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I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso

Colpa d’Alfredo [*]

di Antonio Bartolini [**]

Alfredo’s fault
The article analyzes the lights and shadows of a recent and important ruling by the Italian State Council regarding the protection of intangible cultural heritage.

Keywords: Intangible Cultural Heritage; Cultural Heritage; Minimum Content of Property; Relationship between Corpus Mysticum and Corpus Mechanicum.

1. La pronuncia in esame è assolutamente importante, è un leading case, un grand arrêt, che condizionerà, nel bene o nel male, il dibattito giuridico sui beni culturali del prossimo futuro.

Le questioni sul tappetto sono numerose e toccano tutte le tematiche centrali, di sistema, del diritto dei beni culturali: il concetto di bene culturale, nei suoi profili materiali e immateriali, il rapporto con le figure emergenti del patrimonio e dell’eredità culturale, e di conseguenza le relazioni che si pongono con il diritto internazionale, con particolare riguardo alle Convenzioni Unesco e a quella di Faro, l’ambito della nozione di tutela, l’estensione del potere di conformazione della proprietà culturale e delle iniziative economiche connesse. Apre, inoltre interrogativi che riguardano ambiti sedimentati come quello delle garanzie da apprestare al contenuto minimo della proprietà, alla radicata distinzione tra poteri di conformazione e quelli ablatori, alle questioni che si potrebbero aprire in seno alla Cedu.

Gli spazi limitati concessi al presente intervento, impongono una scelta di campo, per cui le riflessioni che si offriranno in questa sede atterranno soprattutto alla dimensione dell’immateriale dei beni culturali. Sotto questo profilo la sentenza Ad. Plen. n. 5 del 2023 presenta luci e ombre.

2. Vediamo le luci.

È indubbia l’importanza della sentenza in esame, poiché apre uno squarcio definitivo nella concezione materiale del bene culturale e consente di affrontare in termini novativi la questione dell’immateriale. Soprattutto contribuisce a riconfigurare il rapporto tra il materiale e l’immateriale dei beni culturali, tra il loro corpus mysticum e il corpus mechanicum.

La distinzione tra le due entità del bene culturale, cioè il suo ambito materiale e quello ideale, affonda nella filosofia aristotelica, dove l’opus è configurato come il risultato della tecné.

Al contempo l’origine del sintagma corpus mysticum è fatta risalire a San Paolo per spiegare la concezione della Chiesa, per poi essere usato, nel medio evo, dai cultori del diritto canonico, per spiegare il rapporto tra Chiesa e i suoi fedeli, e per il loro tramite nel diritto pubblico per far nascere la “persona ficta”, cioè la soggettività giuridica immateriale [1].

Spetta, però, a Immanuel Kant proporre la distinzione tra “opere” e “azioni” (che oggi corrisponderebbe alla differenza tra “materiale” e “immateriale”), con particolare riguardo alla proprietà intellettuale delle opere letterarie e ai diritti connessi [2]. Fu proprio il grande filosofo ad aver inaugurato quella visione, ancora oggi potente, per cui le opere d’arte, al contrario di quelle letterarie, sono entità materiali (cioè opere e non azioni) che possono essere liberamente copiabili [3].

Non so se più o meno consapevolmente, ma l’ipse dixit kantiano ha notevolmente condizionato l’attuale dibattito, giuridico e no, che vede nelle opere d’arte un’entità materiale, in cui l’immateriale è completamente soffocato, e che si dichiara favorevole alla libertà di circolazione e gratuità dell’uso dell’immagine.

Ci volle la riflessione di Walter Benjamin per far fare un salto di qualità alla questione: di fronte alle nuove tecnologie con cui si manifestò all’inizio del secolo scorso l’arte e, in primis, il cinema o le nuove correnti come il dadaismo, il filosofo tedesco si chiese quale fosse lo “hinc et nunc” di un’opera d’arte.

La sua risposta fu “l’aura”, cioè quel valore immateriale irripetibile e non riproducibile derivante dalla forza dell’originale dell’opera e da quelle sensazioni che solo l’autentico originale può dare allo spettatore: l’“hinc et nunc” sarebbe, dunque, dato dalla sua unicità, dalla sua esistenza irripetibile, dalla sua autenticità [4].

La preminenza dell’elemento immateriale su quello materiale ha probabilmente influenzato gli studi giuridici che si sono occupati dell’argomento, a principiare dal saggio fondamentale di M.S. Giannini sul bene culturale.

Come noto Giannini mise in luce come la vera essenza del bene culturale sia costituita propria dalla sua componente immateriale, o per meglio dire l’inerenza del bene a un valore immateriale; infatti, il bene culturale “non è bene materiale, ma immateriale: l’essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da queste distinte” [5].

Invero le potenzialità espresse dalla teoria gianniniana dell’immateriale furono compresse dalla cultura materialista imperante e che bene possono essere espresse dal pensiero manifestato sul tema da Tommaso Alibrandi e PierGiorgio Ferri: "nell’opera d’arte come in ogni altra cosa in cui si riconosce un valore culturale che giustifica la soggezione della cosa alla speciale ragione di tutela, il profilo ideale che è oggetto di protezione si è talmente immedesimato della materia in cui si esprime da restarne definitivamente prigioniero, così che esso si pone come oggetto di protezione giuridica inscindibile dalla cosa che lo racchiude" [6].

E così l’immateriale venne “esiliato” [7].

Solo nell’ultimo ventennio si assiste a una rinascita del tema dell’immateriale dei beni culturali, grazie soprattutto alla spinta della disciplina UNESCO che con la Convenzione sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (del 2003), ha esteso il campo di attenzione anche ai beni intangibili, quali pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze, saperi e saper fare (associati anche a oggetti, strumenti, manufatti, spazi culturali a loro collegati) che comunità, gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale [8].

Sulla scia di questa novità sorse l’esigenza di introdurre una disciplina ad hoc (invero pensata per arginare il fenomeno dell’immaterialità) nel Codice dei beni culturali e del paesaggio: venne partorito, così, nel 2008 l’art. 7-bis sulle “Espressioni di identità culturale collettiva”, oggetto della prenuncia ora in esame.

Il dibattito sull’immateriale dei beni culturali uscì così dall’esilio e ha dato luogo ad un rinnovato e importante dibattito sull’immaterialità del patrimonio culturale.

Portando anche a una rielaborazione e aggiornamento teorico dell’immaterialità riguardante i “beni culturali materiali”.

In questo ambito va, soprattutto, segnalato il contributo di Giuseppe Severini che nel rivisitare l’hic et nunc del bene culturale in senso stretto (cioè quello sottoposto a tutela dal Codice n. 42 del 2004) ha notato che l’immateriale dei beni culturali presenta due profili distinti: da un lato, l’‘immateriale funzionale’, cioè il valore ideale della res in senso proprio, come tale soggetta alla potestà di conformazione e tutela dei pubblici poteri; dall’altro lato, l’‘immateriale economico’, cioè il “capitale economico immateriale immanente al singolo bene”, evidenziando, per quanto riguarda l’aspetto economico, che l’immateriale del bene culturale contiene “un capitale intellettuale e un capitale cognitivo” che ha capacità di generare reddito [9].

3. La pronuncia in esame si inserisce in quest’evoluzione teorica e concettuale, peraltro, praticamente ignorandola.

Nonostante ciò, la sentenza presenta dal punto di vista teorico sicuramente degli aspetti che meritano apprezzamento e che contribuiscono indubbiamente a fare un ulteriore salto di qualità allo stato dell’arte sull’immateriale.

In particolare, merita attenzione il punto 6.2 della sentenza ove si afferma che esiste un “valore culturale ‘estrinseco’, correlato a fatti della storia e della cultura, ma anche quello ‘intrinseco’, che, immedesimatosi con la cosa stessa, rende necessario tutelare non soltanto il ‘contenente’ ma anche il ‘contenuto’ del bene culturale, materiale o immateriale che esso sia”. Ma anche il punto 3.8 della medesima sentenza si riferisce a un vincolo di tipo ”intrinseco” e a uno di tipo ”relazionale esterno” o ”testimoniale”.

Si tratta di una puntualizzazione estremamente interessante e che mette in evidenza come l’immateriale può essere “intrinseco” o “estrinseco” al bene.

Nell’opera d’arte l’immateriale è sicuramente intrinseco, in quanto il suo valore ideale, la sua aura sorge e si sviluppa con la realizzazione dell’opera: non a caso a Michelangelo Buonarroti è attribuita la nota frase secondo cui “ogni blocco di pietra ha al suo interno una statua ed è compito dello scultore scoprirla” [10].

Ma per i “beni culturali relazionali” e per “le espressioni di identità collettiva” non è così: in questo caso il valore culturale è esterno al bene, ma ad esso inerente e collegato.

Per i “beni culturali relazionali” di cui all’art. 10, comma 3, lett. d), l’immateriale, il valore culturale, non è interno, intrinseco, ma “estrinseco” cioè “rappresentato dal collegamento della cosa con determinati fatti della storia o della cultura” [11].

Lo stesso vale per “le espressioni di identità culturale collettiva” di cui all’art. 7-bis del Codice: in questo caso, infatti, l’hic et nunc del bene, non è l’aura, ma l’elaborazione intangibile, trasmessa in via di prassi o oralmente di un determinato valore culturale. Tant’è che in campo antropologico, a tal fine, si parla di “beni volatili”. Talvolta questi beni possono trovare una loro rappresentazione materiale volta a testimoniarne l’esistenza: il bene volatile viene a materializzarsi in una res, ma volatile rimane; così che il valore culturale, l’immateriale, è estrinseco al bene materiale. Soprattutto, perché, il bene volatile tende continuamente (un po’ come il paesaggio) a mutare ed evolvere il proprio apparato rappresentativo.

4. Fin qui le luci. Passiamo alle ombre.

La sentenza insistentemente evidenzia che tra bene materiale e immateriale vi sia un rapporto di inscindibilità.

Sotto questo profilo va segnalato che secondo l’adunanza plenaria, nel caso delle “espressioni di identità culturale collettiva” “l’articolo 7-bis sottolinea la pregnanza della dimensione immateriale di tali beni, il cui valore culturale non risulta circoscrivibile solo al riferimento alla storia dell’arte e dell’architettura, in quanto essi costituiscono, nel loro insieme, un punto di riferimento identitario per la comunità e un veicolo di costruzione della memoria collettiva, sicché i diversi elementi, materiali e immateriali, che li compongono, traendo forza e sostanza dal legame inscindibile gli uni con gli altri, non possono essere separatamente considerati e tutelati” (punto 5.4 della sentenza).

Tra elemento materiale immateriale esiste un “rapporto bilaterale” in cui i due elementi ”vengono a coesistere in un tutto inscindibile, in cui spazio e tempo attribuiscono nel loro insieme alla res il valore culturale meritevole di tutela” (punti 5.2 e 5.3 della sentenza).

Invero, questa insistenza sul rapporto di ”insicindibilità” tra l’elemento materiale e immateriale, appare, da un lato, un passo indietro di 30 anni e dall’altro come non corrispondente al principio di realtà.

È un passo indietro poiché, intendendo il rapporto tra materiale e immateriale come “inscindibile”, torna al periodo dell’esilio dell’immateriale, in cui il valore immateriale era stato reso come un prigioniero dell’ambito materiale.

Rapporto di inscindibilità ben compendiato dal pensiero, ormai superato e che va storicizzato, di Alibrandi e Ferri e che ancora una volta vale la pena ricordare: “il profilo ideale che è oggetto di protezione si è talmente immedesimato della materia in cui si esprime da restarne definitivamente prigioniero, così che esso si pone come oggetto di protezione giuridica inscindibile dalla cosa che lo racchiude” (la sottolineatura non è testuale).

Invece, come già brevemente riportato nelle pagine precedenti, gli studi successivi hanno dimostrato che non esiste alcun rapporto di inscindibilità, poiché in forza del vincolo coesistono due beni, quello materiale e immateriale, assolutamente scindibili.

Nelle opere d’arte l’immagine è scindibile e replicabile, mentre è l’aura a rimanere vincolata.

Tant’è che la sentenza cade, pure, in contraddizione assumendo che per i beni relazionali e le espressioni di identità culturale collettiva il valore è estrinseco, e come tale fuori dal bene materiale ne rimane.

Nei beni relazionali e nelle espressioni di identità culturale collettiva, il valore storico, costituito da una battaglia, da un episodio storico, etc. o, per le espressioni di identità culturale collettiva, da un sapere antico, da una prassi, rimane sempre al di fuori del bene (valore estrinseco)

La sentenza, come detto, non risponde neanche ad un principio di realtà: difatti, se volgiamo lo sguardo al caso da cui è sorta la pronuncia (vincolo culturale al Ristorante “il vero Alfredo” imperatore delle fettuccine, come espressione di identità culturale collettiva) ci si avvede che il valore immateriale è stato replicato, e quindi scisso, su scala planetaria.

Difatti scorrendo il sito web del Ristorante si viene a scoprire che l’immateriale economico del Ristornate è oggetto di franchising, nonché merchandising, e il “vero Alfredo” è stato scisso, replicato e aperto anche a Città del Messico.

5. In realtà già Giannini, nel suo fondamentale saggio sui beni culturali, approfondendo il rapporto tra materiale e immateriale aveva evidenziato che tra le due entità si pone una relazione di “inerenza”.

È questa la formula verbale che va impiegata per spiegare il rapporto tra res e il suo valore culturale: un rapporto di inerenza, non di inscindibilità.

Ed è questa la valutazione che deve compiere l’autorità di tutela nel decidere se un determinato bene ha un valore culturale oppure no, ovvero che vi sia un’inerenza tra immateriale intrinseco o estrinseco e la res.

L’hic et nunc è dato da questa inerenza, che va valutata e congruamente motivata e che nel caso di immateriale estrinseco, a mio modo di vedere, deve condurre ad una valutazione se esista, oppure no, uno stretto legame di inerenza (questo è il senso da attribuire al termine errato di inscindibilità: stretto, stringente, nesso di inerenza).

Nel senso che senza il vincolo su quel valore estrinseco (che estrinseco e scindibile rimane) la res perderebbe connotazione di senso.

Questo, peraltro, apre altre problematiche che sono trattate negli altri contributi presenti in questo volume dedicati alla pronuncia in esame e che lo spazio concesso non consente di affrontare.

6. In conclusione, per meglio comprendere il significato da attribuire alla pronuncia bisognerebbe riferirsi alla teoria dei due corpi del re (che è al di dentro di quel filone teorico in cui risiede anche la distinzione tra corpus mysticum e mechanicum).

Quando muore il re, il gran ciambellano proclama: “è morto il re, lunga vita al re”. Che richiama alla mente “morto un papa se ne fa un altro”.

Se facciamo mente locale al vero Alfredo potrebbe valere la seguente massima: “morto il vero Alfredo, lunga vita al vero Alfredo” (grazie alle virtù taumaturgiche del merchandising e del franchising).

Che dimostra l’errore in cui è caduta la sentenza, ovvero che l’immateriale vive di sua propria luce e che il corpo mistico è assolutamente scindibile da quello meccanico: Colpa d’Alfredo!

 

Note

[*] Attualità-valutato dalla Direzione.

[**] Antonio Bartolini, professore ordinario di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Perugia, Piazza Università, 1, 06123, Perugia, antonio.bartolini@icloud.com.

[1] Su questi aspetti si v. il fondamentale contributo di E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, Torino, 2012, pag. 192 ss. (trad. it. di The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political Theology, Princeton Univeristy Press,1957).

[2] R. Pozzo, Immanuel Kant, Johann Gottlieb Fichte, Joahann Heinrich Reimarus, L’autore e i suoi diritti. Scritti polemici sulla proprietà intellettuale, in Immanuel Kant, Johann Gottlieb Fichte, Joahann Heinrich Reimarus, L’autore e i suoi diritti. Scritti polemici sulla proprietà intellettuale, (a cura di) R. Pozzo, Milano, 2005.

[3] Il filosofo di Königsberg a tal proposito osservò: “le opere d'arte, come cose, possono essere copiate, sulla base di un loro esemplare che si è legittimamente acquistato, e riprodotte, e le loro copie possono essere fatte pubblicamente oggetto di traffico senza il consenso dell'artefice del loro originale, o di coloro di cui si è servito come tecnici per le sue idee. Un disegno che qualcuno ha tracciato, o ha fatto incidere da un altro nel rame, o realizzare in pietra, metallo o gesso, può essere impresso o colato da chi compra questi prodotti, e così essere reso pubblicamente oggetto di traffico; così come nonha bisogno dell'assenso di un altro tutto quello che qualcuno può fare con una cosa sua, a suo proprio nome. La Dattilioteca di Lippert può essere copiata ed esposta alla vendita da ogni possessore che la capisca, senza che il suo inventore possa lamentare intrusioni nei suoi affari. Una dattilioteca è una collezione di anelli o di gemme anulari. La Dattilioteca di Lippert (Leipzig, 1767) era un'opera a stampa che conteneva le riproduzioni di un gran numero di pietre incise che ciascun suo possessore può alienare, senza mai menzionare il nome dell'artefice, e quindi anche copiare e usare a suo nome come propria in un pubblico traffico ... Dunque, la ragione per la quale tutte le opere d'arte altrui possono essere copiate per il pubblico traffico, ma i libri che hanno già i loro editori autorizzati non possono essere ristampati consiste in questo: le prime sono opere (opera), i secondi azioni (operae)” (I. Kant, Sette scritti politici liberi, pag. 74 s., curato da M.C. Piecvatolo, Firenze University Press, 2011).

[4] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, 2014 (trad. it. di Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936).

[5] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 3 ss.

[6] T. Alibrandi, P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 1985, pag. 26.

[7] Così G. Severini, L‘immateriale economico nei beni culturali, in L‘immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli, A. Bartolini, Torino, 2016, pag. 17.

[8] V. per tutti A. Bartolini, D. Brunelli, G. Caforio (a cura di), I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche (Atti del Convegno di Assisi, 25, 26, 27 ottobre 2012), Napoli, 2014 (ma anche in questa Rivista, 2014, 1).

[9] G. Severini, L‘immateriale economico nei beni culturali, cit., pag. 21 ss.

[10] In realtà si tratta di una frase che si tramanda in via di volgarizzazione, mentre quella originale è contenuta nelle Rime di Michelangelo ed è la seguente “Non ha l'ottimo artista alcun concetto// Ch'un marmo solo in sé non circonscriva//Col suo soverchio; e solo a quello arriva//La man che ubbidisce all'intelletto” (Buonarroti Rime e Lettere. Precedute dalla Vita di Michelangelo Buonarroti per Luigi Venturi, Milano, Istituto Editoriale Italiano, s.d. (1930 circa), pag. 127, Sonetto XV) Devo la segnalazione della rima e della fonte a Cristina Galassi.

[11] G. Sciullo, Patrimonio e beni, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Bologna, 2017, pag. 41.

 

 

 



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