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Canoni e corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni culturali: prime riflessioni sul d.m. 161/2023

Il d.m. 161 del 2023: un'analisi giuridica [*]

di Girolamo Sciullo [**]

Sommario: 1. Generalità. - 2. L’attuazione dell’art. 108, co. 6, del Codice. - 3. Caratteri e natura giuridica del d.m. 161. - 4. Struttura delle linee guida. - 5. Sezione A - Riproduzione di beni culturali. - 6. Sezione B - Uso degli spazi. - 7. Coerenza dell’impianto delle linee guida rispetto al quadro normativo primario. - 8. L’incidenza del decreto sui contratti in essere e il trattamento delle pubblicazioni. - 9. Al di là del d.m. 161.

The d.m. 161 of 2023: a legal analysis
The paper examines the decree that establishes the minimum amounts of fees for the concession of use of cultural assets entrusted to state cultural institutes.

Keywords: guidelines; reproduction of cultural heritage; use of spaces.

1. Generalità

Credo che da qualsiasi punto di osservazione si voglia esprimere un giudizio sul d.m. 11 aprile 2023, n. 161, a firma del titolare del MiC e sulle linee guida ad esso allegate [1] (d’ora in avanti rispettivamente “Decreto” e “Linee guida”) non si possa che partire dalla considerazione del contesto normativo in cui l’atto si colloca. Ciò è particolarmente vero se si intende - ed è questa la scelta da cui muove il presente contributo - valutare il Decreto con le sue linee guida sotto un profilo prettamente giuridico.

Trattandosi di un atto (normativo o amministrativo, cfr. infra par. 3) comunque di carattere “secondario”, non può che assumersi a riferimento principale il dato normativo primario che disciplina la materia che viene in rilievo. Questo è rappresentato dalla sezione II capo I titolo II della Parte seconda del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (d’ora in avanti “Codice”), che in particolare agli artt. 107 e 108 disciplina l’uso strumentale e precario e la riproduzione di beni culturali in consegna dello Stato e degli altri enti territoriali, fissando un altro tassello dello ‘statuto dei beni pubblici’ aventi carattere culturale, ma facendo salva (e quindi senza sovrapporsi o incidere su) la disciplina in materia di diritto d’autore (107, co. 1). Come recita, infatti, l’art. 1, co. 2, del Decreto, le “Linee guida (...) sono adottate ai sensi e agli effetti dell’articolo 108, comma 6 del Codice dei beni culturali e del paesaggio”, mentre l’art. 4, co. 1 rinvia “per quanto non espressamente previsto dal presente decretoalle previsioni della sezione II poco sopra citata.

La considerazione del decreto e delle linee guida in rapporto al contesto normativo va però preceduta da alcuni chiarimenti utili a delinearne ruolo e contorni.

Per l’art. 1, co. 1 quelle adottate dal decreto sono le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione in uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statale”, e identica espressione è utilizzata nelle denominazioni del Decreto e delle Linee guida.

Due le osservazioni al riguardo. L’indicazione del contenuto delle linee guida [2] può spingere in errore, perché induce a pensare che esse consistano nella indicazione di criteri/prescrizioni a valere per la successiva fissazione degli importi minimi dei canoni e delle concessioni. In realtà, come precisa l’art. 1, co. 2, sempre del decreto, le linee guida “definiscono [3] gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi”, questi sì destinati a fungere da parametri di riferimento (vincolanti) per la fissazione, ai sensi dell’art. 3 del decreto, dei canoni e dei corrispettivi (finali) da parte di ciascun istituto e luogo della cultura.

In secondo luogo, l’espressione sopra riportata sembrerebbe inequivocabilmente indicare che gli importi dei canoni e dei corrispettivi fissati dalle linee guida costituiscano una soglia di base, suscettibile di essere solo confermata o aumentata dai singoli organi periferici, proprio perché appunto “minima”. E in tal senso depongono altresì le previsioni dell’art. 2, co. 1, e dell’art. 3, co. 2 e 3, del decreto, come pure la nota esplicativa dell’ufficio legislativo del ministero 14 aprile 2023, n. 9774 [4]. Sennonché le tabelle contenute nelle linee guida, accanto a casi in cui è indicato (per singola voce) un valore unico (appunto da intendersi come ‘minimo’), annoverano ipotesi in cui sono espressi una tariffa e un coefficiente sia “minima/o” sia “massima/o” (v. tabelle 3, 5, 6, 7 e 8). Il che potrebbe indurre a ritenere che in tali ipotesi le Linee guida impongano un valore anche “massimo” alle determinazioni dei singoli istituti e luoghi della cultura. Tale soluzione non parrebbe però persuasiva alla luce delle disposizioni del decreto sopra richiamate, della stessa lettura che ne ha fatto l’Ufficio legislativo, come pure della previsione dell’art. 108, co. 6, del Codice a cui decreto e Linee guida hanno inteso dare attuazione. Si è dell’avviso pertanto che le tariffe e i coefficienti indicati come “massime/i” rappresentino espressioni di mero orientamento, prive di reale valore precettivo.

2. L’attuazione dell’art. 108, co. 6, del Codice

In ordine di importanza, però, il primo tema di carattere giuridico che il decreto solleva investe la corretta attuazione dell’art. 108, co. 6, del Codice, secondo cui che “Gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione dei beni sono fissati con provvedimento dell’amministrazione concedente”.

Nella lettura corrente la disposizione viene correlata con la previsione del comma 1 dello stesso articolo, secondo cui “I canoni di concessione ed i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall'autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto: a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d'uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell'uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente”. Si afferma infatti che gli “importi minimi” sarebbero “poi soggetti, nel caso concreto, a variazione (ossia ad autonoma determinazione” [5] alla luce dei criteri appena ricordati.

In sostanza, il Codice sembrerebbe prevedere un atto generale (art. 108, co. 6), limitato agli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi, e un atto puntuale, in ragione della singola richiesta dell’interessato, ampiamente discrezionale quanto alla considerazione dei criteri elencati dall’art. 108, co. 1.

Il decreto, viceversa, utilizza un meccanismo diverso: le Linee guida definiscono gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi tenendo conto anche dei criteri di cui all’art. 108, co. 1, mentre la definizione dei canoni e dei corrispettivi risulta affidata ad elenchi adottati da ciascun istituto e luogo della cultura che ha la consegna dei beni, con possibilità di introdurre disposizioni integrative e soprattutto importi superiori dei canoni e dei corrispettivi. (art. 3, co. 1 e 2, decreto). Seguirebbe poi la loro applicazione al caso specifico.

In altre parole un’articolazione in tre atti: uno di carattere generale, il decreto ministeriale, (recante importi minimi per canoni e corrispettivi, ma articolati per tipi di spazi e di riproduzione), atti plurimi quanto a contenuto (gli elenchi) affidati agli istituti e luoghi della cultura con possibilità di contenere disposizioni integrative nonché canoni e corrispettivi superiori), infine, un atto puntuale di consenso alla riproduzione e/o all’uso del bene da parte dell’autorità periferica del MiC con applicazione dell’importo fissato nell’elenco di riferimento.

Sennonché è da considerare che la tripartizione delineata dal decreto non è esclusa dalle previsioni del Codice, dal momento che, da un lato, la applicazione dei criteri indicati nell’art. 108, co. 1, ben potrebbe essere operata in atti a monte dei provvedimenti relativi a richieste puntuali di riproduzione e/o uso, e, dall’altro, che l’autorità competente a provvedervi - indicata dall’art. 108, co. 1, in quella “che ha in consegna i beni” - non necessariamente coincide con un’autorità periferica del MiC, per i beni culturali in consegna al ministero essendo indicato dall’art. 106, co. 2, come competente a provvedere in tema di canoni (ed è da pensare anche di corrispettivi) genericamente sempre il “Ministero”. Il che legittima assetti organizzativi differenziati quanto a definizione degli importi per la riproduzione (e il riuso).

Per la valutazione della coerenza fra altri profili del decreto e delle linee guida rispetto al quadro normativo primario di riferimento appare opportuno previamente illustrare i contenuti delle linee guida premettendo alcuni cenni sulla natura giuridica del decreto.

3. Caratteri e natura giuridica del d.m. 161

Come è noto, a fronte di un sempre più imponente ricorso al nomen “linee guida” da parte di atti di autorità sovranazionali e nazionali, la dottrina più avvertita, nel sottolineare la polisemia del termine, nega che esse compongano una categoria dogmatica e afferma che costituiscono una “etichetta di contenitori diversi” [6], oscillanti fra imperativi categorici, indicazione di obiettivi, mere esortazioni, con un’ampia gamma di sfumature. Di qui la necessità di una disamina caso per caso per la definizione del loro inquadramento giuridico.

Pochi dubbi sussistono che quelle previste dal decreto non consistano in suggerimenti, raccomandazioni, oppure indicazioni di obiettivi o di criteri di massima, ma esprimano prescrizioni vincolanti (seppure cedevoli “in aumento”): il fatto di indicare importi “minimi” dei canoni e dei corrispettivi (art. 1, co. 1, e art. 2, co. 1, decreto), la “conformità” ad esse richiesta agli elenchi da adottarsi da parte degli istituti e luoghi della cultura statali (salvo la possibilità di dettare “disposizioni integrative” e di prevedere canoni e corrispettivi “superiori”, art. 3, co. 2, decreto), come pure la necessità che siano “oggetto di adeguamento” le convenzioni e gli accordi eventualmente in essere contenenti canoni o corrispettivi “inferiori” (art. 3, co. 5) sono tutti elementi che depongono inequivocabilmente nel senso appena indicato.

Quanto appena detto vale per la generalità delle previsioni delle linee guida. Come si è sopra rilevato [7], in alcuni casi (quando, cioè, sono indicati tariffe o coefficienti “massime/i”), tali previsioni sono da intendersi solo di mero indirizzo (o non coercitive), la cui compresenza -in termini di principio ammissibile [8] - non è tale però da incidere sulla qualificazione complessiva dell’atto, che resta fondamentalmente vincolante.

Circa i destinatari, se certamente al loro novero sono da ascriversi gli istituti e i luoghi della cultura statali, altrettanto indubbio è che vi rientrino anche soggetti esterni all’amministrazione, ossia gli interessati alla riproduzione o all’uso di beni culturali. Anzi si può affermare che questi soggetti siano i “primi” destinatari, dal momento che in mancanza dell’adozione degli anzidetti elenchi “sono applicabili” (da intendersi come “si applicano”) i canoni e i corrispettivi stabiliti nelle Linee guida.

Altri caratteri sono dati dalla “generalità” (destinatari non individuabili a priori né a posteriori, siano essi “esterni” all’amministrazione, oppure “interni”, essendo fra questi ricompresi anche gli istituti e i luoghi della cultura di futura individuazione), la “astrattezza” (riferimento a classi di riproduzioni e usi) come pure la “ripetibilità” (nel tempo dell’applicazione dei precetti espressi).

Considerato poi che la norma attributiva del potere è individuabile nell’art. 108, co. 6, del Codice, non sembra potersi dubitare della natura essenzialmente normativa (regolamentare) del d.m. 161, o al più - tenendo conto delle previsioni non vincolanti contenute - “mista”, ma a prevalenza normativa [9].

4. Struttura delle linee guida

Il dato che determina la struttura delle linee guida è costituito dall’affermazione (con presumibile riferimento alla disciplina codicistica) che si configurano “due diverse tipologie di concessione”: l’una relativa all’uso degli spazi, l’altra concernente la riproduzione dei beni (Prefazione, p. 4). Si tratta di un punto non sempre chiaramente evidenziato nelle analisi degli artt. 106 ss. del Codice, ma che dà ragione della complessiva struttura delle linee guida. L’essere la riproduzione di beni culturali (come pure il riuso della riproduzione, cfr. sezione A, primo periodo e sezione A.2, primo periodo) oggetto (tendenzialmente [10]) di una concessione comporta che per essa - come nel caso della concessione di spazi - si configuri la possibilità di un “canone” per la riproduzione (e per il riuso), che si aggiunge al “corrispettivo” o rimborso allorché la riproduzione sia dall’interessato richiesta all’Amministrazione (avente in consegna il bene) e da questa effettuata e ceduta. In altre parole, mentre la concessione in uso di spazi comporta (in linea di principio) un “canone”, la concessione di riproduzione (e di riuso) può comportare (sempre in linea di principio) tanto un “canone” quanto un “corrispettivo”) [11].

I due diversi tipi di concessione vengono articolati per “macro-prodotti”. Per la concessione “di riproduzione” (sezione A), essi sono dati dalle modalità/esiti della riproduzione (ad es. fotografia, fotocopia, immagine digitale), per quella “d’uso” (sezione B) sono espressi da un’ipotesi generale di concessione di “spazi” per uso individuale in strutture in consegna al concedente e da due ipotesi specifiche in ragione della finalità perseguite: per “riprese video, cinematografiche e televisive” e “per “servizi fotografici”.

In realtà la suddivisione in macro-prodotti, se costituisce la nervatura della sezione B non rappresenta l’elemento caratterizzante le partizioni della sezione A, ma solo il possibile elemento di base per determinare la “tariffa” delle riproduzioni.

Le Linee guida prevedono anche una sezione C in cui, per particolari ipotesi, si stabiliscono decurtazioni rispetto agli importi determinati ai sensi delle sezioni A e B.

5. Sezione A - Riproduzione di beni culturali

Nello sviluppo delle linee guida a venire in rilievo per prima è la sezione A - Riproduzione dei beni culturali, anche in formato di dati, che si occupa peraltro anche del “riuso delle medesime copie e/0 riproduzioni”.

Come premessa viene ricordato che, per le riproduzioni, la normativa vigente distingue, in ragione della finalità perseguita, fra riproduzioni “a scopo non lucrativo o per finalità non commerciali” e quelle “a scopo lucrativo o per finalità commerciali”. Le prime, vengono definite dalle Linee guida attraverso una sommatoria delle previsioni dei commi 3 e 3-bis dell’art. 108: sono tali le “riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale”. Le, seconde, sono quelle “richieste o eseguite da destinare alla vendita sul mercato o per la promozione della propria immagine, del nome, del marchio, del prodotto o attività”.

Quanto al riuso, è menzionato [12] il generale principio di gratuità per quello dei dati nel settore pubblico, principio temperato dalla possibilità di prevedere il pagamento di una tariffa limitata al recupero dei soli costi marginali (identificabile con quelli sostenuti dalla amministrazione per la riproduzione, fornitura e diffusione dei dati) (art. 7, co. 1 del d.lg. 36/2006, di recepimento della direttiva 2003/98/CE, come modificato dal d.lg. 200/2021 di recepimento della direttiva 2019/1024). Viene altresì fatto presente peraltro che, in base al comma 3, lett. a), dello stesso art. 7, il principio non trova applicazione nel caso di biblioteche, musei e archivi in ragione della onerosità delle attività di produzione e conservazione dei dati del patrimonio culturale, sicché gli istituti culturali pubblici possono richiedere il pagamento di “tariffe superiori ai costi marginali per generare ricavi rispetto all’investimento pubblico richiesto” [13].

Due sono i criteri in base ai quali vengono disegnate le fattispecie di riproduzione/riuso:

a) lo scopo lucrativo/commerciale o meno delle riproduzioni;

b) l’esecuzione delle riproduzioni da parte dell’interessato o da parte dell’amministrazione su richiesta di questo.

Sulla base della loro combinazione le Linee guida disegnano due ipotesi base: A.1 Riproduzioni senza scopo di lucro e A.2 Riproduzioni a scopo di lucro.

Le A.1 Riproduzioni senza scopo di lucro comprendono le:

a) “Riproduzioni in ogni caso libere e gratuite”. Si indicano le riproduzioni menzionate dall’art. 108, al co. 3-bis.

b) “Riproduzioni libere con rimborso spese”. Ad essere indicate sono le riproduzioni “richieste o eseguite” oggetto dell’art. 108, co. 3. Si indica al riguardo che “nessun canone è dovuto”, ma si precisa che “i richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente”. L’importo del rimborso è determinato da una tariffa, indicata nella tabella 2, basata sui macro-prodotti (stampe fotografiche fotocopie ecc.) in precedenza indicati nella tabella 1. Si ha cura di precisare che gli importi sono stati individuati in conformità a quanto previsto dal d.lgs. 200/2021.

Le A.2 Riproduzioni a scopo di lucro comprendono “le riproduzioni di beni culturali e/o il riuso delle relative copie o immagini” quando effettuate a tale scopo per il tramite dei macro-prodotti di cui alla tabella 1. Il corrispettivo cui è tenuto il richiedente si ottiene moltiplicando la tariffa di cui alla tabella 2 (concernente il rimborso per le riproduzioni senza scopo di lucro) per due coefficienti: l’uno (tabella 3), in funzione dell’uso/destinazione della riproduzione (ad es. editoria scientifica, pubblicazioni diverse da quelle scientifiche), l’altro (tabella 4), relativo alla quantità delle riproduzioni da effettuarsi o alla tiratura del mezzo di comunicazione scelto (ad es. quantità per i gadget, tiratura per le pubblicazioni).

Un’ipotesi particolare è data dalla fattispecie A.2.1 Serigrafie digitali destinate al mercato che comprende due sotto-ipotesi: 1) “Copie o serigrafie digitali in altissima definizione” e 2) “Non-Fungible Token (NFT)”. Il corrispettivo richiesto è pari alla tariffa individuata in base al livello di pregio del bene (tabella 5) sommata ad un coefficiente, nel caso 1), per percentuale sul prezzo di vendita (tabella 6), nel caso 2), per numero delle vendite (tabella 7).

6. Sezione B - Uso degli spazi

Quanto alla concessione d’uso individuale di spazi presenti nelle strutture in consegna agli istituti e ai luoghi della cultura statali la sezione B delle linee guida detta i criteri per la determinazione del relativo canone (che si cumula con quello eventuale relativo alle riproduzioni) [14].

I criteri di base sono rappresentati da quelli previsti dalla tabella 8 (tariffa per classi dimensionali) e dalla tabella 9 (coefficiente per classe di pregio), entrambi riferiti allo spazio dato in concessione, Il valore risultante dalla moltiplicazione della tariffa di cui alla tabella 8 per il coefficiente di cui alla tabella 9 andrà a sua volta moltiplicato per i coefficienti stabiliti in ragione del tipo di uso.

Al riguardo vengono in rilievo due tipi di concessione:

- B.1. Concessione di spazi ad uso individuale per:

- finalità istituzionali

- finalità non lucrative o non commerciali

- finalità lucrative o commerciali

Nel primo caso (finalità istituzionali) non è dovuto nessun corrispettivo qualora l’evento rientri pienamente nelle finalità del ministero oppure il ministero sia coinvolto nel progetto tecnico-scientifico dell’evento o partecipi con un suo rappresentante al Comitato scientifico o organizzatore. In mancanza di tali presupposti l’ulteriore coefficiente con cui andrà moltiplicato il valore risultante dalla moltiplicazione della tariffa ex tabella 8 per il coefficiente di cui alla tabella 9 sarà quello della tabella 10 o della tabella 10-bis, secondo che ricorra una finalità non lucrativa o non commerciale oppure una finalità lucrativa o commerciale. Negli altri due casi gli importi dovuti per le concessioni saranno ottenuti moltiplicando la tariffa ex tabella 8 per il coefficiente di cui alla tabella 9 e per quello espresso dalla tabella 10 o dalla tabella 10-bis a seconda che si tratti di finalità non lucrative o non commerciali oppure di finalità lucrative e commerciali.

- B.2 Concessione di spazi ad uso individuale o privato per finalità lucrative o commerciali connesse alla riproduzione. Si tratta della concessione d’uso di spazi per la realizzazione di riprese video, televisive e cinematografiche o di servizi fotografici. Anche in questo caso il valore di base (ossia il prodotto della moltiplicazione della tariffa ex tabella 8 per il coefficiente ex tabella 9) andrà moltiplicato per il coefficiente indicato nella tabella 11 (coefficiente mezzo-scopo e per giorni di ripresa) [15].

Nella sezione C, come già detto, sono indicati decurtazioni o sconti rispetto all’importo del corrispettivo o del canone determinato ai sensi delle sezioni A e B. Merita di essere ricordato il caso (lett. d) dell’uso dello spazio finalizzato alla riproduzione “per scopo esclusivamente privato” (presumibilmente da intendersi come uso individuale senza scopo di lucro). Quando tale uso non comporti nessuna limitazione della fruizione pubblica e sia limitato nel tempo, ai fini del calcolo del canone (per l’uso dello spazio) va esclusa l’applicazione del coefficiente di cui alla tabella 10.

7. Coerenza dell’impianto del decreto e delle linee guida rispetto al quadro normativo primario

Una volta illustrati i contenuti delle linee guida è possibile valutare se essi risultano coerenti con il quadro normativo primario di riferimento. Già si è detto che il decreto dà un’attuazione appropriata all’art. 108, co. 6, del Codice (cfr. supra par. 2). Lo stesso può affermarsi per altri aspetti del decreto e per le linee guida in termini di impianto complessivo. Dalla (tendenziale) configurazione della riproduzione dei beni culturali (e del relativo riuso) come oggetto di concessione (cfr. supra par. 4) e quindi dalla necessità (in linea di principio) che la riproduzione richieda un atto di consenso dell’amministrazione discende la correttezza dell’affermazione secondo la quale tale atto è subordinato alla verifica di compatibilità della destinazione d’uso della riproduzione con il carattere storico-artistico del bene culturale, ai sensi dell’art. 20 del Codice (art. 2, co. 2, decreto).

Il disposto è stato oggetto di contestazione da quanti hanno sollevato rilievi nei confronti del decreto [16], ma questa non appare persuasiva alla luce del Codice. In vero, per l’art. 107, co. 1, il ministero e gli enti territoriali minori “possono consentire la riproduzione” dei beni culturali in consegna, mentre l’art. 109 considera il caso che “la concessione abbia ad oggetto la riproduzione dei beni culturali per fini di raccolta” ecc. [17]. Non pare dubbio, quindi, che secondo il Codice la riproduzione di un bene culturale in consegna al ministero richieda un atto di consenso da parte dello stesso ministero (almeno in termini di principio, fatto salvo cioè quanto previsto dall’art. 108, co 3-bis). Risulta allora del tutto conseguente la previsione dell’art. 2, co. 2, del decreto, che subordina il rilascio dell’atto di consenso alla verifica di compatibilità della destinazione d’uso della riproduzione rispetto al carattere storico artistico del bene culturale interessato, in applicazione del principio di natura generale espresso dall’art. 20 del Codice. Quale altro interesse pubblico dovrebbe o potrebbe, infatti, presiedere alla valutazione rimessa all’autorità del MiC? Detto in altri termini, la disposizione dell’art. 2, co. 2, del decreto non ha una portata innovativa, ma si limita a esplicitare una regola già risultante dal sistema normativo primario.

La previsione dell’art. 2, co. 2, del decreto richiede però di essere precisata nella sua reale portata. Anzitutto il riferimento alla (sola) “concessione per (...) la riproduzione” esclude che essa si applichi quando la riproduzione sia attività non sottoposta a concessione, ma “libera”, ossia nelle ipotesi di cui all’art. 108, co. 3-bis, n. 1, del Codice (tendenzialmente in tutte le ipotesi di riproduzione senza finalità di lucro da eseguirsi direttamente dall’interessato).

In secondo luogo, per la riproduzione senza scopo di lucro ma sottoposta ex art. 108, co. 3 e 3-bis, n. 1, ad atto di consenso (perché richiesta all’amministrazione o perché da eseguirsi dall’interessato con contatto fisico o con esposizione del bene a sorgenti luminose ecc.), la valutazione di compatibilità, nel primo caso (riproduzione richiesta) si risolve nella mera presa d’atto della dichiarazione del richiedente circa un uso senza scopo di lucro ricadente fra quelli previsti dall’art. 108, co. 3, mentre, nel secondo (riproduzione da eseguirsi dall’interessato con “modalità particolari”, cfr. art. 108, co. 3-bis, n. 1), deve intendersi riferita solo alle modalità con cui la riproduzione verrà effettuata. E ciò proprio in base alla precisazione sopra indicata, secondo la quale, ai sensi dell’art. 108, co. 3-bis, n. 1, è libera in linea di principio la riproduzione per finalità di studio ecc. svolta senza scopo di lucro.

Infine, nell’ipotesi viceversa di riproduzione a scopo di lucro, la valutazione affidata all’amministrazione non va condotta in termini di compatibilità fra riproduzione di un bene culturale e scopo lucrativo, - compatibilità che il Codice nel richiedere un canone chiaramente ammette in termini generali (arg. art. 108, co. 2) - ma in relazione al modo in cui l’immagine riprodotta del bene culturale verrà utilizzata o “piegata” a fini di lucro. In altre parole, la verifica di compatibilità si risolve nella valutazione del se l’uso della riproduzione secondo le modalità o forme in cui è destinato nel caso specifico a estrinsecarsi è in grado o meno di ledere il significato, il valore storico artistico presente nel bene culturale di cui si chiede la riproduzione.

Alla luce di tali precisazioni i rilievi mossi alla previsione del decreto, prim’ancora di risultare non persuasivi, sovrastimano la portata effettiva della previsione del decreto.

Altresì in armonia con le indicazioni del Codice è l’utilizzo della distinzione fra riproduzioni a scopo di lucro o meno. Vanno peraltro formulate alcune osservazioni. Le linee guida, presumibilmente al fine di rendere più agevole l’impiego di tale distinzione presente nei commi 3 e 3-bis dell’art. 108 (disposizioni queste che interventi normativi stratificati nel tempo non hanno reso un modello esemplare di disciplina), da un lato hanno considerato di per sé di carattere non lucrativo le ipotesi di utilizzo previste in tali disposizioni, mentre in realtà in esse lo scopo non di lucro rappresenta un dato ulteriore, una condizione ‘esterna’ perché le ipotesi descritte non siano soggette “a canone” (co. 3) o siano “libere” (co. 3-bis). D’altro lato, la scelta di dare una definizione “in positivo” alle “riproduzioni a scopo lucrativo o per finalità commerciali”, invece di farla desumere “in negativo” dalla nozione fornita per quelle a scopo non lucrativo si espone al rischio di generare margini di incertezza (ad es. la riproduzione in una pubblicazione destinata ad una “vendita sul mercato” condotta a prezzo di costo per finalità di sola promozione culturale o comunicazione scientifica può considerarsi come “riproduzione a scopo lucrativo o per finalità commerciali”?). Come che sia, le indicazioni fornite dalle linee guida a titolo esplicativo non hanno trovato un seguito nella disciplina dettata per “A.1 Riproduzioni senza scopo di lucro” a proposito delle quali la tassonomia presente nei commi 3 e 3-bis è integralmente ripresa dalle linee guida.

Relativamente poi alle concessioni d’uso degli spazi le linee guida, dando presumibilmente attuazione a quanto previsto dall’art. 108, co. 1, lett. c) (canone di concessione da determinarsi tenendo conto “del tipo ... di utilizzazione degli spazi”) operano una distinzione in ragione della finalità perseguita. In questo caso la distinzione fra finalità “non lucrative o non commerciali” e finalità “lucrative e commerciali” sembra poggiare sulle diverse finalità specificate nelle tabelle 10 e 10-bis. In assenza di un criterio discretivo espresso dal Codice, un problema di coerenza però fra linee guida e Codice non si pone in radice.

8. L’incidenza del decreto sui contratti in essere e il trattamento delle pubblicazioni

Il fatto che l’impianto delle linee guida rispecchi il dato normativo primario di riferimento non esclude che talune scelte specifiche in esse operate sollevino dubbi sotto il profilo della dell’opportunità o dell’appropriatezza.

Il decreto (opportunamente) si preoccupa (art. 3, co. 5) delle convenzioni e degli accordi stipulati fra gli istituti e luoghi della cultura statali con soggetti terzi, in essere al momento della sua entrata in vigore, e stabilisce che essi, “ove prevedano canoni o corrispettivi inferiori a quelli indicati negli elenchi pubblicati ai sensi del comma [rectius] 3 [ossia adottati da ciascun istituto o, in mancanza, ai canoni/corrispettivi fissati nell’Allegato] dovranno comunque essere oggetto di adeguamento [18]. La formula scelta non appare la più perspicua. Potrebbe intendersi, infatti, come comportante un vincolo per le parti a rinegoziare per adeguare la parte tariffaria dei contratti in essere, dovendosi escludere che essa possa imporre anche l’esito della rinegoziazione. Ma così intesa sarebbe esposta ad una generale irrilevanza stante la prevedibile “ritrosia” delle controparti degli istituti a incrementare importi regolarmente fissati. Per darle ‘effettività’ appare necessario ricondurre la formula alla previsione dell’art. 1339 cod. civ. e ritenerla espressiva della “imperatività” del nuovo tariffario, condizione questa necessaria (e sufficiente) [19] perché si verifichi la “sostituzione”, nelle convenzioni e negli accordi in essere, dei valori originari con quelli risultanti dall’applicazione del decreto (ossia fissati dalle linee guida ed eventualmente incrementati dai singoli istituti) [20].

A proposito, poi, delle riproduzioni senza scopo di lucro viene operata la distinzione fra quelle definite “riproduzioni in ogni caso libere e gratuite” (ex art. 108, co. 3-bis) e “riproduzioni libere con rimborso spese” (ex art. 108, co. 3) (pag. 7). La qualificazione come “libere” nel secondo caso lascia perplessi perché nell’art. 108 le riproduzioni “libere” (nel senso di non richiedere un previo atto di assenso dell’Amministrazione) sono solo quelle di cui al comma 3-bis, mentre quelle di cui all’art. 108, co. 3, non a caso non definite “libere” dal Codice, richiedono tale atto in forza della necessità, espressa dall’art. 107, co. 1, di un preventivo assenso del soggetto pubblico consegnatario del bene. Per esemplificare, la riproduzione fotografica senza scopo di lucro da eseguirsi dall’interessato senza l’impiego di stativi ecc. è “libera” in base all’art. 108, co. 3-bis, ma se è da compiersi con l’uso degli stessi ricade sotto la disciplina dell’art. 108, co. 3, e richiede il consenso dell’amministrazione [21].

A proposito della tabella 2, contenente le tariffe per la riproduzione senza scopo di lucro (ma che costituisce anche la base per il calcolo degli importi dovuti per le riproduzioni a scopo di lucro), si afferma in nota (a pag. 8) che “i corrispettivi indicati sono individuati in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 200, attuativo della direttiva 2019/1024”. Il riferimento è all’art. 1, co. 8, lett. f), d.lgs. 200/2021 che ha inserito il co. 3-bis nell’art. 7 del d.lg. 36/2006, consentendo a musei, biblioteche e archivi il recupero dei costi marginali del servizio reso, “maggiorati di un utile ragionevole sugli investimenti”, indicazione questa presente nell’art. 6, par. 5, e nel Considerando 38 della direttiva 1024, e precisata dall’art. 2, n. 16, della stessa, dove si parla di “percentuale della tariffa complessiva, in aggiunta a quella necessaria per recuperare i costi ammissibili, non superiore a cinque punti percentuali oltre il tasso di interesse fisso della BCE”.

Non si hanno elementi per dubitare della correttezza dell’affermazione appena riportata, ma si è dell’idea che non sarebbe stata inopportuna una qualche esplicazione dei calcoli operati per determinare gli importi indicati nella tabella in questione, anche al fine di valutare gli “spazi di manovra” che residuano agli istituti e luoghi della cultura. Esplicazione questa peraltro sancita come doverosa dal co. 9-ter, dell’art. 7, d.lg. 36/2006 (aggiunto dall’art. 1, comma 8, lett. n), d.lgs. n. 200/2021).

Una critica sovente rivolta alle linee guida, in particolare da parte di comunità scientifiche, consulte universitarie e associazioni [22], è che fra le riproduzioni/riusi a scopo di lucro sia stata fatta rientrare la pubblicazione di prodotti editoriali. In effetti nella tabella 3 (Uso/destinazione delle riproduzioni [a scopo di lucro]) è presente la classe “Editoria e riviste scientifiche di settore in canali commerciali online/cartacea. Pubblicazioni online”, che nella tabella 4 viene considerata in rapporto alla tiratura (nel caso di e-book, in rapporto al “numero di download stimati”).

Benché sulla stampa siano intervenuti informali chiarimenti (“è falso che ‘studiosi, accademici, studenti, ricercatori’ debbano pagare ‘per la semplice divulgazione su riviste scientifiche di immagini da musei, biblioteche e archivi statali’”, l’uso delle stesse restando sempre libero ‘per finalità di studio, ricerca’ ecc., e quando questo sia finalizzato a uno scopo di lucro, “a pagare sono le case editrici”) e precisazioni (“una rivista o un volume già pubblicato in modalità ‘open access’, cioè senza distribuzione commerciale, resta libero di essere diffuso” [23]), il dato di fondo permane: la pubblicazione di immagini di beni culturali su prodotti editoriali destinati alla vendita è sottoposta sempre a tariffazione [24]. Non a caso è stata preannunciata una nota ministeriale volta a chiarire che “nulla è dovuto per le riproduzioni necessarie alla riviste scientifiche di cui all’elenco Anvur” [25].

In effetti, l’obiettivo di operare dei distinguo all’interno del (l’ampio) genus pubblicazioni che comportano per il lettore un pagamento di prezzo non può che essere salutato positivamente. In tal senso milita del resto l’impegno a promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica che l’art. 9, co. 1, Cost. assegna alla Repubblica.

9. Al di là del d.m. 161

Il presente contributo ha considerato per esplicita scelta il decreto 161 in relazione al quadro normativo in cui si inserisce. Al di fuori di questo quadro si affacciano temi di vertice, a partire da quelli del rapporto fra il bene culturale e la sua immagine riprodotta su altro supporto, fra il diritto dominicale sull’uno e la pretesa di utilizzo libero dell’altra (quando il bene sia di pubblico dominio), a tacere della configurabilità o meno della c.d. libertà di panorama e della relazione fra assetto normativo ed evoluzione tecnologica, che pone un problema di effettività alla regolamentazione giuridica astrattamente sostenibile. Temi questi, sui quali il dibattito è aperto (non solo in Italia) e la riflessione non può che essere svolta in termini approfonditi.

Ripiegando su cenni sommari, si può osservare che l’eventuale riscrittura del sistema delineato dagli artt. 107 e 108 (che peraltro ha trovato un significativo riscontro in recenti decisioni del giudice civile [26]) non potrebbe prescindere dalla soluzione (quantomeno) dei seguenti nodi, connessi ma distinti:

- Onerosità o meno per la riproduzione/riuso di beni culturali per finalità lucrative;

- Previo consenso o meno alla riproduzione/riuso, specie se per finalità lucrative, da parte dell’autorità di tutela o dell’ente pubblico che ha la consegna il bene.

Quanto al primo, merita di essere segnalato che quella dottrina da tempo impegnata con particolare finezza sulla materia (e in posizione chiaramente critica rispetto alla vigente disciplina del Codice) si è di recente espressa nel senso che “Il legislatore può sempre intervenire per riservare allo Stato il controllo sullo sfruttamento commerciale [dell’‘immagine di un bene culturale in consegna ad una pubblica amministrazione’], ma a condizione che tale intervento sia frutto di un ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti” [27].

L’affermazione pare significativa, non solo sul piano giuridico, perché rifugge dalla radicalità (sulla libertà di acquisizione e di uso dell’immagine in ragione della loro “non rivalità”) presente in talune posizioni.

Che poi, la stessa dottrina, fra gli interessi da bilanciare sembra escludere quello connesso alle spese di conservazione del bene culturale (“Quanto alle spese di conservazione, di queste si fa carico -deve farsi carico - la fiscalità generale” [28]) è questione diversa: si tratta di un’opzione di valore rispettabile, ma sulla quale con qualche ragione pare possibile dissentire [29].

Quanto al secondo, va tenuto presente che nell’impostazione seguita dal giudice civile la tutela dell’immagine trova il suo fondamento normativo nella necessità, imposta in termini di principio dagli artt. 107 e 108, di un previo atto di consenso alla riproduzione/riuso, reso all’esito di una valutazione tecnico-discrezionale in ordine alla compatibilità dell’uso prospettato con il carattere storico artistico del bene. Sicché la abrogazione “secca” degli artt. 107 e 108 nella prospettiva di un solo intervento “a posteriori” da parte del ministero o dell’ente pubblico consegnatario, sembrerebbe postulare al contempo l’introduzione di una norma che, sulla falsariga dell’art. 10 cod. civ. o degli artt. (per lo più trascurati nel dibattito) 20 e 23 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sanzionasse l’uso “improprio”, pregiudizievole dell’immagine del bene culturale (o meglio, del valore culturale insito suo substrato analogico) e attribuisse l’attivazione della relativa tutela al ministero o all’ente pubblico consegnatario.

In uno scenario di conservazione degli artt. 107 e 108, ma anche in quello di una piena liberalizzazione della riproduzione/riuso del bene culturale, un compromesso che volesse coniugare l’esigenza di una previa o comunque tempestiva valutazione dell’uso dell’immagine del bene con quella della speditezza dell’azione amministrativa avvertita dal cittadino, specie se operatore economico, potrebbe sostanziarsi nell’introduzione di un meccanismo rispettivamente di silenzio assenso (relativo al rilascio dell’atto di consenso) e di Scia/Dia (che viceversa presuppone un’attività liberalizzata). Meccanismi questi in linea di principio esclusi nel settore dei beni culturali (cfr. art. 20, co. 4 e art. 19, co. 1, legge n. 241/1990), ma che per la riproduzione/riuso potrebbero contemperare ragionevolmente le esigenze in campo.

Più in generale, nell’eventuale superamento degli artt. 107 e 108 del Codice, come pure, al contrario, nell’attuazione del presente quadro regolatorio, sembrano imprescindibili approcci ‘aperti’ e soluzioni flessibili, anche a salvaguardia del fondamentale valore costituito dall’autonomia delle istituzioni culturali, perché diversa è la natura gli istituti e i luoghi della cultura (articolati in musei, biblioteche, archivi, aree e parchi archeologici), differenti le risorse (umane, finanziarie e di beni in custodia)e le potenzialità presenti negli istituti appartenenti alla stessa classe tipologica, molteplici gli interessi implicati e le finalità perseguite dalla riproduzione e dal riuso (dal “diletto” personale, allo studio scientifico, dalla creazione di opere dell’ingegno e di servizi culturali al mero abbinamento dell’immagine a un prodotto o a un’attività commerciale) e, nel campo ora primario della digitalizzazione, plurime le possibilità in termini di tecniche utilizzabili e contenuti risultanti (livelli di definizione delle fotografie, filtri delle immagini messe a disposizione ecc.) nonché di scelte del materiale affidato alla rete (catalogo di beni, singoli beni, dati informativi di corredo ecc.).

Sullo sfondo resta da non trascurare che la nota distinzione fra “source nations” e “market nations[30] sembra trovar ragion d’essere anche nel campo della realtà digitale e perciò richiedere al nostro Paese, senz’altro collocabile nel primo gruppo, un supplemento di attenzione nella definizione del quadro regolatorio e nella sua attuazione.

 

Note

[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.

[**] Girolamo Sciullo, già professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Bologna, Via Zamboni 22, 40126, Bologna, g.sciullo@studiogam.it.

[1] È opportuno ricordare che le linee guida originariamente allegate al decreto 161 sono state integralmente sostituite da quelle allegate al d.m. 1° maggio 2023, n. 187, emanato “al fine di rimuovere alcuni errori materiali” in esse presenti. In data 10 luglio u. s. sono state adottate le nuove regole che disciplinano le procedure e le tariffe relative all’uso ed alla riproduzione dei beni del Fondo edifici di culto. Il relativo atto, a firma del direttore centrale degli affari dei culti e per l’amministrazione del Fec, reca “Procedure e tariffario per il prestito di opere d’arte e per il rilascio delle autorizzazioni all’uso di immagini e alle riprese fotografiche e cine–televisive di beni, mobili e immobili, del Fondo edifici di culto”, ed è disponibile (con gli allegati) al sito https://www.interno.gov.it/it/notizie/fondo-edifici-culto-nuova-disciplina-uso-e-riproduzione-opere-e-beni. Per “le fattispecie non espressamente contemplate (...) saranno applicati, in quanto compatibili, i criteri di cui al d.m. del Ministero della Cultura, n. 161, dell’11 aprile 2023” (art. 6).

[2] Carattere sottolineato mio.

[3] Carattere sottolineato mio.

[4] Le linee guida “definiscono gli importi minimi (e non anche quelli massimi) delle tariffe (...); i singoli tariffari potranno derogare solo «in melius» il Tariffario di cui al decreto ministeriale 11 aprile 2023”, pag. 2.

[5] W. Cortese, Art. 108, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, 2007, pag. 427; cfr. anche A. Fanizza, Artt. 108-109, in Commentario al Codice dei beni culturali e del Paesaggio, (a cura di) A. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi, Torino, 2005, pag. 274, nt. 5.

[6] Così G. Morbidelli, Linee guida dell’Anac: comandi o consigli?, in Dir. amm., 2016, 3, pag. 278. In tema cfr. per ulteriori riferimenti cfr. anche F. Fracchia, P. Pantalone, La fisionomia delle linee guida: abbozzo di una traiettoria evolutiva con specifico riferimento al settore dei contratti pubblici, in Dir. ec., 2021, 1, pag. 12, F. Manganaro, Cenni sulla (in)certezza del diritto, in Dir. e proc. amm, 2019, 2, pag. 297 ss., C. Ingenito, Linee guida. Il disorientamento davanti ad una categoria in continua metamorfosi, in Quaderni cost., 2019, 4, pag. 871 ss.

[7] Cfr. par. 2.

[8] Sulla possibilità che il medesimo atto (che si autodefinisce “linee guida”) contenga previsioni vincolanti e previsioni di mero indirizzo, cfr. ad es., anche per ulteriori riferimenti, G. Morbidelli, Linee guida dell’Anac: comandi o consigli?, cit., pag. 285.

[9] Sulla possibilità che atti contenenti “Linee guida” abbiano contenuti di diversa natura, cfr. ancora G. Morbidelli, op. ult. cit., pag. 301 ss., anche per altri riferimenti.

[10] Fatto salvo, cioè, quanto previsto dall’art. 108, co 3-bis.

[11] La necessità di chiarire le casistiche di gratuità delle concessioni per l’uso di spazi e per la riproduzione (e il riuso) di beni culturali (nel lessico del decreto (“concessioni in uso e di riproduzione”), come pure quella di realizzare un’adeguata valorizzazione economica del patrimonio culturale statale, quando le fattispecie di concessione di uso e di riproduzione si realizzino a scopo di lucro, rappresentano due delle finalità del Decreto (cfr. premessa del decreto, pag. 3).

[12] Pag. 6.

[13] In proposito pare opportuno non trascurare che nel caso in cui tali soggetti richiedano il pagamento di una tariffa, “il totale delle entrate provenienti dalla fornitura e dalla autorizzazione al riutilizzo dei documenti in un esercizio contabile non può superare i costi marginali del servizio reso (...) maggiorati di un utile ragionevole sugli investimenti” (co. 3-bis dell’art. 7 cit.).

[14] Il canone per l’uso degli spazi è al netto della somma da destinare al personale del MiC per prestazioni finalizzate a garantire la tutela del patrimonio culturale e la sicurezza degli utenti di cui all’art. 1, co. 315 della legge n. 205/2017 e dell’importo della cauzione eventualmente richiesta al concessionario ex art. 108, co. 4 del Codice (pag. 12).

[15] In tale tabella non sono menzionati peraltro i servizi fotografici.

[16] Per indicazioni al riguardo v. infra alla nt. 10.

[17] Carattere sottolineato mio.

[18] Carattere sottolineato mio.

[19] Cfr., ad es., Cass. Civ. n. 26689/2020 e VI, n. 23184/2014.

[20] A ciò non osta il fatto che, per l’art. 1339 cod. civ., “i prezzi di beni sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti” a condizione che siano “imposti dalla legge”. Nella lettura prevalente della disposizione, “legge” è da intendersi in senso materiale e si allarga a comprendere anche prescrizioni amministrative assunte dalla PA in base ad una norma giuridica, cfr. Cass. Civ. Sez. Lavoro, n. 619/1999 e n. 1266/1996, R. Scognamiglio, Dei contratti in generale, in Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1970, pag. 233, M. Psaro, L’integrazione del contratto, in Comm. Cendon, I, I contratti in generale, Torino, 2000, pag. 200; G. Patti, S. Patti, Responsabilità precontrattuale e contratti standard, in Comm. Schlesinger, Milano, 1993, 249; V. Rizzo, in Comm. Perlingieri, IV, 1, Torino, 1980, pag. 315; S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, pag. 36.

[21] L’atto 10 luglio 2023 del direttore centrale degli affari dei culti e per l’amministrazione del Fec, citato supra alla nt. 1, sembra ignorare la distinzione fra riproduzioni/usi liberi e riproduzioni/usi sottoposti ad autorizzazione, richiedendo comunque l’autorizzazione “se le riprese o gli scatti fotografici sono resi fruibili in modo aperto e senza costi, o per uso personale o utilizzate per motivi di studio o ricerca” (art. 2, co. 2 lett. a).

[22] Cfr., ad es., https://www.aib.it/; https://www.cunsta.it/; https://www.roars.it/le-foto-dei-beni-culturali-a-pagamento-anche-per-i-ricercatori/.

[23] Antonio Tarasco, Il costo delle immagini. La replica, in https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Costo_immagini_replica.html.

[24] In tal senso anche l’atto 10 luglio 2023 del direttore centrale degli affari dei culti e per l’amministrazione del Fec, citato supra alla nt. 1, secondo cui “Per la pubblicazione in un testo scientifico di scatti fotografici di immagini di opere del Fondo, già in possesso dell’istante o forniti dall’Archivio digitale della Direzione centrale, l’autorizzazione viene rilasciata a titolo gratuito, dopo la verifica puntuale del valore scientifico dell’elaborato e della sua fruibilità, del pari gratuita da parte dell’utenza, in ambito scientifico e culturale” (art. 2, co. 4).

[25] In https://www.finestresullarte.info/attualita/immagini-beni-culturali-precisazioni-mic-niente-canone-per-riviste-e-tesi.

[26] Cfr. Tribunale di Firenze n. 1207/2023, che riprende in larghissima misura le argomentazioni espresse dallo stesso Tribunale nell’ordinanza 11 aprile 2022, n. 1910 (entrambe in tema di utilizzo dell’immagine del David di Michelangelo), e Tribunale di Venezia, sez. II, 24 ottobre 2022 (sull’uso dell’immagine dell’Uomo Vitruviano di Leonardo). Su tali pronunce cfr. in particolare A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo), su questo numero della Rivista, T. dalla Massara, L'immagine dei beni culturali tra soggettività e appartenenza, Relazione al XXXIII Convegno annuale della Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativi, Cortina d’Ampezzo, 7 luglio 2023, https://mediaspace.unipd.it/ [tempo 43:43-1:05 nella riproduzione], A. Pirri Valentini, La riproduzione dei beni culturali: tra controllo pubblico e diritto all’immagine, in Giorn. dir. amm., 2023, 2, pag. 251 ss., nonché G. Resta, Le immagini dei beni culturali pubblici: una critica al modello proprietario, in Riv. inf., 2023, 2, pag. 146 ss.

In sintesi secondo il Trib. Firenze n. 1207:

- “al pari del diritto all’immagine della persona, positivizzato all’art. 10 c.c., può configurarsi un diritto all’immagine anche con riferimento al bene culturale” (pag. 7);

- tale diritto si colloca all’interno “del processo di emersione delle res materiali quali espressione di profili giuridici immateriali autonomamente rilevanti e suscettibili di tutela” (pag. 11);

- trova “il proprio fondamento normativo in una espressa previsione legislativa ovvero negli artt. 107 e 108 del D.lgs. N. 42/2004” (pag. 7), dalla cui interpretazione teleologica e sistematica emerge che “il perseguimento delle finalità individuate dalla normativa di tutela dei beni culturali non può prescindere dalla tutela della loro immagine” (pag. 10. Al riguardo la citata ordinanza 1910/2022, pag. 6, aggiunge. “La natura stessa del bene culturale intrinsecamente dunque esige la protezione della sua immagine, mediante la valutazione di compatibilità riservata all'Amministrazione”);

- per “immagine” - cui rinvia il lemma “riproduzione” - è da intendersi in particolare la “forma [esteriore di un oggetto corporeo che rimane (così nell’ordinanza 1910, pag. 5)] impressa su un supporto - quale può essere una lastra o pellicola o carta fotografica - oppure su una memoria artificiale” (Trib. Firenze n. 1207, pag. 9);

- stante l’“assoluta centralità” che nel Codice assumono “il carattere storico-artistico dei beni culturali e la loro destinazione culturale”, elemento “imprescindibile dell’utilizzo lecito dell’immagine è il consenso reso dall’Amministrazione, all’esito di una valutazione discrezionale in ordine alla compatibilità dell’uso prospettato con la destinazione culturale ed il carattere storico artistico del bene”, mentre “non è sufficiente per la legittima riproduzione del bene culturale il pagamento (ancorché ex post) di un corrispettivo” (Trib. Firenze, p. 10).

[27] G. Resta, L’immagine dei beni culturali pubblici: una nuova forma di proprietà?, in Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?, (a cura di) D. Manacorda e M. Modolo, Pacini 2023, pag. 82. L’affermazione è stata di recente ribadita in Le immagini dei beni culturali pubblici: una critica al modello proprietario, cit., 156.

[28] G. Resta, L’immagine dei beni culturali pubblici: una critica al modello proprietario, cit., pag. 79.

[29] Al riguardo non pare improprio richiamare quanto osservato dal MiC a proposito delle considerazioni avanzate dalla Corte dei conti in tema di Open Access: “Da una recente analisi comparata svolta dal MiC analizzando i dati di un censimento sull’Open Access nelle istituzioni culturali svolto a livello internazionale (https://docs.google.com/spreadsheets/d/1WPS-KJptUJ-o8SXtg00llcxq0IKJu8eO6EgeGrLaNc/edit#gid=1216556120), emerge come la quasi totalità delle istituzioni utilizza un modello «misto», ossia alcune collezioni vengono rilasciate in Open Access mentre per molte altre permane l’accesso controllato e il pagamento di un canone per il riuso. Pur essendovi istituzioni, come quelle citate, che adottano l’Open Access come modello prevalente, la maggior parte delle istituzioni tende a far condividere armoniosamente le istanze del libero riuso con la valorizzazione economica delle proprie collezioni” (Corte dei conti, Spese per l’informatica con particolare riguardo alla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano 2016-2020, Deliberazione 12 ottobre 2022, n. 50/2022/G, pag. 232). È un vero peccato, però, che né la “stringa” del link consente di accedere ai risultati del censimento né sul sito del ministero risultano disponibili i dati dell’analisi comparata svolta. Su tema della onerosità o meno dell’accesso al patrimonio digitale di musei e di aree e parchi archeologici presentano tutt’ora di interesse le considerazioni di P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2003, 2.

[30] J.H. Merryman, Two ways of thinking about cultural property (1986), ora in Id., Thinking About the Elgin Marbles., The Hague-London-Boston, 2009, pag. 66, citato da L. Casini, Ereditare il futuro, Bologna, il Mulino, 2016, pag. 55.

 

 

 



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