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I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso

Il movimento del diritto. Sull’Adunanza Plenaria n. 5/2023 del Consiglio di Stato [*]

di Fulvio Cortese [**]

Sommario: 1. Un caso (è sempre e comunque) importante. - 2. La fattispecie decisa da Cons. Stato, Ad. Plen., n. 5/2023. - 3. Le vie per la creazione del caso: tra singolarità e generalità. - 4. (segue) da un criterio di compatibilità a un criterio di corrispondenza, passando per un’affermazione ambulante dell’interesse culturale. - 5. Qualche osservazione conclusiva, tra “pregi e difetti” della sentenza.

The evolution of law. On the Adunanza Plenaria nr. 5/2023 of the Italian State Council
The article examines the contents and the arguments of a recent and important ruling by the Italian State Council regarding the protection of intangible cultural heritage. In particular, the State Council has declared the legitimacy of destination restrictions aimed at protecting the continuation of a well-known restaurant business in the center of Rome.

Keywords: Protection of Cultural Heritage; Intangible Cultural Heritage; Protection of Historical Commercial Activities.

1. Un caso (è sempre e comunque) importante

In un libro assai interessante, Bruno Latour, uno studioso i cui lavori sono tra i più noti e apprezzati nel panorama internazionale delle scienze umane, ha svolto un resoconto ragionato - traendovi poi una ricostruzione teorica vera e propria - sulle modalità con cui lavora e produce diritto il Conseil d’Etat francese [1].

In particolare, al termine di un capitolo molto suggestivo, intitolato “Il movimento del diritto” [2], lo sguardo etnografico dell’Autore conduce a una conclusione assai significativa, riformulando il testo di un celebre brocardo: non “De minimis non curat praetor”, bensì “De minimis et maximis curat praetor”. Ossia (nel senso fatto proprio da Latour): “il giudice si sforza di legare insieme le preoccupazioni più piccole a quelle più grandi”, ed è proprio da questa sua capacità che si può riconoscere come giudice e che, anzi, prende consistenza e visibilità concrete il modo effettivo con cui la giurisprudenza si evolve attraverso un lento e difficoltoso avanzamento [3].

La decisione assunta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza del 13 febbraio 2023, n. 5, potrebbe pacificamente fungere da esempio lampante di questo insegnamento. Infatti, pur non dandosi la possibilità - sperimentata da Latour - di guardare davvero all’interno dei meccanismi quasi strategici e delle dinamiche argomentative che hanno generato un certo pronunciamento [4], si può affermare che la semplice lettura della lunga e articolata motivazione di questa sentenza può considerarsi rivelatrice.

Anche in tale occasione il giudice amministrativo ha preso un caso e, lungi dal deciderlo soltanto sulla base di una delle interpretazioni variamente praticabili, o - ancor prima - di quanto emergente dalle sue intrinseche specificità, ha tratto spunto per farne la leva di un turning point vero e proprio: del consolidamento di una ricostruzione più generale, e per ciò solo innovativa, che promette certo di far discutere, ma soprattutto di porre le basi per interventi successivi, forse anche legislativi, di respiro ancor più ampio. E ciò il giudice ha fatto, per l’appunto, tenendo insieme preoccupazioni più piccole e preoccupazioni più grandi, visto che “[n]el ragionamento giuridico ogni cosa è importante” [5].

2. La fattispecie decisa da Cons. Stato, Ad. Plen., n. 5/2023

Prima di entrare nel dettaglio e di offrire qualche spiegazione in merito al significato di questi rilievi introduttivi, è opportuno riepilogare i lineamenti essenziali della fattispecie controversa e della decisione del Consiglio di Stato.

L’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali ha dichiarato un certo immobile - la sede di un famoso e affermato ristorante romano (Il Vero Alfredo), con gli arredi e alcune opere d’arte in esso contenute - come “di interesse importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d) (“Beni culturali”) e in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7-bis (“Espressioni di identità culturale collettiva”) del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e ss.mm.ii.”. Sulla base di tale dichiarazione, ha altresì sottoposto il medesimo bene “a tutte le disposizioni di tutela contenute nel predetto decreto legislativo” (d’ora in poi, Codice dei beni culturali) [6].

Nel disporre in questo modo, però, l’amministrazione ha anche richiamato espressamente, quale parte integrante della dichiarazione di interesse culturale, la relazione storico-critica predisposta durante l’istruttoria.

Sulla base di essa, segnatamente, ha sottolineato come si trattasse di tutelare un patrimonio immateriale, costituito, nello specifico, dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”: un patrimonio, dunque, che è stato trasmesso di generazione in generazione e che è stato “costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia”; e che pertanto l’amministrazione ha ritenuto debba essere tutelato al fine di garantire la conservazione, “oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale” [7].

Contro tale provvedimento ha proposto ricorso la società proprietaria del complesso immobiliare nel quale sono collocati i locali del ristorante in questione, lamentando che, così determinandosi, l’amministrazione avesse, di fatto, imposto un vincolo esclusivo di destinazione d’uso, non previsto dal Codice dei beni culturali; un vincolo che, nella specie, avrebbe potuto praticamente risolversi nella salvezza, per così dire, della persistente gestione imprenditoriale del locale, di cui è titolare un soggetto a carico del quale l’autorità giudiziaria ordinaria già aveva disposto lo sfratto, data l’intervenuta disdetta del relativo contratto di locazione.

In primo grado la vicenda si è risolta a favore della società ricorrente.

Il Tar Lazio - aderendo ad una specifica tesi giurisprudenziale [8] - ha ritenuto che, in presenza dei presupposti per tutelare un determinato bene, il Codice dei beni culturali preveda solo che si possa proteggere la cosa in sé, ma non le attività che in essa o per essa vi sono svolte, e che, al contempo, si possano imporre vincoli positivi di destinazione d’uso solo in casi puntualmente stabiliti (com’è, ad esempio, per l’ipotesi degli studi d’artista [9] o per i negozi storici [10]). Anche il richiamo all’esigenza di tutelare “espressioni di identità culturale collettiva” (ex art. 7-bis cit.), se da un lato non varrebbe ad includere le attività artigianali o commerciali tradizionali, dall’altro non sarebbe comunque idoneo ad attivare di per sé solo gli strumenti vincolistici previsti dal Codice dei beni culturali.

In grado d’appello, il Consiglio di Stato ha investito l’Adunanza Plenaria delle due questioni interpretative così affrontate in primo grado [11].

A tali questioni la sentenza n. 5/2023 - accogliendo una delle possibili impostazioni [12] - ha risposto precisando: a) che l’imposizione di un vincolo culturale di destinazione d’uso è ben possibile “quando la misura imposta miri a salvaguardare l’integrità e la conservazione del bene (...), senza che ciò si risolva nell'obbligo di gestire una determinata attività” [13]; b) che, a mente di quanto stabilito dall’art. 7-bis cit., “possono essere tutelati, mediante un vincolo di destinazione d’uso, anche i beni che sono espressione di una identità collettiva (perché in quel bene o per suo tramite sono accaduti eventi di rilevanza storica e culturale ovvero perché personaggi storici e illustri vi hanno trovato, in un dato momento, la loro collocazione), per i quali si riconosca l’impossibilità di scindere le dimensioni materiali da quelle immateriali, stante la loro immedesimazione” [14].

A contorno, o a suggello, di una tale conclusione, l’Adunanza Plenaria ha anche evidenziato che “[l]a nozione di bene culturale, in una visione dinamica e moderna, deve essere intesa in senso ampio” e pertanto, “pur presupponendo res quae tangi possunt, può anche ricomprendervi un quid pluris di carattere immateriale”. Sicché “[a] fronte di tale ampiezza di significato deve corrispondere la maggior estensione possibile, a legislazione vigente, delle forme di tutela previste dall’ordinamento, che consentano una protezione ‘elastica’ ed efficace al bene culturale, senza limitarsi alla sua consistenza materiale, ma considerandolo globalmente, per i valori culturali che esso esprime e reca in sé”. In questo modo il bene culturale viene “integralmente salvaguardato nell’insieme unitario e inscindibile dei suoi specifici aspetti: il valore culturale ‘estrinseco’, correlato a fatti della storia e della cultura, ma anche quello ‘intrinseco’, che, immedesimatosi con la cosa stessa, rende necessario tutelare non soltanto il ‘contenente’ ma anche il ‘contenuto’ del bene culturale, materiale o immateriale che esso sia” [15].

3. Le vie per la creazione del caso: tra singolarità e generalità

Se questo è l’approdo cui il Consiglio di Stato è giunto, è interessante isolare gli stadi, o le vie, attraverso le quali il caso di specie è stato costruito, o creato, per consentirne la torsione interpretativa meglio funzionale all’affermazione della lettura ora riassunta. È interessante, cioè, dare visibilità ai passaggi in cui avvertire il modo con cui il giudice, gradualmente, introduce la ricercata innovazione, avvalendosi di specifici argomenti e/o tacendone altri.

È un’analisi che, come si è anticipato, ben rappresenta la tensione cui usualmente il giudice amministrativo è sottoposto, trovandosi a dover mediare - come direbbe il già citato Latour - tra oggetti di valore di differente tenore e della più varia intensità; vale a dire, tra tutti quei fattori di potenziale condizionamento che, nell’elaborazione della decisione, si confrontano tra loro, nascondendosi dietro la prevalenza che di volta in volta assumono l’utilizzo di un singolo argomento, l’autorevolezza della sua fonte, l’andamento dell’iter processuale, la profondità e la forza degli interessi in gioco, l’esigenza di coerenza e di armonia nella ricostruzione complessiva etc. [16].

La prima via di costruzione del caso - potremmo definirla anche come il primo sintomo della volontà, emergente dalla motivazione, di collocare il caso in un dato contesto e di valorizzare al massimo le sue capacità euristiche per esprimere precisi principi di diritto - è data dal modo con cui il giudice si muove nell’oscillazione tra singolarità e generalità, optando dichiaratamente, se non pregiudizialmente, per la seconda.

È un profilo che si apprende se si presta attenzione alla ricostruzione, pur sintetica, ma esplicita, dei fatti di causa, e precisamente nella parte in cui il giudice indugia in due specificazioni preliminari, attinenti alla storia dell’immobile de quo.

Si scopre, infatti, che il compendio immobiliare di cui fa parte il ristorante oggetto delle disposizioni vincolistiche era, in origine, un bene pubblico, e che l’attività di ristorazione vi era già legalmente esercitata. Nella fase del procedimento che ha consentito la dismissione di quell’immobile e, dunque, la vendita a soggetti privati, non solo se ne era accertata la natura di bene culturale tout court, ma si era stabilito - da parte dell’amministrazione competente alla tutela - che tra le condizioni di alienazione si dovesse comunque rispettare una duplice prescrizione: “gli immobili dovranno conservare le attuali destinazioni d’uso o comunque non potranno essere destinati ad usi, anche a carattere temporaneo, non compatibili con l’interesse culturale accertato o tali da creare pregiudizio alla conservazione e al pubblico godimento; i progetti di opere di qualunque genere, che si intendano eseguire sugli immobili sopra elencati, nonché i cambiamenti di destinazione d’uso rispetto all’attuale, dovranno essere preventivamente autorizzati dal competente organo periferico del ministero per i Beni e le Attività culturali ai sensi dell’art. 21, c. 4 del d.lgs. 42/2004” [17].

Questa cornice fattuale non era per nulla trascurabile rispetto alla controversia che è giunta allo sguardo del Consiglio di Stato. Essa si è instaurata sui provvedimenti successivi con cui, più di dieci anni dopo, sempre la medesima amministrazione è tornata ad esprimersi sui beni in questione, pronunciandosi su una loro definita porzione. Non c’è dubbio che la messa a fuoco su quest’ultima porzione appare giustificata dal quid pluris che le conferisce l’attività in essa svolta in quanto collegata alla percezione collettiva di un’esperienza, immateriale, che è nata al di fuori di essa e che, tuttavia, in essa si è radicata e confermata, animandosi ulteriormente e confermandosi. Al di là di quanto riferito dai provvedimenti contestati e dalla relazione tecnica che li ha giustificati, basta ricordare che cosa significhi Il Vero Alfredo sul piano della ristorazione, della cultura popolare e mediatica, del turismo e, a ben vedere, dell’affermazione internazionale di un certo brand e di una rinomata ricetta, diventata uno dei tanti simboli della cucina italiana nel mondo [18].

Ma non può esserci dubbio, allo stesso modo, che la singolarità delle vicende immobiliari avrebbe consentito di assorbire la delicatezza della situazione, così come circostanziata nella definita porzione in cui si svolge l’attività ristorativa, nella acclarata stabilità del regime giuridico già definito per la totalità. Tanto che l’Adunanza Plenaria - quasi con una excusatio non petita - precisa di volersi soffermare con attenzione sulle problematiche teoriche connesse alla sola valutazione del provvedimento impugnato - e relativo alla specifica porzione del complesso immobiliare - “sebbene già le prescrizioni poste dalla stessa Amministrazione statale con l’autorizzazione all’alienazione del complesso immobiliare in cui è inserito il locale per cui è causa fossero incentrate sulla conservazione delle attuali destinazioni d’uso dell’edificio” [19].

Ai fini concreti, pertanto, la conclusione operativa del giudizio avrebbe potuto essere la stessa.

Il giudice, viceversa, incalzato dall’ordinanza di rimessione, e in particolare dal tema prospettico del modo con cui dare un’apprezzabile afferrabilità alla disposizione di cui all’art. 7-bis del Codice dei beni culturali [20], ha deciso di imprimere un andamento generale alla fattispecie, giustificato, peraltro, dall’esigenza assai sentita - anch’essa per nulla celata e, anzi, manifestata apertamente nel corpo della motivazione - di dare una risposta rafforzata ai grandi problemi della trasformazione della fisionomia dei centri storici e dei luoghi che ne caratterizzerebbero l’identità [21].

4. (segue) da un criterio di compatibilità a un criterio di corrispondenza, passando per un’affermazione ambulante dell’interesse culturale

Presa questa via, il giudice si è trovato a giustificare l’assunzione della prospettiva generalizzante mediante il rinvio a due diversi argomenti - due ulteriori vie - uno di natura più propriamente sistematica e uno di natura prettamente assiologica: utili entrambi e reciprocamente sinergici, nella prospettiva imboccata, per rovesciare l’esito dell’opposta soluzione teorica, quella che nega la possibilità trasversale di prevedere vincoli positivi di destinazione d’uso e che poggia sulla base di un close reading delle disposizioni del Codice.

Che il giudice amministrativo abbia consolidato la prospettiva generalizzante percorrendo una via sistematica di inquadramento è aspetto che si ricava facilmente. Basta soffermarsi sul fatto che nella motivazione la ricognizione del senso del modo con cui la disciplina di tutela dei beni culturali affronta il rapporto tra interesse privato e interesse pubblico viene rivista mediante il passaggio da un tradizionale criterio di compatibilità a un distinto criterio di corrispondenza.

La stretta interpretazione - seguita dal giudice di primo grado - imporrebbe di confermare l’idea che le prescrizioni di tutela, essendo di per sé rivolte alle cose e alla loro dimensione fisica, non possano, di regola, spingersi a indirizzare la gestione delle cose stesse secondo una specifica modalità. Il dato ne risulterebbe asseverato soprattutto dalla disposizione di cui all’art. 20 del Codice dei beni culturali che, occupandosi di stabilire, in via generale, quali “interventi” siano “vietati” sui “beni culturali”, afferma che questi “non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione” [22].

La regola dell’uso del bene culturale è, dunque, la compatibilità, non la corrispondenza. Quest’ultimo parametro, del resto, viene in gioco eccezionalmente, ossia laddove il Codice stesso, in modo inequivocabile, impedisce del tutto la mutazione della destinazione d’uso, come accade, senz’altro, per gli studi d’artista (art. 52). In questa direzione viene facile evocare il criterio per cui ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit, anche per la ragione che, così ragionando, si ristabilisce la validità di un paradigma particolarmente ortodosso, quello sintetizzato dalla dicotomia libertà-autorità e, quindi, dal principio che le situazioni soggettive in cui si realizza l’autonomia dei privati possono essere limitate soltanto laddove la legge lo prevede.

L’ottica di analisi, però, cambia sensibilmente se si allarga il campo della visione, se si spinge, cioè, l’interprete a considerare non tanto la trama delle singole discipline di cui il Codice è animato, bensì le sue finalità complessive, il sistema della tutela dei beni culturali: ciò che la sentenza richiama come gli “obiettivi di interesse generale sottesi alla disciplina in commento, correlati alla conservazione del patrimonio culturale quale elemento di formazione, promozione e trasmissione della memoria della comunità nazionale (art. 1, comma 2, d.lgs. n. 42/04)” [23].

In altre parole, se tutta la disciplina deve sempre rispondere alla necessità di garantire che tali obiettivi siano conseguiti, allora è possibile intensificare il giudizio di compatibilità sugli usi del bene culturale - immaginare, quindi, che il controllo sulla compatibilità possa essere occasionalmente anche assai profondo e che possa giungere, in ipotesi, pure a una qualificazione di adeguatezza, o, come si è detto, di corrispondenza, degli usi praticabili sul bene culturale rispetto alla garanzia di conseguimento dei predetti obiettivi [24] - ribadendo pur sempre la doverosa attinenza alle peculiarità delle singole fattispecie, da valutarsi volta per volta (vale a dire, con le parole del Consiglio di Stato, in una direzione che “riconosce la maggior latitudine possibile alla tutela del bene culturale, valorizzando l’importanza della motivazione alla base della decisione amministrativa” [25]).

Nell’affermazione di una tale cornice sistematica, è evidente che la previsione espressa in materia di studi d’artista perde il significato di caso eccezionale e assume, invece, i lineamenti di emersione puntuale di ciò che altrimenti spetta all’amministrazione decidere caso per caso [26]. Come è evidente che, nella medesima cornice, la definizione ortodossa del paradigma libertà-autorità diventa più elastica, più flessibile, coerente con il riconoscimento, per il potere amministrativo, di un limite meno confinato: ciò perché, come la stessa sentenza sente il dovere di illustrare a chiusura di tutto il suo ragionamento, e come si è rievocato anche nei passaggi testualmente riprodotti anche sopra [27], è la nozione di bene culturale, divenuta sensibile a profili immateriali, a esigere un intervento di questo tipo.

È a questo punto che, per ancorare la correttezza di questa via ricostruttiva ad appigli di maggiore autorevolezza (ecco, si direbbe, l’entrata in scena di un oggetto di valore molto importante), l’Adunanza Plenaria ne prende anche un’altra, quella della lettura assiologica, da fondarsi sull’accertamento della disciplina di cui all’art. 9 Cost., con riferimento diretto, dunque, al dovere della Repubblica di tutelare “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” (comma 2). Riesce, così, naturale, alla luce di un tale richiamo, rammentare che il vincolo di destinazione d’uso, quale vincolo culturale, ha natura conformativa e non espropriativa, e di conseguenza che la sua intensità non può porre problemi circa il rispetto del diritto di proprietà del bene o della libertà di iniziativa economica di colui che lo gestisca imprenditorialmente.

Il punto è che, a questo stadio del percorso, il giudice amministrativo finisce per rivelare in maniera palese la tensione che anima il costrutto.

In parte ciò accade proprio per le citazioni che si fanno della giurisprudenza costituzionale - già di per sé per le conclusioni “secche” che se ne vogliono ricavare, come quella per cui “l’interesse culturale ex art. 9 Cost prevale su qualsiasi altro interesse” [28] - e specialmente della sentenza n. 118/1990 [29].

Da un lato è incontestabile che quest’ultima pronuncia abbia riguardato proprio la categoria di beni culturali cui ha voluto far cenno espresso anche l’amministrazione nel provvedimento impugnato. Dall’altro lato, però, la pronuncia stessa, pur affermando che per questa categoria di beni l’uso che se ne è fatto è centrale, muove dalla incontestata premessa, che l’Adunanza Plenaria omette, secondo cui la loro disciplina impone normativamente una verifica di compatibilità [30]: una verifica, peraltro, che evidentemente riguarda il rapporto tra gli usi pregressi che hanno contribuito a dare valore culturale al bene e gli usi attuali e/o futuri che di quel bene si intenda fare, non anche la corrispondenza tra i secondi e i primi o, addirittura, la continuità dei soli primi.

Eppure l’Adunanza Plenaria trae la conclusione che “la tutela del bene culturale non può che estendersi anche al suo uso, ogni qualvolta anche quest’ultimo contribuisca alla sua rilevanza culturale” [31]. Di più, e ancor più espressamente: “in tali ipotesi, l’uso pregresso che contribuisce al valore culturale immateriale insito nella cosa non può venir meno, perché altrimenti andrebbe dispersa l’essenza del bene protetto e la sua stessa ragione di tutela” [32].

Ma c’è anche un ulteriore sintomo della cennata tensione: il riferimento alla disciplina della pianificazione urbanistica e, come si è già detto, alla condizione dei centri storici.

La tensione qui è fortissima, se non altro perché il giudice amministrativo compie la seguente operazione: a) ricorda che ai Comuni, in sede di pianificazione territoriale, è consentito imporre “vincoli di destinazione d’uso, motivati dal riferimento al carattere storico-identitario che talune attività possano rivestire in determinati luoghi per la collettività locale”: sicché, in tali ipotesi, “è ben possibile che un bene, pur privo in sé di valenza culturale, rivesta una oggettiva centralità identitaria per una città e sia considerato dagli abitanti (e dagli organi elettivi comunali) come elemento idoneo a rappresentarne il passato ed a rammentarlo”; b) inferisce da ciò che sarebbe “irragionevole negare un’analoga possibilità all’Amministrazione istituzionalmente competente a tutelare i beni culturali, non consentendole di apprestare adeguata tutela a quelle attività - di qualsiasi natura - che nella storia sono divenute coessenziali con quella stratificazione del costruito, rappresentandone in una certa misura la stessa ragione d’essere” [33].

Non si può tralasciare l’annotazione che, così facendo, il Consiglio di Stato si avvale di un argomento a fortiori relativamente a fattispecie che istituzionalmente non sono per nulla comunicanti, vuoi perché riferibili ad autorità fornite di attribuzioni del tutto diverse (e per di più diversamente giustificate, perché è diversa la garanzia costituzionale che le sorregge), vuoi perché, in ogni caso, contraddistinte dall’esercizio di poteri qualitativamente diversi (in un’ipotesi classicamente discrezionali e nell’altra - a rigore - tecnico-discrezionali). Si aggiunga pure che quello che si produce è anche un effetto di finale contraddizione teorica, poiché se si dovesse seguire con rigore la tesi su cui poggia tutta la lettura assiologica in esame - secondo cui, come si è riportato, l’interesse culturale prevale sempre su qualsiasi altro interesse - allora non si capisce come la primazia di quell’interesse possa diventare, per così dire, ambulante e rientrare strutturalmente nel gioco di ponderazione e bilanciamento che è caratteristico del potere che si intende considerare come prototipo.

Sarebbe stata evitabile tutta questa tensione? Al quesito si può dare una risposta senz’altro positiva.

Se il giudice avesse optato per una prospettiva volta a valorizzare la singolarità del caso, come si è detto in precedenza [34], avrebbe trovato facile supporto nella considerazione della natura specifica del bene de quo, già di fatto sottoposto ad un vincolo positivo di destinazione d’uso; ma tale anche nella sua conformazione di fattispecie astratta replicabile in futuro, ossia di bene immobile culturale originariamente in mano pubblica. Ciò si deve evidenziare in ragione dell’applicazione della disciplina - sopravvenuta rispetto all’imposizione originaria del suddetto vincolo positivo, e su cui, però, l’Adunanza pare sorvolare in modo anch’esso eloquente - relativa ai vincoli che si possono imprimere allorquando si intenda alienare beni immobili rientranti nel demanio culturale. L’art. 55, comma 3-bis, del Codice dei beni culturali è chiaro: nel pronunciarsi sull’autorizzazione alla vendita il ministero può non solo esprimersi negativamente laddove “la destinazione d’uso proposta sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene o comunque risulti non compatibile con il carattere storico e artistico del bene medesimo”, ma anche “indicare, nel provvedimento di diniego, destinazioni d’uso ritenute compatibili”, vale a dire singole destinazioni d’uso.

Tuttavia, al di là di queste spigolature, è evidente che la combinazione delle tre vie che l’Adunanza Plenaria ha allestito sono funzionali - come si è prefigurato - a dare braccia e gambe all’art. 7-bis del Codice dei beni culturali, ossia: a) a spiegarne il valore aggiunto, come canale istituzionale di affermazione sistematica di una nuova nozione di bene culturale, più elastica e flessibile, e come tale bisognosa di interventi di tutela parimenti modellabili con maggiore profondità; b) a collocarlo anche nel contesto della tutela di specifiche attività tradizionali, quali quelle che si sono radicate nei centri storici; c) a consentire la trasferibilità nell’ambito di operatività di quella medesima disciplina di quanto dedotto sulla base dell’interpretazione sistematica (la quale, però, come si può avvertire, senza il rafforzamento delle flessibilità e delle elasticità di cui alla lettura dell’art. 7-bis, risulta un po’ più “monca” e non del tutto autosufficiente).

Lo scopo ultimo è preciso: emancipare l’utilizzo dell’art. 7-bis e delle sue potenzialità amplificatrici della dimensione immateriale del bene culturale dai presupposti partecipativi e procedimentali che sono implicati dalla normativa internazionale di riferimento (Unesco) [35]; e dunque portare in capo alle ordinarie determinazioni dell’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali decisioni che, in forza di quella normativa, andrebbero ricondotte a modelli regolatori differenti e, soprattutto, diversamente condizionati. È questo - direbbe Latour - il “movimento del diritto” che il giudice ha assecondato e razionalizzato nella motivazione.

5. Qualche osservazione conclusiva, tra “pregi e difetti” della sentenza

Che cosa può dirsi su questo movimento, una volta disvelato? Le osservazioni possono essere molte.

Il primo interrogativo che viene alla mente riguarda la dissociazione, forse non del tutto efficiente sul piano pratico, tra l’evoluzione interpretativa tanto coltivata, e argomentata (sia pur, come si è visto, con qualche evidente tensione), e la soluzione del caso concreto. Infatti, per quanto l’Adunanza Plenaria si sforzi di ribadire che la posizione di un vincolo positivo di destinazione d’uso non vincola la libertà di iniziativa economica, né impone la prosecuzione di specifici rapporti privatistici (come possono essere quelli concernenti la locazione da cui è nata la controversia) [36], non è semplice capire come la vicenda possa concludersi felicemente, se non con un accordo (che lo stesso giudice pare timidamente auspicare [37]). O, in maniera invece più complicata, con nuove conflittualità, quali potrebbero essere quelle concernenti la mediazione tra la continuità dell’uso pregresso dell’immobile, da chiunque essa venga perpetuata, e la tutela delle “esperienze” (o del brand, come si è richiamato in precedenza) che i gestori “storici” hanno maturato.

In proposito non si può non annotare che le soluzioni relative alla garanzia che si continui a fare qualcosa in futuro si perseguono meglio, di solito, con politiche attive di incentivo o di riconoscimento, non con definizioni impositive, che presentano sempre il rischio di creare situazioni scomode, dalle quale tutti gli interessati possono essere spinti a fuggire.

Un secondo rilievo può rivolgersi alla circostanza che, decidendo nel modo descritto, il Consiglio di Stato ha compiuto un’operazione sostanziale di vera e propria supplenza nei confronti del legislatore, cercando di prefigurare una competenza forte, istituzionalmente omogenea e decentrata su tutto il territorio, circa la tutela dell’identità dei centri storici, allo stato dell’arte abbandonati non solo (o non tanto) alle politiche urbanistico-edilizie dei singoli comuni, quanto (e sempre più diffusamente) agli utilizzi tuttora distorti dei poteri sindacali di ordinanza (specie quelli ex artt. 50 del d.lgs. n. 267/2000). Può considerarsi, questo, un assetto auspicabile? O è soltanto una soluzione tampone, in attesa di un “risveglio” del legislatore e di una disciplina che si approcci al tema con una prospettiva più partecipata? Una prospettiva, ad esempio, che valorizzi adeguatamente, mettendole finalmente a sistema, le pratiche di amministrazione condivisa poste in essere, sempre a livello comunale, sulla base dei tanti e diversi regolamenti per la cura e la manutenzione dei beni comuni urbani?

Da questo punto di vista, si può dire che il movimento evolutivo impresso dall’Adunanza Plenaria potrebbe sortire anche effetti assai positivi, di rilancio o di stimolo per iniziative di riforma capaci di ridondanze anche ulteriori rispetto a quelle qui considerate.

Non c’è dubbio, ad ogni modo, che nel frattempo - a prescindere dal chiaro valore esplicativo, quasi didattico, che la pronuncia presenta, per il disvelamento esemplare dei meccanismi con cui possono costruirsi i principi di diritto pronunciati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e il ruolo stesso che questa assume nell’attuale cornice ordinamentale - le ampie ricostruzioni teoriche sulle integrazioni materiali/immateriali che possono essere sottese al riconoscimento e alla tutela di un bene culturale forniscono più di un sostegno per indirizzare anche gli esiti dei tanti casi analoghi che punteggiano le aree urbane di piccole e grandi città italiane e per attribuire, sul punto, un ruolo prevalente e risolutivo - di grandissima responsabilità, quasi collettiva e sociale nel senso più ampio del termine - all’amministrazione tecnicamente competente.

 

Note

[*] Attualità-valutato dalla Direzione.

[**] Fulvio Cortese, professore ordinario di Diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, Via Verdi 53, 38122 Trento, fulvio.cortese@unitn.it.

[1] B. Latour, La fabbrica del diritto. Etnografia del Consiglio di Stato, PM edizioni, Varazze (SV), 2020 (ed it. La fabrique du droit. Une ethnographie du Conseil d’État, Editions La Découverte, Paris, 2002).

[2] Ibidem, pag. 143 ss.

[3] Ibidem, pag. 208.

[4] E un certo metodo, complessivamente considerato, di giungervi: ibidem, in particolare pag. 143 ss.

[5] Così sempre B. Latour, La fabbrica, cit., pag. 156.

[6] Cfr. punto 2.6 della motivazione in fatto.

[7] Ibidem, punto 3.4.

[8] V. Tar Lazio, Roma, Sez. II-quater, 19 maggio 2021, n. 5865.

[9] Di cui all’art. 11, comma 1, lett. b), e all’art. 51 del Codice dei beni culturali.

[10] Per i quali v. all’art. 11, comma 1, lett. c), e all’art. 52, comma 1-bis, del Codice.

[11] V. ord. Cons. St., Sez. VI, 28 giugno 2022, n. 5357.

[12] V. Ad. Plen., n. 5/2023, cit., punti 2.1 ss. della motivazione in diritto, laddove si ripercorrono le diverse tesi espresse in giurisprudenza.

[13] Ibid., punto 3.6 della motivazione in diritto.

[14] Ibidem, punto 4.8.

[15] Ibidem, punti 6 ss.

[16] Cfr. sempre B. Latour, La fabbrica, cit., pag. 144 e 209 ss. Latour utilizza l’espressione oggetti di valore in un preciso significato, mutuato da alcuni studi semiologici sulla formazione del discorso narrativo, ma bene espressivo, all’evidenza, delle dinamiche che possono realizzarsi nel percorso che porta alla formazione discorsiva di una decisione e, per ciò che interessa in questa sede, alla composizione (e alla comprensione) della relativa motivazione.

[17] V. Ad. Plen., n. 5/2023, cit., punto 2.2 della motivazione in fatto.

[18] Si consulti, semplicemente, il portale online de Il Vero Alfredo.

[19] V. sempre Ad. Plen., n. 5/2023, cit., punto 1.3 della motivazione in diritto.

[20] Come è noto l’art. 7-bis, rubricato “Espressioni di identità culturale collettiva”, recita: “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10”.

[21] Ad. Plen, n. 5/2023, cit., punti 3.3 e (soprattutto) 6.7 della motivazione in diritto.

[22] Il riferimento al parametro della compatibilità lo si trova, poi, confermato testualmente anche in altre disposizioni, come quelle, ad esempio, in materia di progetti da sottoporre a valutazione di impatto ambientale (art. 26, comma 2), di collocazione di cartelli o altri mezzi di pubblicità (art. 49, comma 2), di assicurazione del decoro di complessi monumentali e di beni del demanio culturale e delle aree contermini (art. 52, comma 1 ter), di uso individuale dei beni culturali in consegna degli enti pubblici territoriali (art. 106), di sponsorizzazione (art. 120). Analogamente si potrebbe dire per l’utilizzo frequente del medesimo parametro nella disciplina dei beni paesaggistici.

[23] V. Ad. Plen., n. 5/2023, cit., punto 3.2 della motivazione in diritto.

[24] Come precisa la stessa sentenza, in modo molto esplicito (punto 3.8 della motivazione in diritto): “In definitiva, quel che può essere imposto è un divieto di usi diversi da quello attuale, a tutela tanto del bene culturale quanto dei valori in esso incorporati. (...) A tal fine la motivazione del provvedimento di vincolo del bene, che vi imprima altresì una destinazione d’uso, potrà valorizzare, anche nell’ambito delle relazioni specialistiche allegate che ne costituiscano parte integrante, il collegamento tra gli elementi culturali materiali e quelli immateriali, inverato nello svolgimento di un’attività, strumentale alla conservazione della res e del valore culturale che essa esprime, in ragione della sussistenza sia dell’immedesimazione dei valori storico culturali con le strutture materiali (l’immobile e gli arredi in esso contenuti) che del collegamento dei beni e della loro utilizzazione con determinati eventi della storia e della cultura (...). Pertanto, l’Amministrazione, nel dichiarare l’interesse culturale del bene, può sia (in negativo) precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res, sia (in positivo) disporre la continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata: e ciò anche in assenza di un processo di trasformazione della res e a prescindere dal suo riferimento a una specifica iniziativa storico culturale di rilevante importanza”. Giova sottolineare che in questo passaggio il giudice amministrativo afferma inequivocabilmente che la sua ricostruzione non contempla solo una visione massimamente quantitativa del giudizio di compatibilità, ma comprende anche una visione qualitativamente diversa, capace di implicare, per l’appunto, la continuità di un uso specifico.

[25] Ibidem, punto 3.2 della motivazione in diritto.

[26] Ibidem, punto 3.5 della motivazione in diritto: “se per gli studi d’artista l’imposizione del vincolo di destinazione d’uso discende direttamente dal dato positivo per effetto della mera qualificazione della res in tali termini e, quindi, dell’accertamento di tale qualitas del bene, viceversa per le altre categorie di beni culturali occorre una valutazione amministrativa delle circostanze del caso concreto, che dia conto delle ragioni per cui usi della res diversi da quelli attuali siano di pregiudizio per la conservazione dei suoi caratteri artistici o storici ovvero per la sua integrità materiale”.

[27] V. al par. 2.

[28] Ad. Plen., n. 5/2023, cit., punto 3.3 della motivazione in diritto. L’affermazione dovrebbe essere temperata proprio nei casi in cui, come in quello di specie, una volta stabilito che ci si trovi dinanzi a un bene culturale, si tratti di definire sul piano attuativo che cosa ciò comporti concretamente nella sfera giuridica del soggetto privato: v., ad esempio, Cons. St., Sez. VI, 24 marzo 2020, n. 2061.

[29] Corte cost., 9 marzo 1990, n. 118.

[30] La Corte, infatti, richiama in modo pertinente le disposizioni al tempo applicabili (i.e. l’art. 11 della legge n. 1089/1939, che - conformemente a quanto oggi precisato in via generale dall’art. 20 del Codice dei beni culturali - vietava “delle suddette cose una destinazione ed un uso non compatibile con il loro carattere e, comunque, tale da pregiudicarne la conservazione e l’integrità”).

[31] Ad. Plen., n. 5/2023, cit., punto 3.3. della motivazione in diritto.

[32] Ibidem, punto 6.3.

[33] V. il successivo punto 3.4 della motivazione in diritto.

[34] V. supra, par. 3.

[35] In proposito, i distinguo che il giudice opera al punto 4.7 della motivazione in diritto sono di per sé dimostrativi di tale assunto: “L’art. 7-bis non introduce una forma di tutela distinta o alternativa, sul piano ontologico (salvo il quid pluris concernente la categoria di beni culturali assoggettabili a tutela) e procedimentale, rispetto alle misure di protezione ordinarie e tradizionali previste dal Testo Unico, ma integra e rafforza il sistema delle tutele ivi contemplate. Pertanto, a una formalistica visione che contrappone, nell’ambito delle misure di protezione dei beni culturali, la ‘tutela delle cose’ ex art. 10 d.lgs. 42/2004 (basata su un procedimento autoritativo di tipo verticale) alla ‘tutela delle attività’ di cui all’art. 7-bis cit. (che richiederebbe, invece, l’intervento delle comunità interessate e un procedimento di tipo partecipativo), deve preferirsi un approccio integrato e dinamico della tutela del bene culturale, considerato nella sua interezza”.

[36] Nonostante queste “rassicurazioni”, peraltro, la motivazione (v. punto 6.3) indugia in una similitudine che pare dare per scontato il risultato opposto, avvicinando “l’avviamento di un’azienda” (sic) al cd. “uso pregresso che contribuisce al valore culturale immateriale insito nella cosa”.

[37] Come si desume dal punto 6.5 della motivazione in diritto: “Un tale vincolo di destinazione può operare soltanto sul piano oggettivo, regolando l’uso della res, senza disporre alcun obbligo di prosecuzione dell’attività svolta né la riserva di una tale attività, a prescindere dagli accordi conclusi tra le parti, in favore dell’attuale gestore”.

 

 

 



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