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I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche - Atti Convegno Assisi (25-27 ottobre 2012)

Il valore immateriale dei beni culturali

di Giuseppe Morbidelli

Sommario: 1. Premessa. - 2. Le molteplici declinazioni delle immaterialità dei beni culturali: la declinazione gianniniana. - 3. La declinazione riveniente dalla disciplina sulle sponsorizzazioni. - 4. La declinazione riveniente dall'utilizzazione attraverso strumenti di riproduzione e mediatici in genere. Sull'introduzione di una riserva di riproduzione di immagine per i beni culturali di eccellenza esposta alla pubblica vista. - 5. La declinazione riveniente dall'art. 19 del Codice della proprietà industriale. - 6. La declinazione incardinata sulla percezione "sublimata" dei beni culturali. - 7. La declinazione dei "veri" beni culturali immateriali. - 8. La molteplicità di fonti atte ad individuare i beni culturali immateriali. - 9. Misure di tutela dei beni culturali immateriali.

The Immaterial Value of Cultural Heritage
The notion of intangible cultural asset, can be seen under various aspects, for instance the one founded on the subject of sponsorships (in which - we might as well say - that the material cultural asset "poses" as a brand), the one issuing from the exploitation through reproduction and media means, the one emerging from article 19 of the Industrial Property Code, that states: "Government, Regional, District and Council Authorities can be registered as brands using graphic elements resulting from cultural, historical, architectural or environmental heritage pertinent to their own territory", or the ones rooted in a perception or a general feeling concerning a town or a region or else in the "idealized display" of such physical subjects. After examining these different features, as well as the one found in the well known dissertation by M.S. Giannini whereby the cultural asset is always an intangible asset outlined by the cultural value that is constantly set by the material asset, and that in any case all of the above concepts can be traced one way or another to the material cultural asset, the assay highlights that the real intangible assets are to be found elsewhere, namely in traditional and handicraft experiences, local dishes, sayings, historical reenactments, fairy tales, folk songs etc. However the current Cultural Heritage Code relates only to material cultural assets even if international agreements on one side and some regional laws on the other, set rules in order to safeguard also the intangible cultural assets. So that the need of careful evaluation by the legislator about this kind of cultural assets arises. Some sort of safeguard based mostly on support measures or organizational steps as well as on acknowledgment schemes is conceivable, whereas it is unthinkable adopting standard measures as the ones taken for the safeguard of cultural assets, like restriction on use and distribution; more so, since they represent popular expression, they are activity-assets constantly and naturally evolving. It is not possible to grant rights to use or royalties since, except for infrequent occasions, there is no individual holder of rights over the assets.

Keywords: Intangible Cultural Asset; Sponsorships; Safeguard; Rights to Use.

1. Premessa

Il Convegno di Assisi sui beni culturali immateriali merita particolare attenzione perché affronta per la prima volta e in maniera organica, cioè non tramite meri accenni o spunti o considerazioni introduttive, il tema dei beni culturali immateriali e con esso del valore immateriale insito nei beni culturali immateriali. Nel contempo ha offerto l'occasione per ripercorrere il pensiero di quel grande Maestro che è stato Massimo Severo Giannini che tra l'altro, proprio qui in Umbria, ebbe a dettare le sue memorabili e preziosissime "lezioni" sempre fondamentali per il metodo del dialogo tra prassi, diritto positivo, principi generali, percorsi storici pregressi, nozioni di altre scienze, dialogo che del resto costituisce il tessuto del suo saggio del 1976 sui beni culturali [1], saggio che infatti - e non potrebbe essere diversamente - conferma e attraversa le riflessioni del Convegno.

Come risulta dai vari contributi e dal dibattito sotteso, si tratta di un tema da un lato attuale e sentito e dall'altro oltremodo controverso. Ciò dipende da più ragioni, che a guardar bene muovono dal fatto che dell'immaterialità dei beni culturali si hanno plurime declinazioni.

2. Le molteplici declinazioni delle immaterialità dei beni culturali: la declinazione gianniniana

C'è infatti, in primis, la declinazione proveniente proprio dalla lezione gianniniana: partendo dal presupposto che il bene culturale è testimonianza avente valore di civiltà, secondo la nota definizione della Commissione Franceschini, Giannini rilevava come l'essere testimonianza costituisca un valore immateriale, inerente sì ad un entità materiale, ma da questa distinta. Giannini non disconosceva la presenza della res, ma aggiungeva che questa di per sé può essere priva di valore commerciale e dunque non idonea a costituire bene patrimoniale. Per contro è l'immanenza culturale intrinseca ad es. in un rudere (la cui presenza anzi può determinare una deminutio del valore patrimoniale del fondo in cui insiste) che la rende bene culturale. In realtà questa tesi tende ad evidenziare che il bene culturale è il prodotto di un valore immateriale (ad es. la tecnica etrusca di costruzione di tombe quale si ricava da reperti archeologici) che sovrasta e domina la res, la quale può invece essere di valore insignificante. In altre parole la res v'è sempre, ma non sempre la res costituisce ex se un bene. Invero il primato della componente culturale è particolarmente evidente con riguardo ai beni c.d. identitari (o di testimonianza identitaria) o per quelli di riferimento con la storia politica, militare di letteratura, dell'arte e della cultura in genere, quelli cioè il cui valore culturale dipende dal fatto che è stato ad es. sede di un rilevante fatto storico o dell'abitazione di un artista, cioè in quanto memoria di fatti o situazioni culturali rilevanti (v. art. 10, comma 3, lett. d), d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) [2], ma non per questo è del tutto carente il substrato rappresentato del bene patrimoniale. Anzi, sovente avviene che la "notifica" del vincolo ne aumenti il valore di mercato, perché costituisce un riconoscimento dell'importanza del bene. Ma in ogni caso, anche a ritenere che in determinati casi il valore della cosa sia insignificante (il che può avvenire più frequentemente per i beni mobili), resta sempre il fatto che v'è una res la quale diventa culturale in virtù del valore di testimonianza identitaria insito in essa, o per le sue caratteristiche (di documento, di opera di un insigne artista, di esempio di una antica tradizione artigianale, etc.) che esprimono un interesse storico o artistico o etnoantropologico etc.

Del resto, secondo la dogmatizzazione classica dei beni immateriali, essi consistono in una creazione intellettuale (il c.d. corpus mysticum) che si estrinseca in un corpus mechanicum. E qui appunto - se mi è consentito ripercorrere il pensiero del Maestro - il corpus mysticum nasce per effetto del giudizio valutativo che acclara la presenza nel corpus mechanicum di una testimonianza di civiltà (e non il "pregio", terminologia della prassi che Giannini contesta, ed infatti la legge parla di "interesse"). Però, a differenza di quello che avviene per i beni immateriali, il corpus mechanicum non è la mera esternazione del prodotto intellettuale (come ad es. l'esecuzione radiofonica) avente una sua autonomia, ma coincide con il valore culturale, in un rapporto di simbiosi o di compenetrazione [3]. E comunque difettano i requisiti della riproducibilità e dell'indistruttibilità, che costituiscono caratteristiche tipiche e necessarie del bene immateriale [4].

La tesi di Giannini ha avuto comunque il merito di dar rilievo al quid di "immateriale" insito in ogni bene culturale, a prescindere dal fatto se la res diventi bene proprio per tale quid oppure sia comunque da considerare bene (come è invero è di solito), oltre a far risaltare il principio di fruizione, che farebbe aggio sul diritto di proprietà (di qui la conclusione secondo cui il bene culturale non ha un proprietario in senso proprio, in quanto "bene di fruizione").

3. La declinazione riveniente dalla disciplina sulle sponsorizzazioni

Una seconda declinazione della "immaterialità" emerge dalla normativa di cui al Codice dei beni culturali (v. art. 120) e da talune disposizioni del Codice dei contratti pubblici sulle sponsorizzazioni (artt. 26 e 199-bis) [5], e ancor prima dalla prassi che si fondava sulle capacità di diritto privato degli enti pubblici.

La sponsorizzazione infatti si radica sul valore immateriale del bene, ovvero sul "marchio" distintivo che esso propaga, e che è suscettibile di determinare benefici in punto di immagine per lo sponsor. Infatti quest'ultimo non si avvale della cosa in quanto tale, ma della sua componente di valore culturale-identitario, di talché la sponsorizzazione di una iniziativa volta ad es. al restauro di un bene culturale, determina effetti positivi in punto di immagine e di reputazione dello stesso sponsor.

Non a caso l'art. 120, comma 1° Codice dei beni culturali definisce sponsorizzazione di beni culturali "ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l'attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l'immagine, l'attività o il prodotto dell'attività del soggetto erogante". E la promozione a sua volta si deve svolgere in forme compatibili con il carattere artistico o storico, nonché con l'aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilirsi appunto in sede di contratto di sponsorizzazione [6]. Il presupposto è dunque dato sempre da una res (il Colosseo, le Terme di Diocleziano, la Cappella degli Scrovegni, etc.), da cui si trae una proiezione immateriale. Siamo cioè di fronte ad un'immaterialità non intrinseca della res (come nella lettura gianniniana), ma ad una immaterialità estrinseca, cioè quella che la res esprime verso l'esterno.

4. La declinazione riveniente dalla utilizzazione attraverso strumenti di riproduzione e mediatici in genere. Sull'introduzione di una riserva di riproduzione di immagine per i beni culturali di eccellenza esposta alla pubblica vista

Una terza declinazione è rappresentata dalla utilizzazione del bene culturale tramite riproduzioni, compresa quella via web o in genere via strumento mediatico.

Si tratta di una "strada alla cultura" sempre più diffusa: è stato infatti osservato "che siamo nel tempo dell'arte a portata del telecomando e di mouse" [7]. Una volta messo in sito il bene culturale acquisisce il carattere dell'immaterialità e della virtualità (c.d. dematerializzazione della res tangibile) [8]. E' dunque un'ulteriore ipotesi di immaterialità estrinseca. La relativa riproduzione è tutelata sia dalla legge sui diritti di autore per le opere che rientrano nel campo di applicazione di tale disciplina sia da disposizioni del Codice dei beni culturali che riguardano i beni "in consegna" allo Stato, alle Regioni e agli Enti pubblici territoriali (v. artt. 107, 108 e 109). Da tener presente che l'utilizzazione a scopo economico dell'immagine di un bene che non sia sottratto alla pubblica vista richiede l'autorizzazione preventiva del suo titolare. Questa regola vale in via generale: cui si aggiunge, riguardo ai beni culturali, pubblici la espressa disciplina dettata dai menzionati artt. 107-109 del Codice dei beni culturali (se poi questo "diritto di autorizzazione" costituisca una facoltà insita nel diritto di proprietà o una specifica situazione soggettiva non rileva in questa sede) [9].

Diverso è il regime per i beni liberamente visibili al pubblico. Anche se in senso diverso si sono pronunciate talune sentenze della Corte di Cassazione francese [10], dando una lettura estensiva delle facoltà insite nel diritto di proprietà (si è affermato appunto che lo sfruttamento di un bene sotto forma di fotografia arreca una lesione al diritto di godimento del proprietario), la tesi prevalente è nel senso che l'immagine dei beni mobili o immobili liberamente visibili non è soggetta ad alcuna restrizione in punto di riproduzione e sfruttamento da parte dei terzi, salva la presenza di ragioni di tutela derivanti dal diritto alla riservatezza, dall'identità personale o dai diritti di proprietà intellettuale che eventualmente insistano sul bene (diritto d'autore sulle opere architettoniche, della scultura, disegni e modelli, etc.). Si ritiene, infatti, che il potere legittimo e diretto sul bene, di regola, non si spinge fino a proibirne la visione e la divulgazione [11]. La stessa Cour de Cassation ha mutato indirizzo, ritenendo che il proprietario non dispone di un diritto esclusivo sull'immagine del suo bene potendo solo opporvisi ove ciò gli provochi una turbativa oltre il normale, ad es. ledendo l'interesse alla riservatezza.

Sicché v'è un diritto "civico" alla "riproduzione" di beni non sottratti alla pubblica vista. Si tratta della c.d. libertà "di panorama", come è stato ribadito anche dal Ministro per i beni e le attività culturali in sede di risposta ad interrogazione scritta [12] C'è però da domandarsi se questa tesi, che trova altresì fondamento nel principio di fruizione e di accessibilità [13], vale quando le pubblicazioni o comunque le riproduzioni di beni esposti alla pubblica vista non sono finalizzate a scopi artistici, didattici ed informativi, bensì a finalità commerciali. In tali occasioni, il bene "comune" viene ad essere privatizzato e "piegato" (talvolta poi con scarsa eleganza) a finalità sicuramente cedevoli rispetto a quella dell'uso più appropriato dei beni culturali pubblici o privati che siano. Quando poi si tratta di beni pubblici, vale anche il principio ricavabile anche dagli artt. 42 e 97 Cost., per cui il patrimonio pubblico deve essere impiegato a finalità di pubblico interesse e secondo il criterio di economicità (v. anche art. 1, l. 7 agosto 1990, n. 241), talché si può ritenere che l'impiego a reddito del bene pubblico culturale abbia una copertura costituzionale da bilanciare con il diritto alla fruizione, tanto più se è una fruizione per finalità commerciali.

Del resto in Francia stanno emergendo indicazioni dottrinarie in tal senso, basate appunto sul principio di pieno e confacente uso del demanio pubblico [14], né erano mancate severe critiche alla giurisprudenza più recente che ha depotenziato la tutela del diritto d'immagine sui beni [15]. E anche da noi c'è chi ha messo in luce che se da un lato la stessa esposizione del bene alla vista della collettività è incompatibile "con la pretesa di riservarne a sé soltanto il godimento visivo", dall'altro lo stesso non può dirsi "allorché la cosa venga più specificamente utilizzata in un messaggio pubblicitario, dovendosi all'uopo distinguere fra l'ipotesi in cui la cosa appare in un contesto paesaggistico e di ambientazione, e l'ipotesi in cui il bene è invece utilizzato in funzione promozionale e caratterizzante del messaggio pubblicitario": perché in tal caso siamo di fronte ad una fruizione non tipica [16], cioè non la "fruizione di cui dispone un gruppo di disaggregato e informale di persone fisiche, indeterminate e indeterminabili come universo", secondo la definizione gianniniana [17].

Si consideri infatti che una legislazione che introduca una riserva a favore degli enti pubblici proprietari dell'uso commerciale dell'immagine da un lato non ne impedisce la fruizione "generale", la quale invero è improntata non a finalità commerciali, ma di formazione, apprendimento, studio, ricerca. E se è vero che la pubblicazione di immagini di opere d'arte ha anche l'effetto di favorire ed accrescere in Italia ed all'estero la conoscenza del nostro patrimonio culturale, da un lato tale argomento prova troppo, perché allora lo stesso dovrebbe valere per tutte le opere collocate nei musei, la cui riserva di immagine invece non è contestata, e dall'altro tale effetto positivo lo si ottiene soprattutto attraverso la divulgazione non a scopi commerciali fatta tramite canali istituzionali o pubblicazioni scientifiche. E' chiaro che la riserva non potrà essere estesa a tutti i beni culturali degli enti pubblici visibili dall'esterno, anche per la difficoltà di individuare tale doppia natura (e pubblica e culturale), ma a quelli di maggiore rilievo (e consumo) e previe adeguate forme di pubblicità di tale regime. Detto regime di esclusiva potrebbe essere applicato anche ai beni culturali di proprietà di soggetti privati, sempre a solo quelli di eccellenza culturale. Le relative entrate potrebbero essere destinate alla manutenzione e al restauro di tali beni; e ove si tratti di beni privati, potrebbero integrare se non surrogare i contributi di cui agli artt. 35 ss. del Codice dei beni culturali. Si avrebbero così due ulteriori effetti positivi: da un lato agevolare la manutenzione e la conservazione, senza di che tra l'altro la stessa divulgazione sarebbe frustrante, e dall'altro la promozione e lo sviluppo dell'indotto economico che ruota attorno ai beni culturali cioè quelli di maggiore richiamo che poi sono quelli da sottoporre a riserva di riproduzione (cui poi si aggiunge l'ulteriore indotto rappresentato dalla qualificata attività di restauro dei beni culturali che consegue nel contempo lo scopo, anche culturale, di salvaguardia della sottesa tradizione artigianale).

Ancora una volta utili riferimenti provengono dall'ordinamento francese, dove sono stati approvati regolamenti finalizzati alla valorizzazione del patrimonio immateriale dello Stato, tra cui è compresa l'ipotesi di utilizzare la immagine di beni pubblici, sottoponendo la loro riproduzione a scopi imprenditoriali al pagamento di canoni commisurati ai benefici attesi dall'utilizzazione [18]. La stessa attenta e raffinata dottrina che contesta tale misura di privativa [19], basandosi sul principio di fruizione, nonché sulla natura eccezionale dei monopoli, riconosce che in fondo è un problema di diritto positivo. Del resto, proprio la fruizione potrebbe essere migliorata proprio per effetto delle royalties che consentono una manutenzione più accurata (e una gestione più adeguata e estesa anche temporalmente) e nel contempo ciò è in linea con il principio di massima valorizzazione, che deve investire anche la componente immateriale [20]. Quanto alla tesi che si fonda sulla massima fruizione dei commons, proprio essa impone che i beni pubblici suscettibili di arrecare profitto ai privati debbono nel contempo assicurare utilità anche ai proprietari dei beni stessi: in realtà, quando si tratta di beni pubblici, non si tratterebbe di introdurre una riserva, ma di regolare una forma di uso "eccezionale". I beni esposti alla pubblica vista rimangono infatti sempre beni comuni e liberamente fruibili e dunque non perdono quella che viene definita la "vocazione comunitaria": la quale è appunto cedevole solo nei riguardi della loro dematerializzazione a fini commerciali. Del resto suggerimenti in tal senso provengono dalle "note di riflessione" emesse durante i lavori della Commissione "beni pubblici", presieduta da S. Rodotà, istituita dal Ministro della Giustizia [21].

Naturalmente non vanno disconosciute le difficoltà anche pratiche della gestione di tale royalties, sia per l'individuazione dei beni "riservati" (o, meglio ad uso controllato), sia per la determinazione dei canoni, delle relative eccezioni, delle procedure da seguire, dei controlli. Ma il coacervo di difficoltà non si ritiene sufficiente per lasciare tutto come è, viste anche le condizioni di degrado del patrimonio culturale pubblico e privato, anche più qualificato.

5. La declinazione riveniente dall'art. 19 del Codice della proprietà industriale

Una quarta declinazione è quella ricavabile dal Codice della proprietà industriale approvato con d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30. L'art. 19, comma 3 di tale testo normativo stabilisce infatti che "le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possono ottenere registrazioni di marchio, anche aventi ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del relativo territorio". Qui siamo di fronte ad un vero e proprio bene immateriale (non culturale però, ma semmai rappresentativo di un bene culturale) che è dato infatti da un marchio registrato, che a sua volta può (non deve) trarre spunto dal patrimonio culturale etc. del territorio di riferimento dell'"ente registrante". Ciò che si tutela però è il segno grafico, e dunque una cosa diversa dal bene culturale che semmai ne costituisce la fonte ispiratrice.

6. La declinazione incardinata sulla percezione "sublimata" dei beni culturali

Una quinta declinazione, quale emerge dalla relazione di M. Dugato [22], è quella del bene immateriale come dato di comune sentire o di percezione che nasce da una rete di beni culturali immateriali, identificabili in una città, in un territorio, in un borgo antico o meglio nella "espressione sublimata" di tali entità fisiche. Ma pure in questa accezione v'è un necessario substrato di beni materiali, senza contare che in tale visione che potremmo definire "impressionistica" si intersecano beni culturali e beni che non sono culturali, nonché ricordi, sensazioni, percezioni visive, tratte dal proprio vissuto o della propria memorizzazione filtrata e/o coniugata con la letteratura o altre espressioni artistiche evocative di tali luoghi di "sublimazione": sicché si tratta di un quid composito quanto soggettivo che non si presta ad essere ricondotto ad una categoria giuridica e tantomeno ad una regolamentazione.

7. La declinazione dei "veri" beni culturali immateriali

Da quanto sopra si ricava che, allo stato della nostra legislazione, i beni culturali sono beni materiali [23], come del resto stabiliscono testualmente gli artt. 2, comma 2° e 10, comma 1, d.lgs. 42/2004 22 gennaio 2004, n. 42, e come ebbe a precisare la Corte costituzionale, osservando che "la cultura non assume un rilievo autonomo, separato e distinto dai beni di interesse storico, artistico, archeologico ed etnografico, ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, conseguentemente, non può essere protetta separatamente dal bene" [24].

E' vero che vi sono due convenzioni UNESCO adottate a Parigi il 17 ottobre 2003 e il 20 ottobre 2005, ratificata con l. 27 settembre 2007, n. 167 aventi ad oggetto la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e con esso ogni forma di espressione culturale. Fatto sta però che l'art. 7-bis del Codice dei beni culturali, introdotto con l'art. 2, lett. c), d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62, che tra l'altro qualifica (anche nel titolo) i beni culturali come "Espressioni di identità culturale collettiva", stabilisce che "le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'art. 10", in tal modo ribadendo la necessità di una res, e dunque confermando ancora una volta la materialità del bene culturale (del resto anche l'abrogazione disposta dall'art. 184 del Codice dei beni culturali dell'art. 148 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, il quale poteva dare spazio ad una lettura del bene culturale non astretta alla immaterialità, costituisce conferma del rapporto simbiotico tra bene culturale e res).

Le "declinazioni" che abbiamo elencato sono se mai esempio di una contiguità con i beni immateriali: la stessa nozione di "valore culturale" insita di necessità nel bene secondo la prospettazione gianniniana evoca l'immaterialità, come pure v'è la immaterialità estrinseca o di proiezione, che si presta tra l'altro a forme sempre più sofisticate e in rilevante espansione e diffusione. Ma i beni immateriali sono un'altra cosa. Sono tali fiabe e giochi, canti popolari e feste patronali, cibi e costumi atavici: hanno cioè ad oggetto attività o meglio testimonianze di antiche e sentite pratiche, dalla festa del patrono al proverbio, dalla rievocazione di antichi palii alla preparazione di un cibo, dalla sagra alla processione religiosa [25].

Per fare degli esempi, valga rammentare che, a seguito della menzionata Convenzione UNESCO, nella lista rappresentativa di beni immateriali culturali dell'umanità sono stati inseriti il canto a tenore dei pastori del Centro della Barbagia, il teatro delle marionette siciliane Opera dei Pupi e la dieta mediterranea [26]. Ciò pone in primis il problema di individuare tali beni attesa la evanescenza e comunque la "precarietà" di molti dei beni immateriali (rectius attività) sovra elencate, e in fondo la evanescenza della stessa nozione di cultura, dovuta proprio all'eccesso di significati che le vengono attribuiti [27], una volta appurato che di essa si dà una nozione antropologica come dimostrano anche le fonti europee [28]. Da qui, tra l'altro, l'esigenza di stabilire dei criteri e dei limiti per evitare di dar corso ad una sorta di panculturalismo [29], insito nella nozione estesa di cultura [30].

E ci si chiede non solo con quali criteri individuare ciò che vada ascritto ad una categoria così vasta ed eterogenea, sì che ogni esperienza umana, che è ripetuta nel tempo e comunque abbia acquisito valore in una determinata comunità può essere considerato cultura [31], ma anche quali possono essere gli strumenti per tutelare i beni culturali immateriali: è evidente infatti che non possono certo essere impiegati gli strumenti tipici del Codice dei beni culturali, basati sul divieto di apportare modifiche, sul controllo sulla circolazione dei beni culturali e in genere su istituti che hanno come salda presupposizione una res (si pensi ad es. alla custodia coattiva, al comodato, al deposito, all'accesso, all'uso etc.).

8. La molteplicità di fonti atte ad individuare i beni culturali immateriali

Il fatto è che i beni culturali immateriali non possono essere esaminati e letti secondo l'ottica tradizionale, e tantomeno secondo l'ottica incentrata sulle cose. E se è vero che il Codice dei beni culturali non protegge né ha ad oggetto i beni culturali immateriali, non è vero di rimando che i beni culturali immateriali non esistono, né che non possono essere individuati strumenti specifici di tutela [32]. Che vi siano beni culturali immateriali non solo emerge dalla Convenzione UNESCO già ricordata, ma è stato messo in luce da gran tempo dalla dottrina [33] e dalla giurisprudenza (valga ricordare la sentenza del Tribunale di Milano relativa al Palio di Siena, di cui più avanti. Come pure tale presenza è sottesa in talune proposizioni legislative (v. art. 49. d.lgs. 24 luglio 1977, n. 616 e art. 153 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112) [34].

Non solo: la relativa individuazione e tutela non è rimessa in via esclusiva al legislatore statale. Come ha osservato recentemente la Corte costituzionale se pur con riferimento ai beni materiali (ma lo stesso ragionamento vale anche per i beni immateriali) "la circostanza, infatti, che una specifica cosa non venga 'classificata' dallo Stato come di 'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico' e dunque non venga considerata come 'bene culturale', non equivale ad escludere che essa possa, invece, presentare, sia pure residualmente, un qualche interesse 'culturale' per una determinata comunità territoriale: restando questo interesse ancorato, in ipotesi, a un patrimonio identitario inalienabile, di idealità e di esperienze e perfino di simboli, di quella singola e specifica comunità" [35]. D'altra parte ciò è la conferma del fatto che la nozione tradizionale di bene culturale (materiale e protetta dal codice) sta andando in crisi, anche a fronte del proliferare di definizioni di bene culturale in ambito internazionale [36].

La realtà è che la stessa variegatezza di forme di beni culturali immateriali, la loro contiguità con le comunità territoriali, le continue modifiche ovvero acquisizioni o scoperte, fanno sì che tali beni (non a caso definiti da taluni beni culturali di tipo "leggero" o comunque distinti dai beni culturali "in senso proprio" [37] e per i quali solamente opera la riserva di legge statale ex art. 117, comma 2, lett. s), Cost.) si prestano soprattutto (se pur non esclusivamente) ad avere una disciplina o un riconoscimento a livello locale, che appunto ne rileva il radicamento tradizionale (che, nella nozione estensiva o comunque antropologica di cultura, viene assimilato a espressione culturale).

V'è infatti - e lo ha messo in luce ancora la Corte costituzionale - una nozione aperta di bene culturale la quale non è astretta ai beni culturali ai sensi del Codice dei beni culturali, ai quali afferiscono le funzioni di tutela e valorizzazione come descritte e desumibili dagli artt. 148, 149 e 152 del d.lgs. 112/98, in quanto vi sono altri beni cui pure possa essere riconosciuto particolare valore storico o culturale da parte della comunità regionale o locale, senza che ciò comporti la loro qualificazione come beni culturali ai sensi del d.lgs. 490/99 (oggi abrogato) e la conseguente speciale conformazione del loro regime giuridico.

Dunque, la qualifica di locale storico che discende dall'inserimento in suddetti elenchi non genera (sempre secondo la Corte costituzionale) "alcuno dei vincoli tipici della speciale tutela dei beni culturali di cui al d.lgs. 490/1999", bensì solamente l'accesso ai citati finanziamenti regionali [38]. Ed infatti non mancano leggi regionali che hanno istituito "elenchi di beni immateriali": v. ad es. l. reg. Lomb. 23 ottobre 2008, n. 27, che ha appunto istituito il registro delle eredità immateriali lombarde, e che a sua volta contiene quattro aree di beni immateriali e cioè il "Libro dei Saperi", il "Libro delle Celebrazioni", il "Libro delle Espressioni", ed infine il "Libro dei Tesori umani viventi" [39].

A tale riconoscimento (con leggi o regolamenti o anche meri provvedimenti) si collegano di solito forme di finanziamento ovvero misure di stabilità organizzativa (se si tratta di manifestazioni) oppure di "memorizzazione" (attraverso cataloghi, raccolte, inventari, etc.). Si tratta del resto di tutte quelle forme di salvaguardia e di promozione che si compendiano in "interventi di sostegno alle attività culturali mediante ausili finanziari, la predisposizione di strutture o la loro gestione", "organizzazione di iniziative dirette ad accrescere la conoscenza delle attività culturali ed a favorirne la migliore diffusione" "sviluppo delle nuove espressioni culturali ed artistiche e di quelle meno note, anche in relazione all'impiego di tecnologie in evoluzione" (si tratta di espressioni contenute nell'oggi abrogato art. 153, comma 3°, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112).

Vale aggiungere che l'attività di raccolta e catalogazione di tali beni e anche di delineazione del loro contenuto (es. canonizzando espressamente i riti della rievocazione di un torneo cavalleresco o i versi e la musica di una nenia popolare) non è riservata agli enti pubblici, essendo sovente svolta da istituti culturali o anche da privati. Basti pensare, a quest'ultimo proposito, alle "fiabe" italiane raccolte da Calvino o anche alle fiabe dei fratelli Grimm, considerate espressione del Volksgeist tedesco o ai decaloghi delle "buone maniere" a partire dal notissimo testo di Monsignor Giovanni Della Casa in poi o alle tante raccolte di proverbi o di espressioni dei vari vernacoli locali. Oppure possono essere il risultato di attività che hanno altri fini: così le raccolte di usi curate delle Camere di Commercio costituiscono la canonizzazione di tradizioni mercantili o marittime o agricole o forestali inveterate, in cui talvolta è ravvisabile una testimonianza di civiltà: ad es. le distanze degli alberi stabilite dagli usi locali (cui rinviano in via sussidiaria gli artt. 892 e 893 c.c.) possono essere testimonianza di una cultura delle piantagioni, che tra l'altro contribuiscono a delineare la forma del paesaggio.

Il fatto è che la diffusione, la molteplicità, la variegatezza dei beni culturali immateriali, fa sì che l'individuazione e le connesse misure di valorizzazione sono di competenza "naturale" della comunità in cui germinano e di cui costituiscono elementi valoriali ed identitari. Di conseguenza, non sono riservate al legislatore statale, essendo anzi più consono al loro essere e al loro divenire il germinare nell'humus dei vari territori.

9. Misure di tutela dei beni culturali immateriali

Quanto alla tutela, che è la compagna necessaria di ogni bene culturale, materiale e immateriale che sia, è evidente che le "res incorporales" quali fiabe, piatti tipici, canti popolari, non possono che essere dotati di misure di sostegno, finanziarie e organizzative, nonché di forme di "riconoscimento" finalizzate appunto alla definizione delle caratteristiche originali di tali beni immateriali (una sorta di edizione critica, si potrebbe dire) e dunque alla comunicazione per i posteri della loro memoria (tanto più che la l. 19 febbraio 2007, n. 19, di ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, fatta a Parigi il 20 ottobre 2005, si prefigge tra l'altro di proteggere quelle espressioni culturali che sono esposte ad un rischio di estinzione).

Tali misure costituiscono di per sé anzi, sono la "dichiarazione" della loro natura culturale (diversa rispetto a quella dei beni culturali di cui al Codice e di cui all'art. 117, comma 2, lett. s), Cost., non fosse altro perché priva di effetti giuridici "conformativi"). Mentre sono improponibili misure "classiche" di tutela dei beni culturali quali divieti di modifiche o limiti alla circolazione, che del resto presupporrebbero una disciplina di esclusiva fonte statale.

D'altra parte, essendo espressione del popolo, si tratta di attività in continua quanto naturale evoluzione così come la lingua (o il diritto secondo la scuola storica): ciò in linea con l'idea di cultura (o di culture al plurale) come processo di incessante trasformazione per effetto dell'azione degli individui. Né è ipotizzabile l'assegnazione di diritti di utilizzazione economica o di esclusiva, non essendovi dei soggetti titolari dei beni stessi se non in casi rarissimi [40]. Se ne deduce che, una volta definiti i contenuti di tali "attività" (anche ad opera di privati sempre che dotati di idonea reputazione), avviene l'effetto che (a far riferimento ai beni culturali immateriali UNESCO) il ristorante che osserva nel suo menù il "disciplinare" della dieta mediterranea o l'impresario che si attiene nei personaggi, nei costumi e nella trama ai tratti tipici del teatro dei Pupi potrà veicolarli a fini pubblicitari (così come facevano i fornitori della Real Casa) o potrà ricevere finanziamenti o provvidenze o anche priorità (ad es. nell'assegnazione di spazi pubblici per la rappresentazione dei Pupi).

Quanto invece ai riti, ai festival, alle manifestazioni storiche, del pari si potrà dare luogo a misure di catalogazione e di edizione critica, con effetti sul piano della reputazione e del mercato: difatti il "riconoscimento" culturale di una rappresentazione è suscettibile di incrementare l'affluenza del pubblico e le sponsorizzazioni (una sorta di denominazione di origine controllata). Inoltre le manifestazioni "riconosciute" potranno avvalersi - e con maggiore efficacia, stante l'ufficialità acquisita di contenuti, simboli, riti, etc. - degli strumenti di protezione dell'immagine. E', infatti, ormai ius receptum che tutto il contesto espressivo delle manifestazioni, rappresentato ad es. da bandiere, stemmi, colori, costumi, ritualità oltre che dal nome stesso, è tutelabile in quanto espressione della personalità del soggetto che le organizza [41].

Particolarmente significativa è la sentenza del Tribunale di Milano 9 novembre 1992 [42], relativa al Palio di Siena, la quale da un lato ha affermato che, "il Palio di Siena è pubblico evento risalente al XIII secolo dunque appartenente al patrimonio storico, culturale e folcloristico della nazione senza che chicchessia possa vantare diritti esclusivi di sorta su di esso" e dall'altro che la tutela dell'identità personale è da riferirsi anche alle persone giuridiche in quanto essa è necessaria a "preservare la propria identità personale, nel senso di immagine sociale, cioè di coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali ecc.) rilevanti nella rappresentazione che di essa viene fatta nella vita di relazione, nonché, correlativamente, ad insorgere contro comportamenti altrui che menomino tale immagine pur senza offendere l'onore e la reputazione, ovvero ledere il nome o l'immagine fisica": con la conseguenza che è stata ritenuta illecita la utilizzazione di una scena del Palio a fini commerciali [43].

Resta però il fatto che i beni culturali immateriali costituiscono aree oltremodo volatili, sicché anche la loro riconduzione all'interno della categoria, ora di grande auge [44], dei beni comuni, non giunge a farli assurgere ad unitarietà di regime e neppure di individuazione. Si può solo dire che nei loro confronti sono configurabili misure di riconoscimento, di protezione e di autenticazione e soprattutto forme di traditio della memoria e dei valori che tali attività inverano e con esse di promozione della conoscenza [45], attraverso fonti (in senso lato) di vari livelli, che vanno dalla legislazione statale a quella regionale, da deliberazioni di enti locali a deliberazioni di istituti di cultura, da consuetudini a prassi canonizzate in documenti di soggetti pubblici e privati, la cui rilevanza sotto il profilo giuridico si esaurisce sul piano delle provvidenze e al più della assegnazione di un "titolo" da spendere sul mercato [46].

In sintesi, i beni culturali immateriali si prestano a forme di promozione e valorizzazione e dunque anche di tutela, ma non di controllo inteso come divieto di modifiche, che tra l'altro sarebbe in conflitto con le libertà di espressione che v'è dietro, e con la naturale quanto inesauribile mutazione che può investire le variegate forme di cultura immateriale.

 

Note

[1] I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 3 ss.

[2] Per la differenza tra beni culturali "di riferimento storico" (o di interesse storico indiretto, secondo la definizione dovuta a M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse artistico o storico, Padova, 1953, pag. 111) e beni di testimonianza identitaria v. G. Morbidelli, Commento all'art. 10, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2011, pag. 27 ss.

[3] V. in tal senso F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, pag. 51.

[4] V. per tutti M. Are, Beni immateriali, in Enc. dir., V, Milano, 1959, pag. 251 ss.

[5] Sulle disposizioni del Codice dei Contratti in punto di sponsorizzazioni v. ora F. Merusi, Commento agli art. 26, 27 e F. Polticchia, Commento all'art. 199-bis in Codice dei contratti pubblici, (a cura di) G..F. Ferrari - G. Morbidelli, Milano, 2013, mentre sulle sponsorizzazioni culturali P. Barbera, Commento all'art. 120, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., pag. 905 ss., nonché P. Ungari, La sponsorizzazione dei beni culturali, in questa Rivista.

[6] Sul punto le riflessioni di S. Fantini, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, in questa Rivista.

[7] Cfr. quanto scrive V. Trione, C'era una volta il museo. Oggi arriva tutto a casa, in Corriere della Sera, suppl. "Lettura", 18 agosto 2013.

[8] Così A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, in questa Rivista.

[9] Comunque sul punto la accurata analisi ricca di richiami comparatistici di G. Resta, Le fotografie delle catacombe e la proprietà intellettuale, in Dir. informaz. e informatica, 2012, pag. 843, nonché sul tema più in generale v. lo stesso G. Resta, L'immagine dei beni in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, (a cura di) G. Resta, Torino, 2011, pag. 550 ss.

[10] Sul punto v. le indicazioni di G. Resta, Le fotografie delle catacombe, cit., ID., Chi è il proprietario delle Piramidi? L'immagine dei beni tra property e commons, in Pol. Dir., 2009, spec. pag. 588 ss.

[11] Così A. De Vita, Art. 10 c.c., in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, Libro primo: persone e famiglia, (a cura di) A. Pizzorusso - R. Romboli - U. Breccia - A. De Vita, Bologna-Roma, 1988, pag. 535.

[12] Atti Camera 19 febbraio 2008 risposta scritta ad interrogazione di F. Grillini, 1 ottobre 2007.

[13] V. in tal senso G. Resta, Chi è il proprietario delle Piramidi? cit.

[14] M. Cornu, L'image des biens publics, in Association Henri Capitant¸ L'image, Paris, 2005, pagg. 88-92.

[15] V. la dottrina ricordata da G. Resta, Chi è il proprietario delle Piramidi?, cit., pag. 591, nota 80.

[16] M. Fusi, Sulla riproduzione non autorizzata di cose altrui nella pubblicità, in Riv. dir. industriale, 2006, pag. 98.

[17] M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pag. 31.

[18] V. sul punto quanto riferisce, con ampie indicazioni G. Resta, Chi è il proprietario delle Piramidi?, cit., pag. 598 e nota 102. Tale Autore ricorda anche l'esempio dell'Egitto, dove si discute intorno all'introduzione di una forma di copyright statale sulla riproduzione delle Piramidi ed altri beni culturali di particolare valore storico-artistico.

[19] G. Resta, op. ult. cit., lo stesso Autore, peraltro, nel saggio dal titolo L'immagine dei beni in Cassazione, ovvero: l'insostenibile leggerezza della logica proprietaria", in Danno e responsabilità, 2010, pag. 481, rileva "l'assenza di una stratificata elaborazione dottrinaria dello sfruttamento dell'immagine dei beni nel nostro ordinamento".

[20] V. lo stesso titolo del saggio di S. Fantini, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, cit.

[21] V. ad es. la nota di U. Mattei, che con riguardo al bene comune pur "sganciato dall'idea di titolarità dello Stato (o di enti pubblici) ed informato alla funzione pubblica al servizio di tutti", né ritiene ammissibile "lo sfruttamento nel pubblico interesse da parte del loro gestore (es.: immagini cinematografiche)".

[22] M. Dugato, Strumenti giuridici per la valorizzazione dei beni culturali immateriali, in questa Rivista.

[23] V. sul punto G. Severini, Immaterialità di beni culturali?, in questa Rivista; v. altresì, dello stesso Autore, Commento agli artt. 1 e 2, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., spec. pag. 26 ss.

[24] Corte cost., 9 marzo 1990, n. 118 in Giur. cost., 1990, pag. 660, con nota di F. Riganò, Tutela dei valori culturali e vincoli di destinazione d'uso dei beni materiali. Sulla stessa linea è la giurisprudenza amministrativa, la quale ha più volte escluso la tutelabilità in base alla legislazione sui beni culturali della destinazione "storica" che caratterizza determinati immobili, quali ad es. antichi caffè, farmacie, librerie, in quanto tale tutela riguarda l'immobile di per se, a meno che i valori storici non siano incorporati nelle strutture immobiliari, di talché la tutela di quest'ultimi si traduce in tutela dei valori immateriali ivi incardinati: indicazioni di giurisprudenza in G. Severini, Commento agli artt. 1 e 2, cit., pagg. 24-25.

[25] L'art. 2 § 2 della citata Convenzione, per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale elenca come esempi di patrimonio culturale immateriale "a) tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; b) le arti dello spettacolo; c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all'universo", e) l'artigianato tradizionale".

[26] Sulla disciplina UNESCO, che distingue tra liste concernenti il patrimonio culturale dell'umanità, predisposte da un Comitato intergovernativo, e liste nazionali riguardanti il patrimonio culturale immateriale che necessita di essere urgentemente salvaguardato, da predisporre ad opera degli Stati, v. A. Bartolini, Beni culturali, in Enc. dir. Annali, VI, Milano, 2013, pagg. 110-111. Tale iscrizione comporta l'obbligo di salvaguardia da parte degli Stati: a tale proposito art. 2 § 3 della convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale specifica che "per 'salvaguardia' s'intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l'identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un'educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale".

[27] Come ha rilevato da ultimo R. Calasso, L'impronta dell'editore, Milano, 2013, pag. 45.

[28] V. ad es. Corte di giustizia, 8 marzo 2001, Gourmet International, causa C-405/98, in Racc. 2001, pag. I-1975, che riconosce un legame tra tradizione, cultura e prodotti, nonché le conclusioni dell'Avv. J. Kokott nella causa UTECA, C-222/07, del 4 settembre 2008 (leggibile sul sito http://curia.europea.eu) "la nozione di cultura è oltremodo estesa in una società aperta e pluralista. [...] Sembra praticamente impossibile fissare criteri oggettivi e soprattutto equi per definire la cultura, e tantomeno per stabilire cosa si detta intendere per "prodotti culturali" meritevoli di promozione. In ogni tentativo in tal senso è innato il pericolo di restare imprigionati in paradigmi classici e di trascurare soprattutto la dinamica delle nuove correnti culturali, nonché l'attività culturale delle minoranze sociali". V. comunque sul punto le ampie indicazioni di D. Ferri, La Costituzione culturale dell'Unione europea, Padova, 2008, spec. pag. 31 ss.

[29] Così G. Severini, Commento agli artt. 1 e 2, cit., pag. 24 e Autori ivi citati.

[30] V. appunto quanto osserva M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Padova, 1991, pag. 71 e ivi il richiamo alla caustica affermazione di N. Abbagnano, Cultura, in Dizionario di filosofia, Torino, 1961, pag. 201, secondo cui in tale accezione "un rozzo modo di cucinare un cibo è un prodotto culturale non meno di una suonata di Beethoven".

[31] A tal fine è appena il caso di ricordare la notissima definizione elaborata da E.B. Tylor, in Primitive Culture del 1871, Primitive Culture: Researches in the Development of Mithology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, London, 1871, secondo cui "la cultura è quell'insieme complesso che include la coerenza, le credenza, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società".

[32] V. in proposito i rilievi di S. Cassese, Il futuro della disciplina dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2012, pag. 781 ss.

[33] Per primo S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in L'Amministrazione dello Stato, Milano, 1976, pag. 177 ss.: "la ricostruzione dei beni culturali è tutta svolta con l'occhio alle cose che siano beni culturali: al fondo della concezione, c'è sempre una 'cosa' oggetto di un diritto patrimoniale", e questo preconcetto lascia in ombra quei beni culturali i quali "consistono di elementi materiali o immateriali indifferenti per il diritto interprivato, di diritti di libertà, di mere attività".

[34] V. sul punto diffusamente M. Ainis - M. Fiorillo, L'ordinamento della cultura, Milano, 2003, pag. 106 ss.

[35] Corte cost., 17 luglio 2013, n. 194.

[36] V. S. Cassese, Il futuro della disciplina dei beni culturali, in Giorn. dir. amm. 2012, pag. 781.

[37] C. Vitale, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in La globalizzazione dei beni culturali, (a cura di) L. Casini, Bologna, 2010, pag. 176.

[38] Corte cost. 28 marzo 2003, n. 94.

[39] Ma v. anche il decreto assessorile Reg. Sicilia 26 luglio 2005, n. 77 che ha istituito il Registro delle eredità immateriali della Sicilia.

[40] Invero non è da escludere in radice che possono essere individuate forme di protezione più intensa, di limiti alla loro modificabilità, di riserve di uso: ma ciò richiede di necessità la presenza di soggetti che abbiano la titolarità di tali beni e di conseguenza la relativa responsabilità perché solo in tal caso può trovare ingresso il sistema di controlli e di sanzioni secondo la nomenclatura del codice dei beni culturali o altre analoghe. E' evidente però che la titolarità appare ipotizzabile pressoché esclusivamente con riguardo alle manifestazioni di rievocazione storica essendo del tutto improponibile individuare titolari di diritti e dunque responsabili di eventuali alterazioni con riguardo a favole, proverbi, sagre tradizionali, sapori artigianali, tradizioni orali, etc.

[41] V. sul punto, M. Comporti, Sfruttamento abusivo dell'immagine altrui e dei segni distintivi delle persone giuridiche, in AIDA, VI, 1997, pag. 540 ss.

[42] In Giur. it. 1993, II, pag. 747, nella specie si verteva circa l'uso a fini pubblicitari della figura dell'alfiere della Contrada della Chiocciola vestito con il maglione "Rodrigo" oggetto della pubblicità.

[43] Da rilevare che è stata riconosciuta legittimazione attiva sia alla Contrada, in quanto qualificata ente dotato di peculiare "autonomia" per immemorabile (per taluni anzi sarebbe una persona giuridica pubblica: M. Cantucci, La natura giuridica della "contrada", ora in Scritti giuridici, 1982, pag. 452 ss.) sia al "Consorzio per la tutela del Palio" avente la finalità di vigilanza e protezione delle tradizione storica della manifestazione e dei suoi simboli, mentre è stata esclusa la legittimazione del Comune di Siena, in quanto delegato solo alla soprintendenza ed alla direzione dei Palii, dunque a mere funzioni organizzative e/o di polizia che non attribuiscono alcun tipo di titolarietà in ordine al fenomeno su cui esse si esplicano.

[44] Specie dopo Corte cass., sez. un., 16 febbraio 2001, n. 3813, in Riv. giur. amb., 2011, pag. 636 relativa alle valli da pesca della laguna veneta.

[45] Come mette in luce S. Fantini, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, cit.

[46] E, infatti, M. Ainis - M. Fiorillo, I beni culturali, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da S. Cassese, in Dir. amm. spec. Milano, 2003, II, pag. 1053; ID., L'ordinamento della cultura, cit., pag. 108, riprendendo una osservazione di S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, cit., pag. 181 rilevano come di fronte a tali forme di cultura non sia possibile ricorrere ai classici strumenti di tutela, ma se mai a strumenti di organizzazione e di predisposizione di servizi.

 

 

 



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