Le modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio
dopo i decreti legislativi 62 e 63 del 2008 / Beni culturali
L'alienazione e l'utilizzazione dei beni culturali pubblici: gli artt. 53-64
di Angela Serra
Sommario: 1. Le conferme. - 2. Le semplici riformulazioni e le correzioni. - 3. I contenuti innovati: in particolare, il recupero della disciplina del 2000 per l'alienazione e l'utilizzazione dei beni culturali pubblici. - 4. I probabili errori. - 5. Alcune ridondanze. - 6. Considerazioni conclusive: alienazione e concessione, possibili strumenti di valorizzazione.
La novella al Codice dei beni culturali e del paesaggio apportata, per la parte sui beni culturali, dal decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 62 tocca con decisione alcuni aspetti della disciplina della loro circolazione giuridica [1]. Inalterata rispetto alla precedente formulazione, già significativamente modificata nel 2006, ne risultano l'impostazione e la maggior parte delle disposizioni; numerose sono le riformulazioni letterali, che pur lasciano immutati i contenuti della disciplina, e le correzioni. Le novità presenti, di notevole rilievo, riguardano in particolare il regime dell'alienazione dei beni del demanio culturale, con il recupero dei contenuti della disciplina abrogata dal Codice stesso nel 2004.
Confermata, dunque, ne esce l'impostazione generale, secondo cui da un lato l'alienazione di beni culturali "privati" è libera - salvo l'obbligo successivo di presentarne denuncia al ministero -, mentre i beni culturali appartenenti ad enti territoriali, ad altri enti pubblici e ad enti privati senza scopo di lucro sono divisi in una tripartizione così composta:
a) beni assolutamente inalienabili, demaniali (art. 54, comma 1, che continua ad annoverare tra essi i beni archeologici, le raccolte di musei, pinacoteche ecc. e gli archivi) e non demaniali (art. 54, comma 2, lett. c), ossia i singoli documenti degli enti territoriali e gli archivi e documenti degli altri enti pubblici). Tra essi viene ribadita l'inalienabilità anche dei beni mobili contemporanei che fanno parte di collezioni demaniali, sia che appartengano agli stessi enti territoriali (art. 54, comma 1, lett. d-ter) sia che appartengano ad altri soggetti (art. 56, comma 4-septies);
b) beni temporaneamente inalienabili, ossia quei beni per i quali il procedimento di verifica ai sensi dell'art. 12 non si è concluso e che soggiacciono a un regime di inalienabilità provvisoria in attesa di essere definitivamente sottoposti o esclusi dall'applicazione della disciplina di tutela; tra essi compaiono sia beni di enti pubblici che di enti privati senza scopo di lucro (art. 54, comma 2, lett. a) - sull'esplicita aggiunta degli enti ecclesiastici si dirà nel par. 2;
c) beni alienabili attraverso l'applicazione della particolare disciplina contenuta negli artt. 55 e 55-bis per i beni demaniali e 56 per gli altri beni pubblici e di soggetti privati senza scopo di lucro, disciplina che poggia, come nel passato, sull'autorizzazione ministeriale e sulla garanzia della permanenza di buona parte del regime pubblicistico che si applica al bene precedentemente all'alienazione.
Confermati sono anche la "sdemanializzazione" del bene come conseguenza del rilascio dell'autorizzazione all'alienazione (art. 55, comma 3-quinquies), la necessità che le prescrizioni e condizioni contenute nell'autorizzazione ad alienare immobili del demanio culturale siano riportate nel contratto di alienazione e dunque siano trascritte nei registri immobiliari (art. 55-bis, comma 1), i contenuti del regime dell'alienazione dei beni culturali pubblici non demaniali e di quelli appartenenti ad enti non profit (art. 56).
Ancora, immutata è la norma, di grande rilievo, che prescrive che l'esecuzione di lavori e opere sui beni (pubblici o di enti non profit) alienati debba essere preventivamente autorizzata ai sensi dell'art. 21, commi 4 e 5 (artt. 55, comma 3-sexiese 56, comma 4-quater), trasformando automaticamente un bene culturale originariamente pubblico o di enti provati senza scopo di lucro - se in essi è oggettivamente presente un interesse culturale - in un bene privato sottoposto ad alcune norme di tutela, a prescindere dalla presenza o meno dell'interesse culturale in un'intensità sufficiente per poter essere "dichiarato" bene culturale ai sensi dell'art. 13 [2].
Inalterata resta anche la norma che prevede che nessun atto che comporti il trasferimento di beni culturali a favore dello Stato sia soggetto ad autorizzazione" (ex art. 56, comma 4, ora art. 57).
In ultimo, nulla è innovato quanto alla autorizzazione alla permuta (art. 58), alla denuncia di trasferimento (art. 59), alla prelazione (artt. 60-62) e alla disciplina del commercio di beni culturali (artt. 63 e 64).
2. Le semplici riformulazioni e le correzioni
Le novità introdotte riguardano innanzitutto numerose operazioni di mero drafting legislativo, ossia di migliore formulazione di norme che restano inalterate nei contenuti.
Viene così precisato che i beni del demanio culturale non possono essere alienati, nþ formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non "nei limiti" e con le modalità previsti dal Codice (art. 53, comma 2); l'articolo successivo stabilisce infatti le limitazioni all'alienabilità, che si riferiscono a determinate categorie di beni.
All'art. 54, comma 1, vi è, così, la puntualizzazione (lett. b) secondo cui tra i beni assolutamente inalienabili rientrano, tra gli altri, gli immobili "dichiarati" monumenti nazionali "a termini della normativa all'epoca vigente", ove prima figurava un impreciso "gli immobili riconosciuti monumenti nazionali con atti aventi forza di legge". Gli "atti" che dichiarano determinati beni "monumento nazionale", infatti, solo in alcuni casi sono leggi, assumendo in altri casi la forma del decreto del Presidente della Repubblica o di atti diversi a seconda di quanto richiesto dalla variegata e spesso risalente normazione che ne ha disciplinato la fattispecie. La nuova formulazione, dunque, descrive con più precisione la categoria.
Ancora, le due lettere introdotte all'art. 54, d-bis) e d-ter), contengono semplicemente due disposizioni che sono "transitate" dal comma 2 della precedente versione dello stesso articolo appunto al comma 1. Tale spostamento corrisponde a una correzione dell'originaria stesura, imprecisa, inerente l'inquadramento giuridico dei beni che ne sono oggetto [3].
Alquanto più appropriata appare poi la nuova formulazione del regime dell'autorizzazione ad alienare beni culturali pubblici e beni di enti privati senza scopo di lucro, descritto dall'art. 55 per i beni demaniali e dall'art. 56 per gli altri beni culturali pubblici e per quelli degli enti non profit, rispetto alle due formulazioni precedenti, del 2004 e del 2006. Nella nuova versione, il Codice imposta il regime autorizzatorio sul caso dei beni del demanio culturale (nuovo art. 55, quasi completamente riscritto), richiamandone poi in parte gli estremi per i beni pubblici non demaniali e per quelli degli enti non profit (art. 56). Viene così più esplicitamente acquisita dalla norma quella "graduazione" dell'intensità della garanzia della vocazione alla funzione culturale propria del bene sottoposto a tutela che già nella stesura precedente compariva tra le righe in una lettura resa difficile dai continui rinvii che ne caratterizzavano la complicata formulazione [4]. Ove dunque per alienare un bene demaniale sono prescritte condizioni alquanto stringenti (art. 55), per alienare altri beni culturali pubblici o beni di enti non profit le condizioni di garanzia della conservazione e fruizione sono minori (art. 56), come nell'impostazione precedente. Risulta quindi più chiaro come il regime autorizzatorio vari a seconda della tipologia del bene:
a) dei beni immobili del demanio culturale tratta l'art. 55 - all'interno del quale è transitata la disciplina prima contenuta nel vecchio art. 57 -. La norma descrive i contenuti della richiesta da parte delle amministrazioni cui i beni appartengono (comma 2), i contenuti dell'autorizzazione stessa (comma 3) e le condizioni che il ministero deve valutare per il suo rilascio (comma 4) - per le innovazioni sostanziali presenti nell'art. 55, si veda il par. 3;
b) dei beni culturali mobili degli enti territoriali, dei beni culturali appartenenti agli altri enti pubblici e agli enti non profit tratta l'art. 56, che richiede garanzie molto meno articolate rispetto a quelle previste per l'alienazione dei beni demaniali. Quanto all'ambito soggettivo di applicazione della norma, vi è la precisazione che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti fanno parte dell'ultima categoria richiamata [5].
Altra semplice riformulazione appare la modifica apportata alla norma che prevede il perdurare della sottoposizione al regime di tutela dei beni del demanio culturale sdemanializzati e alienati (nuovo art. 55, comma 3-quinquies, che ripropone i contenuti del vecchio art. 55, comma 3).
E' poi molto opportunamente stato eliminato un errore della precedente stesura, quell'aggettivo "grave" riferito al danno a conservazione e fruizione che l'alienazione non deve arrecare con riferimento ai beni appartenenti a enti privati senza scopo di lucro, che appariva come paradossale accettazione di un danno "non grave" ai due capisaldi della disciplina dei beni culturali dal 1939 ad oggi, conservazione e fruizione (attuale art. 56, comma 4, che ripropone il precedente art. 57, comma 5).
Leggermente modificata anche la formulazione del comma 4 dell'art. 62, sull'esercizio della prelazione, finalizzata a "rendere più piana la lettura del riparto dei tempi fra il ministero e gli altri enti territoriali interessati" all'esercizio della prelazione [6].
3. I contenuti innovati: in particolare, il recupero della disciplina del 2000 per l'alienazione e l'utilizzazione dei beni culturali pubblici
Innovazioni di notevole rilievo sono invece state introdotte con riguardo ad alcuni aspetti della disciplina dell'alienazione e dell'utilizzazione tramite concessione o locazione dei beni culturali pubblici.
Come si diceva, l'impostazione poggia come nel passato sull'autorizzazione ministeriale, le cui caratteristiche sono però delineate in modo più chiaro e con alcune variazioni nei contenuti. Il nuovo art. 55, infatti, è strutturato con più chiarezza, distinguendo i diversi momenti della richiesta da parte dell'ente proprietario, dei possibili contenuti del provvedimento e delle condizioni che il ministero deve considerare per il rilascio, prima (con)fusi tra loro.
La norma, dunque, prescrive che la richiesta di autorizzazione contenga, oltre all'indicazione della destinazione d'uso in atto e del programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene - elementi già richiesti dalla precedente versione, art. 57, comma 1 -, anche l'indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l'alienazione e delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento, l'indicazione della destinazione d'uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da conseguire, e le modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso. Tutti questi elementi facevano parte del regime introdotto nel 2000 dal decreto del Presidente della Repubblica 7 luglio 2000, n. 283 (art. 7), poi abrogato dal Codice nel 2004.
Innovati anche i contenuti del provvedimento di autorizzazione, specificati nelle "prescrizioni e condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate", nelle "condizioni di fruizione pubblica del bene, tenuto conto della situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso" e un giudizio "sulla congruità delle modalità e dei tempi previsti per il conseguimento degli obiettivi di valorizzazione indicati nella richiesta" (art. 55, comma 3).
Quanto alle condizioni che il ministero deve considerare per il rilascio dell'autorizzazione, la disciplina previgente chiedeva che l'alienazione assicurasse "la tutela, la fruizione pubblica e la valorizzazione del bene" e inoltre - con una confusione tra condizioni e prescrizioni - imponeva al ministero di dettare in positivo "destinazioni d'uso compatibili con il carattere storico-artistico" del bene, oltre che "tali da non recare danno" alla sua "conservazione" (art. 55, comma 2, della precedente stesura).
Oggi la norma, distinguendo le diverse fasi con maggiore chiarezza, prescrive come condizioni per il rilascio dell'autorizzazione un giudizio preventivo sulla congruità della destinazione d'uso proposta in relazione alle esigenze di conservazione e di fruizione pubblica del bene e sulla compatibilità della destinazione proposta con il suo carattere storico-artistico (nuovo art. 55, comma 3-bis), eliminando la necessità di dettare destinazioni d'uso possibili. Il legislatore si pone così in linea con la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha chiarito come la disciplina preveda un "complesso di misure di carattere reale che sono finalizzate a salvaguardare il bene da ogni possibile compromissione o da limiti all'accessibilità da parte della collettività nel momento in cui si determina il mutamento del titolo di proprietà [...]. I limiti al diritto dominicale dell'acquirente che possono introdursi in sede di rilascio dell'autorizzazione alla vendita devono, tuttavia, operare in negativo, a salvaguardia dell'integrità e conservazione del bene e dei valori artistici e storici di cui è espressione, ma non possono imporre in positivo singole destinazioni d'uso per il perseguimento di scopi", "la cui cura è affidata ad altri organismi e all'esercizio di diverse potestà pubbliche" [7].
In caso poi di diniego dell'autorizzazione, e dunque della permanenza del bene nelle mani del proprietario pubblico, si prevede per il ministero la "facoltà" di indicare "destinazioni d'uso ritenute compatibili con il carattere del bene e con le esigenze della sua conservazione" (art. 55, comma 3-bis).
Viene poi disciplinata la "facoltà" per il ministero di "concordare con il soggetto interessato" - ossia l'ente proprietario che richiede l'autorizzazione - "il contenuto del provvedimento richiesto, sulla base di una valutazione comparativa fra le proposte avanzate con la richiesta di autorizzazione ed altre possibili modalità di valorizzazione del bene" (art. 55, comma 3-ter). Tale fattispecie rientra nell'alveo degli accordi endoprocedimentali integrativi, previsti come fattispecie generale dall'art. 11 della legge 2 agosto 1990, n. 241, e dunque risultava già percorribile tramite l'applicazione della norma generale. Essa, poi, assume particolare interesse se rapportata all'estensione che il nuovo art. 57-bis fa dell'applicabilità dell'art. 55 (tra gli altri) alle ipotesi di "valorizzazione e utilizzazione" del bene come la "concessione in uso o la locazione". Così, gli accordi si possono applicare non soltanto all'ipotesi di rilascio della richiesta di autorizzazione ad alienare, ma anche a quelle di concessione e locazione, in una negoziazione tra ente titolare e ministero sul miglior utilizzo ipotizzabile per quel bene. Il provvedimento concordato, dunque, potrebbe anche non essere un'autorizzazione ad alienare - come originariamente richiesto dall'ente che intende vendere -, bensì un'autorizzazione a dare in concessione o in locazione, ossia le "altre possibili modalità di valorizzazione del bene" che il ministero ha la facoltà di proporre all'ente proprietario.
Nuova anche la norma che semplifica notevolmente i contenuti della richiesta e del provvedimento di autorizzazione per quegli immobili che, pur appartenenti al demanio culturale, sono "utilizzati a scopo abitativo o commerciale", per i quali, dunque, vi è già in essere una destinazione diversa dalla pubblica fruizione (comma 3-quater).
La modifica più significativa concerne invece la reintroduzione della clausola risolutiva espressa, che era stata proposta dal d.p.r. 283/2000 (art. 11) e mai divenuta operativa a causa della mancata applicazione del regolamento stesso - la produzione degli elenchi ricognitivi dei beni, mai attuata, era infatti prevista come condizione di applicabilità della normativa in parola -. Dunque, il nuovo art. 55-bis del Codice disciplina l'ipotesi che vede l'acquirente inadempiente nei confronti degli impegni assunti con il contratto di alienazione. Innanzitutto si prevede che "le prescrizioni e condizioni contenute nell'autorizzazione di cui all'articolo 55 sono riportate nell'atto di alienazione, del quale costituiscono obbligazione ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile ed oggetto di apposita clausola risolutiva espressa" (comma 1). Il contratto, dunque, deve necessariamente contenere tale clausola, che, in quanto imposta dalla norma, ne costituisce elemento essenziale. Sempre ripreso dal d.p.r. 283 è poi il ruolo di vigilanza della soprintendenza, che, qualora verifichi l'inadempimento da parte dell'acquirente degli impegni assunti con il contratto, si fa promotrice della risoluzione del contratto stesso, dandone comunicazione all'ente alienante (comma 2). Effetto dell'esplicarsi di tale clausola è il venir meno del passaggio di proprietà già avvenuto e dunque il ritorno del bene nella disponibilità e nell'appartenenza dell'ente che ne era l'originario proprietario.
L'art. 56 conferma invece la disciplina dell'alienazione degli altri beni culturali pubblici, non demaniali, e dei beni culturali delle persone giuridiche private. Anche sul punto, però vi sono alcune innovazioni. In particolare, si prevede che l'autorizzazione debba essere chiesta anche per alienare archivi o singoli documenti appartenenti a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici (art. 56, comma 2, lett. b). Si tratta da un lato di una categoria di beni che possono rientrare nella previsione dell'art. 10, comma 1, e dunque essere "beni culturali" in quanto di interesse storico, da sottoporre a verifica, ma dall'altro di beni che possono anche non essere suscettibili di essere sottoposti a tutela, nel caso incorrano nella previsione di cui all'ultimo comma dell'art. 10, ossia l'esecuzione non anteriore ai cinquanta anni. Se, dunque, per la prima categoria di archivi e documenti la disposizione era implicita, per la seconda risulta innovativa, riguardando beni che "culturali", giuridicamente, non possono essere.
Ancora, l'art. 54, comma 3, stabilisce, come in passato, che i beni inalienabili possano essere oggetto di trasferimento tra lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali senza necessità di alcuna autorizzazione preventiva. La fattispecie considerata concerne i beni del demanio culturale che sono "inalienabili" e che possono però essere oggetto di trasferimento tra enti territoriali, fattispecie che si discosta ampiamente da quella della "alienazione", rispondendo a logiche del tutto differenti. Viene però aggiunto l'obbligo di comunicazione preventiva al ministero "qualora si tratti di beni o cose non in consegna" allo stesso, specificando che le "finalità" di tale incombenza sono quelle indicate dagli "articoli 18 e 19", ossia le funzioni di vigilanza che spettano al Mbac; la comunicazione premette così al ministero di espletare il ruolo di "controllore" ricoperto nei confronti della generalità dei beni culturali, tanto pubblici quanto privati.
Come si anticipava, il nuovo art. 57-bis, comma 1, dispone poi l'estensione della disciplina autorizzatoria, oltre che all'ipotesi della dismissione, anche alla "valorizzazione e utilizzazione, anche a fini economici, di beni immobili pubblici di interesse culturale, prevista dalla normativa vigente e attuata, rispettivamente, mediante l'alienazione ovvero la concessione in uso o la locazione degli immobili medesimi" [8]. Tale disposizione deriva ancora dal d.p.r. 283/2000, di cui ricalca gli artt. 14-17, e assume un particolare rilievo in relazione alle disposizioni contenute nella legge Finanziaria per il 2007 inerenti ipotesi di valorizzazione e utilizzazione a fini economici di immobili tramite concessione o locazione oppure l'attivazione di programmi unitari di valorizzazione dei beni demaniali (art. 1, commi 259 e 262, legge 27 dicembre 2006, n. 296) [9]. Diversi però sono i dubbi che sorgono dalla lettura della norma, esposti nel seguente paragrafo.
Il secondo comma dell'art. 57-bis, infine, introduce un meccanismo parallelo alla clausola risolutiva espressa disposta dall'art. 55-bis che sia applicabile al casodella concessione/locazione: l'inosservanza da parte del concessionario o del locatario delle "prescrizioni e condizioni contenute nell'autorizzazione" - che "sono riportate nell'atto di concessione o nel contratto di locazione e sono trascritte, su richiesta del soprintendente, nei registri immobiliari" - può essere "comunicata dal soprintendente alle amministrazioni cui i beni pertengono" e "dà luogo, su richiesta delle stesse amministrazioni, alla revoca della concessione o alla risoluzione del contratto, senza indennizzo".
Anche l'utilizzo dei beni in parola, dunque, non solo la loro alienazione, deve sottostare alla stringente disciplina di controllo predisposta dagli artt. 55 (per i beni del demanio culturale) e 56 (per i beni culturali pubblici non demaniali).
L'articolo 57-bis contiene alcune disposizioni non altrimenti spiegabili che come errori.
Innanzitutto esso rende applicabile la disciplina dettata per le alienazioni alle ipotesi di "valorizzazione e utilizzazione, anche a fini economici, di beni immobili pubblici di interesse culturale [...] attuata [...] mediante [...] la concessione in uso o la locazione". Quell'"anche" implicherebbe dunque che le stesse procedure si debbano applicare altrettanto alle ipotesi di valorizzazione e utilizzazione che non hanno fini economici, ma ad esempio culturali, scientifici, di ricerca. I dubbi sull'opportunità e la correttezza di tale previsione vengono confermati dalla Relazione di accompagnamento al Codice, ove si legge, al contrario, che le norme richiamate si devono applicare solamente alle "procedure di valorizzazione e utilizzazione a fini economici" e alle utilizzazioni nell'ottica della "mera valorizzazione economica" [10]. La norma, però, dice altro.
Ci si chiede poi in che rapporto si ponga tale disposizione rispetto a quelle contenute nell'art. 106, che al primo comma dispone che gli enti pubblici territoriali possano concedere l'uso dei propri beni culturali a singoli richiedenti "per finalità compatibili con la loro destinazione culturale" e al comma 2-bis - aggiunto nel 2006 - prescrive che gli enti territoriali diversi dallo Stato debbano chiedere l'autorizzazione ministeriale per concedere propri beni, autorizzazione che può essere "rilasciata a condizione che il conferimento garantisca la conservazione e la fruizione pubblica del bene e sia assicurata la compatibilità della destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del bene medesimo".
Si immagina dunque, andando al di là di quanto scritto nel Codice, che il significato della norma contenuta nell'art. 57-bis dovesse essere quello di riservare alle sole ipotesi di valorizzazione a fini economici l'applicazione delle procedure dettate per l'alienazione - che infatti impongono una serie di vincoli a garanzia della destinazione culturale del bene, anche una volta alienato e, verosimilmente, anche una volta dato in concessione o locazione - e invece di applicare alle ipotesi di concessione dell'uso dei beni pubblici per finalità culturali le più semplificate previsioni di cui all'art. 106, comma 2-bis. Un controllo, dunque, molto penetrante per le utilizzazioni a fini economici e più leggero per quelle a fini culturali. Peccato che il tenore letterale della norma esprima altri significati - criticabili - secondo cui "anche" le utilizzazioni per fini non economici dovrebbero sottostare alle stringenti procedure indicate dagli articoli 55 e 56.
In secondo luogo, poi, anche il rinvio che la norma fa agli articoli che si renderebbero applicabili alle fattispecie richiamate pare frutto di un errore: il primo comma dell'art. 57-bis dispone che alle ipotesi di utilizzazione si applichino "gli articoli 54, 55 e 56". Se nulla di strano si rileva quanto all'applicazione degli ultimi due articoli richiamati (che trattano delle procedure di autorizzazione dei beni culturali demaniali e di quelli appartenenti agli altri enti pubblici), del tutto fuori luogo appare l'applicabilità del primo articolo (il 54), che dispone l'inalienabilità di alcune categorie di beni: tale estensione assumerebbe infatti il significato di rendere gli stessi non solo inalienabili, ma anche "invalorizzabili" tramite concessione/locazione, imponendo una "riserva" di utilizzo da parte del proprietario pubblico dei beni inalienabili - e invece la possibilità di utilizzazione e valorizzazione da parte di soggetti terzi per i soli beni considerati alienabili - che pare difficilmente giustificabile. Si ricorda come la disciplina del d.p.r. 283/2000, da cui le presenti norme derivano, prevedesse al contrario che i beni inalienabili (oltre a quelli alienabili) potessero essere "oggetto di conferimento in concessione o di utilizzazione mediante convenzione" (art. 2, comma 2). Inoltre, scorrendo la Relazione di accompagnamento al Codice, si legge che gli articoli applicabili alle procedure di utilizzazione sarebbero i "55, 56 e 57", non quindi il 54 [11]; tale discrasia tra testo della norma - dal significato alquanto criticabile - e testo della Relazione - dai contenuti condivisibili - avvalora la tesi di un errore di stesura nella prima.
Resta il rammarico per come - qualora si condividano i dubbi esposti - si sia potuta perdere l'occasione, al secondo ritocco del Codice nonchþ ennesimo intervento normativo su tale specifico tema nell'arco di otto anni, di eliminare le ultime "imperfezioni" di una disciplina che, come si dirà nelle conclusioni, appare di per sþ un utile strumento di valorizzazione.
La riforma, nel correggere le imperfezioni rilevate nel Codice, ha anche apportato modifiche e aggiunte non sempre necessarie e ben amalgamate al resto della disciplina.
Ridondante, così, risulta la previsione secondo cui, dopo aver appena disposto che gli immobili demaniali alienati (e sdemanializzati) restano sottoposti alla disciplina di tutela (art. 55, comma 3-quinquies), qualsiasi intervento materiale su di essi debba essere preventivamente autorizzato ai sensi dell'art. 21 (art. 55, comma 3-sexies): non rientrano forse i "lavori ed opere di qualunque genere" tra gli interventi soggetti alla funzione di tutela?
In secondo luogo, è stato aggiunto un comma 4-sexies all'art. 56 che specifica che, per i beni che erano sottoposti al regime di inalienabilità temporanea in quanto in attesa di verifica (ai sensi dell'art. 54, comma 2), una volta concluso tale procedimento con esito negativo, gli stessi sono liberamente alienabili, senza la necessità dell'autorizzazione preventiva. Si tratta di una norma non necessaria, che si limita a ribadire il ritorno al mondo del diritto comune dei beni per i quali il procedimento di verifica accerta la mancanza di interesse culturale (come già disposto dall'art. 12, comma 6).
6. Considerazioni conclusive: alienazione e concessione, possibili strumenti di valorizzazione
Il regime giuridico dell'alienabilità dei beni culturali pubblici è stato uno dei punti oggetto dei maggiori contrasti, modifiche, innovazioni e correzioni di rotta tra gli istituti di tutela dei beni culturali dal 1939 ad oggi: dapprima alienabili con autorizzazione (artt. 23 e 24 legge 1 giugno 1939, n. 1089), poi del tutto inalienabili (art. 823 Codice civile), ora l'una ora l'altra possibilità (nella cospicua produzione giurisprudenziale che si è succeduta nell'interpretare gli articoli richiamati), nuovamente inalienabili (art. 54 Testo Unico del 1999), alienabili con autorizzazione e varie articolate garanzie (d.p.r. 283/2000), automaticamente alienabili a seguito di "silenzio significativo" nel procedimento di verifica (art. 27, comma 10, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con mod. con legge 24 novembre 2003, n. 326, e Codice nella originaria stesura del 2004), di nuovo alienabili con autorizzazione e alcune garanzie (nel Codice novellato nel 2006), per finire oggi al recupero della disciplina più garantista tra quelle richiamate (nuovi artt. 53-57-bis del Codice, che recepiscono i contenuti del d.p.r. 283/2000).
Il riassetto normativo operato nel 2008 ci restituisce finalmente alcuni strumenti capaci di condizionare la stabilità del passaggio di proprietà in mano ai "privati" all'effettivo impegno degli stessi a garantire al bene demaniale venduto la permanenza delle caratteristiche demaniali - conservazione e destinazione alla fruizione pubblica -. Anche nel caso dell'alienazione di beni culturali di enti privati senza scopo di lucro - di notevole importanza, considerando che tra essi figurano gli enti ecclesiastici e le fondazioni ex-bancarie - la nuova formulazione della norma richiede che la conservazione e la pubblica fruizione dei beni non venga danneggiata dalla vendita.
La strada percorsa dalla disciplina sull'alienabilità dei beni culturali pubblici e di enti privati non profit sembra, così, rivolgersi a circondarne l'esperibilità di crescenti garanzie in ordine al necessario orientamento del bene alla funzione culturale che gli è connaturata [12].
La "trasposizione del contenuto della demanialità" [13] (conservazione, destinazione d'uso compatibile con il carattere storico-artistico del bene e orientamento concreto alla fruizione) che tali norme sembrano poter assicurare e la distinzione tra i ruoli di regolazione e controllo - in mano all'amministrazione - e del soggetto - privato o comunque "terzo" - che investe le proprie risorse nel dare effettività alla vocazione del bene, dunque, inducono a ritenere la cessione della proprietà o dell'utilizzo dei beni culturali pubblici disciplinata dalla normativa considerata possibili strumenti di valorizzazione, forse disincentivanti per i potenziali acquirenti o richiedenti, ma, se mai praticate, capaci di rendere ininfluente la titolarità dei beni culturali.
Note
[1] Per i primi commenti della riforma si vedano Le modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio, con le analisi di G. Severini, L. Casini e V. Mazzarelli, in Giorn. dir. amm. 10/2008, pagg. 1 ss., e P. Carpentieri, Il secondo "correttivo" del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. e appalti, 6/2008, pp. 681 ss.
[2] Si ricorda infatti che l'intensità dell'interesse storico, artistico ecc. richiesto dalla norma per porre sotto tutela determinate tipologie di beni differisce a seconda della natura del soggetto cui gli stessi appartengono - particolarmente importante per i beni privati, "semplice" per i beni pubblici ecc. - si rileva come possa frequentemente verificarsi l'ipotesi secondo cui un bene debba essere sottoposto a tutela quando pubblico e non più quando privato. Orbene, in questi casi la norma prescrive che in ogni caso, anche qualora il bene, divenuto privato e potenzialmente non più sottoposto a tutela in quanto non presenti l'intensità minima di interesse culturale richiesto dalla norma per i beni culturali privati, qualsiasi interventi materiale su di esso debba essere autorizzato dal Mbac.
[3] La norma prescrive l'inalienabilità degli immobili demaniali in quanto dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi dell'articolo 10, comma 3, lettera d), ossia per il cosiddetto "interesse relazionale" - d-bis) -, e le cose mobili che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se incluse in raccolte appartenenti ai soggetti di cui all'articolo 53 - d-ter) -. Tali disposizioni sono state opportunamente spostate dal comma 2, ove erano collocate, al comma 1 in quanto avente ad oggetto appunto i beni del demanio culturale per cui viene disposta l'inalienabilità, ove invece la stesura originaria erroneamente non li inquadrava tra essi.
[4] Come si rilevava in A. Serra, Commento all'art. 55, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, Il Mulino 2007, p. 266.
[5] Si tratta della stessa specificazione introdotta al primo comma dell'art. 10 e in quasi ogni altro momento in cui il Codice cita le "persone giuridiche private senza scopo di lucro". Detta modifica è stata dettata dall'esigenza di adeguare la norma a un parere del Consiglio di Stato del 2007 che ha affermato come gli enti ecclesiastici non possano inquadrarsi nella categoria in parola e come dunque ad essi non si applichino le norme del Codice dei beni culturali riguardanti i beni degli enti "privati senza scopo di lucro". La novella al Codice, dunque, mantiene gli enti ecclesiastici accomunati agli enti pubblici nei diversi momenti in cui la normativa di tutela fin dal 1939 li ha accomunati, ribadendo la tradizionale bipartizione delle persone giuridiche cui i beni culturali possono appartenere in "pubbliche e private senza scopo di lucro", da un lato, e private con scopo di lucro, dall'altro, bipartizione cui conseguono rilevanti differenze sia in termini procedurali che di disciplina sostanziale. Il parere del Consiglio di Stato è della sez. II, 17 gennaio 2007, riferito al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica n. 10379/2004 presentato da una parrocchia e accolto dal Consiglio. Si nota poi come il legislatore del 2008 abbia sì modificato la norma accogliendo l'osservazione del Consiglio, ma lo abbia fatto ribadendo l'assunto dell'inquadramento degli enti ecclesiastici nelle persone giuridiche private senza fine di lucro, assunto che il Consiglio aveva negato.
[6] Dalla Relazione illustrativa al d.lg. 62/2008.
[7] "Fattispecie in cui è stata ritenuta illegittima l'imposizione, in sede di autorizzazione all'alienazione di immobile vincolato, del rispetto di determinate destinazioni d'uso per strutture ricettive di tipo socio-assistenziale, sanitario e di tipo residenziale speciale, con divieto di ogni destinazione d'uso per attività commerciali, industriali e artigianali": Cons. Stato, sez. VI, sentenza 5 giugno 2007, n. 2984 - le parti tra virgolette sono di R. Chieppa, Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di beni culturali e paesaggistici, in Aedon, 2/2007.
[8] Nulla invece è prescritto per la locazione degli immobili culturali degli enti non profit, per cui dunque non sono richieste le procedure prescritte dall'art. 56.
[9] Su cui sia consentito il rinvio ad A. Serra, Il coinvolgimento di beni culturali nel progetto di recupero degli immobili non più utilizzati dalla Difesa: profili giuridici, in Aedon, 2/2007.
[10] P. 20.
[11] P. 20 della Relazione; l'estensione, poi, della disciplina contenuta nell'art. 57 alle ipotesi di utilizzazione parrebbe invece sensata, assumendo il significato di sottrarre alle procedure di autorizzazione le fattispecie in cui il soggetto beneficiario dell'utilizzazione di beni culturali di enti pubblici sia lo Stato.
[12] La stessa Relazione di accompagnamento al decreto di modifica del Codice definisce la nuova formulazione come una "più stringente disciplina di salvaguardia del patrimonio culturale", p. 5.
[13] S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, p. 98.