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I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso

Della progressiva estensione della componente immateriale nei beni culturali e dei suoi limiti [*]

di Giuseppe Morbidelli [**]

About the progressive extension of the intangible component in cultural heritage and its limits
By analyzing the Adunanza Plenaria nr. 5/2023 of the Italian State Council, the Author underlines the risks of the violation of the freedom of economic initiative involved to the interpretation of article 10, paragraph 3, lett. d) of the Code of Cultural Heritage stated in this judgment.

Keywords: Intangible Cultural Heritage; Use of Culturale Heritage; Legitimacy of Destination Constraint; Freedom of Economic Initiative.

La sentenza n. 5/2023 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, per quanto diffusamente motivata, solleva una serie di riflessioni, come del resto è logico che sia, in quanto terminale di indirizzi giurisprudenziali disomogenei, cui si aggiunge una tecnica argomentativa raffinata ma non priva di sovrabbondanze nonché di una sequenzialità non sempre cristallina. Vi sono poi talune affermazioni non condivisibili su cui peraltro non ci soffermiamo anche perché riguardano argomenti non dirimenti [1], preferendo andare al cuore della questione cui del resto la filiera di argomenti addotti è finalizzata.

Il tema di fondo attiene all’ammissibilità di un vincolo impositivo di destinazione d’uso di un bene culturale vincolato ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), d.lg. n. 42/2004, Codice beni culturali, sì da consentire solo quel determinato uso e dunque impingendo primieramente sull’attività. La risposta è stata affermativa. Sono state cioè ritenute legittime anche le prescrizioni in punto di uso, prescrizioni cioè non riguardanti direttamente la res culturale, bensì il valore immateriale in essa incorporato. Ho scritto “anche”, perché la sentenza è invero più articolata, in quanto riguarda pure fattispecie in cui la modifica d’uso impatta materialmente sulla res. Più precisamente l’Adunanza Plenaria distinguendo tra beni culturali per riferimento storico e beni culturali per testimonianza identitaria, cioè le due sottocategorie di beni culturali delineati dall’art. 10, comma 3, lett. d), quanto alla prima sottocategoria (bene di riferimento storico) ha concluso nel senso che il vincolo ad un uso determinato e solo ad esso e pertanto atteggiantesi come vincolo positivo, può essere imposto, i) quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione dell’integrità materiale del bene; ii) al fine di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell'integrità materiale del bene culturale; iii) quando vi sia un rischio per la conservazione del valore immateriale incorporato nello stesso bene culturale. Quanto invece ai beni che sono espressione di testimonianza culturale la prescrizione d’uso può essere imposta non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche “per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza”.

In linea preliminare vanno messi in luce due profili basici della sentenza. Primo: prescrizioni in punto di uso (come invero ogni sorta di prescrizione) possono accompagnare l’autorizzazione ex art. 21 d.lg. n. 42/2004, cioè la dinamica del bene culturale, ma possono anche essere dettate ex ante in sede di imposizione del vincolo, atteso il principio per cui l’attività discrezionale (tecnica o pura che sia) può essere soggetta ad autolimitazioni. Anzi per esigenze di certezza e di parità di trattamento, nonché di maggiore coerenza con i principi dell’art. 97 Cost. e relativi corollari oltre che - come puntualizzato dall’ordinanza di rinvio all’Adunanza Plenaria - per il principio di prevenzione, il ricorso all’autolimitazione è il metodo preferibile.

Secondo (e più controverso, dato che secondo la giurisprudenza finora prevalente “di regola, neppure per i beni culturali in senso proprio è consentito il vincolo di mera destinazione d’uso, salvo che per gli studi d’artista (in ragione della specifica previsione dell’art. 51, comma 1, del d.lg. 42 del 2004”) [2]: il diritto positivo a più riprese disciplina direttamente l’uso, nel senso che le prescrizioni possono investire l’uso a prescindere da ogni attività materiale. Difatti l’art. 20 del Codice dei beni culturali dal titolo “Interventi vietati” stabilisce che “i beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico e artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”. Mentre l’art. 21 dal titolo “Interventi soggetti ad autorizzazione” dopo aver stabilito che “l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali è subordinata ad autorizzazione del soprintendente”, dispone al comma 4 che le modifiche d’uso sono oggetto di mera comunicazione ai fini dell’esercizio dei poteri di cui all’art. 20. Pertanto dalla contrapposizione tra autorizzazione e mera comunicazione si ricava come la seconda procedura si riferisca alle modifiche d’uso senza opere.

Altra e invero centrale questione è invece quella dell’obbligo d’uso e dunque, di riflesso, dell’obbligo di svolgere una determinata attività. Il problema si pone - ed è del resto questo l’oggetto precipuo delle questioni sottoposte all’Adunanza Plenaria - con riferimento a entrambe le sottocategorie ex art. 10 comma 3, lett. d).

Per quanto concerne i beni di riferimento storico l'oggetto della tutela non è la cosa per le sue caratteristiche intrinseche, bensì la cosa perché sede o testimonianza di fatti storici: sicché ad es. l'immobile dove ha dormito Garibaldi prima di una battaglia, o dove Foscolo ha scritto una delle sue opere, è tutelata anche se priva di qualunque valore storico-artistico, e ciò lo si ricava dalla stessa sentenza in esame (v. punto 3.9) dove si legge “il vincolo di destinazione può essere imposto anche su un immobile già sottoposto a tutela per il proprio intrinseco pregio artistico, stante l’autonomia dei due vincoli, i quali vanno tra loro coordinati”. Dal che si deduce che può anche essere imposto su immobili non tutelati. In sintesi, la tutela non riguarda la res come bene culturale ma come contenitore di un valore culturale, se pur in relazione con la storia.

È appena il caso di ricordare che l’incorporazione dell’elemento immateriale della res è implicita e anzi necessaria in ogni bene culturale, secondo la lezione di M.S. Giannini [3], il quale appunto aveva rilevato come, essendo il bene culturale testimonianza di civiltà, detta testimonianza costituisce un valore immateriale inerente sì una entità fisica ma da questo distinta. Ne deriva così che il controllo sull’uso di fatto va a proteggere sempre la res. Tutto questo emerge ancor più nei beni culturali per riferimento, i quali hanno per definizione come supporto una cosa cui si sovrappone di necessità un valore culturale immateriale, tanto che viene definito vincolo “di tipo “intrinseco” o di tipo “relazionale esterno”. E l’uso improprio della cosa può mettere a repentaglio il collegamento storico che “culturalizza” la res. Così il bene, pur lasciato intonso, ove impiegato o meglio strumentalizzato per finalità commerciali di infimo ordine, viene ad essere pregiudicato nel suo valore di testimonianza culturale: ad es. la rimembranza di Foscolo e delle opere concepite nell’immobile viene ad essere svilita dalla destinazione a locale notturno et similia. Si tratta del resto di affermazioni che troviamo in controluce nella sentenza della Corte cost. 4 giugno 2003, n. 185 la quale, con riguardo alla specifica tutela ex lege degli studi di artista (ex art. 51 d.lg. 42/2004), ha messo in luce come in linea generale “le prescrizioni di inamovibilità e di immutabilità della destinazione d’uso appaiono come integrazione e specificazione dei generali obblighi di conservazione dei beni culturali”.

Non solo, e qui sta il punto di maggior rilievo della sentenza: sempre con riguardo ai beni sottoposti a vincolo di riferimento storico, si afferma che tale vincolo “è funzionale sia alla conservazione della res che alla prosecuzione dell’attività ivi svolta, se inscindibile e compenetrata negli elementi materiali considerati di interesse storico-culturale” (v. punto 3.8). Per maggior chiarezza e specificazione, la sentenza aggiunge che “l’Amministrazione, nel dichiarare l’interesse culturale del bene, può sia (in negativo) precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res, sia (in positivo) disporre la continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata”.

Come evidente, un conto è il divieto di uso, un conto l’imposizione di una attività. Tuttavia, per quanto la Corte costituzionale con la sentenza 9 marzo 1990, n. 118 abbia affermato che “il vincolo non può assolutamente riguardare l’attività culturale in sé e per sé, cioè, considerata separatamente dal bene, la quale attività, invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali (artt. 2, 9 e 33)”, ciò non è di ostacolo alla conclusione cui giunge l’Adunanza Plenaria per il fatto che attività e bene sono invece compenetrati. Il che tra l’altro potrà essere verificato in sede di scrutinio stretto da parte del giudice amministrativo in quanto si tratta di limitazioni che incidono sulla libertà di iniziativa economica ex art. 41, comma 1, Cost. e sul diritto di proprietà ex art. 42, comma 2, Cost. tanto che si richiede che la rilevazione dell’esistenza di una “indissolubile” connessione tra beni materiali e beni immateriali (v. punto 4.8 della sentenza).

Peraltro, l’obbligo di proseguire l’attività non è costruito in termini assoluti, tanto vero che al punto 3.9 si legge: “deve rilevarsi come l’astratta possibilità di fatti successivi ed eventuali (quale, ad esempio, la cessazione dell’attività) non influisce sulla legittimità del provvedimento di vincolo, che va valutata in relazione alla situazione di fatto esistente al momento della sua adozione”. Resta però fermo il fatto che tale cessazione deve essere quantomeno autorizzata, visto che subito dopo si aggiunge che tali profili, fra cui appunto la cessazione dell’attività, “potranno essere regolati, dopo l’apposizione del vincolo c.d. culturale, dal potere di controllo dell’amministrazione ai sensi degli artt. 18, 19, 20, 21 del Codice, tenuto conto che anche i privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono tenuti a garantirne la conservazione (art. 30, comma 3)”.

In conclusione, sia l’obbligo di destinazione d’uso, sia l’obbligo di mantenere l’attività corrispondente trovano fondamento nella teoria della incorporazione tra res e valore immateriale. Tali obblighi però non sono a tempo indeterminato in quanto cessano naturaliter ove venga meno il bene o anche l’attività. Entrambi tali eventi, come già accennato, sono sottoposti ad autorizzazione ex art. 21 Codice dei beni culturali, se non altro in applicazione del principio del contrarius actus. Poiché l’art. 21 poi vieta usi incompatibili e non prescrive una destinazione specifica, ciò sarà possibile solo ove la “compenetrazione” tra esse e il valore immateriale si spieghi e si identifichi attraverso quell’uso determinato e con la connessa conservazione dello stesso. Tutto questo però non può pregiudicare la esigenza di redditività del bene (che può variare ad esempio per effetto di modifiche di mercato). Dal che deriva l’obbligo dell’amministrazione di revisionare la prescrizione imposta in sede di vincolo, tenuto conto dell’interesse sopravvenuto a non operare in perdita e cioè in distonia con l’art. 41, comma 1, Cost.. Diversamente infatti la prescrizione andrebbe a confliggere con la garanzia del contenuto essenziale della libertà economica, come del resto si ricava dalla ricorrente affermazione per cui la libertà economica deve sfociare in un utile. Come noto, la Corte costituzionale, a proposito della disciplina amministrativa dei prezzi, ha più volte precisato che deve comunque essere assicurato all'imprenditore un “margine utile” (8 luglio 1957, n. 103) e che “il prezzo deve essere remunerativo” (24 luglio 1972, n. 144); ha inoltre evidenziato che il limite di ogni disciplina vincolistica è rappresentato dal fatto che all'imprenditore deve essere lasciato “un ragionevole margine di utile”, (v. ancora la sentenza 10 luglio 1975, n. 209) e che sono “costituzionalmente illegittimi i condizionamenti e i vincoli tali da costituire un ‘grave ostacolo’ all’esercizio della libertà di iniziativa economica” (v. Corte cost. 25 marzo 1980, n. 30).

Quanto agli strumenti per raggiungere l’equilibrio tra interessi contrapposti della tutela culturale e del rispetto della libertà di iniziativa economica e della stessa proprietà privata, essi verranno indicati più avanti essendo omologhi a quelli prospettabili per i beni di testimonianza identitaria.

Per quanto concerne la regolazione dei beni di testimonianza identitaria, essa è parzialmente diversa anche sotto il profilo delle fonti.

Il caso che ha dato origine alla sentenza della Plenaria riguardava appunto l’attribuzione del vincolo di testimonianza identitaria ad un immobile adibito a ristorante posto in un edificio tra l’altro vincolato come bene culturale perché già di proprietà di un ente pubblico e risalente ad oltre 50 anni (secondo la disciplina dell’epoca). In sede di autorizzazione alla vendita nel contesto di una cartolarizzazione di beni pubblici il ministero aveva prescritto “che l'immobile (Ristorante) denominato ‘Il Vero Alfredo’, con le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati all'interno, sito in Roma, piazza Augusto Imperatore, 30 ... di interesse particolarmente importante ai sensi dell'art. 10, co. 3, lett. d) (‘Beni culturali’) e in considerazione dei principi enunciati dall'art. 7-bis (‘Espressioni di identità culturale collettiva’) del d.lg.vo 22 gennaio 2004, n. 42 e ss.mm.ii.” andava sottoposto “a tutte le disposizioni di tutela contenute nel predetto decreto legislativo”. Ciò sulla base del rilievo di una “continuità ininterrotta tra il locale ristorante, gli arredi e le opere artistiche contenute al suo interno, la tradizione enogastronomica e le socialità che, dai primi anni cinquanta ad oggi, [aveva] reso il ristorante, frequentato nel tempo ‘per il suo carattere e la sua singolarità’ da personalità dello spettacolo e della vita culturale e politica”. Una sorta di “teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati significativi da parte di personaggi illustri italiani e stranieri e di gente comune, la cui preservazione consente uno sguardo inedito sul costume e sulla vita della città di Roma, a partire dal dopoguerra”. In altri termini l’attività commerciale del ristorante in virtù di tutto l’indotto culturale e sociale che l’ha caratterizzata per decenni costituisce un patrimonio culturale immateriale. Con la conseguenza che il vincolo garantisce la conservazione, “oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della continuità d'uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale”.

Talché il ministero ha prescritto la destinazione d’uso a solo ristorante per la ragione che appunto detta destinazione ha trascinato con sé attività ed eventi i quali, seppur immateriali, (e comunque rinforzati da oggetti, elenchi, decorazioni, album, foto riepilogativi dell’attività o complementari ad essa), sono degni di tutela culturale.

Nella specie quindi il ministero ha imposto, non solo un determinato uso, ovvero un uso infungibile, ma addirittura un obbligo di attività.

Sul punto la sentenza è categorica dato che definisce e qualifica il bene culturale non nell’ottica “soltanto ‘conservativa’ per la sua preservazione, ma anche una ‘eredità culturale’ da trasmettere alle future generazioni (c.d. cultural heritage, come definita dalla Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, ratificata con la legge 1° ottobre 2020, n. 133, la quale ha definito il ‘patrimonio culturale’ come l'insieme delle risorse ereditate dal passato” . Conseguentemente la sentenza mette in luce “un’indissolubile connessione fra beni materiali e beni immateriali che attribuisca ad un tempo rilevanza storico- artistica ai beni e valore storico e sociale all’attività svolta” e soprattutto esprime il principio nomofilattico secondo cui il vincolo di destinazione d’uso viene imposto “anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza. Vero è che la sentenza soggiunge (v. punto 4.8) che “non può essere disposta una riserva di attività a favore di un determinato gestore, né può essere imposto un obbligo di prosecuzione dell’attività a suo carico. Infatti, oggetti di tutela sono sempre il bene e l’attività culturale svolta in esso o per mezzo di esso, senza rilevare il ‘chi’ la svolga: se venisse meno o l’uno o l’altro - il locale, le opere e gli arredi o l’uso e l’attività - verrebbe meno la stessa ragion d’essere della tutela, che risiede in un’intima connessione tra gli elementi materiali tangibili e quelli immateriali”, ma questa clausola di “non riserva” riguarda il soggetto gestore e non l’attività, che comunque deve continuare.

Tale obbligo pone dei problemi di compatibilità con il sistema del Codice dei beni culturali che fa leva sulla cosa ma soprattutto, pur tenendo conto del principio di compenetrazione, non contempla una disciplina impositiva ad longum tempus di una specifica attività. Per giungere a tale risultato l’Adunanza Plenaria fa leva sull’art. 7-bis del Codice dei beni culturali intitolato “espressioni di identità culturale collettiva”. Da tener presente che tale disposizione da un lato richiama “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali” e dall’altro prevede che comunque si deve trattare di testimonianze materiali e devono sussistere i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10. Sotto il primo profilo l’Adunanza Plenaria esclude che si debba trattare di espressioni di identità culturale tutelate ai sensi della normativa Unesco e ciò perché la disposizione statale richiama le Convenzioni Unesco al solo fine di identificare le fattispecie, costituenti “espressioni di identità culturale collettiva”, che possono essere assoggettate alle tutele di cui al Codice dei beni culturali, sussistendone le necessarie condizioni (e cioè “qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10”). Per cui, nella sostanza, l’art. 7-bis è una conferma della disposizione di cui all’art. 10, comma 3, lett. d), sicché richiede comunque ancora una compenetrazione tra valori immateriali e cosa.

Sotto il secondo profilo invece la Plenaria riconosce che “mentre in ambito convenzionale la rilevanza degli elementi materiali (strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali) associati alle espressioni di identità culturale è soltanto eventuale, ben potendo tutelarsi in via immediata e diretta l’immaterialità della manifestazione culturale in sé, la disciplina nazionale richiede un collegamento qualificato con un elemento materiale”. Ciò malgrado - si legge nella sentenza - la rilevanza che ha assunto anche a livello internazionale il valore immateriale fa sì che “gli strumenti di tutela del patrimonio culturale nazionale non possono essere evidentemente circoscritti, stante la portata innovativa e la ratio della norma, entro i tradizionali limiti della conservazione della res, propri delle manifestazioni culturali meramente materiali”. Questo perché le manifestazioni culturali immateriali, destinate per loro natura ad essere costantemente ricreate e condivise a beneficio della comunità di riferimento, necessitano ancor più di strumenti di tutela che ne permettano una continua riproduzione, indispensabile per evitarne la dispersione.

Di talché il potere di tutela è funzionale, in siffatte ipotesi, a garantire non soltanto l’integrità fisica della res, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce “testimonianza vivente”.

In altri termini la considerazione sempre più accentuata che ha assunto nell’ordinamento nazionale e internazionale l’immaterialità culturale e la stessa attenzione della dottrina che da tempo ha posto intensa attenzione verso i beni culturali immateriali esprime un principio di fondo, che tra l’altro l’Adunanza Plenaria radica anche nell’art. 9 Cost. e nella Convenzione di Faro ratificata con legge 1° ottobre 2020, n. 133, in virtù del quale la disciplina dettata a tutela delle res culturali, si estende anche ai valori immateriali tutelati di per sé e soprattutto a tempo indeterminato. In sintesi, si dà luogo ad una estensione dell’oggetto o della disciplina dei beni culturali.

Ed invero, la stessa ridondanza di motivazione e la sua strutturazione non sempre lineare, dimostra la difficoltà del trarre dai “principi valore” come quelli espressi dalle convenzioni Unesco e dalla convenzione di Faro ovverosia dal principio della tutela dei beni culturali immateriali, attività compresa, e senza limiti temporali, un “principio regola” ovvero l’applicazione dei meccanismi di tutela del Codice dei beni culturali parametrati invece sulla res e non sulla tutela dell’attività [4].

Non c’è dubbio che la finalità perseguita sia commendevole, resta però il dubbio sulla legittimità della inventio di un “principio regola” ovvero di una prescrizione direttamente applicativa che va ad integrare tutto un assetto ordinamentale imperniato sulla tutela della cosa e non per nulla, la sentenza, a più riprese, enfatizza la presenza di elementi materiali tangibili e la loro connessione indissolubile con i beni immateriali che attribuiscono valore storico e sociale all’attività svolta (v. ancora punto 4.8). Senonché il principio nomofilattico incide solo sull’attività, disponendone la conservazione.

Cosicché, pur nella raffinatezza e articolazione della motivazione, ci troviamo di fronte ad uno di quei casi nei quali “la giurisprudenza trova il fondamento delle sue scelte direttamente nei principi, e si ingigantisce la prevalenza dei principi di origine giurisprudenziale sulle stesse regole legislative, dando così luogo a disallineamenti con il principi di legalità[5]. Principio quest’ultimo dal quale Travi ha tratto motivo per osservare che “dovrebbe indurre ad una selezione più rigorosa dei principi generali, al fine di evitare che, come talvolta si è verificato, giudizi di valore espressi dai giudici amministrativi possano imporsi al sistema delle fonti dell’ordinamento democratico[6]. Resta comunque il fatto che l’obbligo di proseguire l’attività (anche se non si richiede che venga svolta dal gestore in essere), affermato perentoriamente dall’Adunanza Plenaria fa sorgere il problema delle conseguenze ove ci si trovi di fronte ad una antieconomicità (sopravvenuta o già presente al momento dell’imposizione del vincolo) dell’attività.

Ovvero cosa succede se, a fronte di evoluzioni del mercato o di contingenze le più varie, quali una diversa disciplina della circolazione stradale o la realizzazione nei pressi di un’opera pubblica fonte di inquinamenti o il manifestarsi nella zona di forme di insicurezza, l’attività venga pregiudicata e pertanto non sia più redditizia.

Il principio di diritto è invece quello per cui il vincolo di destinazione d’uso di bene culturale serve a consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza. Tanto più che l’obbligo di mantenere l’uso previsto (e dunque l’obbligo di attività) trova titolo nell’obbligo conservativo ex artt. 29 e 30 del Codice dei beni culturali.

Ricorrendo tale situazione, è da ritenere che la disciplina così come disegnata dall’Adunanza Plenaria, si presta a seri dubbi di costituzionalità perché impinge sulla libertà di iniziativa economica: valga ricordare che la Corte costituzionale nella sentenza n. 118 del 1990 dopo aver affermato che “l'esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 della Costituzione)”, soggiunge “il vincolo non può assolutamente riguardare l'attività culturale in sé e per sé, cioè, considerata separatamente dal bene, la quale attività, invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali (artt. 2, 9 e 33). La stessa iniziativa economica è libera, salvo il suo indirizzo e coordinamento a fini sociali a mezzo leggi (art. 41 della Costituzione)”. L’uso antieconomico, per le ragioni già rilevate si traduce in una espropriazione sostanziale del diritto di proprietà e come tale da sottoporre ad indennizzo o comunque come un sacrificio eccessivo della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost.

È infatti da escludere che in casi del genere il vincolo abbia carattere meramente conformativo, perché non ci si trova di fronte ad una categoria dai contorni certi, in quanto se si può concordare che i beni culturali siano una categoria di tal genere “dato il carattere tecnico del giudizio che la pubblica amministrazione è chiamata ad ammettere per delinearla in concreto” (secondo le indicazioni di Corte cost. 29 maggio 1968, n. 50, parte 5 in diritto) non è affatto certa la categoria dei beni culturali vincolati ad un uso determinato carente di convenienza economica, in quanto il relativo accertamento richiede una valutazione caso per caso. Se invece l’antieconomicità sussiste ab initio, di ciò l’amministrazione deve tener conto in sede di imposizione del vincolo che pertanto sarà soggetto a scrutinio stretto. In ogni caso, dovrà essere accompagnato da misure di sostegno onde evitare di incidere in maniera irragionevole sul diritto di proprietà [7], anche tenendo conto della evoluzione in senso espansivo della tutela proprietaria per effetto della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Peraltro in assenza di misure compensative e indennitarie è allora prospettabile una soluzione che fa leva su un interesse pretensivo alla modifica del vincolo di uso obbligatorio ove esso si riveli antieconomico, sì da fungere da controlimite nei confronti del pregiudizio arrecato al diritto di proprietà.

In proposito è significativa la giurisprudenza formatasi sulle ragioni che impongono lo svincolo dalla destinazione alberghiera, quando ha messo in evidenza come “La previsione del vincolo alberghiero... per essere costituzionalmente legittima, deve essere il frutto di un accorto bilanciamento tra valori egualmente tutelati in Costituzione, in modo da rendere compatibile il principio di funzionalizzazione della proprietà enunciato dall’art. 42 Cost., con la sussistenza stessa del diritto di proprietà (in modo da evitare che un vincolo stringente nella destinazione ed indefinito nel tempo possa costituire un intervento di fatto espropriativo), e con la libertà di iniziativa economica che - fermi i liniti imposti dall’art. 41 Cost. - impedisce ‘l’imposizione coattiva’ dello svolgimento di attività allorché non sussista la convenienza economica delle stesse. Ovvero “non in contrasto con le finalità proprie dell’imprenditore ex art. 2089 ss., c.c. [8].

In conclusione, e ciò vale anche per la categoria dei beni di riferimento storico, o si ammette che la destinazione possa cessare, in conseguenza della antieconomicità dell’uso previa autorizzazione, o si prevede che la antieconomicità venga ad essere accompagnata da misure compensative. Se così non è sorge un interesse pretensivo del proprietario alla rimozione del vincolo e a svolgere una attività economica redditizia, che può essere evitata per le testimonianze di maggior pregio solo attraverso la corresponsione di un indennizzo compensativo.

 

Note

[*] Attualità-valutato dalla Direzione.

[**] Giuseppe Morbidelli, professore emerito di Diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “Sapienza”, Piazzale Aldo Moro 5, 00185 Roma, giuseppemorbidelli@studiombrt.it.

[1] Ad esempio, non si ritiene condivisibile l’affermazione secondo cui già in sede di pianificazione territoriale sarebbe ammessa l'imposizione di vincoli di destinazione d'uso, motivati dal riferimento al carattere storico-identitario che talune attività possano rivestire in determinati luoghi per la collettività locale: in tali ipotesi la giurisprudenza del Consiglio di Stato ritiene invece illegittima l’imposizione di vincoli d’uso tarati sui singoli immobili. Pur confermando il potere del comune di operare micronizzazioni e dettare discipline di dettaglio nell'ambito di una zona omogenea più estesa, si ritiene infatti illegittimo modellare questo strumento al fine sviato di imporre vincoli su singoli immobili, in stretta attinenza con la loro attuale destinazione: v. Cons. Stato, Sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3255 ma v. anche Sez. VI, 29 febbraio 2016, n. 844. La Plenaria richiama per corroborare la propria tesi, Cons. Stato, Sez. IV, 22 agosto 2018, n. 5029, relativa ad un vincolo di destinazione a “caffè-bar” posto in sede di strumento urbanistico: ma in realtà nel caso, che riguardava il Caffè Grande di Campo Sanpiero, non risulta che sia stata sollevata la questione della microzonizzazione ristretta a singoli immobili.

[2] V. Cons. Stato, Sez. V, 25 margo 2019, n. 1933.

[3] I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 3 ss.

[4] È appena il caso di ricordare che la distinzione tra principi regola che descrivono fatti a cui corrispondono conseguenze prestabilite dalla legge e principi valore privi di fattispecie e caratterizzati da eccedenza di contenuto assiologico secondo la nota formula di E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dogmatica, Milano, 1971, pag. 211, la si deve a R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, pag. 93  ss.

[5] Così P. Grossi, Sull’odierna “incertezza” del diritto, in L’incertezza delle regole, Annuario AIPDA, Napoli, 2015, pag. 29.  

[6] A. Travi, Principio di legalità e giurisprudenza amministrativa, in Dir. Pubbl., 1995, pag. 117. Semmai un argomento a favore della continuità dell’attività può essere dedotto dall’art. 8, comma 1 della l. 220 del 2016, ai sensi del quale  “la dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante di cui all'articolo 10, comma 3, lettera d), del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni, può avere ad oggetto anche sale cinematografiche e sale d'essai”, anche per la considerazione che tale previsione si inserisce nell’ambito di una disciplina diretta a tutelare e valorizzare l’attività cinematografica. Tale previsione potrebbe peraltro essere  letta come una eccezione ex lege (come del resto la stessa Adunanza Plenaria ha osservato per il vincolo sugli studi di artista) e non come espressione del principio della obbligatoria permanenza dell’attività.

[7] Indicazioni in tal senso sono riscontrabili in una elaborata sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, 14 ottobre 2005 n. 4747, nella quale, v. punto 5, leggiamo “il provvedimento di tutela non implica l’inutilizzabilità del bene, ma la necessità di un uso compatibile con le finalità di conservazione, cui possono accompagnarsi benefici di natura economica, quali la concessione dei contributi ed agevolazioni fiscali”. Del resto, lo stesso Codice dei beni culturali laddove, v. art. 52 comma 1-bis, sottopone a tutela i locali nei quali si svolgono attività di artigianato e commerciali tradizionali sempre come espressione di identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, accompagna tale prescrizione ad apposite forme di promozione e salvaguardia.

[8] V. Cons. St., Sez. IV, 23 novembre 2018, n. 6626.

 

 

 



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