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I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso

L’Ad. Plen. n. 5/2023 e le “ulteriori restrizioni alla proprietà privata” [*]

di Clemente Pio Santacroce [**]

Sommario: 1. La tutela dei beni culturali e il principio di legalità. - 2. Il “quid pluris” introdotto dall’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, secondo l’interpretazione del Consiglio di Stato. - 3. Le origini dell’art. 7-bis del Codice, la legge delega (legge n. 137/2002) e il divieto di introdurre “ulteriori restrizioni alla proprietà privata”. - 4. Un aneddoto.

The Judgment No. 5/2023 of the Plenary Assembly of the Council of State and the “Further Restrictions on Private Property”
The Plenary Assembly of the Council of State, through judgment No. 5/2023, has identified Article 7-bis of the Code of Cultural Heritage and Landscape (Legislative Decree No. 42/2004), introduced therein by the so-called “second corrective” (Legislative Decree No. 62/2008), as the legal basis for an additional protective instrument that would allow for a “positive” land use restriction on immovable cultural property serving as an expression of collective cultural identity. This contribution aims to demonstrate how such an interpretation of Article 7-bis of the Code raises doubts regarding constitutional compatibility, as it conflicts with the prohibition on introducing “further restrictions on private property” provided for by the enabling provision (Article 10, paragraph 2, letter d), Law No. 137/2002).

Keywords: Immovable cultural property; Expressions of collective cultural identity; “Positive” land use restriction; Further restrictions on private property.

1. La tutela dei beni culturali e il principio di legalità

Se guardassimo al tema dell’ammissibilità di un potere amministrativo di imposizione di un vincolo di destinazione d’uso di un bene culturale immobile da una prospettiva di diritto comparato, ci troveremmo dinanzi ad un panorama assai diversificato.

Naturalmente, non è questa la sede in cui privilegiare una tale prospettiva. Ma un qualche breve cenno mi pare utile per ricondurre la questione all’interno di un’imprescindibile inquadratura, punto di partenza del discorso: ovverosia, il principio di legalità.

Restringendo inevitabilmente il focus e assumendo un solo termine di comparazione, ci si imbatterebbe in diverse disposizioni legislative di interesse per il nostro tema, ad esempio, nella diversificata esperienza della Repubblica federale tedesca e dei suoi Länder.

Ivi, eccezion fatta per la tutela dei “beni culturali tedeschi”contro l’uscita dal territorio della Repubblica, di competenza esclusiva del Bund [1], sarebbe necessario, per il resto della disciplina, volger lo sguardo verso le Denkmalschutzgesetze dei Länder, nelle quali di certo non mancano norme sull’uso dei beni culturali immobili e sulle sue possibili limitazioni.

Si tratta perlopiù di disposizioni “sorelle”, aventi molti punti di contatto, se non di sostanziale sovrapposizione. Ma è dato registrare, tra i diversi Länder, anche formulazioni divergenti e di maggiore interesse [2].

Nel complesso, ciò che emerge - ed è quanto più interessa qui porre in evidenza - è che il potere di limitazione dei possibili usi di un bene culturale immobile è ivi ammesso in quanto fondantesi su “eine gesetzliche Grundlage”(base giuridica), secondo una delle diverse sfaccettature del Legalitätsprinzip, e che l’attivazione dei poteri di tutela dei beni culturali, allorquando risulti particolarmente invasiva, è comunque compensata dalla previsione di un obbligo di Entschädigung [3] (indennizzo, compensazione monetaria) a favore del soggetto privato proprietario del bene.

2. Il “quid pluris” introdotto dall’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, secondo l’interpretazione del Consiglio di Stato

Tornando doverosamente, ora, entro i confini ordinamentali italiani, a me pare che la questione circa la sussistenza del potere amministrativo di limitazione del diritto di proprietà di un bene culturale immobile per il tramite dell’individuazione - ”in positivo[4] - di un’unica sua destinazione d’uso “specifico” - ovverosia, attraverso l’imposizione della destinazione dell’immobile all’esercizio di una ben determinata attività (peraltro non l’albergo, non il ristorante, bensì quell’albergo, quel ristorante, etc.) per “la continuità dell’espressione culturale” di cui il bene costituisce “testimonianza vivente[5] - possa porre più d’un problema di compatibilità costituzionale.

Al fine di individuare il fondamento normativo di un tale potere, il Consiglio di Stato, sia nell’ordinanza di rimessione [6] che nella seguente pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 5/2023, ha valorizzato (anzi, iper-valorizzato) l’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio [7].

Nell’ordinanza di rimessione, il giudice amministrativo ha evidenziato come il provvedimento dichiarativo dell’interesse culturale in discussione, adottato dal ministero nel 2018 [8], debba considerarsi assunto anche in applicazione dei princìpi posti nel Codice dei beni culturali in materia di “espressioni di identità culturale collettiva”, e che risulti allora necessario verificare - e da qui la sottoposizione di due distinti quesiti all’Adunanza Plenaria, trattandosi di questione di particolare importanza, non ancora adeguatamente approfondita dal Consiglio di Stato e capace di dare origine a contrasti giurisprudenziali - se le sopravvenute disposizioni di cui all’art. 7-bis del Codice “consentano [...] di giustificare un vincolo di destinazione d’uso” [9].

A tal riguardo, la Sezione rimettente, nel prospettare all’Adunanza Plenaria la propria soluzione, è giunta alla conclusione che, per poter riconoscere all’art. 7-bis del Codice, in ossequio al principio dell’effetto utile, “una effettiva portata innovativa”, esso non possa essere interpretato secondo “i tradizionali limiti della conservazione della res”. Esso, invece, sarebbe da leggere come disposizione legittimante - nel caso in cui siano da tutelare espressioni di identità culturali collettive (peraltro a prescindere da qualsivoglia procedimento di candidatura “a fini UNESCO”) - un “rafforzamento degli ordinari strumenti di tutela” proprio per il tramite dell’imposizione in via amministrativa di un vincolo di destinazione d’uso volto a mettere il bene culturale “a servizio dell’espressione culturale di cui costituisce la testimonianza materiale”. Si tratterebbe, in sostanza, di “un ulteriore strumento di tutela”, posto in capo al ministero della Cultura [10].

Nel solco già tracciato dalla Sesta Sezione, rispondendo al secondo dei quesiti posti, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sembrerebbe aver aderito in modo pieno e convinto all’indicata linea interpretativa dell’art. 7-bis del Codice.

Ciò emerge nitidamente da più passaggi della pronuncia n. 5/2023, e in particolare:

i) ove si afferma che, alla luce del “collegamento” tra la res e l’espressione culturale identitaria di cui alla disposizione in esame, “gli strumenti di tutela del patrimonio culturale nazionale non possono essere evidentemente circoscritti, stante la portata innovativa e la ratio della norma di cui al già più volte citato art. 7-bis, entro i tradizionali limiti della conservazione della res [11];

ii) e laddove si ribadisce che, ai fini del rafforzamento degli ordinari strumenti di tutela, sarebbe per l’appunto “valorizzabile il vincolo di destinazione d’uso” sul bene culturale immobile posto a servizio dell’espressione culturale, così giungendo ad individuare nell’art. 7-bis - in piena sintonia (anche letterale) con le prospettazioni della Sezione rimettente - “un ulteriore strumento di tutela [12].

Ma, sempre a tal proposito, riflessioni altrettanto significative sono state poste sia in quella parte “supplementare” della pronuncia dedicata ad “alcune considerazioni generali sul patrimonio culturale[13], con le quali l’Adunanza Plenaria ha ritenuto di offrire ulteriori argomenti a supporto della soluzione data (rectius, condivisa), così finendo allo stesso modo col rinvenire nel sopravvenuto art. 7-bis del Codice un “quid pluris[14], sia nelle conclusioni, dove i giudici del massimo consesso giurisdizionale amministrativo hanno conclusivamente affermato che l’art. 7-bis “ha dunque integrato il sistema di tutele tradizionali” [15], completandolo [16].

Insomma, per chiudere, anche ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la misura di protezione che consentirebbe di passare dalla tutela del bene culturale immobile a quella dell’attività che in esso si svolge sembrerebbe “fa[re] leva sulla normativa sopravvenuta di cui all’art. 7-bis [17].

3. Le origini dell’art. 7-bis del Codice, la legge delega (legge n. 137/2002) e il divieto di introdurre “ulteriori restrizioni alla proprietà privata”

Ora, ammettendo pure di voler assecondare ­un tale risultato interpretativo [18], così seguendo quel convincimento del giudice secondo cui l’art. 7-bis del Codice avrebbe costituito (o “contribuito” a fondare) un ulteriore potere amministrativo di limitazione della proprietà privata per la tutela di un’espressione culturale di identità collettiva attraverso un vincolo di destinazione d’uso di quella res che ne costituisce la testimonianza materiale, a me pare che una tale lettura della disposizione di cui all’art. 7-bis potrebbe porre un problema di compatibilità costituzionale, ancor prima che con gli artt. 42 e 41 della Costituzione, con il suo art. 76.

L’art. 7-bis nasce - come ben noto [19] - dal c.d. “secondo correttivo” (d.lgs. n. 62/2008). Esso, al pari del Codice, si è dovuto necessariamente muovere entro il perimetro tracciato dalla legge delega (l. 6 luglio 2002, n. 137). E ai fini dell’interpretazione della sopravvenuta disposizione, mi pare allora utile ricordare come, tra i princìpi e criteri direttivi dettati dall’art. 10, comma 2, lett. d), legge n. 137/2002, sia stata posta, tra le altre cose, anche una duplice, assai significativa indicazione: quella di non abrogare gli strumenti di tutela già presenti nell’ordinamento italiano dei beni culturali, ma allo stesso tempo di non introdurre “ulteriori restrizioni alla proprietà privata”.

Anche l’art. 7-bis del Codice, diversamente da quanto mi pare abbia fatto il Consiglio di Stato (sia nell’ordinanza di rimessione che nell’Adunanza Plenaria n. 5/2023), deve quindi esser letto alla luce della norma di delega, la quale dovrebbe sempre fungere da specifico criterio ermeneutico della disciplina delegata. Il che è ben noto, ma sembrerebbe spesso sfuggire all’interprete.

Naturalmente si potrà obiettare che si tratti di un argomento troppo “formale”; ma - è forse il caso di ricordare che - il diritto è anche questo.

Nulla esclude che il legislatore italiano possa in futuro tornare sul tema con ulteriori disposizioni (e in tal caso, allora, ci si dovrà interrogare sulla loro compatibilità con gli art. 41 e 42 Cost.). Tuttavia, almeno ad oggi, a me pare che le cose stiano così. E in verità - lasciando il diritto e passando alla storia - spererei che possano restare tali.

4. Un aneddoto

Nel 1405 Francesco da Carrara ebbe a cedere tre immobili ad un macellaio [20], per la fornitura di carne che questi riuscì comunque a garantire nei giorni in cui la Città di Padova fu posta sotto assedio. In uno di essi era presente anche una locanda, all’insegna del bue, o meglio del bucranio: l’Hospitium Bovis.

La storia narra di un antico e rinomato albergo del Trecento, nel centro cittadino. Una sorta di “cinque stelle”, con circa quaranta stanze, tutte affrescate, di cui alcuni resti, come una “mostra di finestra” [21] e “una mostra di porta” [22] tra la Sala delle lauree di Giurisprudenza e quella di Medicina, ritenuti di autonomo interesse culturale [23].

Nel 1493, un discendente [24] di quel macellaio stipulò con l’allora Rettore, Bernardo Gil da Valenza, un contratto di cessione in enfiteusi [25] per l’uso a scopo didattico di una parte di quel “palazzo in muratura e legno, a più piani, con tetto di coppi, ed anzitutto di tutta l’area di ingresso all’edificio[26], in precedenza adibito ad albergo; e ivi si trasferì lo Studio dei Giuristi [27].

Il séguito della storia è noto. Ancor oggi uno dei simboli di Palazzo del Bo e dell’Università patavina è, per l’appunto, il bucranio [28].

Speriamo che anche nel tempo a venire si potrà continuare a raccontare analoghi fatterelli.

 

Note

[*] Attualità-valutato dalla Direzione.

[**] Clemente Pio Santacroce, professore associato di Diritto amministrativo nel Dipartimento di Diritto pubblico, internazionale e comunitario dell’Università di Padova, via VIII febbraio, 2 - 35122 - Padova, clemente.santacroce@unipd.it.

[1] Ai sensi dell’art. 73, co. 1, n. 5a, Grundgesetz, infatti: “Der Bund hat die ausschließliche Gesetzgebung über: [...] 5a. den Schutz deutschen Kulturgutes gegen Abwanderung ins Ausland [...]”. Nell’esercizio di detta competenza esclusiva, il Bund ha approvato nel 2016 una legge di tutela dei beni culturali (Gesetz zum Schutz von Kulturgut - Kulturgutschutzgesetz vom 31. Juli 2016 - KGSG), il cui art. 1, nel definire l’ambito di applicazione (Anwendungsbereich), prevede che detta legge si limiti a disciplinare: 1. den Schutz nationalen Kulturgutes gegen Abwanderung (la tutela dei beni culturali nazionali contro l’uscita dal territorio della Repubblica federale tedesca); 2. die Ein- und Ausfuhr von Kulturgut (l’importazione e l’esportazione di beni culturali); 3. das Inverkehrbringen von Kulturgut (l’immissione sul mercato di beni culturali); 4. die Rückgabe unrechtmäßig eingeführten Kulturgutes (la restituzione di beni culturali importati illegalmente); 5. die Rückgabe unrechtmäßig ausgeführten Kulturgutes (la restituzione di beni culturali illecitamente esportati); 6. die Rückgabezusage im internationalen Leihverkehr (l’impegno di restituzione nei prestiti internazionali).

[2] Tra queste, ad es., la Nordrhein-westfälisches Denkmalschutzgesetz (Denkmalschutzgesetz - DSchG NRW) del 13 aprile 2022, e in particolare il suo § 8 (Nutzung von Baudenkmälern); e ancor più, forse, la Gesetz zum Schutz und zur Pflege der Denkmäler (Bayerisches Denkmalschutzgesetz - BayDSchG) del 25 giugno 1973, ed il suo art. 5 (Nutzung von Baudenkmälern).

[3] Sempre a titolo meramente esemplificativo, si v. il § 34 della Nordrhein-westfälisches Denkmalschutzgesetz, così come pure gli artt. 20 e 21 della Bayerisches Denkmalschutzgesetz.

[4] E, dunque, non solo “in negativo”: così, Cons. St., Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5, punto 3.7 del diritto (in www.giustizia-amministrativa.it).

[5] Così ivi, punto 4.7 del diritto.

[6] Cons. St., Sez. VI, ord. 28 giugno 2022, n. 5357 (in www.giustizia-amministrativa.it).

[7] Di cui, per agevolare il lettore, si riporta integralmente il testo: Articolo 7-bis “(Espressioni di identità culturale collettiva). 1. Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10”.

[8] Trattasi del decreto n. 50 del 13 luglio 2018, a mezzo del quale “l’immobile (Ristorante) denominato ‘Il Vero Alfredo’, con le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati all’interno, sito in Roma, piazza Augusto Imperatore, 30 [...] [è stato dichiarato] di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d) (‘Beni culturali’) e in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7-bis (‘Espressioni di identità culturale collettiva’) del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e ss.mm.ii. [...]”.

[9] Cfr., in questi termini, Cons. St., Sez. VI, ord. n. 5357/2022, cit. (si v., in particolare, il punto 44).

[10] Cfr. ivi, punto 46.

[11] Cfr., in questi termini, Cons. St., Ad. Plen., n. 5/2023, in particolare punto 4.7 del diritto.

[12] Cfr. ivi, punto 4.8 del diritto. Ma si v. anche ivi, punto 4.5, dove il Consiglio di Stato sembrerebbe configurare un autonomo insieme dei “provvedimenti di tutela di cui all’art. 7-bis”.

[13] Cfr. ivi, punti 5 ss. del diritto.

[14] Così ivi, punto 5.4 del diritto.

[15] Così ivi, punto 6.7 del diritto.

[16] Cfr. ibidem.

[17] Così ibidem.

[18] Ma, per un’accurata analisi e corretta interpretazione dell’art. 7-bis del Codice, nella più attenta letteratura in argomento, si vedano: A. Bartolini, Beni culturali (diritto amministrativo), in EdD, Annali VI, Milano, 2013, pag. 93 ss. (spec. 111-113); G. Severini, Commento agli artt. 1 e 2, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio2, Milano, 2012, pag. 3 ss. (spec. pag. 28 s.); L. Casini, La disciplina dei beni culturali dopo il d.lg. n. 62/2008: «Erra l’uomo finché cerca», in Giorn. dir. amm., 2008, pag. 1060 ss. (spec. 1061 s.); G. Sciullo, La tutela: gli artt. 1-15, in Le modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio dopo i decreti legislativi 62 e 63 del 2008, in questa Rivista, 2008, 3.

[19] Oltre ai contributi indicati nella precedente nota, si v. altresì G. Severini, Le nuove misure correttive e integrative, in Giorn. dir. amm., 2008, pag. 1057 ss.

[20] Tale Jacopo Marcolini di Bonzanino da Ravenna: cfr. V. Fontana, Le sedi storiche dell’Università di Padova. Il Bo e l’Orto botanico, in B. Azzaro (a cura di), L’Università di Roma «La Sapienza» e le Università italiane, Roma, 2008, pag. 191 ss.

[21] Si v. https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0500090658.

[22] Si v. https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0500090659.

[23] Si vedano le due precedenti note.

[24] Tale Jacopo Bonzanini, “dottore di leggi”: cfr. V. Fontana, Le sedi storiche dell’Università di Padova, cit., pag. 191.

[25] Riferisce della presenza di una copia dell’“istrumento del 6 agosto 1493” nell’Archivio antico di Palazzo del Bo, L. Rossetti, L’Archivio antico dell’Università di Padova, in C. Semenzato, L’Università di Padova. Il Palazzo del Bo. Arte e storia, Trieste, 1979, pag. 153 ss. (per il riferimento al contratto di cessione in enfiteusi, si v. pag. 174).

[26] https://800anniunipd.it/storia/cessione-hospitium-bovis/.

[27] Ove “[...] gli spettabili e chiarissimi giureconsulti attuali e futuri in infinito terranno lezione ogni giorno [...]”: così ibidem.

[28] Si vedano, ad esempio, i due seguenti link: https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0500090062-13, https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0500090291-9. O ancora, tra i tanti riferimenti iconografici, si v. la centralità del bucranio nel mosaico di Gino Severini, “I simboli delle Facoltà universitarie” (1940), che decora una nicchia all’interno della Sala del Senato accademico, la cui immagine è disponibile nella piattaforma del Sistema Bibliotecario di Ateneo per l’archiviazione a lungo termine di oggetti e collezioni digitali, al seguente link: https://phaidra.cab.unipd.it/o:368117.

 

 

 



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