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Canoni e corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni culturali: prime riflessioni sul d.m. 161/2023

Alcune riflessioni oltre il decreto n. 161 dell’11 aprile 2023 [*]

di Giusella Finocchiaro [**]

Some reflections beyond Decree No. 161 of April 11, 2023
The article deals with the digitalization of art works and the circulation of their copies through the new market of the NFTs. The world is changing, and the concepts of property and authorship need to adapt as well. Inspired from the Decree No. 161/2023, the Author reflects on how technology, if correctly endorsed by the law, might contribute to enhancing the value of private and public cultural heritage.

Keywords: art work; authorship; copyright; property; NFT; digital copy; digitalisation; cultural heritage.

La lettura del decreto n. 161 dell’11 aprile 2023 e delle Linee guida allegate genera la sensazione di un salto indietro nel tempo e sembra riportare ad un’altra epoca. Fa un certo effetto leggere di fotocopie e microfilm nell’era dell’intelligenza artificiale. Per evitare fraintendimenti: non c’è nessun dubbio sulla opportunità di tutela del patrimonio culturale pubblico, ma piuttosto sulle modalità con le quali la tutela dovrebbe essere realizzata. Appare, inoltre, necessaria una riflessione generale sulla necessità di guardare al futuro e alle opere create digitalmente.

Sono state formulate molte critiche tecniche al decreto da parte di molti autorevoli studiosi e ad esse, in questa sede, si rinvia. Pare tuttavia opportuno guardare oltre e domandarsi di che cosa ci sarebbe bisogno oggi.

Le maglie della legislazione vigente sono strette e il decreto non può superare i vincoli normativi, ma a maggior ragione pare utile incominciare una riflessione che potrebbe in futuro condurre anche a un cambiamento legislativo e, in ogni caso, a una maggiore consapevolezza giuridica. I problemi che si pongono oggi con riguardo alla digitalizzazione delle opere d’arte attengono all’individuazione dei diritti sulle opere digitali e alla circolazione degli stessi. La polemica nata intorno alla digitalizzazione del Tondo Doni è un segnale della necessità di fare chiarezza.

Come si ricorderà, nel 2021 il Tondo Doni è stato digitalizzato o meglio “tokenizzato” con un sistema di Nft (non fungible tokens).

I “non fungible tokens”, letteralmente “gettoni non fungibili”, che peraltro trovano una menzione anche nel decreto n. 161, sono certificati digitali che attestano la relazione fra un bene e un soggetto. Gli NFT essendo non fungibili, consentono - per la parte tecnologica - di associare a un’opera digitale univocamente identificata, un soggetto.

In realtà l’oggetto della associazione può essere costituito da qualunque tipo di documento: una foto, un video, un testo, un’opera d’arte digitale, una riproduzione di un’opera d’arte. Il Codice dell’amministrazione digitale, ma ancora prima la dottrina giuridica sul documento, ci hanno insegnato, infatti, che il documento non è ovviamente solo un foglio di carta firmato, ma invece qualunque rappresentazione di un fatto.

Gli Nft si servono della tecnologia blockchain, cioè di quello che può essere descritto, sinteticamente e metaforicamente, come un registro digitale non modificabile, nel quale sono iscritte le transazioni digitali.

Nel mondo dell’arte, gli Nft sono utilizzati per identificare in modo univoco un’opera e di conseguenza per attestare che chi detiene l’Nft vanta un diritto su quell’opera. L’espansione degli Nft ha prodotto la nascita di un mercato nuovo, quello delle opere d’arte digitali, dai Cryptokitties, i famosi gattini virtuali, all’opera “Everydays: The First 5000 Days” di Beeple venduta per 69 milioni di dollari da Christie’s.

L’utilizzo della tecnologia Nft consente di affermare che il Tondo Doni digitalizzato è una riproduzione autentica. In sostanza, una copia digitale “certificata”.

La circolazione, dunque, riguarda la copia o le copie digitali autorizzate e non certamente l’originale. Il sistema Nft può garantire che ciò che circola non sia abusivo, ma autorizzato dal museo, e che sia una copia digitale “numerata” fra le copie a tiratura limitata che si è ritenuto di produrre. “Può” garantire: perché ciò che viene garantito non dipende dalla tecnologia, ma dal diritto, e più precisamente dal contratto per la circolazione dell’opera. Chi detiene l’Nft vanta infatti un diritto sull’opera, univocamente identificata: ma quale sia il diritto, o meglio, il complesso dei diritti che vanta, non dipende dalla tecnologia, ma invece dalle norme applicabili e dal contratto.

Non necessariamente si tratta di “proprietà” della riproduzione dell’opera d’arte, e anche il termine “proprietà”, utilizzato nell’ambito delle opere d’arte è ambiguo. Quello in cui ci si muove è l’ambito nel quale convivono le norme sulla proprietà e sul contratto, da un lato, e quelle sul diritto d’autore, dall’altro, in un dialogo necessario e talora complesso.

Chi è titolare di Nft su un’opera d’arte ha certamente il diritto di farla circolare e di cedere i diritti che ha. Ma se abbia il diritto di riprodurla o di esporla, o di utilizzarla in contesti differenti da quelli per i quali è stata creata, dipende anche dal contratto, come accade fuori dal digitale. Nel digitale, il contratto potrà anche essere, ovviamente, uno smart contract.

Dunque l’Nft garantisce e certifica che l’opera digitale sia unica e associata a un soggetto che detiene il token. I suoi diritti sono altrimenti disciplinati, tenendo conto delle molte norme applicabili.

Gli Nft associati alle opere d’arte hanno aperto il mercato dell’arte digitale, cioè delle opere create direttamente in forma digitale, dal momento che ora se ne può garantire l’unicità e l’associazione con un soggetto che è titolare di alcuni diritti di utilizzazione dell’opera, da disciplinare, però, con un apposito contratto. Ma non soltanto. Gli Nft hanno anche introdotto nuove opportunità di valorizzazione delle opere in forma materiale già esistenti. Le riproduzioni di esse in forma digitale possono, infatti, circolare in un numero predefinito di esemplari, a “tiratura limitata”, per così dire, e autenticate.

Questo è un settore nel quale potrebbe svilupparsi un nuovo mercato, anche per i musei e, in generale, i soggetti pubblici proprietari di opere d’arte, i quali potrebbero valorizzare e fare circolare riproduzioni digitali autorizzate sotto il loro controllo e acquisire così risorse finanziare.

Come hanno chiarito gli Uffizi in una nota stampa all’epoca della polemica, “il contraente non ha alcuna facoltà di impiegare le immagini concesse per mostre o altri utilizzi non autorizzati e il patrimonio rimane fermamente nelle mani della Repubblica italiana”. Quindi la gestione e il controllo delle immagini delle opere che appartengono al patrimonio dello Stato resterebbero nelle mani dei detentori dell’opera originaria. Su questi temi, però, occorre costruire consapevolezza giuridica, affinché siano chiari i termini del problema e di conseguenza si possano costruire gli strumenti giuridici appropriati.

A conferma di ciò, il ministero della cultura ha annunciato che sta lavorando alla redazione delle linee guida in merito agli Nft nell’arte e alle riproduzioni digitali di opere d’arte.

Quanto finora illustrato riguarda soprattutto la digitalizzazione delle opere d’arte già esistenti. Ma in altri casi non si tratta di mera trasposizione delle opere d’arte dal medium materiale a quello digitale, ma anche di creazione di opere d’arte nuove, alimentate, per così dire, da quelle originali. Si tratta spesso anche di rielaborazioni creative, come, per esempio, quelle effettuate nelle opere di Refik Anadol. In Unsupervised, a partire dalle opere esposte al Moma, attraverso un sistema di machine learning, l’artista ha generato una installazione che interpreta e trasforma le opere originarie.

Anche in questo caso, occorre avere la piena consapevolezza del quadro normativo. Occorre cercare di pensare di valorizzare la circolazione del nostro patrimonio culturale, piuttosto che limitarla. Che la protezione coincida con la segregazione è, infatti, un facile ed errato pregiudizio le cui negative conseguenze abbiamo già ampiamente vissuto in relazione alla circolazione dei dati personali. Infatti, come è noto, il Regolamento europeo 2016/679 attiene, come recita il titolo, “alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati” e, analogamente, la direttiva-madre in materia del 1995. L’oggetto è sempre stato duplice: la protezione dei dati personali e la libera circolazione dei dati. Il legislatore italiano, invece, fin dal 1996 ha omesso il riferimento alla libera circolazione dei dati personali e ha effettuato una scelta che ha poi segnato un netto orientamento successivo, costituito dal concentrarsi in maniera pressoché esclusiva sulla protezione dei dati personali. Lo scenario italiano è stato dunque fortemente condizionato, fin dall’inizio, dalla netta indicazione restrittiva. Ciò spiega alcune difficoltà oggi persistenti nell’interpretazione del Regolamento, e la difficoltà attuale ancora permanente nell’applicazione del criterio del bilanciamento.

Ecco, è necessario non commettere lo stesso errore, metodologico e poi normativo, nell’ambito della circolazione dei beni culturali, concentrandosi sulla protezione a discapito della valorizzazione, quasi fossero in alternativa.

Si tratta in molti casi di ripensare le categorie giuridiche tradizionali e questo processo incomincia dall’acquisirne consapevolezza piena. È, in fondo, quanto è stato fatto in passato per il concetto di firma, che ha dovuto adattarsi alla firma digitale, o per il diritto alla protezione dei dati personali, che oggi si declina sempre più nell’“onlife”.

Il digitale può aiutare a valorizzare il patrimonio culturale, pubblico e privato. A patto che, ovviamente, non si commetta l’errore di ritenere che la tecnologia risolva tutti i problemi giuridici.

 

Note

[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.

[**] Giusella Finocchiaro, professore ordinario di Diritto Privato e Diritto di Internet e dei Social Media presso l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, via Zamboni 27/29, 40126, Bologna, giusella.finocchiaro@unibo.it.

 

 

 



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