concreto attività a fine di lucro e non a fine di lucro [21], in relazione alla quale, tra l’altro, il d.m. del 2023 ha sostituito la locuzione codicistica “senza scopo di lucro” con “riproduzione a scopo non lucrativo o per finalità non commerciali”, aggiungendo così una tipologia non prevista a livello legislativo e di incerta interpretazione in quanto forse (ma non certamente) pleonastica e sicuramente – visto che la definizione coincide con quella di cui all’art. 108, comma 3-bis – non necessaria.

Il punto merita comunque qualche ulteriore osservazione anche alla luce del nuovo d.m. n. 108/2024. Nell’impianto codicistico disegnato dall’art. 108, come successivamente modificato, il legislatore ha scelto di indicare i casi in cui il canone non trova applicazione; se ne deve dedurre che la regola generale sia, dunque, quella dell’onerosità della riproduzione (con le specifiche eccezioni espressamente – e mi verrebbe da dire, tassativamente – indicate dalla norma) e non quella della gratuità. Se quanto osservato è vero, emerge in trasparenza il favor del legislatore per la riproduzione onerosa, posto che evidentemente tutto ciò che non rientra espressamente nei commi 3 e 3-bis, sarebbe da ascriversi automaticamente ad attività lucrativa (col rischio che i casi in cui dovesse esservi una commistione tra aspetti – e gli esempi certo non mancano – sarebbero inevitabilmente attratti nella categoria, per così dire generale e residuale, dell’attività lucrativa e dunque sarebbero assoggettati a canone).

Le linee ministeriali del 2023 riprendono sostanzialmente tale impostazione, ma con una ulteriore complicazione definitoria. Se infatti, da una parte, si pongono chiaramente nel solco dei commi 3 e 3-bis dell’art. 108, di cui, come si è visto, riprendono la definizione di attività non lucrativa, esse si preoccupano altresì di definire cosa debba intendersi con “riproduzione a scopo lucrativo” il che (in disparte ogni considerazione sull’effettivo rispetto della norma primaria da parte delle linee guida), se fa venir meno l’automatica possibilità di ascrivere tout court i casi dubbi alla dimensione lucrativa (il che parrebbe positivo), determina tuttavia difficoltà applicative date dall’esistenza di due definizioni che lascerebbero inesplorata una zona intermedia (per così dire ibrida), generando un inevitabile aumento delle difficoltà interpretative con conseguente impatto sul contenzioso.

Di recente, il ministero della Cultura è tornato sul tema con il d.m. n. 108/2024 modificativo del d.m. del 2023, animato evidentemente dall’esigenza di fare chiarezza rispetto alle molte critiche subite dal decreto ministeriale precedente. Limitatamente alla questione della distinzione tra attività a fine di lucro e attività non a fine di lucro, il nuovo decreto, con meritevole intenzione, ha deciso di specificare la mancanza di lucro (ai sensi dell’applicazione del comma 3-bis dell’art. 108) in una serie di tipologie di riproduzioni tra cui figurano le riproduzioni di beni culturali e il loro riuso per i volumi a cui viene riconosciuto dall’ente concedente un carattere scientifico (contributi in volume, atti di convegni nazionali ed internazionali) e accademico; le riproduzioni di beni culturali e il loro riuso per volumi e riviste a cui viene riconosciuto dall’ente concedente un contenuto divulgativo e didattico; le riproduzioni di beni culturali e il loro riuso per i cataloghi d’arte, di mostre e manifestazioni culturali con tiratura fino a 4000 copie; le riproduzioni di beni culturali e il loro riuso per le riviste scientifiche e di classe A di cui agli elenchi dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur).

Se la reazione del ministero alle critiche della dottrina e degli operatori del settore con un nuovo decreto va sicuramente salutata con favore e se certamente l’elencazione contenuta nel nuovo decreto copre un ampio campo di attività di uso delle immagini dei beni culturali [22], tuttavia permane e anzi si inasprisce, a parere di chi scrive, la sensazione della mancanza di coraggio ad imprimere una vera svolta al sistema: in effetti, nonostante il d.m. del 2024 utilizzi espressamente il verbo “specificare” (“si specifica che sono gratuite”) – e dunque la lista riportata abbia natura esemplificativa –, il tenore linguistico dell’elencazione dei casi liberalizzati induce a ritenere che si tratti di una restrizione piuttosto che di un allargamento del campo delle eccezioni: la rassegna delle ipotesi riportate assume infatti l’amaro sapore dell’elenco tassativo, con l’effetto di delimitare il campo della gratuità delle riproduzioni, visto che, come pare verosimile ritenere, tutte le situazioni non esattamente ascrivibili a quelli contenuti nell’elenco ricadrebbero nell’ambito dell’onerosità (e della necessità di un previo atto di assenso).

Quanto al merito delle scelte fatte, suscita in particolare qualche perplessità l’inclusione nell’elenco delle “riproduzioni di beni culturali e il loro riuso per le riviste scientifiche e di Classe A di cui agli elenchi dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur)”, specie se raffrontata a quelle destinate a pubblicazione su “volumi a cui viene riconosciuto dall’ente concedente un carattere scientifico”: a meno di non voler considerare infatti le riviste di fascia A come prive di rilievo scientifico, infatti, non si può che immaginare che esse rientrino a pieno titolo nella categoria da ultimo citata, e che dunque l’apparente pleonasmo si sciolga solo ritenendo che la scientificità della pubblicazione vada valutata caso per caso a meno che non si tratti di riviste di fascia A, per le quali tale caratteristica è considerata in re ipsa, sistema – questo –che non manca di suscitare qualche perplessità [23].

Alla luce dell’intento dichiaratamente chiarificatore del nuovo d.m., pare peraltro non opportuna la scelta del ministero di ricomprendere tra le attività liberalizzate e gratuite anche quelle “riproduzioni di beni culturali e il loro riuso per i volumi a cui viene riconosciuto dall’ente concedente un carattere scientifico (contributi in volume, atti di convegni nazionali ed internazionali) e accademico” e “le riproduzioni di beni culturali e il loro riuso per volumi e riviste a cui viene riconosciuto dall’ente concedente un contenuto divulgativo e didattico” e, questo, non tanto per la previsione sicuramente condivisibile di allentare la stretta favorendo la divulgazione di immagini nei due casi considerati, quanto piuttosto per il riferimento a una qualche forma di riconoscimento (del valore scientifico nel primo caso e del contenuto divulgativo e didattico) non meglio specificata nelle sue coordinate e che sicuramente è destinata a creare impatti organizzativi non irrilevanti e difformità applicative [24].

Se dunque il quadro normativo precedente lasciava sostanzialmente irrisolto il problema della verifica dell’effettiva sussistenza/insussistenza del carattere lucrativo, ammettendo almeno in astratto un controllo unicamente ex post per le attività liberalizzate, il nuovo decreto pare assumere, in riferimento alle fattispecie da ultimo considerate, una prospettiva radicalmente diversa restituendo all’ente concedente forme (non meglio definite) di previo controllo sulla finalità della riproduzione.

Le specificazioni introdotte acuiscono peraltro l’impatto critico sull’organizzazione che dovrà predisporre personale deputato a valutare non più solamente se ci sia una finalità commerciale o no (attività già di per sé evidentemente complessa e difficilmente gestibile), ma anche ad effettuare vere e proprie valutazioni tecnico-discrezionali circa la scientificità e la vocazione (divulgativa o didattica) della pubblicazione di destinazione.

4. Il problema della dimensione immateriale del bene culturale come perno del dibattito

Le coordinate che ha assunto oggi il dibattito sull’immagine dei beni culturali ne fanno un significativo punto di snodo di una serie di dicotomie contenute nel Codice sinora solo parzialmente emerse e sostanzialmente irrisolte. Ci si riferisce, quanto meno, a dimensione materiale e immateriale del patrimonio culturale, tutela e valorizzazione, valorizzazione culturale e valorizzazione economica, attività lucrative e non lucrative, liberalizzazione e necessità di controllo, beni pubblici e beni privati, ma anche differenti tipologie di beni pubblici, valore nazionale e valore globale del patrimonio.

Per quanto qui soprattutto di interesse, è soprattutto la dialettica tra aspetto materiale (come noto alla base della disciplina codicistica) e immateriale del bene culturale che assume una configurazione (almeno in larga misura) inedita. Invero, già Massimo Severo Giannini aveva rilevato come il bene culturale “abbia a supporto una cosa, ma non si identifichi nella cosa medesima, bensì, come bene, si aggettivi in quel valore culturale inerente alla cosa” e, pertanto, esso “non è bene materiale, ma immateriale” nel senso che “l’essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da queste distinta, nel senso che esse sono supporto fisico ma non bene giuridico” [25]; oggi, invero, le possibilità offerte specie dalla rapida evoluzione e diffusione degli strumenti digitali, che hanno reso semplice e democratica la riproduzione delle immagini dei beni culturali e, soprattutto, il loro riuso e la loro riproduzione e circolazione – ma anche la loro trasformazione in modi che fino a pochi anni fa non avremmo neppure immaginato –, hanno innescato un processo irreversibile, e molto più marcato che in passato, di emancipazione della dimensione immateriale del bene culturale dalla sua dimensione materiale (comunque necessaria ai fini dell’applicazione del nostro Codice), a prescindere tra l’altro dal fatto che si tratti di bene mobile o immobile [26], che rende inevitabile e urgente tornare a riflettere su tale dicotomia alla luce di nuove coordinate [27].

La questione non può peraltro essere risolta con riferimento alla contrapposizione patrimonio (culturale) materiale/patrimonio (culturale) immateriale, posto che l’immagine di un bene culturale non può essere ascritta tout court a quest’ultimo.

Non vi è dubbio alcuno sul fatto che l’immagine del bene culturale non costituisca essa stessa bene culturale distinto dal bene materiale che rappresenta. Anche a prescindere dal fatto che le difetterebbero tutti i caratteri tipici del bene culturale in senso codicistico (la materialità, l’età, la tipicità), essa sarebbe altresì priva di quell’originalità che servirebbe a renderla qualcosa di differente dal bene che rappresenta. In altre parole, la culturalità appartiene al bene (materiale) riprodotto e non già alla sua immagine; resta in disparte, naturalmente, l’ipotesi in cui essa sia oggetto di una trasformazione in grado di renderla qualcosa di differente dal bene culturale rappresentato, nel qual caso potrebbe assumere per esempio valore artistico, ma certamente non culturale ai sensi del Codice (difettandole quanto meno il requisito dell’età) [28].

Per altro verso, l’immagine del bene culturale materiale e il bene culturale immateriale hanno natura profondamente differente.

Infatti, anche nel caso in cui il bene immateriale fosse fisicamente “contenuto” in un sostrato materiale (si pensi ad un’opera poetica o musicale e al relativo manoscritto), avrebbe una natura culturale sua propria, indipendente dall’esistenza del secondo, ancorché quest’ultimo possa eventualmente ascriversi al novero dei beni culturali in senso codicistico (si pensi a un manoscritto originale) [29].

Diversamente, l’immagine del bene non ha una culturalità propria, ma acquisisce rilevanza ai fini dell’applicazione del codice solamente in quanto rappresentazione del bene; a dimostrazione di quanto detto basta riflettere sul fatto che nell’eventualità in cui venisse meno la culturalità del bene rappresentato (per esempio, nel caso si scoprisse che trattasi un falso), anche la sua riproduzione cesserebbe di avere valore.

In altre parole, la differenza fondamentale tra un componimento musicale o teatrale e l’immagine di un bene culturale risiede nel fatto che mentre i primi costituiscono beni (ovviamente immateriali e, in quanto tali, non assoggettati al Codice) indipendenti dalla res materiale su cui sono stati scritti (che comunque può essere a sua volta bene culturale secondo l’art. 10, comma 4, lett. c, del Codice ai sensi del quale “Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a: (...) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio”), diversamente l’immagine del bene culturale non è un bene culturale a sé. Resta fermo, comunque, che l’immagine può costituire “qualcosa” di diverso e autonomo dal bene rappresentato, come dimostrato dal fatto che non perderebbe di valore (giova ribadirlo, in quanto rappresentazione e non in quanto bene culturale) qualora il bene culturale andasse distrutto.

Ne consegue la necessità di una presa in carico da parte del diritto anche alla luce di un nuovo confronto tra la prospettiva pubblicistica e quella privatistica, che non sembra potersi più esaurire nella dimensione della limitazione della proprietà: proprio su questi temi, e in special modo sul punto delle dinamiche di redditività del patrimonio pubblico, diritto pubblico e diritto privato sono oggi chiamati ad impostare un nuovo dialogo nella ricerca di soluzioni condivise che tengano conto di differenti aspetti e la cui soluzione non può che essere consegnata al livello legislativo [30].

Così identificata l’immagine del bene culturale rispetto al bene culturale immateriale, conviene a questo punto chiedersi se un previo controllo sull’uso delle immagini stesse possa rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 20, comma 1, del Codice laddove stabilisce che “I beni culturali non possono essere (...) adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico”.

Certamente potrebbe essere molto forte la tentazione di sbrigare la questione sostenendo che la norma non dovrebbe trovare applicazione posto che l’immagine non è essa stessa bene culturale.

Si può tuttavia riflettere se davvero questo tipo di controllo sull’uso delle immagini sia del tutto eccentriche rispetto al disegno del Codice.

Si è certamente consapevoli del fatto che tutte le volte che il Codice utilizza il termine “uso” lo fa evidentemente in relazione ad un “uso” in senso, per così dire, fisico e diretto del bene culturale stesso; analogamente, non c’è neppure dubbio che lo stesso art. 20 disciplini l’uso del bene culturale nel senso descritto. Ciò che pare opportuno domandarsi è, tuttavia, se anche la dimensione immateriale del bene rappresentata dalla sua immagine possa essere considerata un “uso” ai sensi della norma in esame, precisando che una eventuale interpretazione estensiva della disposizione in questione non determinerebbe automaticamente l’attribuzione di un significato di tale natura a tutti gli utilizzi della medesima espressione all’interno dello stesso codice, stante l’evidente peculiarità della ratio di questa disposizione.

A parere di chi scrive, proprio l’evoluzione della digitalizzazione e della facile riproducibilità e, soprattutto, manipolazione delle immagini ha mutato in modo significativo le coordinate di contesto in cui la norma è chiamata ad operare e, pertanto, si impone quanto meno una riflessione prima di chiudere la questione affermando che l’art. 20 disciplina solamente l’uso, per così dire, materiale e diretto del bene culturale.

Ragionando sulla ratio della norma, infatti, lo scopo della previsione che vieta un uso non compatibile con il “carattere storico o artistico” del bene protetto, ancorché non dannoso o quanto meno pericoloso per il supporto materiale di cui il bene culturale si “incorpora”, mostra chiaramente l’intento del legislatore di proteggere quello che si potrebbe indicare come “spirito culturale” del bene, ossia la sua dimensione immateriale, il messaggio che esso contiene, che è davvero ciò che è meritevole di essere trasmesso alle generazioni future e a fronte del quale il legislatore prevede potestà pubblicistiche segnatamente di tutela [31].

Conseguentemente, pare possibile ritenere che l’espressione utilizzata dall’art. 20 prescriva la necessità della salvaguardia del significato di cui il bene è portatore (che è ciò che il bene esprime ed è la ragione per la quale è assoggettato a tutela in quanto strumento di promozione di cultura ai sensi dell’art. 9 della Costituzione), con la fisiologica conseguenza che le autorità amministrative competenti debbano farsi carico anche della salvaguardia di questo aspetto. Qualunque distorsione di questo significato, anche eventualmente tramite particolari forme di uso delle immagini, deve ritenersi potenzialmente lesiva di esso e, dunque, giustifica l’attribuzione legislativa di poteri di controllo.

Questo non si traduce evidentemente né in un diniego totale della riproduzione delle immagini, né nella necessità che qualunque tipo di utilizzo dell’immagine stessa vada preceduto da un controllo e da un relativo assenso dell’amministrazione. Significa solo che, nel momento in cui si vogliano liberalizzare alcuni usi, occorre aver chiaro se questi si presentino come potenzialmente distorsivi, fermo restando che parrebbe innegabile come, anche a fronte di una liberalizzazione, trovi applicazione il potere cautelare di cui all’art. 28, comma 1 [32], la cui previsione è necessariamente connessa e complementare a quella dell’art. 20 (peraltro espressamente richiamato).

In questa prospettiva, la riproduzione del bene culturale costituirebbe dunque una forma di uso immateriale (in quanto indipendente dall’uso fisico del bene) in grado di impattare sulla dimensione immateriale del bene, anche se non su quella materiale del bene stesso (a meno di non ricadere in quelle specifiche situazioni indicate dal codice). Così ragionando, si potrebbe peraltro escludere che l’eventuale assoggettamento dell’uso delle immagini all’art. 20 comporti l’automatica conseguenza che, per analogia, qualunque bene immateriale debba essere assoggettato alla stessa norma (o ad altre norme del codice tra cui gli artt. 107 e 108 e i relativi decreti attuativi), posto che – giova ribadirlo – non di beni culturali immateriali si tratta, bensì di immagini di beni culturali materiali [33], secondo quanto già osservato.

Sul punto, merita senz’altro una breve riflessione il problema dell’uso delle immagini dei beni culturali a fini pubblicitari. In questo contesto, infatti, il controllo preventivo sull’uso dell’immagine è volto a preservare il messaggio che il bene rappresenta posto che proprio in tale contesto esso è normalmente oggetto di distorsione perché “piegato” su un messaggio commerciale e, pertanto, diventa difficile legittimare tale tipo di uso sulla base di istanze di valorizzazione culturale e di promozione di cultura invocando il primo comma dell’art. 9 della nostra Costituzione. Questo, ancora una volta, non comporta l’acritico divieto dell’uso dell’immagine, ma legittima la sottoposizione ad un preventivo assenso ai sensi dell’art. 20 del Codice.

Peraltro questa lettura è peraltro in linea anche colle previsioni in materia di sponsorizzazione di cui all’art. 120 che stabilisce come “La promozione di cui al comma 1 avviene attraverso l’associazione del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto all’iniziativa oggetto del contributo, in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilirsi con il contratto di sponsorizzazione” (art. 120, comma 2): vi si chiarisce, infatti, come pur a fronte di un valore economico dell’immagine del bene, le modalità dell’uso della stessa sono comunque oggetto di previa verifica da parte dell’amministrazione proprio al fine di valutare il rispetto della dimensione immateriale del bene stesso [34].

5. Qualche rilievo conclusivo

L’acceso dibattito sulle immagini del patrimonio culturale costituisce un terreno di grande rilevanza in cui oggi, molto più che in passato, è destinata a giocarsi la partita della valorizzazione, culturale prima di tutto, ma anche economica del patrimonio culturale; va rimarcato tuttavia come entrambe le forme di valorizzazione trovino il limite fisiologico nelle esigenze di tutela ai sensi dell’art. 6, comma 2, del Codice, che necessariamente, per scelta legislativa, contemplano anche la tutela del significato del bene culturale [35].

L’istanza che muove, prima di tutti gli altri, dal mondo degli operatori è in primis quella della chiarezza del sistema, il che impone, come si è detto, una riflessione urgente che “fornisca un quadro giuridico più adeguato per governare fenomeni sempre più esposti al progresso delle nuove tecnologie” [36].

Rispetto a tale tema, infatti, il d.m. n. 161 dell'11 aprile 2023 ha finito per esasperare il dibattito, non nuovissimo, sull’uso delle immagini, imponendo con maggiore forza del passato la (ri)considerazione del tema, anche alla luce del deciso favor verso una digitalizzazione del patrimonio culturale che pone dei problemi che richiedono in modo più pressante delle risposte concrete; spetta, prima di tutto, al legislatore il compito di porsi degli interrogativi sempre nuovi onde peraltro verificare la ragionevolezza e l’opportunità delle scelte fatte in passato, ma che, oggi, potrebbero mostrarsi non più adeguate al contesto generale e, dunque, comportare ripensamenti quanto meno parziali [37].

Viceversa, permane la sensazione che il legislatore non intenda tornare sui suoi passi e ridiscutere scelte che, come si è visto innanzi e come molti contributi hanno evidenziato, hanno dato cattiva prova di sé. Sembra, infatti, potersi cogliere il timore del legislatore che negli ormai vent’anni di vigenza del Codice – in cui non sono certo mancate le sollecitazioni nel senso di una liberalizzazione anche a fronte delle oggettive difficoltà degli operatori (sia amministratori sia utenti) chiamati ad applicare le norme in questione – ha rinunciato a rivedere in modo complessivo l’impianto normativo della fonte primaria consegnando a fonti di incerta natura giuridica la scelta di tracciare il confine tra ciò che è oneroso e ciò che non lo è, lasciando l’impressione che non vi sia chiarezza neppure a livello legislativo circa le attività che si vogliono assoggettare a previo controllo e a canone.

In una nuova riflessione sul tema, parrebbe opportuno tenere in considerazione alcuni punti.

L’art. 108, unitamente al precedente art. 107, stabilisce una normativa specifica relativa ai soli beni culturali che “Il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali (...) abbiano in consegna”, introducendo una ulteriore differenziazione nello statuto dei beni pubblici aventi tale natura; una scelta generale che è stata da qualche parte contestata ma che, invero, non stupisce poiché, ancorché la disciplina sia tendenzialmente unitaria e prescinda, almeno idealmente, dal regime dominicale, non è l’unica norma che diversifica il trattamento dei beni culturali pubblici da quelli privati, e neppure la disciplina di una certa categoria di beni pubblici rispetto agli altri [38]. Ciò che piuttosto colpisce è che le previsioni su cui si va riflettendo sembrino porsi per taluni aspetti in controtendenza con lo statuto generale dei beni (culturali) pubblici, fisiologicamente destinato alla più ampia soddisfazione dell’interesse pubblico alla promozione della cultura [39].

Non è tanto (rectius, non solo) la previsione di un regime concessorio o di un canone il punto della questione; ciò che ingenera incertezza e che, quindi, costituisce un ostacolo alla valorizzazione culturale (prima che economica) dei beni culturali pubblici è piuttosto la confusione, legislativa prima di tutto, sui margini di applicazione di tali previsioni, sia dal punto di vista terminologico sia anche da quello del non irrilevante disordine sistematico. Va infatti osservato come la stratificazione degli interventi legislativi specialmente sul testo dell’art. 108 abbia finito per creare sovrapposizioni di prospettive e, dunque, di discipline, non solo in relazione all’incerto diaframma tra l’azione lucrativa/commerciale e quella non lucrativa/non commerciale (che ha costituito il fulcro della maggior parte delle riflessioni della letteratura in materia), ma anche in riferimento al fumoso rapporto tra comma 3 e comma 3-bis, di cui si è detto.

Si noti, inoltre, come, dal punto di vista segnatamente sistematico, le norme sulla riproduzione dei beni culturali si collochino nel titolo II, capo I, sezione II del Codice dedicato letteralmente agli “usi dei beni culturali”, all’interno dei quali si ritrovano poi norme intitolate a uso individuale, uso strumentale e precario e riproduzione di beni culturali, che parrebbero tutte (riproduzione compresa) differenti declinazioni del medesimo “uso”, con la conseguenza che la prospettiva in cui la materia pare inquadrata dal legislatore sembrerebbe quella – omogenea – di un uso individuale ed esclusivo/rivale, il evidentemente non è più in linea con la dimensione della riproduzione delle immagini.

Va aggiunto, infine, come l’art. 108, nella sua versione attualmente vigente combini – disordinatamente – aspetti profondamente diversi, ossia l’immateriale funzionale e l’immateriale economico, senza tenere nel debito conto la sostanziale differenza tra di essi; in questo modo paiono acriticamente sovrapposti il problema della tutela del “carattere storico-artistico” e quello del versamento dei canoni e corrispettivi [40]; inoltre proprio la lettura della norma emergente dai decreti ministeriali finisce anche per sovrapporre il problema della qualità della riproduzione (rectius, della modalità della riproduzione) con la quantità delle riproduzioni previste (si pensi solo ai riferimenti ai numeri di tirature previste per i cataloghi d’arte), mescolando tematiche evidentemente disomogenee.

Infine, per quanto riguarda poi l’indicazione del campo di applicazione dell’art. 108, potrebbe essere opportuno riflettere sull’opportunità di attuare un rovesciamento di prospettiva, in cui il legislatore si assuma la responsabilità di indicare nel modo più chiaro possibile cosa debba essere assoggettato a concessione e al relativo canone, lasciando al (residuale) ambito della liberalizzazione e della gratuità ogni altra attività non specificamente rientrante nella definizione di “attività lucrativa”. In effetti, pur nella consapevolezza che tale scelta non eliminerebbe del tutto il problema del “fumoso” confine tra lucratività e non lucratività dell’uso, tuttavia opererebbe in direzione contraria a quella attuale, consentendo di ascrivere ad attività liberalizzate e gratuite tutte quelle per le quali il legislatore non si fosse assunto la responsabilità di considerarle diversamente, con espressa previsione.

Sembra necessaria una revisione anche sistematica della disciplina che non necessariamente disconosca le scelte codicistiche di fondo, ma che tenga in considerazione lo stesso contesto normativo in cui le norme su cui si riflette si collocano, ossia il Titolo II dedicato a fruizione e valorizzazione, che trovano la loro ragione d’essere nella conoscenza del patrimonio culturale e che sono specificamente volte a “preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura” (art. 1, comma 2). In effetti, è inevitabile rilevare come anche la disciplina degli usi e delle riproduzioni dei beni culturali non possa essere eccentrica rispetto a questo fondamentale principio. Peraltro, anche sul piano della valorizzazione di tipo “economico” dei beni culturali, si impone ad ogni scelta dell’amministrazione (ivi comprese, dunque, quelle in materia di riproduzione e la diffusione di immagini del patrimonio culturale) di rapportarsi con tali principi.

Dunque, nel momento in cui si valuta se e in che misura sia opportuno liberalizzare l’uso delle immagini, occorre tenere fermo il primario interesse alla valorizzazione culturale che comporta l’astensione dal porre ostacoli irragionevoli alla fruizione dei beni (che, come ampiamente dimostrato, avviene evidentemente anche attraverso la circolazione delle loro immagini) [41].

Proprio questa pare dunque la chiave: la ragionevolezza e la proporzionalità delle scelte legislative, prima ancora che amministrative, che tuttavia devono essere lette alla luce delle nuove e inedite potenzialità insite nei nuovi strumenti di riproduzione e diffusione delle immagini del patrimonio culturale [42].

 

Note

[*] Cristina Videtta, professore associato di diritto amministrativo presso il dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli studi di Torino, Palazzo Nuovo – Via S. Ottavio 20, 10124 Torino, cristina.videtta@unito.it.

[1] Sull’art. 7-bis, v. G. Severini, Artt. 1 e 2, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, spec. pag. 27 ss.; G. Famiglietti, Art. 7-bis, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) G. Famiglietti, N. Pignatelli, Molfetta, 2018, pag. 53 ss. Sull’art. 7-bis si è recentemente pronunciata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 13 febbraio 2023, n. 5. Sul punto si rinvia ai contributi pubblicati nel n. 1/2023 di questa rivista.

[2] In merito, G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro "sul valore del patrimonio culturale per la società": politically correct vs. tutela dei beni culturali?, in federalismi.it, 2021, 8, pag. 224 ss.; M. Cammelli, La ratifica della convenzione di Faro: un cammino da avviare, in Aedon, 2020, 3, pag. 186 ss.; A. Gualdani, L’Italia ratifica la convenzione di Faro: quale incidenza nel diritto del patrimonio culturale italiano?, in Aedon, 2020, 3, pag. 272 ss.; P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in federalismi.it, 2017, 4, pag. 2 ss.; C. Carmosino, La Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, in Aedon, 2013, 1, pag. 41 ss.

[3] Sul dibattito sorto soprattutto a seguito della legge 4 agosto 2017, n. 124, cfr., per tutti, A. Simonati, Art. 65, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, cit., pag. 652 ss.; G. Avanzini, La circolazione intracomunitaria dei beni culturali privati, tra tutela del patrimonio artistico nazionale e identità culturale europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2018, 3-4, pag. 689 ss.; P. Otranto, Più aperto e più rischioso il mercato internazionale dei beni culturali italiani, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2018, 3-4, pag. 705 ss.

[4] Negli ultimi vent’anni si è assistito ad una rapida crescita dell’attenzione a livello internazionale per il patrimonio culturale. Se nel 1954, la Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale in tempo di guerra (cd. Convenzione dell’Aja) affermava solennemente come “i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell'umanità intera, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale”, oggi è possibile ritrovare sempre più frequentemente l’affermazione del ruolo centrale che la cultura (e con essa il patrimonio culturale) per lo sviluppo socio-economico degli individui e della società intesa in senso globale. Il tema è molto ampio ma pare comunque importante richiamare quanto meno la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Una nuova agenda europea per la cultura, Bruxelles, COM (2018) 267 final.

A livello internazionale, si rilevi, poi, come la stessa Agenda 2030 (Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile) sancisca il valore della cultura per lo sviluppo sostenibile (su questi temi, sia consentito rinviare a C. Videtta, La realizzazione della qualità della vita nelle “città sostenibili”. Il modello della città culturale sostenibile”, in M. Borrello, C. Videtta, Sviluppo sostenibile. Riflessioni sul terzo pilastro, Alessandria, 2023, pag. 63 ss.). Si noti come nella recente Conferenza mondiale UNESCO sulle politiche culturali e sullo sviluppo sostenibile – Mondiacult (Città del Messico, 2022), si sottolinea tra l’altro l'impatto strutturale della trasformazione digitale sulle società, in particolare sul settore culturale, il quale incide sulle industrie culturali e sull'accesso ai beni e ai servizi culturali, aprendo, al contempo, prospettive per ampliare l'accesso alla cultura per tutti, migliorando la conoscenza, la documentazione, la conservazione, la salvaguardia, la promozione e la gestione del patrimonio, stimolando la creatività e l'innovazione; in tale sede, e a conclusione dei lavori, si invita altresì il Segretario generale delle Nazioni Unite ad ancorare saldamente la cultura come un bene pubblico globale e di integrarla come obiettivo specifico a sé stante nell'agenda di sviluppo oltre il 2030, chiedendo, a tal fine, al Direttore Generale dell'UNESCO di avviare un'ampia consultazione che coinvolga gli Stati membri, la società civile, il mondo accademico e il settore privato sull'impatto multidimensionale della cultura nelle nostre società come bene pubblico globale, e di rafforzare il sostegno per l'inclusione della cultura nel summit sul futuro delle Nazioni Unite, previsto per il 2024, facendo eco al mandato di fondazione dell'UNESCO di “costruire la pace nelle menti degli uomini e delle donne” attraverso la giustizia sociale e la dignità umana (i corsivi sono di chi scrive).

[5] In tema, sicuramente significativa la Raccomandazione della Commissione UE del 27 ottobre 2011 sulla digitalizzazione e l’accessibilità in rete dei materiali culturali e sulla conservazione digitale (2011/711/UE). Significativamente, il Commission staff working document evaluation of the Commission Recommendation of 27 October 2011 on the digitisation and online accessibility of cultural material and digital preservation {SWD(2021) 16 final}, afferma: “In an age of rapid technological progress, digital technologies bring unprecedented opportunities to the cultural heritage sector. They provide more effective tools to digitise cultural heritage assets, for diverse purposes such as preservation, conservation, restoration, reproduction, research, education, as well as for a broader, more democratic online access and reuse in key ecosystems such as sustainable tourism and the cultural and creative industries. They provide the public with numerous ways to access, discover, explore and enjoy cultural material while cultural heritage institutions can reach broader audiences, and engage them in innovative ways by offering immersive, creative and accessible content”.

[6] Sul punto, infra, par. 4.

[7] Sul tema, per tutti, M. Cammelli, G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, in Aedon, 2022, 1, pag. 2 ss.

[8] La norma riportata nel testo è frutto della modifica intervenuta ad opera del d.lg. 26 marzo 2008, n. 62. Il testo dell’art. 107, come formulato dal d.lg. 42/2004 nella sua versione iniziale, così disponeva: “2. È di regola vietata la riproduzione di beni culturali che consista nel trarre calchi dagli originali di sculture e di opere a rilievo in genere, di qualunque materiale tali beni siano fatti. Sono ordinariamente consentiti, previa autorizzazione del soprintendente, i calchi da copie degli originali già esistenti. Le modalità per la realizzazione dei calchi sono disciplinate con decreto ministeriale”.

[9] È stato condiviso in dottrina come “La disciplina cennata contiene riferimenti alle concessioni d’uso, ai canoni d’uso, mentre altre volte parla di corrispettivi e autorizzazioni, con una evidente confusione terminologica, che sicuramente non aiuta a sgombrare gli equivoci, anche di ordine ideologico, che regnano in materia” (A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo), in Aedon, 2023, 2, pag. 138 ss.

Si veda, in ogni caso, la ricostruzione operata da G. Sciullo, Il d.m. 161 del 2023: un’analisi giuridica, in Aedon, 2023, 2, pag. 244 ss.: “Anzitutto il riferimento alla (sola) ‘concessione per (...) la riproduzione’ esclude che essa si applichi quando la riproduzione sia attività non sottoposta a concessione, ma ‘libera’, ossia nelle ipotesi di cui all’art. 108, co. 3-bis, n. 1, del Codice (tendenzialmente in tutte le ipotesi di riproduzione senza finalità di lucro da eseguirsi direttamente dall’interessato). In secondo luogo, per la riproduzione senza scopo di lucro ma sottoposta ex art. 108, co. 3 e 3-bis, n. 1, ad atto di consenso (perché richiesta all’amministrazione o perché da eseguirsi dall’interessato con contatto fisico o con esposizione del bene a sorgenti luminose ecc.), la valutazione di compatibilità, nel primo caso (riproduzione richiesta) si risolve nella mera presa d’atto della dichiarazione del richiedente circa un uso senza scopo di lucro ricadente fra quelli previsti dall’art. 108, comma 3, mentre, nel secondo (riproduzione da eseguirsi dall’interessato con “modalità particolari”, cfr. art. 108, comma 3-bis, n. 1), deve intendersi riferita solo alle modalità con cui la riproduzione verrà effettuata. E ciò proprio in base alla precisazione sopra indicata, secondo la quale, ai sensi dell’art. 108, comma 3-bis, n. 1, è libera in linea di principio la riproduzione per finalità di studio ecc. svolta senza scopo di lucro. Infine, nell’ipotesi viceversa di riproduzione a scopo di lucro, la valutazione affidata all’amministrazione non va condotta in termini di compatibilità fra riproduzione di un bene culturale e scopo lucrativo, – compatibilità che il Codice nel richiedere un canone chiaramente ammette in termini generali (arg. art. 108, comma 2) – ma in relazione al modo in cui l’immagine riprodotta del bene culturale verrà utilizzata o ‘piegata’ a fini di lucro. In altre parole, la verifica di compatibilità si risolve nella valutazione del se l’uso della riproduzione secondo le modalità o forme in cui è destinato nel caso specifico a estrinsecarsi è in grado o meno di ledere il significato, il valore storico artistico presente nel bene culturale di cui si chiede la riproduzione”.

[10] Cfr. https://www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=17&codice=17PDL0021780.

[11] Di sicuro interesse sul punto il parere del Consiglio superiore dei beni culturali e del paesaggio (16 maggio 2016), su cui C. Ventimiglia, Art. 108, in Codice, (a cura di) M.A. Sandulli, cit., pag. 998.

[12] Così la Relazione di presentazione del disegno di legge di conversione, cit.

[13] Questo il testo dell’art. 108, comma 3-bis oggi vigente, tenuto conto delle modifiche apportate dalla legge n. 124/2017: “3-bis. Sono in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale:

1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del presente titolo, attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose né, all’interno degli istituti della cultura, né l’uso di stativi o treppiedi;

2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro.”

[14] Sul punto, v. infra par. 3.

[15] Sul punto, v. infra par. 3.

[16] Si consideri che, rispetto al sistema di cui all’art. 115, d.lg. n. 490/1999, il disegno codicistico allarga il campo di applicazione della previsione anche a regioni e altri enti pubblici territoriali.

[17] A proposito del sistema disegnato dall’art. 108 a commento, in dottrina si era sostenuto che “non dovrebbe ritenersi vigente una definizione generale del costo di una ripresa cinematografica o televisiva, di un ripresa fotografica, dell’uso di un cortile, o di un interno con arredi storici, in quanto affidata ad un livello decisionale baricentrico; allo stato, in base alla disciplina novellata, ciascuna amministrazione sembrerebbe assumere una posizione autonoma nella gestione del bene culturale, anche sotto il profilo della valutazione economica dell’utilizzo consentito, dovendosi ritenere che il tariffario [Nda quello del d.m. 8 aprile 1994], d’ora in avanti, abbia un valore pressoché orientativo” (C. Ventimiglia, Art. 108, cit., pag. 995). Sul punto anche F. Paolini, Art. 108, in Codice, (a cura di) G. Famiglietti, N. Pignatelli, cit., 737, che osserva come tale modifica si collochi “in linea con l’affermazione dei principi del decentramento e dell’autonomia istituzionale che ispirano il Codice”.

[18] Sulla natura giuridica del d.m. si veda, per tutti, G. Sciullo, Il d.m. 161 del 2023: un’analisi giuridica, cit.

[19] Sul punto, G. Sciullo, op. ult. cit.

[20] Invero la scelta codicistica non era andata esente da critiche proprio sotto questo profilo. Sul punto S. Aliprandi, Vincoli alla riproduzione dei beni culturali. Oltre la proprietà intellettuale, in Archeologia e calcolatori, 2017, 9, pag. 93 che, scrivendo prima dell’entrata in vigore del d.m. del 2023, rileva la grande incertezza derivante da un sistema in cui “i limiti effettivi sono stabiliti da norme regolamentari adottate in autonomia da ciascuna amministrazione custode dei beni culturali (archivio, museo, biblioteca, soprintendenza, etc.), dunque ciò porta a non poter invocare dei principi omogenei a livello nazionale, ma a doversi di volta in volta rifare a queste norme di secondo livello, che spesso sono anche di difficile reperimento”.

[21] Si veda, in tema, per tutti il volume, Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?, (a cura di) D. Manacorda, M. Modolo, Pisa, 2023.

[22] Così P. Liverani, Riproduzioni dei beni culturali statali: il nuovo Decreto Ministeriale 108/2024, in https://jlis.it/index.php/jlis/article/view/614/533: “È indubbio che il nuovo provvedimento segni un progresso notevole: ora finalmente le pubblicazioni sia scientifiche che divulgative, nonché i quotidiani e i periodici di informazione sono esentati dal pagamento di un canone, fatti salvi ovviamente gli eventuali costi vivi per l’esecuzione delle riprese o per la loro fornitura. Va anche apprezzato il fatto che l’esenzione dal pagamento del canone sia stata estesa ai cataloghi di mostre (entro le 4000 copie di tiratura), che in precedenza erano generalmente compresi tra le iniziative a scopo di lucro. Lo stesso dicasi per il materiale destinato a manifestazioni di valorizzazione del patrimonio culturale con la precisazione secondo cui ‘il biglietto di ingresso non è di per sé sufficiente a caratterizzare una iniziativa di valorizzazione come a fine di lucro, ma va valutato l’insieme delle circostanze in cui si realizza l’iniziativa stessa’. Questa precisazione è un passo avanti molto significativo rispetto all’approccio enormemente più restrittivo delle precedenti linee guida, che consideravano ogni operazione che comportasse un pagamento anche minimo come finalizzata al lucro”.

[23] Sul punto cfr. G. Volpe, Liberalizzare l’uso delle immagini del patrimonio culturale contribuisce alla diffusione della cultura, 29 marzo 2024, https://qoshe.com/huffpost/giuliano-volpe/liberalizzare-l-uso-delle-immagini-del-patrimonio-culturale-contribuisce-alla-diffusione-della-cul/171543791, evidenzia come garantire la gratuità solo alle riviste Anvur avrebbe il sapore della previsione di un “privilegio corporativo concesso all’accademia, rischiando di danneggiare quell’ampio comparto della libera ricerca (soprattutto in ambito umanistico), delle riviste divulgative o quelle promosse da associazioni, fondazioni, varie società”.

[24] Particolare attenzione all’impatto organizzativo delle scelte ministeriali è dedicata da G. Piperata, I beni del patrimonio culturale tra canoni e corrispettivi, in Aedon, 2023, 2, pag. 255 ss., le cui osservazioni paiono senz’altro attuali e condivisibili anche alla luce del nuovo d.m.

[25] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pagg. 25-26. La costruzione gianniniana, di perdurante attualità, rintraccia nei beni culturali tanto il carattere dell’immaterialità e quanto quello della pubblicità, rispettivamente riferite al valore culturale e al fatto che “il bene culturale è pubblico non in quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione” (p. 30 ss.). Spiega l’insigne Autore, che perché “il bene culturale abbia a supporto una cosa, ma non si identifichi nella cosa medesima, bensì, come bene, si aggettivi in quel valore culturale inerente alla cosa: siamo arrivati qui al nucleo effettivo della teorica dei beni culturali; detto in termini concreti il quadro del grande pittore è una cosa, che è supporto insieme di uno o più beni patrimoniali, e di un altro bene che è il bene culturale. Come bene patrimoniale, la cosa (il quadro) è oggetto di diritti di proprietà, e può esserlo di altri diritti (per es. usufrutto, pegno); come bene culturale è oggetto di situazioni soggettive attive del potere pubblico (che alcuni ritengono diritti, ma sono invece potestà)” (p. 24).

Il bene culturale, perciò, “non è bene materiale, ma immateriale: l’essere testimonianza avente valori di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da queste distinta, nel senso che esse sono supporto fisico ma non bene giuridico” (p. 26). È stato evidenziato in dottrina (così L. Casini, "Todo es peregrino y raro...": Massimo Severo Giannini e i beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 3, pag. 994) come l’affermazione secondo la quale “il bene culturale è pubblico non in quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione” rappresenterebbe forse una delle frasi più felici e celebri del saggio di Giannini, di estrema attualità ancora oggi: “Egli riuscì a formularla giocando sulla ‘anfibologia’ del termine appartenenza, particolarmente adatto per i beni culturali. Questi ultimi, infatti, appartengono tutti al patrimonio della Nazione, indipendentemente dal fatto che siano di proprietà pubblica o di proprietà privata”. Secondo il medesimo A., gli studi di Giannini preluderebbero allo sviluppo della disciplina di tutela del patrimonio intangibile (L. Casini, op. ult. cit., pag. 995) ancorché nell’impostazione del Maestro si presupponesse sempre l’esistenza di una “cosa”. Sul punto, cfr. S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini (1975), in Id., L’amministrazione dello Stato. Saggi, Milano, 1976, pag. 153 ss.

A proposito degli studi di M.S. Giannini, osserva G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1, come, secondo la dogmatizzazione classica dei beni immateriali, i beni culturali consistono in una creazione intellettuale (il c.d. corpus mysticum) che si estrinseca in un corpus mechanicum, ove “il corpus mysticum nasce per effetto del giudizio valutativo che acclara la presenza nel corpus mechanicum di una testimonianza di civiltà (...). Però, a differenza di quello che avviene per i beni immateriali, il corpus mechanicum non è la mera esternazione del prodotto intellettuale (come ad es. l'esecuzione radiofonica) avente una sua autonomia, ma coincide con il valore culturale, in un rapporto di simbiosi o di compenetrazione. E comunque difettano i requisiti della riproducibilità e dell'indistruttibilità, che costituiscono caratteristiche tipiche e necessarie del bene immateriale”. Pertanto, nota l’A., il merito della costruzione gianniniana è stato quello di “dar rilievo al quid di ‘immateriale’ insito in ogni bene culturale, a prescindere dal fatto se la res diventi bene proprio per tale quid oppure sia comunque da considerare bene (come è invero è di solito), oltre a far risaltare il principio di fruizione, che farebbe aggio sul diritto di proprietà (di qui la conclusione secondo cui il bene culturale non ha un proprietario in senso proprio, in quanto ‘bene di fruizione’)”.

Di sicuro interesse sul punto, le osservazioni di A. Bartolini, Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. amm., 2019, 2, pag. 227, il quale rileva come la tradizione giuridica abbia sempre cercato di dare prevalenza alla materialità sull'immaterialità come peraltro, per l’A. sarebbe chiaramente dimostrato dalla posizione di Giuseppe Alibrandi e Piergiorgio Ferri, secondo i quali i due aspetti non sarebbero scindibili poiché nel bene culturale “il profilo ideale che è oggetto di protezione si è talmente immedesimato della materia in cui si esprime da restarne definitivamente prigioniero, così che esso si pone come oggetto di protezione giuridica inscindibile dalla cosa che lo racchiude"  (T. Alibrandi, P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano 1985, pag. 26); per l’A., per tale ragione, “alla componente immateriale sono state tarpate le ali, — essendo stata confinata nel substrato materiale e non consentendo all'immateriale di librarsi al di fuori del proprio corpo — e si sono dovuti aspettare vari decenni per vedere un ritorno dell‘immateriale nel dibattito sui beni culturali”.

[26] L’osservazione è di D. Donati, La digitalizzazione del patrimonio culturale. caratteri strutturali e valore dei beni, tra disciplina amministrativa e tutela delle opere d’ingegno, in P.A. Persona e Amministrazione (8.01.2020), cfr. https://journals.uniurb.it/index.php/pea/article/view/2093.

[27] Sull’importanza del tema, è doveroso il richiamo alla Carta per la conservazione del patrimonio digitale, adottata dalla 32esima sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO, 17 ottobre 2003, che ancorché abbracci un patrimonio di dimensione ben più ampia di quello di cui si va riflettendo (“Esso comprende risorse culturali, formative, scientifiche e amministrative, come anche informazioni di natura tecnica, giuridica, medica e di altro genere, create in digitale, o convertite in forma digitale a partire da risorse analogiche già esistenti”), assume tuttavia significativamente come “Il patrimonio digitale è un insieme di risorse insostituibili di conoscenza ed espressione umana” (art. 1) e che “l’accesso a tale patrimonio amplierà le opportunità di creazione, comunicazione e condivisione di conoscenza tra tutti i popoli” (Preambolo). Con specifica attinenza al tema della digitalizzazione del patrimonio culturale, va altresì ricordato che, a livello nazionale, il PNRR, nella III sezione della Missione 1 (“Turismo e Cultura 4.0”), prevede interventi a favore del patrimonio culturale, e la componente n. 1 (“Patrimonio culturale per la prossima generazione”) contempla l’Investimento 1.1, dedicato alla “Strategia digitale e piattaforme per il patrimonio culturale” (M1C3.1 Patrimonio culturale per la prossima generazione).

All’interno di questo, il primo degli interventi è appunto dedicato al sostegno del “patrimonio culturale per la prossima generazione” e prevede investimenti per creare un patrimonio digitale della cultura: si investirà per digitalizzare il patrimonio culturale, favorendo la fruizione di queste informazioni e lo sviluppo di servizi da parte del settore culturale/creativo. In particolare, gli interventi sul patrimonio “fisico” saranno accompagnati da un importante sforzo per la digitalizzazione di quanto custodito in musei, archivi, biblioteche e luoghi della cultura, così da consentire a cittadini e operatori di settore di esplorare nuove forme di fruizione del patrimonio culturale e di avere un più semplice ed efficace rapporto con la pubblica amministrazione.

[28] In tema, significativamente, P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2020, 3, pag. 92 ss.

[29] In tema, G. Sciullo, Le funzioni, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2011, pag. 62.

[30] Il dibattito attuale sta infatti coinvolgendo esperti di differenti discipline, posto, tra l’altro, che uno dei temi maggiormente indagati è quello della natura giuridica delle immagini deli beni culturali e della possibilità di configurare un diritto di proprietà su queste. In merito, per tutti, si veda G. Resta, Chi é proprietario delle Piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, in Politica del diritto, 2009, 4, pag. 567 ss.

[31] Cfr. L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pub., 2022, 3, pag. 660 che, riprendendo J.H. Merryman ricorda come il potere pubblico di autorizzare l’uso delle immagini consente “di assicurare anche una tutela del decoro, nonché (...) di garantire la truth, l’autenticità, delle opere e del valore culturale da esser trasmesso”.

[32] “Art. 28. Misure cautelari e preventive. 1. Il soprintendente può ordinare la sospensione di interventi iniziati contro il disposto degli articoli 20, 21, 25, 26 e 27 ovvero condotti in difformità dall’autorizzazione”.

[33] P. Forte, Il Terzo Valore, in Aedon, 2023, 2, pag. 216 ss., osserva come “Non è solo questione di ‘brivido’ mancante, né solo di ‘aura’ vacillante, pur se queste sono già lacune non da poco della riproduzione. Il fatto è che viene messa da parte una delle caratteristiche che danno struttura ad ogni opera che sia veramente d'arte, e in generale che sia rilevante culturalmente: la sua complessità, sorprendente, singolare, maieutica, affascinante (e, a suo modo, persino distruttiva), che viene conferita per intero quando ne sia evidente l'originalità, e l'autenticità. A maggior ragione con le possibilità offerte oggi dagli apparati digitali, in effetti, la riproduzione è divenuta facilissima, costa pochissimo, non ha bisogno di troppe intermediazioni tecniche impegnative, e può consistere in un numero incontrollato di copie; ma, appunto, di copie si tratta, e per di più oggi molto, molto, molto numerose”.

[34] In tema, G. Morbidelli, Il valore immateriale, cit., “La sponsorizzazione infatti si radica sul valore immateriale del bene, ovvero sul ‘marchio’ distintivo che esso propaga, e che è suscettibile di determinare benefici in punto di immagine per lo sponsor. Infatti, quest'ultimo non si avvale della cosa in quanto tale, ma della sua componente di valore culturale-identitario, di talché la sponsorizzazione di una iniziativa volta ad es. al restauro di un bene culturale, determina effetti positivi in punto di immagine e di reputazione dello stesso sponsor. Non a caso l'art. 120, comma 1° Codice dei beni culturali definisce sponsorizzazione di beni culturali ‘ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato perla progettazione o l'attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l'immagine, l'attività o il prodotto dell'attività del soggetto erogante’. E la promozione a sua volta si deve svolgere in forme compatibili con il carattere artistico o storico, nonché con l'aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilirsi appunto in sede di contratto di sponsorizzazione. Il presupposto è dunque dato sempre da una res (il Colosseo, le Terme di Diocleziano, la Cappella degli Scrovegni, etc.), da cui si trae una proiezione immateriale. Siamo cioè di fronte ad un'immaterialità non intrinseca della res (come nella lettura gianniniana), ma ad una immaterialità estrinseca, cioè quella che la res esprime verso l'esterno”.

[35] Art. 6, comma 2: “La valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze”. La traduzione della norma costituzionale da parte del Codice del 2004, chiarisce prima di tutto la dimensione segnatamente culturale del concetto di valorizzazione rasserenando le preoccupazioni di chi temeva che l’espressione potesse incorporare una dimensione segnatamente economica che sarebbe entrata in collisione con l’art. 9, comma 2, Cost.; inoltre “per rispetto al principio fondamentale costituzionale, il Codice precisa che la valorizzazione si svolge ‘in conformità alla normativa di tutela’ (art. 1, comma 6; v. anche art. 2, comma 4) e che ‘è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze’ (art. 6, comma 2). Insomma, per il Codice la valorizzazione dei beni culturali consiste nel potenziamento delle condizioni per l'accesso e la fruizione al patrimonio culturale. Il che ha l'obiettivo di favorire la crescita culturale generale e corrisponde concettualmente alla ragione della caratterizzazione pubblica che insiste su ogni bene culturale particolarmente importante, anche se di proprietà privata” (così G. Severini, Il patrimonio culturale e il concorso dei privati alla sua valorizzazione, in Riv. giur. ed., 2015, 6, pag. 322 ss.).

Sul punto, altresì, M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, in Aedon, 2018, 3: “la valorizzazione, per la natura dinamica che le è propria, include una varietà di azioni e interventi, che possono conformarsi e adeguarsi alle contingenze del territorio e all'evoluzione dei tempi e, dunque, possono altresì contribuire ad assicurare e sviluppare le potenzialità economiche connesse alla fruizione e ottimizzazione del bene. È in questa prospettiva che si può valutare la possibilità di una valorizzazione economica del bene culturale, che (...) in ogni caso non deve comprimere la finalità intrinseca della stessa funzione di valorizzazione, vale a dire la promozione della cultura. In altri termini, nel processo considerato, occorre trovare quel giusto equilibrio tra la necessità di mettere a frutto le potenzialità economiche di un bene culturale e la comprensibile preoccupazione di chi ritiene che un maggiore accento sulle stesse, ne possa impoverire il messaggio educativo, nella misura in cui lo sfruttamento economico del bene culturale ne acceleri un processo di mercificazione, inadatto a garantirne le finalità proprie, legate, appunto, allo sviluppo culturale prima ancora che economico di un territorio. (...) Emergono, cioè, le due prospettive che nell'evoluzione storica sinteticamente tracciata qualificano ormai la funzione della valorizzazione: vale a dire la promozione della cultura, quale finalità intrinseca e prioritaria della stessa, e l'utilità economica che può derivare dalla fruizione del bene, quale finalità accessoria e indiretta che la valorizzazione del bene culturale può contribuire a generare”.

[36] Così G. Piperata, I beni del patrimonio culturale tra canoni e corrispettivi, cit.

[37] Significativamente P. Forte, Il terzo valore, cit., afferma che, in controluce al d.m. n. 161, “si staglia una questione ben più ampia del mero oggetto del decreto (...) che va riferita alla natura dei beni che con le immagini digitali vengono generati e messi in circolazione”.

[38] Sul punto, L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, cit., pag. 657 ss. il quale rileva come il concetto di fruizione abbia “scolorito, sì, ma non ha ancora cancellato la linea di demarcazione del regime dominicale”.

[39] Quanto affermato nel testo è significativamente dimostrato dallo stesso sistema di individuazione dei beni culturali che prevede rilevanti differenze tra quanto previsto per i beni pubblici e quanto previsto per i beni di appartenenza privata. Ai sensi dell’art. 12, comma 1, infatti, le res contenute nell’art. 10, comma 1 (ossia quelle “immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni), sono oggetto di applicazione della disciplina codicistica “fino a quando non sia stata effettuata la verifica”. A differenza di quanto prescritto per i beni di appartenenza privata (in relazione ai quali l’applicazione delle norme del Codice sorge solo a fronte di espresso provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale adottato ai sensi degli artt. 13 ss.), gli artt. 10, comma 1 e 12, comma 1, sanciscono la tutela in via presuntiva del patrimonio pubblico “fino a prova contraria” (che può provenire appunto solo da una espressa verifica dell’interesse culturale da adottarsi ai sensi dell’art. 12), il che testimonia la fisiologica destinazione di quello ad essere strumento di soddisfazione dell’interesse pubblico della promozione della cultura di cui all’art. 9, comma 1, della Costituzione. In aggiunta, a conferma di quanto detto, i medesimi beni sono ascritti al novero dei beni culturali a fronte di un accertamento di un mero interesse culturale “semplice” – a differenza dei beni privati (in specie di quelli di cui all’art. 10, comma 3, lett. a) per i quali è richiesto un interesse particolarmente importante – ampliandone così significativamente la platea. Su queste tematiche, sia consentito rinviare per approfondimenti anche in letteratura a C. Videtta, La dimensione del patrimonio culturale tra frammentazione delle conoscenze e unità del sapere, in Nuove autonomie, 2023, 1, pag. 199 ss. La stessa Corte dei conti ha affermato come: “Deve, però, rilevarsi che appare in controtendenza l’adozione del recente d.m. 161 dell’11 aprile 2023, con il quale è stato sostanzialmente introdotto un vero e proprio ‘tariffario’ nel campo del riuso e della riproduzione di immagini; così incidendo su temi centrali connessi allo studio ed alla valorizzazione del patrimonio culturale nazionale, nonché ad una più ampia circolazione delle conoscenze” (Deliberazione 20 ottobre 2023, n. 76/2023/G, pag. 156).

[40] La distinzione tra i temi è ben messa in evidenza da A. Bartolini, Quale tutela, cit. Sull’immateriale economico, v. per tutti il volume L‘immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli, A. Bartolini, Torino, 2016. Sulla dimensione economica della valorizzazione del patrimonio culturale, cfr. G. Severini, L'immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3.

[41] Di sicuro interesse su questi temi, anche dal punto di vista dell’impatto economico, M. Ricolfi, Le immagini del patrimonio culturale: illusioni perdute o nuove direzioni di marcia?, in Dir. dell’Informazione e dell’Informatica, 2024, 1, pag. 1 ss.

[42] Così anche D. Donati, La digitalizzazione del patrimonio culturale. caratteri strutturali e valore dei beni, tra disciplina amministrativa e tutela delle opere d’ingegno, cit., pag. 327 ss. Significativamente P. Forte, Il terzo valore, cit., parla di “terzo valore”, a fianco di quello cognitivo e di quello economico, ossia, riprendendo Maurizio Ferraris, un "capitale sintattico, poiché apprendendo e mettendo in circolo immagini, e annotandole in vario modo, generiamo più o meno inconsapevolmente dati preziosissimi, in quanto racchiudono informazioni di comportamento, desiderio, bisogno, gusto, con la grandissima novità che oggi vengono invariabilmente, e tutti, registrati, e possono perciò venir raccolti, aggregati, consentendo non solo una base per una conoscenza della componente reale dell'umanità mai prima possibile, ma soprattutto l'accumulo, appunto, capitalistico, e una ricchezza economica ormai evidente, consistente e crescente (...)”.

 

 

 



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