testata

L’immagine del bene culturale “fra i due mondi”

La riproduzione dei beni culturali: la tutela del bene alla prova della liberalizzazione della sua immagine

neldi Klaudia Kurcani [*]

Sommario: 1. Qualche considerazione introduttiva sulla riproduzione dei beni culturali. - 2. Note a margine di un’ordinanza del Tribunale di Venezia sull’utilizzo dell’immagine di un bene culturale. - 3. La disciplina in materia di riproduzione dei beni culturali. - 3.1. L’assenza di lucro come stella polare per l’utilizzo libero dell’immagine del bene. - 4. La concessione come strumento di tutela (ma non solo) del bene culturale. - 4.1. Oltre i confini della tutela: quale spazio per la liberalizzazione? - 5. Osservazioni conclusive su alcuni “nodi” ancora da sciogliere.

The reproduction of cultural goods: the protection of the good at the test of the liberalisation of its image
The article deals with the issue related to the reproduction of cultural property. It examines the current discipline on the reproduction of cultural property and dwells on the functions of protection and enhancement of cultural property, also in light of the phenomena of digitization. The article focuses then on the liberalization of the image of cultural heritage. The goal requires a reform of the system that goes in the direction of strengthening the enhancement and enjoyment of the heritage. This choice would also not go to endanger the tangible and intangible value of cultural property.

Keywords: reproduction of cultural heritage; liberalization; image; digitalization.

1. Qualche considerazione introduttiva sulla riproduzione dei beni culturali

È capitato a tutti di ammirare un bene culturale, come un quadro, una statua o, ancora, una chiesa o un teatro e, se non può certamente dubitarsi che una tale attività possa essere svolta liberamente, la medesima convinzione non pare rinvenirsi qualora si intenda utilizzare e diffondere la sua immagine. Ed è proprio quest’ultimo caso a sollecitare l’attenzione del giurista, soprattutto se si considera che la disciplina relativa all’utilizzo dell’immagine muta a seconda dell’impiego che di questa viene effettuato.

Per approfondire la tematica, però, non si può prescindere da un preliminare inquadramento del concetto di bene culturale, definizione di cui il nostro ordinamento è ancora privo. Riprendendo quanto osservato da Giannini nel 1976, i beni culturali sono “una nozione liminale, ossia nozione a cui la normativa giuridica non dà un proprio contenuto, una propria definizione per altri tratti giuridicamente conchiusi, bensì opera mediante rinvio a discipline non giuridiche” [1]. La dottrina ha rilevato come una delle principali caratteristiche dei beni culturali è chedel questi sono “portatori di numerosi e diversi interessi, sia pubblici che privati, spesso in contrasto tra loro, cui possono spesso collegarsi altrettante situazioni giuridiche” [2].

Eppure, anche stante l’assenza di una definizione univoca di tale categoria giuridica, che si presenta come un “contenitore ad ampio spettro” [3], l’ordinamento ha delineato un impianto ricco di previsioni volte a tutelare e valorizzare i beni culturali. Ed è proprio in questa logica che si pongono le disposizioni sulla riproduzione dell’immagine dei beni [4], la quale è sì possibile, ma se effettuata per fini di lucro è subordinata al rilascio di una concessione d’uso ed al versamento di un canone da parte del soggetto beneficiario.

Tale regola è ora cristallizzata all’interno del codice dei beni culturali e del paesaggio e, anche se i contorni entro cui si inscrive la disciplina paiono chiari e netti, è spesso accaduto che questa venisse disattesa. Ciò ha portato i giudici a pronunciarsi a più riprese ed è proprio partendo da un’ordinanza del Tribunale di Venezia che si cercherà di ricostruire la disciplina relativa alla riproduzione dell’immagine dei beni culturali, anche alla luce dei fenomeni di digitalizzazione del patrimonio culturale [5]. In tale quadro, è fondamentale soffermarsi sulla ratio sottesa alle previsioni, tenuto conto dei plurimi interessi che entrano in gioco: da un lato, l’interesse pubblico a tutelare ed al contempo valorizzare [6] il valore materiale ed immateriale del bene culturale [7] e, dall’altro, l’interesse privato alla fruizione e, di conseguenza, all’utilizzo di tale immagine, tanto per scopi personali quanto per finalità di lucro.

La tematica della riproduzione dei beni culturali impone così una riflessione sul legame tra tutela, valorizzazione e fruizione: è infatti fondamentale che un bene venga tutelato adeguatamente affinché ne venga consentita la sua fruizione, ma è al contempo necessario che le forme di valorizzazione e fruizione non subiscano eccessive limitazioni, al fine di scongiurare il rischio di assistere ad un loro svuotamento [8].

Vi sono, però, alcuni elementi di criticità che l’impianto presenta e che originano dalla pluralità di interessi che entrano in gioco e che potrebbero portare a riflettere su una effettiva, nonché completa, liberalizzazione dell’immagine dei beni culturali, senza che questa metta in pericolo o ne leda il valore, ma anzi contribuisca alla loro valorizzazione, anche sul piano economico [9], intensificandone così al contempo la fruizione.

2. Note a margine di un’ordinanza del Tribunale di Venezia sull’utilizzo dell’immagine di un bene culturale

Una recente ordinanza del Tribunale di Venezia ha ribadito che per l’utilizzo dell’immagine di un bene culturale, se effettuata per scopi di lucro, è necessario il rilascio della concessione d’uso ed il pagamento del relativo canone [10].

I giudici sono stati chiamati a pronunciarsi a seguito della presentazione di un reclamo da parte del ministero della Cultura e delle gallerie dell’Accademia di Venezia contro tre società tedesche che avevano riprodotto e commercializzato, dal 2014 al 2021, un puzzle denominato “Leonardo da Vinci: L’uomo Vitruviano”, in assenza della concessione da parte dell’Istituto museale, violando così le previsioni relative all’uso dell’immagine per prodotti di merchandasing. Più in particolare, le società resistenti avrebbero dovuto chiedere all’autorità custode del bene una concessione di uso e pagare un canone annuale e di royalties.

Il Collegio, investito della questione, dopo aver affrontato alcune questioni preliminari di rito, ha esaminato la presenza dei presupposti necessari per l’applicazione della misura inibitoria richiesta dalle parti ricorrenti e, segnatamente, la presenza ed attualità del periculum, ritenendo fondata la pretesa azionata, potendo la condotta delle società resistenti ritenersi idonea ad integrare un illecito comportante un danno risarcibile ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c.

L’utilizzo dell’immagine dell’Uomo Vitruviano non è stato infatti preceduto dalla necessaria e preventiva verifica da parte dell’amministrazione consegnataria del bene, che avrebbe dovuto esaminare l’appropriatezza della destinazione d’uso e delle modalità di utilizzo del bene in rapporto al suo valore culturale [11]. E quindi, considerato che solo l’autorità custode del bene può valutare la compatibilità dell’uso dell’immagine con la sua dimensione culturale e identitaria, il fatto che non fosse stata richiesta la concessione d’uso e, dunque, che tale valutazione non vi fosse stata, ha provocato un danno irreparabile [12], il quale si ricollega alla gravità della lesione perpetrata per anni all’immagine ed al nome del bene culturale, leso in modo irrimediabile dal solo fatto di essere stato (e continuare ad esserlo) oggetto di riproduzione indiscriminata. Tale danno è stato rinvenuto non solo nella lesione immateriale subita dal bene, ma anche nella perdita economica patita dall’Istituto museale e imputabile al mancato pagamento del canone di concessione e dei corrispettivi di riproduzione [13]. I giudici hanno così accertato la sussistenza del periculum legittimante l’accoglimento del reclamo, disponendo l’inibizione dell’utilizzo, per fini commerciali, dell’immagine dell’Uomo Vitruviano di Leonardo Da Vinci, in qualsiasi forma e in qualunque strumento, anche informatico.

Quanto deciso dal Tribunale di Venezia si inserisce in un orientamento oramai consolidato, che va nel senso di censurare l’utilizzo dell’immagine di un bene culturale se volto al suo sfruttamento economico-commerciale, qualora non sia stata richiesta ed ottenuta la concessione d’uso e pagato il relativo canone.

Nel 2017 il Tribunale di Palermo ha condannato un istituto bancario per avere utilizzato l’immagine del Teatro Massimo per una campagna pubblicitaria dal titolo “Palermo al centro”, consistente nell’affissione di cartelloni contenenti fotografie del teatro Massimo, al fine di promuovere le proprie agenzie presenti sul territorio e realizzata senza la previa, e necessaria, autorizzazione dell’autorità custode del bene [14].

Sempre nel 2017, il Tribunale di Firenze si è pronunciato sulla riproduzione della statua del David di Michelangelo da parte di un’agenzia di viaggi sul suo materiale promozionale in assenza dell’autorizzazione della Galleria dell’Accademia. Quest’ultima ha così adito il giudice ordinario, lamentando la violazione degli artt. 107 e 108 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42: il Tribunale di Firenze ha ritenuto fondate tali argomentazioni ed ha per l’effetto disposto il divieto di utilizzare e sfruttare, per fini commerciali e su tutto il territorio nazionale, l’immagine del David di Michelangelo senza il permesso della Galleria dell’Accademia e senza il pagamento dei diritti di riproduzione [15].

Nel 2022 il Tribunale di Firenze è tornato nuovamente a pronunciarsi sulla riproduzione del David di Michelangelo, accertando anche in questo caso l’utilizzo illegittimo dell’immagine del bene da parte di un centro di formazione per scultori, che aveva diffuso sul proprio sito web una campagna pubblicitaria in cui veniva riprodotto il David di Michelangelo [16]. I giudici hanno rilevato come “l’utilizzo dell’immagine del David sul sito di un’impresa commerciale sia [...] idoneo a svilire l’immagine del bene culturale facendolo scadere ad elemento distintivo della qualità della impresa che, attraverso il suo uso, promuove la propria immagine, con uso indiscutibilmente commerciale, che potrebbe indurre terzi a ritenere siffatto libero utilizzo lecito o tollerato”, e ciò anche a prescindere dal fatto che si trattasse di immagini tratte della copia dell’originale realizzata dalla società utilizzatrice [17].

Sempre nel 2022, la casa di moda francese Jean Paul Gaultier ha utilizzato la Venere di Botticelli per una propria linea di prodotti di abbigliamento, senza richiedere la preventiva autorizzazione alle Gallerie degli Uffizi di Firenze. Gli Uffizi hanno così intimato la casa di moda a cessare l’utilizzo non autorizzato della riproduzione della Venere oppure a concludere un accordo per disciplinarne l’utilizzo. Tale diffida è però rimasta senza riscontro ed è stata adita l’autorità giudiziaria, la quale è ora chiamata a pronunciarsi.

Ancora più recentemente, il Tribunale di Firenze, con una sentenza del 20 aprile 2023, ha condannato un gruppo editoriale per avere riprodotto nella copertina della propria rivista l’immagine del David di Michelangelo, senza ottenere la concessione per la riproduzione e senza versare alcun corrispettivo per tale utilizzo [18].

In senso parzialmente difforme si è invece posta la Corte di Cassazione in una sentenza del 2013, ritenendo legittima la riproduzione di un cranio rinvenuto nel giacimento paleoantropologico della grotta di Altamura, in quanto l’opera realizzata dalla società resistente era un’ipotetica ricostruzione del bene culturale, basata “su una serie di rilevamenti scientifici e di ipotesi ricostruttive che non avevano inficiato il profilo di unicum del bene culturale” [19].

A parte questa singola pronuncia, però, la posizione dei giudici è granitica e non lascia margine per ulteriori apprezzamenti, andando nel senso di inibire l’uso non autorizzato dell’immagine del bene culturale, se questo è strumentale al perseguimento di uno scopo di lucro, potendo venire in tale modo leso (anche solo potenzialmente) il valore materiale ed immateriale del bene.

3. La disciplina in materia di riproduzione dei beni culturali

La disciplina in materia di riproduzione dei beni culturali, tema a cui il nostro ordinamento è da sempre particolarmente attento, si rinviene nel d.lg. n. 42/2004 [20].

Già l’art. 7 del regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363, di approvazione del regolamento per l’esecuzione delle leggi 20 giugno 1909, n. 364 e 23 giugno 1912, n. 688, relative alle antichità e belle arti, stabiliva il divieto di trarre calchi dagli originali di sculture e opere di rilievo in genere. Il regio decreto 29 marzo 1923, n. 798, recante “Norme sulla riproduzione mediante fotografia, di cose mobili ed immobili di interesse storico, paletnologico, archeologico ed artistico”, all’art. 1 disponeva, con specifico riguardo alla riproduzione mediante fotografia di beni culturali, che chiunque avesse voluto riprodurre mediante fotografie cose immobili o mobili, di interesse storico, archeologico, palentologico e artistico, avrebbe dovuto farvi domanda al Sovrintendente dei Monumenti, a quello delle Gallerie o dei Musei, secondo la competenza, oppure ai Direttori degli Istituti.

La legge Bottai del 1939 ha poi ribadito il divieto di trarre calchi dagli originali delle cose di interesse storico-artistico “di proprietà dello Stato o di altro ente o istituto pubblico”, precisando che “il Ministero della pubblica istruzione, sentito il consiglio superiore delle antichità e delle belle arti o quello delle accademie e biblioteche, può autorizzare la esecuzione di calchi, qualora le condizioni dell’originale lo consentano” [21]. Da queste previsioni si evince chiaramente il divieto di riprodurre l’immagine dei beni ed al contempo la necessità di richiedere l’autorizzazione dell’autorità competente in caso di loro utilizzo.

Nello stesso senso si è posta altresì la legge 20 marzo 1965, n. 340, prevedendo, all’art. 5, che chiunque intendesse eseguire fotografie negli Istituti statali di antichità e d’arte avrebbe dovuto ottenere il permesso dalla Soprintendenza o dall’Istituto [22].

Qualche anno più tardi, con l’approvazione della legge 14 gennaio 1993, n. 4, c.d. “Legge Ronchey”, viene fissato un limite alla riproducibilità dei beni culturali. La messa a disposizione delle riproduzioni dei beni custoditi presso musei, biblioteche e archivi di Stato viene fatta rientrare tra i c.d. “servizi aggiuntivi”, venendo sancita la possibilità, per il ministero, di concedere l’uso dei beni culturali ed ambientali statali, previa determinazione del canone dovuto per l’uso [23].

Queste previsioni sono state in parte cristallizzate all’interno del codice urbani, anche se la disciplina ha subito un considerevole irrigidimento, essendo stato introdotto un generalizzato obbligo di richiedere una concessione d’uso all’autorità custode del bene previo versamento di un corrispettivo. Un tale impianto si pone in termini più restrittivi rispetto a quanto contenuto nella legge Ronchey [24].

La disciplina relativa all’uso dell’immagine dei beni culturali si rinviene ora nella parte II, sezione II, del d.lg. n. 42/2004, sull’uso dei beni culturali e, più in particolare, agli artt. 106, 107 e 108 [25].

L’art. 106, consacrato all’uso individuale dei beni culturali, prevede la possibilità per lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali, di concedere l’uso dei beni culturali che hanno in consegna, per finalità compatibili con la loro destinazione culturale ed il loro carattere storico-artistico [26]. Per i beni in consegna al ministero, è quest’ultimo a determinare il canone e adottare il relativo provvedimento (art. 106, comma 2). Il comma 2-bis precisa come per i beni diversi da quelli in consegna al ministero, la concessione in uso sia subordinata al rilascio dell’autorizzazione del ministero, sempre che il conferimento garantisca la conservazione e la fruizione pubblica del bene e sia assicurata la compatibilità della destinazione d’uso con il carattere storico-artistico del bene.

L’impianto delineato non sembra invece occuparsi, almeno espressamente, anche dei beni culturali di proprietà privata [27]: ritenere però che questi sfuggano all’ambito applicativo della previsione si porrebbe in contrasto con la ratio a questa sottesa, la quale è volta a tutelare il bene a prescindere dai suoi profili dominicali (su questo profilo, infra par. 4). Quindi, anche stante l’assenza di una espressa previsione in tale senso, tali beni devono ritenersi attratti nell’orbita applicativa del comma 2-bis dell’art. 106 [28].

L’art. 107 disciplina l’uso strumentale e precario dei beni culturali, prevedendo che il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali possano consentire la riproduzione ed il loro uso strumentale e precario dei beni, fatte salve le disposizioni in materia di diritto d’autore [29].

L’art. 108 delinea invece le modalità di determinazione dei canoni di concessione e dei corrispettivi di riproduzione [30], distinguendo i casi a seconda della finalità cui l’utilizzo dell’immagine è preposta. Se l’immagine viene utilizzata per scopi economico-commerciali è necessario richiedere una concessione d’uso all’autorità custode del bene, la quale sarà chiamata a valutare la compatibilità dell’uso richiesto con il carattere storico-artistico dei beni culturali ed a versare un canone per tale utilizzo. Nessun canone è invece dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per fini personali o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro, seppure i richiedenti siano comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente. Dal dato normativo cristallizzato al comma 3 dell’art. 108 si evince che l’esonero operi solo con riguardo all’obbligo di versare il canone e non ricomprenda anche l’obbligo di chiedere comunque la concessione all’autorità custode del bene [31].

Eppure, il successivo comma 3-bis tratteggia una vera e propria liberalizzazione dell’immagine dei beni culturali, individuando le attività a tutti gli effetti libere e per le quali non è necessario il rilascio della concessione d’uso. Tale liberalizzazione opera per le attività che sono svolte per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale e, quindi, senza scopo di lucro. È libera “la riproduzione dei beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità, attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose (...)”, così come “la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro”. Le disposizioni si occupano così di delineare casistiche diverse ed il relativo regime si fonda sull’utilizzo che viene fatto dell’immagine del bene.

La tematica sulla riproduzione dell’immagine dei beni culturali involge inoltre anche questioni relative al diritto d’autore, sussistendo una fisiologica connessione tra le due discipline [32]. Non volendo in questa sede ricostruire in termini compiuti la disciplina autoriale, ai fini della presente indagine è opportuno evidenziare come molti beni culturali siano al contempo qualificati come “opere di ingegno di carattere creativo” e debbano pertanto sottostare alle disposizioni in materia di diritto d’autore [33]. Un tale legame viene peraltro posto in luce anche nel codice dei beni culturali e del paesaggio, considerato che l’art. 107 fa salva l’applicazione delle disposizioni sul diritto d’autore [34].

Il rapporto tra i due settori, com’è stato evidenziato in dottrina, non si attesta su un piano di alternatività, ma di coesistenza, considerato che la disciplina di carattere privatistico, da un lato, e quella pubblicistica, dall’altro, opererebbero ciascuna nella propria sfera di applicazione oggettiva e sulla base dei presupposti temporali di attivazione [35]. Le disposizioni in tema di beni culturali assumono così contorni di autonomia e convivono con quelle autoriali, venendo in questo modo delineato un doppio binario fra la tutela delle opere dell’ingegno e quella del patrimonio culturale. Eppure, il codice urbani prevede che, una volta venute meno le tutele previste dal diritto autoriale, debbano comunque trovare applicazione le disposizioni del codice dei beni culturali. Una tale previsione potrebbe sollevare qualche perplessità, arrivando al punto da chiedersi se “una volta cessata la vigenza dei diritti (economici) d’autore, sia giusto che un proprietario pubblico abbia diritti di ‘esclusiva’ sulla riproduzione di un’opera divenuta bene culturale” [36].

Il legislatore nazionale, dal canto suo, ha compiuto una chiara scelta che va nel senso di accordare maggiore spazio alla funzione di tutela del patrimonio culturale, piuttosto che porre le basi per promuovere un’intensificazione della loro valorizzazione e fruizione, la quale passerebbe anche per la liberalizzazione dell’utilizzo della loro immagine (su questo profilo, infra par. 4.1).

3.1. L’assenza di lucro come stella polare per l’utilizzo libero dell’immagine del bene

Nel par. 3 si è osservato che lo scopo di lucro (e, dunque, lo sfruttamento economico e commerciale dell’immagine del bene) rappresenta lo spartiacque tra uso dell’immagine subordinato o meno al pagamento del canone d’uso [37] e, nei casi delineati al comma 3-bis dell’art. 108, alla necessità stessa di richiedere il rilascio della concessione.

L’impianto normativo ora vigente è stato oggetto di alcuni interventi legislativi che hanno gradualmente portato ad una (parziale) liberalizzazione dell’immagine dei beni culturali [38].

La legge 29 luglio 2014, n. 104 (c.d. Art Bonus) è intervenuta sull’impianto normativo, inserendo, all’art. 108, una previsione che precisa come siano ad ogni modo libere alcune attività svolte senza scopo di lucro e per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa e promozione della conoscenza del patrimonio culturale [39]. La legge 12 agosto 2017, n. 124 ha portato a compimento il processo di riforma avviato nel 2014, estendendo i casi di esenzione dalla richiesta di autorizzazione anche ai beni bibliografici e archivistici non sottoposti a restrizioni di consultabilità.

L’art. 108 delinea in verità due diverse casistiche: il terzo comma prevede che l’utilizzo dell’immagine sia sì subordinato a rilascio della concessione d’uso, ma non al versamento del canone per tale utilizzo. Tale esenzione opera per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, oppure da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. Il comma 3-bis delinea invece una vera e propria liberalizzazione dell’utilizzo dell’immagine, considerato che non è necessario il rilascio di alcuna concessione.

Vi è, così, una differenza tra le due previsioni: nel primo caso, bisogna richiedere la concessione per la riproduzione dell’immagine del bene e, qualora questa venga usata dai privati per motivi personali o di studio oppure da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, non è necessario versare il canone di concessione (salvo comunque l’obbligo di rimborsare le spese sostenute dall’amministrazione concedente). Nel secondo caso si assiste invece ad una vera e propria liberalizzazione dell’immagine del bene, non essendo necessaria neppure la concessione d’uso.

La linea di demarcazione tra le attività del tutto libere e tra quelle comunque subordinate al rilascio della concessione non si presenta del tutto netta, ben potendo i casi delineati al comma 3 rientrare nell’alveo applicativo del successivo comma 3-bis, tenuto anche conto della disciplina di maggiore favore al suo interno delineata. Ad ogni modo, lo sfruttamento economico-commerciale del bene e, pertanto, lo scopo di lucro, rappresenta la stella polare tra uso libero o meno dell’immagine del bene culturale [40]. Tale libertà, a sua volta, assume gradazioni diverse: in un caso si riferisce al non dovuto versamento del canone d’uso, mentre nell’altro si estende e ingloba la necessità stessa di chiedere il rilascio della concessione d’uso [41].

Per delineare una disciplina di maggiore dettaglio alla tematica, con il d.m. del ministero per i beni e le attività culturali del 20 aprile 2005, sono stati adottati gli “Indirizzi, criteri e modalità per la riproduzione di beni culturali, ai sensi dell’articolo 107 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”, al fine così di tratteggiare la cornice entro cui esercitare tale potere valutativo. Al secondo capo sono infatti individuati i principi generali per la riproduzione di beni culturali, la quale è autorizzata dal responsabile dell’Istituto che ha in consegna i beni, previa determinazione dei corrispettivi dovuti e sulla base di sue valutazioni, le quali devono tenere conto delle finalità della riproduzione, anche sotto il profilo della compatibilità con la dignità storico-artistica dei beni da riprodurre e del numero di copie da realizzare, e sempre previa verifica della tollerabilità della metodica sulla copia da riprodurre [42].

Recentemente sono inoltre state approvate, con decreto ministeriale dell’11 aprile 2023, n. 161, le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali” [43], che si occupano di definire gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi di concessione richiesti ai singoli richiedenti per l’uso di spazi e la riproduzione dei beni culturali in consegna ad istituti e luoghi di cultura.

Dal quadro normativo emerge così come l’utilizzo dell’immagine di un bene culturale sia subordinato al previo ottenimento di una concessione d’uso solo qualora la riproduzione venga utilizzata per fini economico-commerciali ed in questo modo la presenza (o l’assenza) di lucro si attesta come stella polare tra uso libero o meno dell’immagine.

Le considerazioni sin qui avanzate meritano di essere completate con un ulteriore dato, che attiene alla progressiva diffusione del fenomeno di digitalizzazione del patrimonio culturale [44]. Come si è rilevato in dottrina, “la digitalizzazione infonde nuova vita alle opere del passato e le trasforma in una straordinaria risorsa per il singolo fruitore e per l’economia digitale” [45]. La tematica sta difatti assumendo sempre maggiore importanza e ne è una prova anche la recente adozione del Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022-2023 [46], nel quale si rileva che “la digitalizzazione del patrimonio culturale è una realtà acclarata da tempo”, seppure questa non abbia prodotto “quel salto culturale - in termini di conoscenza specialistica e diffusa, valore sociale, immagine del Paese, organizzazione degli Istituti - che è possibile ottenere grazie al nostro immenso patrimonio” [47]. La digitalizzazione produce così conseguenze rilevanti anche sul piano della riproduzione dei beni culturali, considerato che le nuove tecnologie possono consentire la fruizione “di contenuti attraverso forme (a distanza), modalità (digitale) e orizzonti geografici (transnazionali) non contemplati dal sistema esistente” [48].

4. La concessione come strumento di tutela (ma non solo) del bene culturale

Per l’utilizzo dell’immagine del bene culturale l’ordinamento cerca così di delineare una cornice entro la quale bilanciare i vari interessi che entrano in gioco. Volendo ora andare ad approfondire la ratio sottesa alla disciplina, la funzione di tutela del valore materiale ed immateriale del bene si afferma senza dubbio in termini protagonistici [49].

Riprendendo la tradizionale categorizzazione dei beni culturali, è d’uopo segnalare come questi vengano distinti in beni materiali ed immateriali: in dottrina si è peraltro osservato come “i beni culturali immateriali sono una sorta di proiezione ologrammatica tridimensionale, così che il singolo bene culturale immateriale è la risultante di molti beni culturali materiali, che si caratterizzano per avere un contesto comune, a volte geografico, a volte per materia, a volte identitario” [50].

I beni si compongono inoltre di due dimensioni, una materiale e l’altra immateriale: la prima funge da supporto alla seconda, formandone “il corpus mystichum che necessariamente si affianca al corpus materiale o mechanicum” [51]. V’è, quindi, la necessità di tutelare ambo le dimensioni, tenuto anche conto del fatto che il bene culturale, in quanto tale, “è irriproducibile, è un unicum, perché il risultato di un ‘sinolo’ inscindibile tra supporto materiale e valore immateriale di cui esso è portatore”. Tutela, quindi, “non del supporto materiale che racchiude il valore culturale di cui i beni sono portatori, bensì del valore stesso” [52].

La tutela si declina nella disciplina delle attività volte “ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione” [53]. Questa funzione assume particolare importanza nel settore dei beni culturali, ponendosi così a fondamento dell’impianto in materia di riproduzione della loro immagine. Non volendo certamente ricostruire l’ampio dibattito relativo alla funzione di tutela, in questa sede basti rilevare come la tutela svolga un ruolo fondamentale nel panorama dei beni culturali e, con specifico riguardo all’immagine dei beni, l’esigenza di tutela potrebbe riguardare l’interesse pubblico alla verità, ovvero a garantire l’autenticità dell’opera, che potrebbe risultare minata da un utilizzo della sua immagine [54].

Un bene culturale, però, non va solo tutelato, ma ne va al contempo assicurata la valorizzazione e fruizione: si tratta di funzioni tra loro connesse, ma dotate di una propria autonomia [55]. La valorizzazione consiste difatti “nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura” [56]. L’attività di valorizzazione si declina così “nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali (...)” [57] ed in questo quadro la gestione si afferma come attività servente alla valorizzazione [58].

La funzione di valorizzazione si lega a sua volta alla fruizione del bene e, più in particolare, del suo valore materiale ed immateriale. Una delle conseguenze più importanti del valore immateriale del bene culturale è difatti “quello dell’essere destinato alla pubblica fruizione”; il godimento lo ha l’universo dei fruitori del bene culturale, “cioè un gruppo disaggregato e informale di persone fisiche, indeterminate ed indeterminabili come universo, ma individuabili in concreto nel tempo presente in elementi o gruppi aggregati particolari che si costituiscono nell’universo” [59]. I beni culturali, proprio per questa loro caratteristica, sono stati definiti come “beni di fruizione, più che di appartenenza: lo Stato-amministrazione non ha il godimento del bene culturale, poiché il godimento lo ha l’universo dei fruitori del bene medesimo” [60].

Quanto ai rapporti che sussistono tra tutela, valorizzazione e fruizione, sul punto si è osservato che la valorizzazione va “attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze”, mentre “le attività concernenti la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale [...] [vanno] svolte in conformità alla normativa di tutela” [61].

Il rapporto tra le varie funzioni pare così non attestarsi come paritario e di equi-ordinazione, considerato che le attività di valorizzazione e fruizione sono subordinate alla loro tutela.

La dicotomia tutela/valorizzazione [62] ha difatti da sempre dominato le politiche del patrimonio culturale in Italia, affermandosi all’inizio come “endiadi - quando la valorizzazione non aveva ancora assunto un significato dai contorni definiti - il binomio è stato poi usato nei modi più vari, fino a indicare persino due visioni antitetiche, una orientata alla conservazione, l’altra alla ‘messa a reddito’ del patrimonio storico-artistico” [63].

Questa tensione sembra percepirsi anche con riguardo alla riproduzione dei beni culturali, in quanto l’esigenza di tutela e quella di valorizzazione possono talvolta non coincidere ed anzi porsi in termini antinomici e proprio questo profilo rende necessario un ripensamento del sistema [64]. Tensione che pare ancora di più accentuarsi se si assume come angolo prospettico quello relativo alla digitalizzazione del patrimonio culturale.

Un ultimo punto merita pertanto una sottolineatura. Nel precedente paragrafo (supra par. 3.1) si è osservato che i fenomeni di digitalizzazione hanno prodotto conseguenze anche nel settore dei beni culturali e le funzioni di tutela, valorizzazione e fruizione devono essere esaminate anche alla luce della dimensione digitale che i beni possono assumere [65], ben potendo l’utilizzo della tecnologia incentivare e promuovere la riproduzione per immagini dei beni e, più in particolare, il patrimonio culturale. L’impiego di strumenti digitali può difatti rafforzare soprattutto il piano della fruizione dei beni, senza perdere al contempo di vista l’esigenza di tutela del loro valore. Emerge così la necessità di delineare un modello che vada nel senso di valorizzare e rendere fruibile il patrimonio culturale, anche mediante l’impiego di strumenti di digitalizzazione [66].

4.1. Oltre i confini della tutela: quale spazio per la liberalizzazione?

Le considerazioni avanzate nel precedente paragrafo consentono così di porre le basi per una riflessione su un possibile ripensamento delle previsioni relative alla riproduzione dei beni culturali. È proprio partendo dalla tensione tra le varie funzioni che si cercherà di esaminare il rapporto tra la tutela dei beni e la liberalizzazione della loro immagine, al fine di comprendere se le esigenze di tutela non lascino spazio (come ad ora è) alla liberalizzazione.

Come si è osservato nel par. 4, la ratio sottesa alle norme in materia di riproduzione sembra rinvenirsi nella necessità di tutelarne il valore materiale ed immateriale. Tale esigenza si percepisce chiaramente se si pensa al caso del “David armato”, nel quale un’impresa produttrice di armi da fuoco è stata condannata per avere pubblicizzato un’immagine per una sua campagna pubblicitaria, in cui il David di Michelangelo imbracciava un fucile mitragliatore [67]. In altri casi, però, il comportamento sanzionato ha riguardato non tanto l’utilizzo che veniva effettuato dell’immagine e che poteva risultare potenzialmente lesivo del suo valore, quanto il fatto che la riproduzione non fosse stata preceduta dal rilascio della concessione d’uso e non fosse pertanto neppure stato versato il relativo canone di concessione: in questi casi, si è sanzionata la lesione sul piano della potenzialità e non della sua effettività (supra par. 2).

L’ordinamento delimita così l’esigenza di tutela ai soli casi di sfruttamento economico-commerciale dell’immagine del bene ed in questo modo sembra che unicamente la presenza di uno scopo di lucro possa rappresentare un pericolo per la sua integrità, sia materiale sia immateriale. Eppure, non può certamente ignorarsi il fatto che anche in assenza di uno scopo di lucro l’immagine del bene potrebbe essere utilizzata in modo tale da lederne comunque il suo valore.

Le previsioni pongono inoltre al centro la necessità di tutelare il bene, senza considerare che è al contempo necessario che questo vada valorizzato e ne vada assicurata la sua fruizione. I processi di valorizzazione e conseguente fruizione hanno infatti avuto il merito di far emergere e rafforzare la dimensione economica dei beni culturali, anche considerato che la valorizzazione del patrimonio culturale è un’attività che si affianca alla tutela “e non può essere vista in maniera riduttiva o peggio negativa rispetto ad essa” [68].

Queste considerazioni potrebbero porre le basi per ripensare gli strumenti di tutela dell’immagine dei beni e, più in particolare, l’obbligo di ottenere la concessione d’uso e versare il relativo canone: l’esigenza di tutela andrebbe così “slegata” dalla presenza (o assenza) di uno scopo di lucro, ben potendo l’integrità dei beni risultare minacciata anche in assenza di un loro sfruttamento economico-commerciale.

Un ripensamento della funzione di tutela o, per meglio dire, degli strumenti mediante cui assicurarla, non andrebbe certamente nel senso di fare venire meno “la ‘storicità’, la non replicabile autenticità dell’opera d’arte (l’hic et nunc del Benjamin)” [69], quanto piuttosto di un rafforzamento della loro fruizione. Nell’ordinamento italiano pare difatti esservi un ritardo “nel riconoscere che la disciplina della riproduzione non è un tema solo di tutela (anche del decoro), né certo soltanto di valorizzazione economica e redditività, ma è, innanzitutto, un tema di promozione dello sviluppo della cultura” [70], rivelando le previsioni in materia di riproduzione un atteggiamento “proprietario” da parte dello Stato [71], che necessita di essere ripensato e superato.

Questa possibile (ed auspicabile) riconsiderazione assume ancora maggiore vigore se si pensa ad alcune esperienze, sia italiane sia straniere, nelle quali si è propeso per una liberalizzazione dell’immagine dei beni culturali. In Italia il Museo Egizio di Torino, a partire dal 2014, ha adottato un sistema libero in cui le immagini sono acquisibili e utilizzabili liberamente anche per fini commerciali, a patto che sia indicata la fonte del Museo [72]. Nel sito del Museo viene difatti annunciato il rilascio delle riproduzioni digitali in pubblico dominio, potendo in questo modo le immagini essere riutilizzate per qualsiasi scopo, anche commerciale, “in forma del tutto gratuita e senza ulteriori permessi da parte del museo. I termini d’uso qui espressi sostanziano infatti l’autorizzazione resa ai sensi dell’art. 108 del d.lg. n. 42/2004 a canone azzerato per qualsiasi eventuale riutilizzo commerciale”. Un’esperienza similare è stata sperimentata dal Rijksmuseum in Olanda [73], dal Metropolitan Museum of Art di New York così come dal Getty Museum di Los Angeles: in tutti questi musei, le immagini relative alle loro collezioni sono in regime di “open access” [74]. Questi esempi rivelano come la tutela dell’immagine bene culturale non debba necessariamente passare dall’ottenimento di una concessione d’uso, anche considerato che con l’utilizzo libero (per tale dovendosi intendere un utilizzo non subordinato al rilascio della concessione d’uso) dell’immagine dei beni verrebbe sicuramente rafforzata anche la loro valorizzazione e fruizione. L’importanza di propendere per una liberalizzazione dell’immagine dei beni è stata peraltro posta in luce anche a livello sovranazionale: in tal senso basti infatti pensare alle politiche volte a promuovere il libero accesso all’uso dei dati in generale e dell’immagine dei beni culturali in particolari [75].

Tutela e liberalizzazione dell’immagine non si pongono quindi in termini di alternatività e dicotomia e proprio in considerazione di questi elementi, e bilanciando i vari interessi che entrano in gioco, si potrebbe riflettere, almeno de iure condendo, sulla necessità di procedere con la liberalizzazione dell’immagine dei beni culturali, senza che in questo modo venga messa in pericolo la loro integrità [76]. L’autorità custode del bene potrebbe difatti individuare, a monte, gli usi economico-commerciali consentiti, di modo che l’immagine venga sfruttata solo per tali usi, senza che sia necessario ottenere il rilascio di una concessione d’uso. Qualora si intenda utilizzare l’immagine dei beni, sempre entro l’alveo degli usi consentiti, si potrebbe quindi presentare una segnalazione all’autorità, indicando l’uso che si intende fare dell’immagine. Così facendo, non si andrebbe ad eliminare il potere valutativo discrezionale, ma a spostare tale esercizio ad un momento antecedente e coincidente con l’identificazione degli usi consentiti, anche tenuto conto del fatto che la loro individuazione cristallizzerebbe quelle valutazioni che l’amministrazione è chiamata ad effettuare in sede di rilascio della concessione d’uso.

Questa prospettazione deve essere completata con una ulteriore considerazione: con tale nuovo impianto, ogni autorità consegnataria di beni culturali sarebbe chiamata ad individuare ex ante gli usi economico-commerciali consentiti, con la conseguenza che potrebbero talvolta sorgere delle disomogeneità a seconda delle scelte effettuate dalle varie autorità e, quindi, a seconda del bene culturale che si intende riprodurre. Tale elemento, però, può riscontrarsi anche nell’impianto ora vigente ed il rischio di queste possibili “sperequazioni” sarebbe comunque minore rispetto ai benefici che potrebbero derivare dalla liberalizzazione dell’immagine dei beni. Alla luce delle considerazioni sin qui avanzate pare quindi che, oltre i confini della tutela, vi sia uno spazio per la liberalizzazione, la quale non necessariamente si pone in contrasto con le esigenze di tutela, ed anzi contribuisce senz’altro a rafforzare e promuovere la valorizzazione e fruizione, anche economica, del patrimonio culturale.

5. Osservazioni conclusive su alcuni “nodi” ancora da sciogliere

Quanto è stato indagato pone così le basi per qualche riflessione conclusiva. La disciplina in tema di riproduzione dei beni culturali sembra incentrarsi principalmente sullo sfruttamento economico dell’immagine del bene culturale, che si afferma come stella polare tra uso libero o subordinato in taluni casi al pagamento del canone d’uso ed in altri all’ottenimento di una concessione d’uso ed al versamento del relativo canone.

La ratio delle previsioni in materia di riproduzione dei beni culturali pare difatti potersi rinvenire, almeno in astratto, nell’esigenza di assicurare la tutela del bene e, più in particolare, del suo valore materiale ed immateriale, dovendo al contempo esserne garantita la valorizzazione e fruizione. Con specifico riguardo a tali funzioni si è però segnalata la tensione che caratterizza il loro rapporto [77], la quale andrebbe ricomposta e potrebbe porre le basi per un ripensamento della disciplina vigente.

Vi sono alcuni elementi da cui si percepisce l’antichità dell’impianto codicistico e da cui emerge “la sensazione della patina del tempo” [78], che richiede un intervento, se non di totale stravolgimento, almeno di manutenzione del sistema. Manutenzione che dovrebbe in primo luogo poggiare su una riconsiderazione degli strumenti mediante cui assicurare la tutela dell’immagine dei beni, anche considerato che tale funzione deve essere interpretata alla luce della fruizione e valorizzazione, anche economica, del bene, divenendo queste un obiettivo fondamentale che deve guidare le politiche in materia di beni culturali.

L’attuale impianto pone difatti al centro la tutela dei beni, consacrando la concessione d’uso come strumento mediante cui assicurarla. Nelle pronunce esaminate nel par. 2, il comportamento sanzionato ha però riguardato più il fatto che non fosse stata richiesta la concessione d’uso e non fosse stato pagato il relativo canone, che la effettiva lesione del valore del bene. La mancata liberalizzazione dell’immagine dei beni culturali sembra così legarsi a logiche proprietarie dello Stato, assumendo i contorni di un retaggio dell’autorità pubblica e ponendosi in contrasto con l’esigenza di consentire il libero accesso alla loro immagine.

L’esigenza di ripensare il sistema si fa quindi sempre più impellente, anche considerati i processi di digitalizzazione che stanno investendo il settore del patrimonio culturale, il quale si pone al centro di processi di trasformazione [79]. È quindi tempo di riflettere su una possibile liberalizzazione dell’immagine dei beni culturali, necessaria non solo per stare al passo con le evoluzioni che il sistema sta subendo e con le nuove esigenze a cui l’ordinamento è chiamato a fare fronte, ma anche per evitare la eccessiva limitazione che la valorizzazione e la fruizione dei beni culturali stanno subendo a causa di esigenze (di tutela) che potrebbero essere soddisfatte anche diversamente [80].

V’è, in definitiva, la necessità di un intervento manutentivo che vada nel senso di promuovere un ripensamento dell’impianto, il quale potrebbe cristallizzarsi nella sperimentazione di una diversa disciplina sulla riproduzione dell’immagine dei beni culturali, al fine così di fornire una cornice giuridica alle esigenze di incontro tra tutela, valorizzazione e fruizione: incontro a cui non si può più sfuggire e che oramai non può essere rimandato [81].

 

Note

[*] Klaudia Kurcani, assegnista di ricerca in Diritto Amministrativo presso l’Università Iuav di Venezia, Santa Croce, 191, Tolentini, 30135, Venezia, kkurcani@iuav.it.

[1] Così M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 3 ss., spec. pag. 8, il quale osserva che “la nozione di bene culturale come testimonianza materiale avente valore di civiltà può anche essere assunta come nozione giuridicamente valida, restando però certo che è nozione liminale (...)”. Sulla nozione di bene culturale la dottrina si è ampiamente dibattuta: sul punto si rinvia, senza pretese di esaustività, a: S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Rass. arch. Stato, 1975, pag. 116 ss.; G. Spadolini, I beni culturali: diario, interventi, leggi, 1976, Firenze, Vallecchi; B. Cavallo, La nozione di bene culturale tra mito e realtà: rilettura critica della prima dichiarazione della Commissione Franceschini, in Scritti in onore di M.S. Giannini, II, Milano, Giuffrè, 1988, pag. 111 ss.; L. Bobbio, Le concezioni della politica dei beni culturali, in I beni culturali: istituzioni ed economia. Tavola rotonda nell’ambito della Conferenza annuale della ricerca (Roma, 20 maggio 1998), Roma, 1999, pag. 13 ss.; G. Severini, La nozione di bene culturale e le tipologie di beni culturali, in Il testo unico sui beni culturali e ambientali, (a cura di) G. Caia, Milano, Giuffrè, 2000, pag. 1 ss.; G. Pitruzzella, La nozione di bene culturale (artt. 1, 2, 3 e 4 d.lgs. 490/1999), in Aedon, 2000, 1; N. Aicardi, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela e nella valorizzazione, Torino, Giappichelli, 2002, pag. 29 ss.; M. Ainis e M. Fiorillo, I beni culturali, in Trattato di diritto amministrativo, pt. s., (a cura di) S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2003, II, pag. 1449 ss.; L. Casini, Beni culturali (dir. amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, pag. 679 ss.; Id., I beni culturali da Spadolini agli anni duemila, in Le amministrazioni pubbliche tra conservazione e riforme, Omaggio degli allievi a Sabino Cassese, (a cura di) L. Fiorentino, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 423 ss.; L. Casini, La globalizzazione giuridica dei beni culturali, in Aedon, 2012, 3; Id., “Todo es peregrino y raro...”: Massimo Severo Giannini e i beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, pag. 987 ss.; G. Sciullo, Patrimonio e beni, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, il Mulino, 2017, pag. 37 ss.; A. Bartolini, Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. amm., 2019, pag. 223 ss.; A.L. Tarasco, Il patrimonio culturale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019 (spec. pag. 31 ss.); Declinazioni di patrimonio culturale, (a cura di) M. Malo e F. Morandi, Bologna, il Mulino, 2021. Parla di pluralità di nozioni di bene culturale L. Casini nel suo contributo Oltre la mitologia giuridica dei beni culturali, in I beni culturali tra tutela, mercato e territorio, (a cura di) L. Covatta, Firenze, Passigli Editore, 2012, 161 ss., spec. 176 ss., riprendendo la proposta dei “cerchi concentrici” proposta da Luigi Covatta e osservando come questa possa trovare applicazione “in una pluralità di nozioni di patrimonio, differenziate a seconda delle finalità e dei diversi interessi pubblici: conservazione, fruizione, circolazione” (178-179).

[2] In questi termini L. Casini, La globalizzazione giuridica dei beni culturali, cit.

[3] B. Zanardi, Conservazione, restauro e tutela. 24 dialoghi, Milano, Skira, 1999, spec. 56 ss., il quale osserva come Giovanni Urbani parlò (riflettendo sui beni culturali) di “buco nero, capace di inghiottire tutto [...]: beni artistici, storici, archeologici, architettonici, ambientali, archivistici, librari, demoetnoantropologici, linguistici, audiovisivi e chi più ne ha più ne metta”.

[4] L’art. 13 della legge 22 aprile 1941, n. 633 definiva la riproduzione come “la moltiplicazione in copie diretta o indiretta, temporanea o permanente, in tutto o in parte dell’opera, in qualunque modo o forma, come la copiatura a mano, la stampa, la litografia, l’incisione, la fotografia, la fonografia, la cinematografia ed ogni altro procedimento di riproduzione”. Sull’immagine dei beni si veda G. Resta, L’immagine dei beni, in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, (a cura di) G. Resta, Torino, Utet, 2011, pag. 550 ss., spec. pag. 568 ss. Cfr. anche A. Tumicelli, L’immagine dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1. La giurisprudenza ha riconosciuto la configurabilità del diritto all’immagine anche ai meri beni e non solo alle persone fisiche: in una sentenza del 2009, la Corte di cassazione ha rilevato come “la tutela civilistica del nome e dell’immagine, ai sensi degli art. 6, 7 e 10 c.c., è invocabile non solo dalle persone fisiche ma anche da quelle giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone fisiche e, nel caso di indebita utilizzazione della denominazione e dell’immagine di un bene, la suddetta tutela spetta sia all’utilizzatore del bene in forza di un contratto di leasing, sia al titolare del diritto di sfruttamento economico dello stesso” (Cass. civ., n. 18218/2009).

[5] Sui fenomeni di digitalizzazione, con specifico riguardo al patrimonio culturale, si veda G. Finocchiaro, La valorizzazione delle opere d’arte on-line e in particolare la diffusione on-line di fotografie di opere d’arte. Profili giuridici, in Aedon, 2009, 2; S. Silverio, Spunti sulle “nuove” modalità fruitive e diffusive del contenuto culturale, in Aedon, 2013, 1; Cfr. anche, più recentemente, P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2020, 3, il quale osserva che “La digitalizzazione del patrimonio, l’uso delle banche dati, le modalità di accesso e di fruizione del patrimonio digitalizzato costituiscono un tema non nuovo, ma già ampiamente discusso in questo primo ventennio del nuovo secolo. Certamente, però, la discussione su questi aspetti ha ricevuto un sovrappiù di attenzione in occasione del lockdown causato dalla pandemia da Covid-19, che ha determinato, come è noto, un’accelerazione dei processi di digitalizzazione e di accesso/fruizione on line già in atto”. Cfr. anche l’editoriale di M. Cammelli, Pandemia: the day after e i problemi del giorno prima, Aedon, 2020, 1, il quale pone in luce il “fiorire di iniziative basate sulle reti e sulle applicazioni digitali, alcune delle quali di ottima qualità ... [che] conferma come questa soluzione costituisca la strada maestra intorno a cui rivedere in futuro molti aspetti della conservazione e della fruizione del patrimonio culturale. A condizione però di ricordare che tutto questo non si ottiene sovrapponendo semplicemente il nuovo al vecchio (immutato) ma ripensando in profondità quest’ultimo”.

[6] Sull’attività di valorizzazione si cfr. L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, spec. pag. 659, il quale osserva come “la valorizzazione è oggi intesa come una gestione imprenditoriale del patrimonio storico e artistico - inquadrata in una strategia di mise en valeur dei beni culturali - che prevede interventi mirati ad attrarre risorse finanziarie per migliorare lo stato fisico dei beni e la loro accessibilità”. Cfr. anche Id., La valorizzazione dei beni culturali tra pubblico e privato, in Giorn. dir. amm., 2005, pag. 785 ss. Sul rapporto tra tutela e valorizzazione, G. Pastori, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia: situazione in atto e tendenze, in Aedon, 2004, 3 e A. Sau, Il contributo della disciplina sulla tutela e valorizzazione del patrimonio culturale alla costruzione dello Stato unitario, in Munus, 2015, pag. 335 ss. Sulla valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata, G. Piperata, La valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata (art. 113), in Aedon, 2004, 1.

[7] Sulla dimensione materiale ed immateriale dei beni in dottrina si è ampiamente discusso. Sul tema si rinvia, senza pretese di esaustività, ai contributi di: L. Casini, “Noli me tangere”: i beni culturali tra materialità ed immaterialità, in Aedon, 2014, 1; G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1; G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, in Aedon, 2014, 1; A. Bartolini, L’immaterialità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1 e, più in generale, al fascicolo n. 1 di Aedon del 2014. Cfr. anche M. Cammelli, Immateriale economico e profilo pubblico del bene culturale, in L’immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli e A. Bartolini, Torino, Giappichelli, 2016, pag. 92 ss.

[8] Ragionando sui rapporti tra tutela e valorizzazione, la Consulta ha posto in luce come la tutela sia diretta “principalmente a impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale; ed è significativo che la prima attività in cui si sostanzia la tutela è quella del riconoscere il bene culturale come tale. La valorizzazione è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione e ai modi di questa” (così, Corte cost., sentenza n. 9/2004).

[9] In dottrina si segnala il contributo di G. Piperata, La valorizzazione economica dei beni culturali: il caso dei musei e delle collezioni, in Aedon, 2016, il quale evidenzia come le iniziative di valorizzazione possano avere diversi significati e operare in diverse direzioni. Cfr. anche Id., Cultura, sviluppo economico e... di come addomesticare gli scoiattoli, in Aedon, 2018, 3, il quale evidenzia che “la valorizzazione può prendere anche una direzione diversa, meno culturale e più economica, nel senso che l’iniziativa di intervento sui beni è diretta non solo a migliorare la redditività del patrimonio culturale, ma anche a “sfruttare” il bene culturale per creare ricchezza in un contesto esterno al bene stesso, fermo restando la compatibilità di tali iniziative con la fruizione pubblica dei beni stessi”. Si v. anche L. Tarasco, La redditività del patrimonio culturale, Torino, Giappichelli, 2006 e, più recentemente, G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare - una spesa, un investimento, in Aedon, 2017, 3.

[10] Tribunale ordinario di Venezia, sez. II civile, ordinanza del 23 novembre 2022, parti in causa: ministero della Cultura e galleria dell’Accademia di Venezia c. Ravensburger A.G., Ravensburger Verlag GmbH e Ravensburger S.r.l. Per un commento a tale pronuncia si rinvia alle osservazioni di A. Perruccio, L’utilizzazione economica dell’immagine dei beni culturali, in Ambiente e diritto, 2023, 1. Cfr., ancora più recentemente, R. Caso, Il David, l’Uomo vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, in Foro it., 2023, 7-8, pag. 2285 ss. e A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo Da Vinci e del David di Michelangelo), in Aedon, 2023, 2.

[11] I giudici del Tribunale di Venezia, nell’ordinanza del 23 novembre 2022, rilevano come l’art. 108 demandi all’Amministrazione custode del bene culturale “il potere di autorizzare/concedere la riproduzione dell’immagine del bene culturale il potere dii autorizzare/concedere la riproduzione dell’immagine del bene e di determinare i canoni di concessione e i corrispettivi della riproduzione tenuto conto a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente”.

[12] In un passaggio del loro ragionamento i giudici evidenziano come “il fatto che il bene culturale non possieda una autonoma soggettività comporta una scissione tra l’oggetto di tutela rispetto alla lesione dell’immagine ed il soggetto titolare del potere concessorio rispetto alla sua destinazione, ad agire per la sua tutela e a ricevere l’eventuale risarcimento del conseguente danno non patrimoniale, ‘personificata’ nell’Amministrazione consegnataria del bene” (ordinanza del Tribunale di Venezia).

[13] In tal senso viene rilevato che “proprio la circostanza che nel corso degli anni - e di questo giudizio - gli effetti lesivi della condotta illecita attribuibile alle società reclamate non si siano attenuati, ma, al contrario, si siano addirittura aggravati in ragione del perdurare dell’illecito (e della conseguente sempre maggiore diffusione dei prodotti sul mercato) attribuisce al pregiudizio in questione anche il carattere dell’imminenza” (ordinanza del Tribunale di Venezia).

[14] Tribunale di Palermo, sez. I civile, 15 settembre 2017, n. 4901.

[15] Tribunale di Firenze, ordinanza del 26 ottobre 2017, R.g. n. 13758, parti in causa ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo c. la Visit Today di Tholonthuduwa Siriwardhanage Ujitha Sampath e Loku Kodikara Arachchige Geethika Snc. Conseguenza di tale decisione è stato non solo l’immediato ritiro dal mercato di tutto il materiale pubblicitario e mezzo stampa, ma anche l’oscuramento dell’immagine del David sul sito dell’agenzia turistica. Il Tribunale di Firenze ha inoltre condannato l’agenzia a pubblicare il testo dell’ordinanza su tre diversi quotidiani a diffusione nazionale e tre periodici scelti dalla Galleria dell’Accademia oltre che sul proprio sito web, nonché al pagamento di una penale pari a euro 2.000 per ogni giorno di ritardo nell’ottemperanza delle disposizioni impartite.

[16] Tribunale di Firenze, ordinanza dell’11 aprile 2022. Per un commento di tale pronuncia si vada A. Pirri Valentini, La riproduzione dei beni culturali: tra controllo pubblico e diritto all’immagine, in Giorn. dir. amm., 2023, pag. 251 ss.

[17] Come si evince dall’ordinanza dell’11 aprile 2022, i giudici hanno ravvisato la sussistenza “dei presupposti per la chiesta tutela in via d’urgenza evidenziando che per quanto i profili economici possano sempre essere regolati monetariamente, la volgarizzazione dell’opera d’arte e culturale e la riproduzione senza il preliminare vaglio ad opera delle autorità preposte con riferimento alla compatibilità tra l’uso e il valore culturale dell’opera, crea il pericolo di un danno irreversibile per tutti quegli usi che l’autorità preposta dovesse giudicare incompatibili”.

[18] Tribunale di Firenze, sentenza del 20 aprile 2023, n. 1207, pubblicata il 15 maggio 2023. I giudici hanno condannato la società convenuta: “a) corrispondere al ministero attore la somma di € 20.000,00, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, oltre interessi al tasso legale sulla somma devalutata all’epoca del fatto (luglio 2020) e via via rivalutata anno per anno; b) a corrispondere al ministero attore la somma di € 30.000,00, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, oltre interessi al tasso legale sulla somma devalutata all’epoca del fatto e via via rivalutata anno per anno”.

[19] Nella pronuncia i giudici osservano come “del cranio rinvenuto nella grotta di Altamura è difatti osservabile solo una limitata parte del lato frontale, restando il resto celato dalla roccia in cui è incastonato” e per questo motivo la riproduzione è legittima in quanto “l’attività coinvolge un’autonoma attività creativa da parte del soggetto che ha confezionato l’opera che ha portato alla creazione di un’opera del tutto distinta e diversa rispetto al semplice aspetto del cranio rinvenuto nella grotta di Altamura”.

[20] Sul punto si veda M. Cammelli, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: dall’analisi all’applicazione, in Aedon, 2004, 2.

Per un inquadramento della tematica sul piano delle norme europee L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3, il quale sottolinea come la direttiva 2013/37/Ue (recepita in Italia con il d.lg. n. 102/2015) abbia stabilito un principio tariffario per il riutilizzo dei dati delle pubbliche amministrazioni (ivi incluse le immagini) dei musei, archivi e biblioteche; si tratta del prezzo per i costi di riproduzione e di messa a disposizione e che, nel caso di musei, archivi e biblioteche, può anche essere incrementato al fine di assicurare alle istituzioni un congruo utile sugli investimenti realizzati (per esempio per realizzare la digitalizzazione delle loro collezioni). L’A. osserva che “l’Italia ha così accolto il principio tariffario della normativa europea, precisando che musei, archivi e biblioteche di appartenenza pubblica, laddove chiedano un corrispettivo per mettere a diposizione del pubblico i propri dati, non sono tenuti a limitare l’importo di tale corrispettivo ai costi effettivi sostenuti”. Cfr. anche M.C. Pangallozzi, La fruizione del patrimonio culturale nell’era digitale: quale evoluzione per il “museo immaginario”?, in Aedon, 2020, 2.

[21] Art. 51, comma 2, legge 1 giugno 1939, n. 1089, “Tutela delle cose d’interesse artistico o storico”, che disponeva che: “È vietato di trarre calchi dagli originali di cose indicate nell’art. 1 di proprietà dello Stato o di altro ente o istituto pubblico. Il ministro per l’Educazione nazionale sentito il Consiglio nazionale dell’educazione, delle scienze e delle arti, può autorizzare la esecuzione di calchi qualora le condizioni dell’originale lo consentono”.

[22] La norma precisava inoltre come “nessun canone fosse dovuto per riprese fotografiche a scopo artistico o culturale. Per riprese fotografiche a scopo di lucro il permesso viene rilasciato dietro versamento di un canone, la cui misura è stabilita in via preventiva e generale dal ministero delle Finanze, d’intesa con il ministero della Pubblica istruzione, per tutto il territorio nazionale”.

[23] L’idea che l’utilizzo dell’immagine del bene culturale possa essere fonte di entrate inizia così a farsi strada già nella legge Ronchey del 1993, nella quale la riproduzione dei beni culturali viene ricompresa tra i servizi che possono essere dati in concessione a soggetti privati. L’art. 4 prevedeva, al primo comma, che “presso i musei, biblioteche e archivi di Stato sono istituti alcuni servizi aggiuntivi, offerti al pubblico a pagamento, tra cui il servizio editoriale e di vendita riguardante le riproduzioni di beni culturali e la realizzazione di cataloghi ed altro materiale informativo”. Il comma terzo precisava inoltre che “La gestione dei servizi è affidata in concessione, con divieto di subappalto, dal soprintendente o dal capo di istituto competente tre offerte valide, a soggetti privati o ad enti pubblici economici, anche costituenti società o cooperativa (...)”. Il decreto ministeriale n. 139/1997 conteneva il tariffario minimo, inadeguato al reale valore che la riproduzione dei beni per uso commerciale poteva assumere.

[24] M.L. Franceschelli, La riproduzione di beni culturali a scopo di lucro, in Riv. dir. ind., 2018, pag. 277 ss., spec. pag. 291, il quale osserva come si sia assistito ad un “mutamento di prospettiva sulla riproduzione dell’immagine dei beni culturali”.

[25] Sulla riproduzione dei beni culturali si rinvia al lavoro di L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, cit. Cfr. anche A. Tumicelli, L’immagine del bene culturale, cit., e G. Sciullo, Sull’immagine dei beni culturali, in Aedon, 2021, 1. Per una indagine che assume come angolo prospettico l’assetto proprietario si veda G. Resta, Chi è proprietario delle piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, in Pol. dir., 2009, pag. 567 ss. e Id., Il regime giuridico dell’immagine dei beni, in Treccani, 2013.

[26] L’art. 107, al secondo comma, precisa come “sia vietata la riproduzione di beni culturali che consista nel trarre calchi, per contatto, dagli originali di sculture e di opere a rilievo in genere, di qualunque materiale tali beni siano fatti” e che tale riproduzione sia consentita “in via eccezionale e nel rispetto delle modalità stabilite con apposito decreto ministeriale. Sono invece consentiti, previa autorizzazione del soprintendente, i calchi da copie degli originali già esistenti nonché quelli ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto con l’originale”.

[27] Sulla disciplina relativa all’uso dei beni culturali si v. M. Brocca, La disciplina d’uso dei beni culturali, in Aedon, 2006, 2, il quale, con riguardo agli usi dei beni culturali, osserva che “gli artt. 20-21 Cod. non prevedono oneri di informazione o comunicazione al ministero né obblighi di previo ottenimento di autorizzazione o di altro atto di assenso per il soggetto che dispone del bene, al quale pertanto sembra che sia rimessa ogni valutazione sulla compatibilità dell’uso prescelto. Per i beni di appartenenza privata è da ritenere che l’amministrazione possa intervenire solo ex post, con gli ordinari poteri di vigilanza (art. 18), ispezione (art. 19), ripristinatori (art. 160) e sanzionatori (art. 170)”.

[28] Sulla dicotomia pubblico/privato in tema di beni culturali si v. L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim dir. pubbl., 2022, 657 ss., spec. 659, il quale osserva segnala che “ancora oggi, il sistema legislativo sul patrimonio culturale è impostato secondo la logica che la proprietà pubblica sia preferibile rispetto a quella privata”.

[29] Il secondo comma dell’art. 107 dispone che “è vietata la riproduzione dei beni culturali che consista nel trarre calchi dagli originali di sculture e di opere di rilievo in genere. Sono invece consentiti, previa autorizzazione del soprintendente, i calchi da copie degli originali già esistenti nonché quelli ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto con l’originale”.

[30] L’art. 108, al primo comma, prevede che “I canoni di concessione ed i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto: a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente”. Il comma 2 dispone che “I canoni e i corrispettivi sono corrisposti, di regola, in via anticipata”. Per una disamina della valenza economica che i beni culturali possono avere si rinvia al contributo di G. Piperata, Cultura, sviluppo economico ...e di come addomesticare gli scoiattoli, cit. Sulla natura del diritto di cui è titolare il soggetto destinatario della concessione d’uso si veda A. Fantin, La concessione in uso dei beni culturali nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Aedon, 2010, 2.

[31] Sul punto si cfr. E. Sbarbaro, Codice dei beni culturali e diritto d’autore: recenti evoluzioni, in Riv. dir. indus., spec. pag. 75, la quale osserva che “l’autorizzazione all’uso, poi, non è ‘automatica’, al ricorrere dei relativi presupposti, ma deve essere richiesta anche quando lo scopo dell’uso rientri in una delle fattispecie di esenzione dai corrispettivi di riproduzione di cui sopra, rendendo le dinamiche dell’utilizzo dei beni culturali per scopi di studio e ricerca senz’altro particolarmente complesse e ‘onerose’, tale da disincentivare l’uso delle immagini delle opere che sono in consegna alle istituzioni pubbliche”.

[32] Questo profilo viene posto in luce da L. Casini nel suo contributo Riprodurre il patrimonio culturale?, cit., il quale pone in luce come “tale legame si rifletteva in origine anche nel parallelismo tra la soglia temporale dei cinquanta anni prevista, con finalità diverse, da questi due plessi normativi, soglia poi portata a settanta anni per il diritto d’autore e oggi di nuovo allineata a settanta anni anche per i beni culturali”. Cfr. anche A. Serra, Patrimonio culturale e nuove tecnologie: la fruizione virtuale, in La globalizzazione dei beni culturali, (a cura di) L. Casini, Bologna, il Mulino, 2010, pag. 223 ss., spec. pag. 233 ss. L’A. osserva, con riguardo all’ordinamento italiano, che “la legislazione italiana ha introdotto negli anni novanta la protezione di una posizione diversa e ulteriore: il diritto degli istituti che detengono opere d’arte o beni culturali all’utilizzo di tali opere”. Si v. anche M. Modolo, La riproduzione del bene culturale pubblico tra norme di tutela, diritto d’autore e diritto al patrimonio, in Aedon, 2021, 1.

[33] Tra le opere dell’ingegno protette sono espressamente previste le opere della scultura, della pittura, dell’arte del disegno, della incisione e delle arti figurative similari, compresa la scenografia. Per una disamina approfondita, si v. P. Magnani, Profili di tutela del diritto d’autore nella creazione di cataloghi digitali del patrimonio culturale: la protezione della banca dati e la protezione dei contenuti, in Aedon, 2020, 3.

[34] Il legislatore europeo è recentemente intervenuto nel settore, mediante l’adozione di due direttive, l’una sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e l’altra sull’apertura dei dati e riutilizzo dell’informazione nel settore pubblico Le dir. 2019/790 e 2019/1024, l’una sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e l’altra sull’apertura dei dati e riutilizzo dell’informazione nel settore pubblico. Per un loro commento si v. G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’ in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019/1024, in Aedon, 2021, 1. Si cfr. anche M. Arisi, Riproduzioni di opere d’arte visive in pubblico dominio: l’articolo 14 della Direttiva (EU) 2019/790 e la trasposizione in Italia, in Aedon, 2021, 1.

[35] Sul punto si rinvia alle riflessioni di G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’, cit. Su una possibile sovrapposizione tra le due discipline si vedano le considerazioni di A. Pojani, Beni culturali e diritto d’autore, in Dir. aut., 2014, pag. 149 ss. e A. Musso, Opere fotografiche e fotografie documentarie nella disciplina dei diritti d’autore e connessi: un parallelismo sistematico con la tutela dei beni culturali, in Aedon, 2010, 2, il quale, nella nota 3, osserva come “sebbene la disciplina del diritto d’autore tuteli essenzialmente il corpus mysticum dell’opera, mentre la disciplina dei beni culturali protegga i ‘cimeli’ ossia le cose materiali in cui l’opera dell’ingegno s’incorpora (cfr. art. 2, 2° comma, del Codice), nel caso di fotografie o d’immagini cinematografiche la distinzione sia dogmatica sia nella pratica tende a divenire evanescente, come, viceversa, avviene nel caso di copyright sulle opere in unico esemplare, secondo quanto la disciplina del droit de suite conferma”.

[36] Così L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale?, cit. L’A. osserva come “già Mario Grisolia, estensore della delle 1089 del 1939, scriveva, nel 1952, proprio con riferimento alle disposizioni sulla riproduzione: (e)cco dunque un altro interessate settore - caratterizzato dalla immaterialità della cosa - che sfugge alla corrente teorica dei beni pubblici, mentre è evidente che trattasi di beni con specifica pubblica destinazione”.

[37] Su questi profili, si v. l’analisi di L. Casini, “Todo es peregrino y raro...”: Massimo Severo Gianni e i beni culturali, cit., pag. 987 ss. L’A. osserva che le ragioni “di simili limitazioni vanno ricercate nella tradizionale impostazione della disciplina italiana relativa ai beni culturali, incentrata sulla funzione di tutela, a discapito della valorizzazione e della fruizione, e sulla ‘coseità’ dei beni oggetto di tutela, ritenuta prevalente rispetto ai valori immateriali, di cui tali beni sono portatori”.

[38] Per una disamina approfondita degli interventi normativi si rinvia a F.G. Albisinni, Dal potere autorizzatorio di tipo conformativo alle fattispecie normative abilitanti. Verso nuovi paradigmi in tema di amministrazione del patrimonio culturale, in Aedon, 2019, 1 (spec. par. 2). Cfr. anche M. Modolo e A. Tumicelli, Una possibile riforma sulla riproduzione dei beni bibliografici ed archivistici, in Aedon, 2016, 1 e V.A. Lazzaro, Innovazione tecnologica e patrimonio culturale tra diffusione della cultura e regolamentazione, in federalismi, 2017, 24.

[39] Tali casi riguardano “1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del presente titolo, attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né all’interno degli istituti della cultura, l’uso di stativi o treppiedi; 2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro”. L’Art Bonus ha inoltre modificato in parte il comma 3 dell’art. 108, prevedendo che anche i soggetti privati possano utilizzare l’immagine dei beni culturali qualora tale uso venga effettuato per finalità di valorizzazione. Per una disamina delle principali novità si rinvia a G. Gallo, Il decreto Art Bonus e la riproducibilità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 3.

[40] Con specifico riguardo a quest’ultimo profilo, nell’aprile del 2023 sono state adottate, con decreto ministeriale dell’11 aprile 2023, n. 161, le Linee guida che definiscono gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi di concessione richiesti ai singoli richiedenti per l’uso di spazi e la riproduzione dei beni culturali in consegna ad istituti e luoghi della cultura dello Stato. Nelle Linee guida viene specificato che “I canoni e i corrispettivi di cui all’articolo 2, comma 1, del presente decreto sono definiti mediante elenchi e adottati da ciascun istituto e luogo della cultura che ha in consegna i beni, in conformità con quanto previsto dall’Allegato al presente decreto. 2. Gli elenchi di cui al comma 1, in considerazione delle specificità e delle peculiarità dei beni in consegna, possono comunque contenere disposizioni integrative, nonché prevedere canoni e corrispettivi superiori rispetto a quanto contenuto nelle Linee guida di cui all’Allegato al presente decreto. 3. I canoni e i corrispettivi indicati negli elenchi di cui al comma 1 sono incrementati presso ciascun Istituto mediante l’adozione di un apposito tariffario; in mancanza, sono applicabili i canoni e i corrispettivi contenuti nell’Allegato al presente decreto” (art. 3, Contenuto e modalità di adozione degli elenchi).

[41] L’ufficio legislativo del Mibac nel marzo 2015 ha reso un parere (prot. n. 5585) riguardante un puzzle che utilizzava, senza l’ottenimento della prescritta concessione d’uso, l’autoritratto di Leonardo da Vinci, nel quale ha rilevato come “la concessione di regola non è cedibile, né trasferibile, e viene rilasciata in via esclusiva, per un solo utilizzo concordato, previo accertamento dei requisiti prescritti, del pagamento dei canoni, degli eventuali compensi e diritti degli autori o di terzi e della cauzione, ove richiesta. Deve ritenersi, quindi, vietata ogni sub-concessione della concessione originaria e non autorizzata ogni ulteriore riproduzione o ulteriore utilizzazione, a scopo commerciale, della precedente riproduzione del bene culturale”.

[42] D.m. del ministero per i Beni e le Attività culturali, 20 aprile 2005. L’art. 4, relativo all’istanza per la riproduzione di beni culturali, precisa che “1. La richiesta di riproduzione di cui all’art. 3, contiene: a) l’indicazione degli scopi, dei tipi di utilizzazione e delle destinazioni delle copie che si intendono ottenere; b) l’indicazione delle quantità che si intendono ottenere ed immettere sul mercato sia per il tramite dei servizi aggiuntivi di cui all’art. 117 del codice, sia attraverso altre forme di distribuzione; c) l’individuazione del soggetto incaricato, dei mezzi e delle modalità di riproduzione; d) l’assunzione dell’obbligo di versare i corrispettivi di riproduzione e di apporre sulle copie riprodotte le diciture di cui all’art. 5, comma 3; e) l’assunzione dell’impegno del richiedente, in caso di richiesta per uso strettamente personale o per motivi di studio, di non divulgare, diffondere e cedere al pubblico le copie ottenute”.

[43] Linee guida n. 161/2023. Nelle linee guida viene precisato che, per la determinazione dei canoni di concessione in uso degli spazi e/o dei corrispettivi di riproduzione, il documento individua due diverse tipologie di concessioni: “A. Riproduzione di beni B. Uso degli spazi a loro volta suddivise in undici macro-prodotti: 1. Stampe fotografiche; 2. Immagini digitali; 3. Videoclip; 4. Diapositive; 5. Fotocolor; 6. Microfilm (duplicazione); 7. Ingrandimento da Microfilm; 8. Fotocopie; 9. Scansioni; 10. Spazio in consegna al concedente; 11. Riprese video, cinematografiche e televisive; 12. Servizi fotografici” (pag. 4).

[44] P. Carpentieri parla di beni culturali digitalizzati nel suo contributo Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, cit., definendoli come “il prodotto di elaborazioni tecnologiche e scientifiche estremamente complesse e raffinate, che però trovano la loro disciplina distinta nella copiosa normativa (internazionale, europea e nazionale) sulla ‘società dell’informazione’, sul brevetto e sul copyright (che coprono l’infrastruttura tecnologica e il software)”. Sul punto si veda anche l’editoriale di G. Sciullo, Sull’immagine dei beni culturali, cit., e, più in generale, i contributi dei fascicoli 3/2020 e 1/2021 di Aedon sulla digitalizzazione dei beni culturali. Evidenzia l’importanza della digitalizzazione del patrimonio culturale G. Sciullo, Presentazione, in Aedon, 2020, 3, il quale osserva come “nel caso della digitalizzazione (anche) in Italia del patrimonio culturale pubblico il livello sovranazionale ha svolto e svolge un ruolo di stimolo e di guida importanti, nel tentativo di tenere il passo della tecnica. In ogni caso, per quanto riguarda il nostro Paese, il ‘formante’ europeo è risultato e continua ad essere decisivo, e di particolare rilievo sul piano delle regole”. Si veda anche il contributo di G. Pellicciari, La digitalizzazione della cultura tra interessi pubblici e privati. Il valore immateriale dei beni culturali, in Il valore immateriale dei beni culturali, cit., pag. 185 ss., la quale osserva come “la digitalizzazione della cultura e in particolare de beni culturali, quale nuova frontiera per la protezione, valorizzazione e fruizione degli stessi, coinvolge una molteplicità e complessità di interessi, spesso contrapposti, derivanti da una stratificazione di tutele e delle normative”. Cfr. anche R. De Meo, La riproduzione digitale delle opere museali fra valorizzazione culturale ed economica, in Dir. inf., 2019, pag. 669 ss.

[45] In questi termini G. Spedicato, Digitalizzazione di opere librarie e diritti di esclusiva, in Aedon, 2011, 2 e nota 1, nella quale l’autore riprende “l’executive summary della versione italiana del report Il nuovo rinascimento presentato a Bruxelles il 10 gennaio 2011 dal Comité des sages on bringing Europe’s cultural heritage online”.

[46] Tra gli obiettivi del Piano si segnalano quelli di “ampliare le forme di accesso al patrimonio digitale per migliorare l’inclusione culturale; ampliare le pratiche di digitalizzazione includendo oltre ai beni culturali anche i servizi all’utenza in processi end-to-end, in modo da monitorare l’efficacia e l’efficienza delle singole funzioni o attività, nonché dell’organizzazione nel suo complesso implementando azioni di tempestiva risoluzione di problemi e di miglioramento continuo dei processi stessi; ampliare le forme di cooperazione e di interoperabilità dei dati nell’ecosistema, considerando anche la necessità di interscambio all’interno di infrastrutture digitali di ricerca internazionali che rispondono alle necessità di diverse comunità scientifiche”.

[47] Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022-2023, pag. 6.

[48] V. Falce, La spinta adeguatrice della direttiva copyright. Il caso dell’eccezione di insegnamento, in Riv. dir. ind., 2019, pag. 379 ss. Con riguardo alle problematiche inerenti al tema della digitalizzazione dei beni e del patrimonio culturale, si segnalano in particolare contributi contenuti nel volume L’immateriale economico nei beniculturali, cit., e precisamente quelli di D. Mastrelia, Tecnologie e strategie per la valorizzazione dei beni culturali, pag. 167 ss.; G. Pellicciari, La digitalizzazione della cultura tra interessi pubblici e privati. Il valore immateriale dei beni culturali, cit., 185 ss.; G. Finocchiaro, La valorizzazione delle opere d’arte on-line e in particolare la diffusione on-line di opere d’arte. Profili giuridici, cit.

[49] Pone in luce questa finalità il Tribunale di Firenze nella sentenza n. 1207/2023, nella quale si rileva come “La ratio delle disposizioni in esame delinea, con evidenza, un regime di tutela, che involge anche un aspetto di carattere non patrimoniale attinente alla riproduzione del bene culturale. Tali aspetti configurano il diritto all’immagine del bene culturale. Dall’interpretazione teleologica delle singole norme emerge quel che, poi, trova conferma nella loro interpretazione sistematica e, cioè, che il perseguimento delle finalità individuate dalla normativa di tutela dei beni culturali non può prescindere dalla tutela della loro immagine”.

[50] Così M. Dugato, Strumenti giuridici per la valorizzazione dei beni culturali immateriali, in Aedon, 2014, 1. Cfr., più in generale, il fascicolo 1 di Aedon del 2014, dedicato ai beni culturali immateriali.

[51] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit., il quale osserva come “il corpus mysticum nasce per effetto del giudizio valutativo che acclara la presenza nel corpus mechanicum di una testimonianza di civiltà”.

[52] Queste le parole di L. Casini, “Noli me tangere”: i beni culturali tra materialità e immaterialità, cit.

[53] Art. 3, d.lg. n. 42/2004. Sulla tutela dei beni culturali E. Cavalieri, La tutela dei beni culturali. Una proposta di Giovanni Urbani, in Riv. trim. dir. pubbl., 2011, pag. 473 ss. e B. Zanardi, La mancata tutela del patrimonio culturale in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., 2011, pag. 431 ss. Cfr. anche G. Sabato, La tutela del patrimonio culturale nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2017, pag. 116 ss.

[54] Sul punto si rinvia all’interessante contributo di L. Casini Riprodurre i beni culturali?, cit., il quale osserva come l’obiettivo sia di tutelate quell’interesse pubblico che John Henry Merryman definì “truth” (traducibile qui con “autenticità” o “veridicità”), vale a dire “the shared concerns for accuracy, probity, and validity that, when combined with industry, insight, and imagination, produce good science and good scholarship”.

[55] Sul punto si v. M. Dugato, Strumenti giuridici per la valorizzazione dei beni culturali immateriali, cit., il quale osserva come “La prima perplessità, avvicinandomi al tema della valorizzazione dei beni culturali dall’ambito contiguo dei servizi pubblici, riguarda proprio la qualificazione dell’attività. Partendo da una concezione classica di servizio pubblico di rilevanza economica, che ha primariamente una valenza organizzativa e che poggia su una definizione di base che pur con altalenanti fortune rappresenta il terreno di confronto tra concezioni differenti, ho immediatamente avvertito un certo smarrimento di fronte alla distinzione fra tre concetti del Codice: la tutela, la valorizzazione e la fruizione. Salvo scoprire che si tratta di una sensazione inevitabile perché l’origine della tripartizione, più che nell’ontologia dei tre concetti, va ricercata nell’esigenza di mantenere solido il riparto di competenze legislative dettate dall’art. 117 della Costituzione”. Cfr. anche P. Leon, Valorizzazione del patrimonio storico-artistico e nuovo modello di sviluppo, in Ec. Cultura, 2017, pag. 345 ss.

[56] Art. 6, d.lg. n. 42/2004. Sulla valorizzazione e fruizione si v. L. Prato, Valorizzazione e fruizione dei beni culturali: nuovo modelli organizzativi e ruolo del privato, in Aedon, 2001, 3, il quale osserva che (nel sistema pubblico) “l’attenzione alle problematiche della conservazione del patrimonio è di gran lunga maggiore di quella riservata alla fruizione, alla valorizzazione. Le ragioni sono molteplici e complesse e vanno ricercate nella storia oltre che nella legislazione di questo settore. In questa sede si può far rilevare che questa situazione (maggiore attenzione alle problematiche della conservazione) poteva convivere solo con una concezione elitaria della fruizione del patrimonio (...)”.

[57] Art. 111, d.lg. n. 42/2004. Per la Consulta, la valorizzazione coincide con quel “complesso delle attività di intervento integrativo e migliorativo ulteriori, finalizzate alla promozione, al sostegno della conoscenza, fruizione e conservazione del patrimonio culturale, nonché ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione di esso, anche da parte delle persone diversamente abili” (sentenza n. 138/2020).

[58] Così S. Foà, Forme di gestione (art. 115), in Aedon, 2014, 1, opportunamente osserva che “La gestione viene intesa come attività servente alla valorizzazione, chiarendo alcuni dubbi interpretativi sollevati dalle definizioni del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 in relazione all’assetto delle competenze amministrative. In particolare, la gestione dei beni è intesa come gestione delle attività di valorizzazione ad iniziativa pubblica”. Sul rapporto tra funzione di valorizzazione e gestione si v. C. Barbati, L’attività di valorizzazione (art. 111), in Aedon, 2004, 1.

[59] M.S. Giannini, I beni culturali, cit., 31. L’A. osserva come “in ordine all’universo dei fruitori l’Amministrazione ha quindi un interesse all’integrità del bene culturale, pur senza potersi dire, a quanto sembra, che ne abbia il godimento; inoltre, l’interesse è all’integrità fisica e non all’integrità patrimoniale, questa al massimo riguardando quei beni dei quali l’Amministrazione abbia l’appartenenza patrimoniale. D’altra parte, le difetta il tipico interesse del proprietario all’utilizzazione del bene, poiché il bene, come bene culturale, non ha altra utilizzazione che la fruizione universale: essa può ampliare o restringere la fruibilità, nel senso che può porre in essere attività per prendere più facile e più accessibile la fruizione, e viceversa può restringere la fruibilità mediante il controllo delle ammissioni alla fruizione (...)”. Tali considerazioni presentato contorni ancora di attualità. Sulla fruizione si v. anche C. Castaldo, La fruizione come elemento di definizione del regime giuridico del bene culturale, in Dir. amm., 2022, pag. 1145 ss.

[60] Così, M.S. Giannini, I beni culturali, cit., 31.

[61] Così, G. Sciullo, Tutela, in Diritto del patrimonio culturale, cit., 151, il quale osserva che “Riprendendo quanto previsto dal TU (art. 97), il Codice, dunque, non si limita a fissare la regola secondo la quale la valorizzazione non si sottrae alla disciplina della tutela, ma esprime altresì una chiara gerarchia tra le due funzioni. In particolare, il godimento pubblico non può mettere in forse o, peggio, andare a scapito dell’integrità e della sicurezza del bene”. Cfr. anche G. Pastori, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia: situazione in atto e tendenze, cit.

[62] Sull’interrelazione tra le funzioni di tutela e valorizzazione si v. S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, pag. 673 ss., il quale osserva che “i beni culturali appartengono ad una specie particolarissima, che è importante proteggere e di cui è importante assicurare la fruizione per la collettività. Questo aspetto era stato già notato nel corso dell’800. La decisione della Vice Admiralty Court of Haliphax Nova Scotia, nota come The Marquis the Somerueles, del 1813, illustra questo aspetto in modo particolarmente efficace” (pag. 675).

[63] L. Casini, Valorizzazione e gestione, cit., 195.

[64] Riflette sul ripensamento dell’amministrazione pubblica per la tutela del patrimonio M. Cammelli nel suo contributo Patrimonio culturale e sviluppo, in Declinazioni di patrimonio culturale, cit., pag. 73 ss., il quale osserva che “i vecchi saperi fondamentali, le vecchie garanzie fondamentali, devono essere riadattate a questo nuovo paradigma che ci si palesa, prepotentemente, dinnanzi” (pag. 74).

[65] P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati e valorizzazione dei beni culturali, cit. Si v. anche F. Morando ed E. Bertacchini, Gioconda 2.0: politiche per l’accesso e l’uso delle immagini di beni culturali in pubblico dominio, in tafterjournal.it, n. 47, maggio 2012.

[66] Sul punto S. Silverio, Spunti sulle “nuove” modalità fruitive e diffusive del contenuto culturale, cit., la quale osserva che “(...) le piattaforme tecnologiche rappresentano un valido punto di riferimento. Esse sono state un’innovazione nella politica di ricerca dell’Unione Europea, volte a promuovere e ad integrare un approccio di ricerca basato su un partenariato pubblico-privato”.

[67] Sul punto si rinvia a G. Pellicciari, La digitalizzazione della cultura tra interessi pubblici e privati, cit., spec. pag. 227, che osserva come “per l’utilizzo di ogni opera custodita nei museo fiorentini, è necessaria una ‘valutazione della congruità dell’immagine che deve rispettarne la dignità culturale’ e con la campagna promozionale di ArmaLite, al contrario (...) la natura stessa del David viene snaturata: un’opera il cui significato è quello di rappresentare la libertà del cittadino di fronte agli abusi del potere”. Il caso del David armato è particolarmente complesso in quanto, al di là delle questioni relative alla mancanza di autorizzazioni e alla mancata corresponsione di un compenso per lo sfruttamento dell’opera, pone un problema di “uso improprio del bene culturale per finalità esclusivamente commerciali, contrastanti con la valenza estetica e il valore immateriale del medesimo: ancora una volta contrapposizione tra interessi pubblici e interessi privati” (pagg. 227-228).

[68] Così G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e...di come addomesticare gli scoiattoli, cit., il quale osserva che “un riconoscimento del patrimonio culturale come risorsa da tutelare, ma allo stesso tempo come valore strategico e essenziale per l’economia, è arrivato soprattutto dall’UE, che ha anche promosso numerose iniziative in tal senso, a cominciare da Cultural Heritage Counts for Europe, progetto promosso dalla Commissione Europea nel 2013 con l’obiettivo di raccogliere e analizzare ipotesi per valutare il valore del patrimonio culturale anche sul piano economico, sociale e ambientale, fino al recente Europa creativa, programma europeo di sostegno per settori culturali e creativi per il periodo 2014-2020. Si tratta di iniziative che, pur collocandosi nel contesto delle attività di promozione della cultura e del patrimonio culturale così come voluto dalla nostra Costituzione, presentano una enfatizzazione del loro rapporto strumentale con lo sviluppo economico tale da far avanzare, in alcuni casi, dubbi sui possibili rischi di estrema tecnicizzazione e depoliticizzazione di tali azioni”.

[69] Queste le parole di G. Sciullo, Sull’immagine dei beni culturali, cit.

[70] Così, L. Casini, Riprodurre i beni culturali?, cit., il quale osserva come “si discute molto, ancora oggi, se sia preferibile o meno assicurare una ‘libertà di panorama’ ma, già nel 1913, la normativa italiana - ancorata all’impostazione costruita sulla protezione fisica delle cose - stabilita che “le riproduzioni fotografiche all’aperto di cose immobili o mobili esposte alla pubblica vista sono libere a tutti”.

[71] Questo il termine impiegato da L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale?, cit., il quale prosegue rilevando che “basta ricordare che gli archivi storici delle soprintendenze del ministero per i Beni e le Attività culturali mai sono stati versati negli archivi di stato oppure che la gestione delle banche dati nel settore dell’archeologia mai si è distinta per facilità di accesso e libertà di consultazione”.

[72] Nel sito (https://archiviofotografico.museoegizio.it/it/section/Come-usare-l-archivio/Politica-di-accesso-e-utilizzo/) si legge che “Il Museo Egizio è lieto di rilasciare le riproduzioni digitali in pubblico dominio dell’Archivio fotografico in CC0 (Creative commons - CC0 1.0 universal). Grazie a questo strumento potrete liberamente riutilizzare le immagini per qualsiasi scopo, anche commerciale, in forma del tutto gratuita e senza ulteriori permessi da parte del museo. I termini d’uso qui espressi sostanziano infatti l’autorizzazione resa ai sensi dell’art. 108 del d.lgs. 42/2004 a canone azzerato per qualsiasi eventuale riutilizzo commerciale. Il museo ha deciso in questo modo di rinunciare a qualsiasi diritto sulle riproduzioni, che gestisce in base all’art. 10 dell’atto costitutivo della Fondazione Museo Egizio, per restituire questo straordinario patrimonio di immagini alla collettività che ne è la legittima proprietaria. Siamo convinti che il libero riuso delle immagini di beni culturali pubblici in pubblico dominio rientri ormai a pieno titolo nella mission del museo contemporaneo, la quale si misura sempre di più con la capacità di incentivare meccanismi di produzione di valore dal basso offrendo sempre nuove opportunità di sviluppo alla cittadinanza dal punto di vista culturale, economico e sociale in un’ottica concreta di democrazia della conoscenza.

Siete quindi liberi di riutilizzare e far rivivere le immagini come preferite. Vi chiediamo solo di citare correttamente la fonte (Archivio Museo Egizio, codice alfanumerico di riferimento dell’immagine selezionata) e di darci notizia delle vostre pubblicazioni, in modo da poter contribuire insieme alla valorizzazione del vostro patrimonio”.

[73] Per una accurata ricostruzione in questi termini si veda L. Casini nel suo contributo Riprodurre il patrimonio culturale?, cit.

[74] In particolare, con riferimento all’“Open content program” promosso dal Getty Museum, cfr. www.getty.edu/about/whatwedo/opencontent.html. Si vedano anche le riflessioni di G. Pellicciari, La digitalizzazione della cultura tra interessi pubblici e privati, in L’immateriale economico nei beni culturali, cit., pag. 185 ss., spec. pag. 226.

[75] M. Modolo, La riproduzione del bene culturale pubblico tra norme di tutela, diritto d’autore e diritto al patrimonio, cit., che rileva come “il fine perseguito dall’art. 14, come suggerisce il considerando 53 della direttiva, è quello di superare le differenze tra le legislazioni nazionali in materia di diritto d’autore per favorire la diffusione transfrontaliera delle immagini di opere delle arti visive in pubblico dominio, che in Italia è ostacolata proprio dal Codice dei beni culturali”.

[76] Una tale proposta si lega anche al superamento dell’idea secondo cui “la cultura deve essere a tutti i costi ‘protetta’ dalla dura realtà dell’economia. Ammettere, però, che non ha più senso immaginare un muro per separare tutto ciò che è cultura dalle dinamiche e dalle influenze dell’economia non significa affermare che le politiche e le manifestazioni della prima debbano essere governate esclusivamente con le logiche e gli strumenti della seconda” (così G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e...di come addomesticare gli scoiattoli, cit.).

[77] Tale tensione, in verità, non si verifica sempre. Come ben posto in luce da L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, cit., il quale rileva come vi sono anche casi in cui si registra una convergenza tra queste attività e i rispettivi interessi pubblici sottostanti.

[78] G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’, cit., par. 6, il quale osserva come vi sia l’impressione di fondo che “esse (le direttive 2019/790 e 2019/1024) riflettano l’idea di una fruizione ‘in presenza’, individuale, condotta dal visitatore ‘analogico’ del museo, biblioteca, archivio. Sembra mancare la dimensione dell’accesso ‘a distanza’, senza confini temporali e geografici, reso disponibile ai navigatori della rete”.

[79] Pongono bene in luce questo profilo M. Cammelli e G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, in Aedon, 2022, 1, rilevando come tali processi di trasformazione, in parte recenti e in parte da tempo già avviati richiedano aggiustamenti “sia con riferimento all’impianto ordinamentale, sia con riferimento all’articolazione del sistema istituzionale. Si tratta, tuttavia, di immaginare interventi che non portino alla progettazione di un nuovo modello di governo del patrimonio culturale, bensì che completino quanto già presente, come percorsi di riforma e innovazione, all’interno del nostro sistema, risolvendo anche possibili situazioni di conflitto”. Sul punto si rinvia anche alle considerazioni di L. Casini, Oltre la mitologia giuridica dei beni culturali, cit., 175 ss., il quale osserva come “il legislatore negli ultimi anni è sembrato impegnato più nell’attività di coordinamento normativo che nel far fronte alle nuove sfide lanciate alla disciplina dei beni culturali dall’europeizzazione e dalla globalizzazione”, il quale riprende le osservazioni di M. Cammelli, Per uno sguardo oltre la siepe, in Aedon, 2008, 1. Parla di evoluzione ancora lunga del diritto dei beni culturali L. Casini nel suo contributo I beni culturali da Spadolini agli anni Duemila, cit., 447, osservando però come “dinanzi alle incertezze del futuro, vi è la consapevolezza che il valore di questi tesori rimarrò sempre, come il quadro del Mantovano celebrato da Henry James, ‘definitivamente inestimabile’”.

[80] Più in generale, sulle sfide cui il patrimonio deve fare fronte si veda l’editoriale di M. Cammelli e G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, cit., i quali osservano che “l’intero settore della cultura e più nello specifico quello del patrimonio culturale sono oggetto di dinamiche di trasformazione, a volte originate da processi da tempo in atto, altre volte frutto di nuovi interventi, anche diretta conseguenza proprio della strategia pianificata”. Si v. anche M. Cammelli, Il diritto del patrimonio culturale: sfide aperte, risposte possibili, in Aedon, 2017, 3.

[81] L. Casini, Riprodurre i beni culturali?, cit. Cfr. anche G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e...di come addomesticare gli scoiattoli, cit., il quale osserva, riflettendo sul fatto che il ripensamento delle regole e modelli è una “scommessa civile”, che questa possa essere accettata ma che nel farlo bisogna “necessariamente abbandonare gli ideologismi, le facili indignazioni, le soluzioni preconcette. Allora, come è stato ricordato, torna sempre utile l’insegnamento di Norberto Bobbio e del suo accorato appello agli intellettuali a rifuggire dalle alternative troppo nette e a coltivare l’arte più pacata del colloquio (...). Davanti a questa sfida, i giuristi devono svolgere un compito molto importante per l’elaborazione delle regole e l’impostazione delle cornici di organizzazione e di azione”.

 

 

 



copyright 2023 by Società editrice il Mulino
Licenza d'uso


inizio pagina