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L’ordinamento dei beni culturali: elementi di contesto

Beni e attività culturali tra Stato e Regioni: ciò che resta della stagione della regionalizzazione. Guardando alla prossima [*]

di Antonella Sau [**]

Sommario: 1. L’impatto della riforma costituzionale del 2001 sull’ordinamento dei beni e delle attività culturali. - 2. Gli spazi del legislatore statale in materia di spettacolo tra esigenze di continuità e dimensione “unitaria” dell’interesse pubblico. - 3. La vis attrattiva del legislatore statale in materia di tutela dei beni culturali: alla ricerca degli spazi della legislazione regionale. - 4. Oltre le materie e ai confini del patrimonio culturale. - 4.1. L’altro confine aperto: il regionalismo differenziato.

Cultural heritage and cultural activities between State and Regions: what remains of the regionalisation season. Looking to the next
Twenty years after the constitutional reform of Title V, the paper analyzes the context of legislative and administrative competences in the sector of cultural heritage and cultural activities, with a look at the possible implementation of differentiated regionalism.

Keywords: Cultural heritage; Cultural activities; Legislative and administrative competences; Differentiated regionalism.

1. L’impatto della riforma costituzionale del 2001 sull’ordinamento dei beni e delle attività culturali

Con la riforma costituzionale del 2001 il legislatore ha costituzionalizzato la distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali accolta dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 [1] assegnando allo Stato la potestà esclusiva in ordine alla “tutela dei beni culturali” (art. 117, co. 2, lett. s), Cost.) e la definizione dei principi fondamentali in ordine alla “valorizzazione dei beni culturali” e alla “promozione e organizzazione di attività culturali” (art. 117, co. 3, Cost.) [2].

L’art. 116, co. 3, Cost. consente peraltro allo Stato, con una procedura rafforzata, di attribuire alle regioni nelle materie in esame “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” aprendo a forme di regionalismo differenziato sulle quali si è recentemente riaperto il dibattito politico-istituzionale dopo la presentazione del d.d.l. Calderoli recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario [3] sul quale si registra il parere negativo della Conferenza Unificata del 2 marzo 2023 a seguito del quale Emilia-Romagna, una delle tre regioni “capofila” del nuovo corso dell’autonomia differenziata, ha annunciato di voler interrompere le trattative con il Governo (infra par. 4.1). Sempre nell’ottica di una differenziazione dell’autonomia regionale si inserisce la previsione dell’art. 118, co. 3, Cost. che assegna al legislatore statale sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, che nel mutato assetto costituzionale presiedono all’allocazione delle funzioni amministrative (art. 118, co. 1, Cost.), la disciplina di forme di intesa e di coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali consentendo alle regioni interessate “l’acquisizione di ‘spazi’ (in termini di nuove funzioni e di nuovi beni oppure di ‘condizionamento’ dell’esercizio delle funzioni statali) tali da ottenere risultati di ricomposizione (o quantomeno di minore frammentazione) della politica di settore” [4].

Sin dai suoi primi interventi la Corte costituzionale è stata chiamata a ricostruire l’assetto delle competenze spettanti in materia a Stato, regioni ed enti locali condizionando non poco la successiva attività del legislatore [5].

Il riferimento è anzitutto alle sentenze n. 94 del 28 marzo 2003, n. 9 del 13 gennaio 2004 e n. 26 del 20 gennaio 2004 nelle quali la Corte ha rimesso ad una previgente fonte normativa di rango ordinario, il d.lgs. n. 112/1998, la risoluzione dei problemi interpretativi posti dalla novella costituzionale richiamando a sostegno della scelta del criterio storico-normativo tanto ragioni di continuità politico-amministrativa (“perché è individuabile una linea di continuità tra la legislazione degli anni 1997-1998, sul conferimento di funzioni alle autonomie locali, e la legge costituzionale n. 3 del 2001”) che concettuali (perché a venire in rilievo sarebbero “materie-attività... il cui attuale significato è sostanzialmente corrispondente con quello assunto al momento della loro originaria definizione legislativa”) [6]. Ed è in particolare nella sentenza n. 26/2004 che la Corte, chiamata a valutare se le modifiche alla disciplina sulla gestione di servizi relativi a beni nella disponibilità dello Stato introdotta dall’art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 al fine di migliorare la fruizione pubblica del patrimonio storico-artistico violassero le prerogative regionali in materia di valorizzazione, ha portato a sviluppo tale approccio privilegiando, al fine di risolvere il conflitto di competenze, il criterio incentrato sulla titolarità del bene accolto nell’art. 152 del d.lgs. n. 112/1998, rifuggendo così da una valutazione caso per caso sulla natura degli interventi sul bene al fine di una loro riconducibilità alla materia della tutela piuttosto che a quella della valorizzazione [7]. Ricondotta la gestione all’ambito funzionale della valorizzazione [8], la Consulta ha inoltre fatto leva sul regime di appartenenza del bene per legittimare l’intervento regolamentare dello Stato [9] che in tale materia gli sarebbe stato precluso trattandosi di una potestà legislativa concorrente e non esclusiva [10].

Sempre l’art. 152 è stato invocato, nella sentenza n. 9/2004, al fine di delineare i confini tra i due ambiti materiali, sottolineando che le espressioni ivi contenute “che, isolatamente considerate, non denotano nette differenze tra tutela e valorizzazione, riportate nei loro contesti normativi dimostrano che la prima è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale”, mentre la seconda è “diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa”.

Definizioni riprese di lì a poco dagli artt. 3 e 6 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (di seguito Codice) che conformandosi ai primi orientamenti della giurisprudenza costituzionale ha ridefinito il quadro delle competenze legislative delineato dalla riforma del 2001 riconoscendo allo Stato una potestà legislativa che va oltre la definizione dei principi generali della materia qualora sia chiamato a disciplinare la funzione di valorizzazione di beni culturali che sono nella sua titolarità o disponibilità (art. 112, co. 2) la quale, in linea con il criterio dominicale introdotto dal comma 1 dell’art. 152, è assegnata a ciascun soggetto pubblico con riferimento “ai beni di cui ha comunque la disponibilità” (art. 112, co. 6) mentre quelle di tutela, al fine di garantirne “l’esercizio unitario[11], sono assegnate al ministero che le esercita direttamente o le conferisce alle regioni tramite forme di intesa e coordinamento (art. 4, co. 1 e art. 5, co. 3-5).

Molto più agevole la delimitazione dei confini tra l’ambito materiale della “valorizzazione dei beni culturali” e la “promozione e organizzazione delle attività culturali” di cui al terzo comma dell’art. 117 della Costituzione che, come precisato nelle sentenze 21 luglio 2004, n. 255 e 19 luglio 2005, n. 285, riguardano “tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura, senza che vi possa essere spazio per ritagliarne singole partizioni come lo spettacolo” o le attività cinematografiche, questo perché l’ambito materiale in esame si connota “come mezzo a fine rispetto alla natura delle attività medesime, che consistono in rappresentazioni artistiche e di comunicazione culturale propriamente riconducibili, nella loro dimensione prevalente ed imprescindibile, al settore della cultura” (Corte cost. n. 285/2005). La stessa distinzione che il terzo comma dell’art. 117 propone tra un compito di promozione e uno di organizzazione, secondo la dottrina, andrebbe letta come “endiadi utile a esprimere, rafforzandola nel coordinamento dei termini, l’unitarietà del fine” ossia la promozione dello sviluppo della cultura di cui all’art. 9 Cost. [12].

Ribadita l’applicazione del criterio storico-normativo [13] la Corte ha fatto propria la definizione dell’art. 148, co. 1, lett. f) del d.lgs. n. 112/1998 [14] che coglie nell’immaterialità il tratto distintivo delle attività culturali ascrivendole al complesso dei comportamenti umani che non riguardano i beni materiali di interesse storico-artistico (oggetto di valorizzazione ai sensi dell’art. 152 [15]) ma che sono rivolti a “formare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte” [16]. Detto altrimenti, un insieme “aperto” di manifestazioni, prive di omogeneità sotto il profilo espressivo [17], che hanno acquisito un’identità di settore per effetto delle norme organizzative che negli anni ’90 hanno portato all’istituzione di una struttura dipartimentale ad esse dedicata (ossia il d.p.c.m. 12 marzo 1994) nella cui organizzazione ha trovato fondamento la distinzione tra spettacolo dal vivo e registrato lungo il cui crinale si è sviluppata tutta la legislazione successiva, sia statale che regionale.

Lo sforzo profuso negli ultimi anni dal legislatore statale nella sistematizzazione della disciplina di settore [18] conferma “l’idea delle attività culturali come ciò che è diretto a suscitare e diffondere le espressioni avanzate della cultura: tutto ciò che è proiettato, indirizzato, a ‘costruire’ il futuro” [19].

2. Gli spazi del legislatore statale in materia di spettacolo tra esigenze di continuità dimensione “unitaria” dell’interesse pubblico

Per quanto la disciplina dello spettacolo o, per meglio dire, la disciplina organizzativa e la definizione delle misure di sostegno e promozione dello spettacolo in tutte le sue articolazioni non sia riservata al legislatore statale ma ascritta alla competenza concorrente di Stato e regioni [20], preoccupazioni di “tenuta generale” del sistema hanno indotto la Consulta, all’indomani della riforma del Titolo V, a legittimare l’esercizio della potestà regolamentare statale al fine di consentire l’erogazione dei contributi in favore del settore facendo proprie le perplessità degli operatori culturali, ma non solo, sull’adeguatezza del livello di governo regionale [21].

Prima è stata la sentenza n. 255/2004 a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. 18 febbraio 2003, n. 24 recante “Disposizioni urgenti in materia di contributi in favore delle attività dello spettacolo” di disciplina dei criteri e delle modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo e delle aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) di cui alla legge n. 163/1985 e poi la sentenza n. 256 del 21 luglio 2004 a dichiarare cessata la materia del contendere in ordine al conflitto di attribuzioni sollevato dalla regione Toscana in relazione ai regolamenti statali recanti i criteri per l’erogazione dei fondi in materia di danza e musica a valere proprio sul Fus.

Riconosciuta la competenza concorrente delle regioni in ordine al sostegno finanziario degli spettacoli, la Corte, facendo leva sul principio di continuità dell’ordinamento [22] e sulla specificità della legislazione vigente in materia, ha dapprima giustificato la “temporanea applicazione” del meccanismo del Fus [23] al fine di garantire l’erogazione annuale dei contributi alle attività dello spettacolo e far così fronte alle “impellenti necessità finanziarie dei soggetti e delle istituzioni operanti nei diversi settori degli spettacoli” (sent. n. 255/2004) e successivamente posto l’accento sull’inaccettabile “compromissione” delle attività tramite cui si realizzano valori di fondamentale importanza costituzionale protetti dagli artt. 9 e 33 Cost. che l’annullamento dei regolamenti statali impugnati avrebbe determinato tanto più che avevano ormai trovato “applicazione, esaurendo così la loro funzione” (sent. n. 256/2004 [24]), rimarcando la necessità, in entrambe le pronunce, di una riforma attenta alle istanze delle autonomie territoriali non a caso preannunciata dallo stesso legislatore statale nel d.l. n. 24/2003 che, come ricorda la Corte, assume carattere esplicitamente “temporaneo” essendo stato adottato in attesa di una legge di definizione dei principi fondamentali della materia chiamata a delineare criteri ed ambiti di competenza dello Stato.

Pur ribadendo l’inammissibilità di finanziamenti a destinazione vincolata disposti con legge statale per finalità non riconducibili a materie di competenza esclusiva dello Stato (sent. 21 aprile 2005, n. 160 [25]), la Corte nella pronuncia n. 285/2005 [26], facendo leva sull’”esistenza di forti e sicuri elementi” che avrebbero richiesto una “gestione unitaria a livello nazionale” [27], ha ritenuto legittima l’attrazione in sussidiarietà da parte del d.lgs. n. 28/2004 dell’esercizio delle funzioni amministrative di promozione, programmazione e sostegno del settore cinematografico, ivi compresa la gestione del Fus, unitamente alla potestà normativa relativa all’organizzazione e alla disciplina di tali funzioni, salvo richiedere che l’esercizio dei poteri normativi o programmatori caratterizzanti il nuovo sistema di sostegno ed agevolazione delle attività cinematografiche fosse previamente concertato in sede di conferenza Stato-regioni o subordinato all’acquisizione di pareri obbligatori [28].

Il sostanziale avallo delle scelte operate dal legislatore delegato ben testimonia la preoccupazione del giudice delle leggi di bilanciare le esigenze di collaborazione istituzionale (e di tenuta del nuovo modello costituzionale) con la stabilità (rectius certezza) e la speditezza delle procedure di erogazione dei finanziamenti statali; così come la scelta delle regioni di non impugnare molti dei decreti adottati sulla base delle disposizioni censurate per mancata acquisizione della preventiva intesa o del parere regionale conferma quanto la dimensione “di mercato” delle attività cinematografiche abbia condizionato le scelte istituzionali ad ogni livello, compreso quello locale.

Inutile aggiungere che buoni propositi e auspici relativi alla creazione di un “nuovo centro, adeguato alle ragioni di un ordinamento informato ai principi del pluralismo istituzionale” [29], siano andati sostanzialmente disattesi. Basta guardare alla debole partecipazione regionale alla determinazione delle politiche di sostegno, promozione e diffusione del settore cinematografico e audiovisivo prevista dalla legge n. 220/2016 che, non diversamente da quanto accadeva nel sistema precedente, vengono definite dal ministero sulla base di provvedimenti attuativi concertati in seno alla Conferenza Stato-regioni o alla Conferenza Unificata “sentito” il Consiglio superiore del cinema e dell’audiovisivo [30] e, in particolare, al sistema di ripartizione del “Fondo per il cinema e l’audiovisivo” istituito dall’art. 13 della legge n. 220/2016 che si risolve con l’acquisizione del parere non vincolante del Consiglio superiore [31], per realizzare come l’attrazione in sussidiarietà abbia consentito allo Stato di intervenire in ambiti che altrimenti sarebbero stati riservati alle autonomie regionali con il “riconoscimento consolatorio” del principio di leale collaborazione che ne rappresenta il “contrappeso” istituzionale [32].

È stata invece la “dimensione unitaria dell’interesse pubblico perseguito” unitamente al “riconoscimento della missione di tutela dei valori costituzionalmente protetti dello sviluppo della cultura e della salvaguardia del patrimonio storico e artistico italiano” ad aver giustificato l’attrazione alla competenza legislativa statale esclusiva in materia di “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali” (art. 117, co. 1, lett. g) [33], a discapito della competenza concorrente in materia di “organizzazione e promozione delle attività culturali”, della disciplina di riordino delle fondazioni lirico sinfoniche che in quanto assoggettate, in via residuale [34], alla disciplina del Codice civile si colloca altresì all’interno dell’”ordinamento civile” di competenza esclusiva statale ex art. 117, co. 2, lett. l).

La legittimazione dello Stato a doppio titolo, si legge nella sentenza n. 153 del 21 aprile 2011, è “coerente, oltre che con l’esigenza... di tutelare direttamente ed efficacemente i valori unitari e fondanti della diffusione dell’arte musicale, della formazione degli artisti e dell’educazione musicale della collettività (art. 3 del d.lgs. n. 367 del 1996), segnatamente dei giovani, anche con lo scopo dichiarato dalla legge di trasmettere i valori civili fondamentali tradizionalmente coltivati dalle più nobili istituzioni teatrali e culturali della Nazione (art. 1, co. 1-bis, lettera g), del d.l. n. 64 del 2010, aggiunto dalla legge di conversione n. 100 del 2010). Tali obiettivi costituiscono, infatti, esplicazione dei princìpi fondamentali dello sviluppo della cultura e della tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione, di cui all’art. 9, primo e secondo comma, Cost., che solo una normativa di sistema degli enti strumentali dettata dallo Stato può contribuire a realizzare adeguatamente. Né è un fuor d’opera, da questo punto di vista, richiamare, altresì, il modello delle istituzioni di alta cultura, che autorizza lo Stato a limitare, con una propria disciplina, l’autonomia ordinamentale ad esse riconosciuta (art. 33, sesto comma, Cost.)” [35].

Sebbene la “dimensione multisettoriale e multifunzionale” dello spettacolo renda piuttosto difficile ipotizzare una “visione che tenda ad affidare ogni responsabilità di tipo normativo, amministrativo e finanziario in forma esclusiva ad un singolo livello di governo” [36] si ha l’impressione che non sempre all’individuazione dell’interesse unitario da perseguire segua una valutazione proporzionata e non irragionevole alla stregua di uno stretto scrutinio di costituzionalità [37]: di certo questo non è accaduto nel caso del “Fondo nazionale per la rievocazione storica” ove la Corte [38], con un evidente salto logico, è passata dal riconoscere l’incidenza del finanziamento su materie di competenza concorrente all’affermare la necessità del necessario coinvolgimento delle regioni nel processo decisionale di determinazione dei criteri di accesso alle risorse del Fondo, senza nemmeno chiedersi se il livello di governo statale fosse, nel caso di specie, quello più adeguato [39].

Dalla presupposta strutturale inadeguatezza del livello di governo regionale alla scontata adeguatezza del livello statale il passo è stato piuttosto breve.

3. La vis attrattiva del legislatore statale in materia di tutela dei beni culturali: alla ricerca degli spazi della legislazione regionale

Sebbene la Corte costituzionale abbia più volte sottolineato come la tutela dei beni culturali e più in generale lo sviluppo della cultura, in linea con il dettato costituzionale, corrispondano a “finalità di interesse generale il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni” (Corte cost., 27 luglio 2000, n. 378; Corte cost., 26 novembre 2002, n. 478; Corte cost., 9 luglio 2015, n. 140) anche “al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e regioni” (Corte cost., 21 ottobre 2004, n. 307; Corte cost., n. 153/2011), tutta la giurisprudenza successiva all’adozione del Codice dei beni culturali e del paesaggio si è avvitata attorno alla definizione dei contorni e dei limiti dell’intervento legislativo regionale al fine di delineare se e a quali condizioni le regioni possano integrare la normativa in materia di tutela dei beni culturali con misure diverse ed aggiuntive rispetto a quelle previste a livello statale circoscrivendone al contempo i confini con gli altri ambiti materiali, primo fra tutti quello della valorizzazione.

Investita del tema all’indomani della riforma costituzionale, per effetto dell’impugnazione della legge regionale del Lazio 6 dicembre 2001, n. 31 recante “Tutela e valorizzazione dei locali storici”, la Corte, preso atto che le funzioni inerenti ai beni culturali desumibili dalla legislazione vigente non riguardano “altri beni cui, a fini di valorizzazione, possa essere riconosciuto particolare valore storico o culturale da parte della comunità regionale o locale, senza che ciò comporti la loro qualificazione come beni culturali ai sensi del d.lgs. n. 490 del 1999 e la conseguente speciale conformazione del loro regime giuridico” (Corte cost., n. 94/2003), ha risolto il conflitto di competenze al di fuori del binomio tutela/valorizzazione [40] spostando cioè il focus dal “tipo” di intervento al “bene” attraverso la riproposizione della tesi di una nozione “aperta e variabile” di bene culturale in rapporto ai “regimi giuridici differenziati previsti dalle singole leggi che di volta in volta ne arricchiscono la tipologia” [41].

Ne deriva che la scelta del legislatore regionale di inserire gli esercizi commerciali e artigianali aperti al pubblico che presentano un valore storico, artistico, ambientale e la cui attività costituisce testimonianza storica, culturale e tradizionale anche con riferimento agli antichi mestieri in un elenco regionale dedicato, al fine di accedere a fondi per la loro valorizzazione e per il sostegno delle spese connesse all’aumento dei canoni di locazione, non invade la competenza statale in materia di tutela che presuppone la sottoposizione del bene ad un regime vincolistico limitativo del diritto di proprietà.

È ai soli fini della valorizzazione [42], qui intesa nella sua accezione più “tradizionale e ristretta” come l’insieme delle misure prive di contenuto ablatorio idonee ad assicurare la più ampia e la migliore fruizione pubblica bel bene [43], in ragione di una valutazione della res quale “altro” bene culturale di rilevanza per la comunità e rappresentativo dell’identità locale, che alle regioni è pertanto concesso introdurre misure di “salvaguardia” diverse o aggiuntive rispetto a quelle statali.

Ponendosi nel solco tracciato da tale sentenza, la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 40 della l.r. veneta 23 aprile 2004, n. 11 recante “Norme sul governo del territorio”, ha poi compiuto un ulteriore passo in avanti estendendo i margini di intervento del legislatore regionale all’adozione di misure poste “in funzione di una tutela” del patrimonio culturale, tutela da intendersi come “non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, volta a far sì che, nella predisposizione della normativa di governo del territorio, si tenga conto non soltanto dei beni culturali identificati secondo la normativa statale, ma eventualmente anche di altri, purché si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione e una propria storia” (così Corte cost., 16 giugno 2005, n. 232 [44]).

La legge regionale veneta, come osservano i giudici, non stabilisce nuovi criteri di identificazione dei beni culturali ai fini di una definizione del loro regime nell’ambito dell’ordinamento statale ma si limita a prevedere che nell’adozione del piano di assetto territoriale (PAT) debba tenersi conto sia dei beni culturali ex art. 10 del Codice che dei complessi di valore monumentale e testimoniale (non vincolati) di rilievo storico-culturale per quel contesto territoriale. Elemento che non determina alcuna invasione della competenza legislativa statale in materia di tutela dei beni culturali [45] perché spetta alle regioni, nell’ambito dei principi fondamentali determinati dallo Stato, stabilire la disciplina degli strumenti urbanistici e tra i valori che tali strumenti devono tutelare non v’è dubbio che “abbiano rilevanza non secondaria quelli artistici, storici, documentari e comunque attinenti alla cultura nella polivalenza di sensi del termine” [46].

Questa “apertura” al legislatore regionale ha subito una decisa battuta d’arresto nella sentenza n. 194 del 17 luglio 2013 [47], ove i giudici costituzionali, rimarcando la necessità che “restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la disciplina e l’esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale nonché alla loro protezione e conservazione e, invece, anche alle regioni, ai [soli] fini della valorizzazione, la disciplina e l’esercizio delle funzioni dirette alla migliore conoscenza e utilizzazione e fruizione di quel patrimonio”, hanno dichiarato illegittima una legge della regione Lombarda (la n. 16 del 31 luglio 2012, recante “Valorizzazione dei reperti mobili e dei cimeli appartenenti a periodi storici diversi dalla prima guerra mondiale”) diretta a individuare reperti e cimeli storici non inclusi tra i beni culturali tutelati dal Codice contestando la genericità della clausola con la quale la normativa impugnata intendeva evitare di sovrapporsi alla disciplina statale.

Ad avviso della Corte, per non sovrapporsi alla legislazione statale cui spetta l’individuazione dei beni culturali, la legge regionale non avrebbe dovuto “genericamente” escludere di riferirsi ai beni di cui all’art. 10 del Codice bensì prevedere di “rivolgersi soltanto a quelle cose che, in quanto non riconosciute o non dichiarate di ‘interesse culturale’, all’esito dei previsti procedimenti, risultassero, perciò, escluse, come previsto, dall’applicazione delle disposizioni del codice (art. 12, comma 4, e artt. 13 e seguenti del codice dei beni culturali), in quanto non ricomprensibili nel novero dei beni culturali di cui al predetto art. 10”.

Se però, come si specifica in motivazione, la portata regolativa dell’art. 10 del Codice, considerato norma interposta, è “talmente estesa da risultare programmaticamente destinata a riguardare la totalità delle cose che presentino ‘un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico’, impedendo di ritenere che alcune di queste cose possano risultare, per se stesse, preventivamente sottratte a quella disciplina e perciò - come l’art. 2 [della l.r. n. 16/2012] impugnato vorrebbe - oggetto di un’altra”, non sbaglia chi osserva che solo a seguito dell’esito negativo dell’accertamento dell’interesse culturale da parte dell’amministrazione di settore e quindi dalla “constatazione della in-appartenenza al patrimonio culturale potrebbe eventualmente prendere forma una corrispondente potestà legislativa regionale” [48] sancendosi, implicitamente, un “dominio” statale sulla culturalità del bene, anche ai fini della sua valorizzazione, che la sentenza n. 94/2003 aveva escluso [49].

Impedire al legislatore regionale di qualificare come beni culturali c.d. minori res per le quali non sia stata già esclusa l’appartenenza alla categoria generale dei beni culturali rischia di rendere del tutto esigui se non del tutto trascurabili gli spazi a disposizione del legislatore regionale per la conservazione e la valorizzazione di beni rappresentativi dell’identità locale [50], pregiudicando così tutta una serie di attività come quelle di studio, ricerca [51], monitoraggio e pubblicazione in rete dei dati raccolti solo perché relative a beni “potenzialmente” culturali [52] le quali, quand’anche fossero relative a beni culturali, non dovrebbero essere comunque precluse alle regioni perché espressione di un’attività di valorizzazione [53].

Ponendo l’attenzione sul bene e sulla sua “culturalità” a rimanere sullo sfondo, piuttosto problematicamente aggiungerei essendo questo il criterio di riparto fra la potestà legislativa statale e regionale, è proprio la distinzione tra l’ambito materiale della tutela e quello della valorizzazione e quindi, in definitiva, il tema della definizione degli spazi regionali della valorizzazione tout court.

Sul punto, a ben vedere, la sentenza n. 194/2013 non aggiunge nulla rispetto al precedente più significativo in materia cioè alla sentenza n. 9/2004 che ricondotta alla tutela ogni attività diretta a preservare l’integrità fisica e culturale del bene, compresa l’attività di restauro [54] e l’individuazione dei soggetti abilitati a svolgerla per conto dello Stato o di enti pubblici nazionali [55], ha precluso alle regioni l’adozione di una disciplina d’uso del bene suscettibile di compromettere le misure vincolistiche adottate ai sensi della Parte II del Codice.

Nulla quaestio, ovviamente, sull’unitarietà della funzione di tutela anche a fronte di un patrimonio culturale che pur “naturalmente esposto alla molteplicità e al mutamento” rimane “intrinsecamente comune” e quindi insuscettibile di “arbitrarie o improponibili frantumazioni” così come sull’”ideale contiguità, nei limiti consentiti, fra le distinte funzioni di ‘tutela’ e di ‘valorizzazione’” [56] che sebbene esprimano ambiti funzionali distinti e con contenuti autonomi “concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura” (art. 1, co. 2, Codice), ma è proprio sui “limiti consentiti” che la giurisprudenza costituzionale ha eccessivamente indugiato seguendo altri canali argomentativi per la risoluzione dei conflitti di competenza (la titolarità dei beni nelle sentenze n. 9 e 24 del 2006 e l’accertamento della culturalità nella sentenza n. 194 del 2013).

Limiti che finiscono per assottigliarsi a tal punto da divenire indistinguibili ai fini della definizione dell’assetto delle competenze legislative nella sentenza n. 140 del 2015 [57] ove la Corte, pur senza mettere in dubbio che tutela e valorizzazione esprimano “aree di intervento diversificate”, conclude nel senso che “l’ontologica e teleologica contiguità delle suddette aree determina, nella naturale dinamica della produzione legislativa, la possibilità... che alla predisposizione di strumenti concreti di tutela del patrimonio culturale si accompagnino contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla valorizzazione dello stesso; ciò comportando una situazione di concreto concorso della competenza esclusiva dello Stato con quella concorrente dello Stato e delle regioni” [58]. Quadro ulteriormente complicato dal fatto che le previsioni adottate per fini di tutela e valorizzazione talora incidono “direttamente” sulla regolamentazione di attività riconducibili ad altre materie appartenenti alla competenza residuale delle regioni, come l’artigianato e il commercio [59].

L’impossibilità, in siffatto contesto, di comporre il concorso di competenze statali e regionali [60] con il principio di prevalenza [61] giustifica dunque il ricorso a quel principio di leale collaborazione [62] che deve, “in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie locali”, tanto più se si considera il richiamo dell’art. 118, co. 3, della Costituzione alla disciplina da parte del legislatore statale di forme di intesa e coordinamento con le regioni proprio nella materia della tutela dei beni culturali.

Al netto dei costi operativi e delle difficoltà di ordine pratico posti dal ricorso “ordinario” allo strumento dell’intesa [63], la pronuncia in esame contribuisce in modo non irrilevante al movimento centripeto inaugurato dalla sent. n. 194/2013 restringendo gli spazi per un intervento regionale in funzione di una tutela “non sostitutiva” di quella statale per di più con riferimento a beni culturali extracodicistici espressivi di identità culturale collettiva ai sensi delle Convenzioni Unesco e come tali attratti al patrimonio culturale immateriale [64] e riportando a “livello statale, pur con la correzione del principio collaborativo, la disciplina degli usi da ritenere ‘non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e valorizzazione’ del patrimonio culturale” [65].

Un certo revirement sulla disciplina regionale degli usi ammissibili dei beni culturali sembrerebbe rintracciarsi nella sentenza n. 138 del 6 luglio 2020 che, ricondotti all’ambito della valorizzazione gli interventi di recupero, utilizzazione e ristrutturazione dei trabocchi e dei caliscendi della costa abruzzese previsti dalla l.r. Abruzzo, 10 giugno 2019, n. 7, sottolinea che se all’ambito della tutela è ascrivibile “la regolazione e l’amministrazione giuridica” dei beni culturali con precipua attenzione alle misure di protezione e conservazione, alla valorizzazione compete la regolazione dell’attività antropica sul bene ovvero la definizione “del complesso delle attività di intervento integrativo e migliorativo ulteriori, finalizzate alla promozione, al sostegno della conoscenza, fruizione e conservazione del patrimonio culturale, nonché ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione di esso, anche da parte delle persone diversamente abili”.

Oggetto di contestazione da parte del Governo, in quanto ritenuta lesiva delle competenze statali in materia di tutela, la previsione con la quale il legislatore abruzzese, al fine di ottimizzare e valorizzare l’attività di ristorazione svolta dai trabocchi in relazione all’effettiva esigenza dei flussi turistici e delle visite didattico-culturali regionali ed extraregionali, ha regolato la “superficie complessiva di occupazione massima” [66] del bene, vale a dire quella occupata dalla passerella d’accesso al bene e quella dedicata all’attività di ristorazione, consentendo, entro i limiti di superficie stabiliti dalla norma [67] e nel rispetto delle autorizzazioni previste dalla disciplina statale di tutela del patrimonio culturale (artt. 21 e 146 del Codice) oltre che di ogni altra autorizzazione o nulla osta previsti dalla legislazione statale in ambito edilizio, igienico-sanitario e di sicurezza, interventi di ristrutturazione e ripristino funzionali a tale ampliamenti.

Di altro avviso la Corte per la quale la fissazione di parametri di utilizzazione del bene funzionali alla realizzazione di interventi “idonei” a renderlo fruibile, “strettamente necessari” ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio culturale, con particolare riguardo alle esigenze delle persone con disabilità, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura [68] e, in ultimo, “adeguati” [69] rispetto alle esigenze di tutela del patrimonio culturale, garantite nel caso di specie dal richiamo alle discipline autorizzatorie previste dal Codice, non eccede affatto l’ambito dei poteri legislativi spettanti alle regioni ai sensi dell’art. 7, co. 1, del Codice, invocato ancora una volta come norma interposta nel giudizio di legittimità costituzionale [70].

Tanto più se l’attività di recupero e valorizzazione riguarda trabucchi “abbandonati” perché “non più utilizzati per la pesca né per altre attività” la cui valorizzazione e fruizione è certamente preferibile, nell’ottica della promozione dello sviluppo della cultura, alla loro distruzione.

Pur non trattandosi di un precedente del tutto isolato se si considera che la sentenza n. 388 del 14 ottobre 2005 aveva ricondotto all’ambito materiale della “valorizzazione” l’utilizzo di tronchi armentizi di valore archeologico per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse [71] e che la sentenza n. 247 dell’8 luglio 2010 aveva ritenuto legittimi i limiti imposti dal legislatore regionale all’esercizio del commercio itinerante nei centri storici per “garantire, indirettamente, attraverso norme che ne salvaguardino la ordinata fruizione, la valorizzazione dei maggiori centri storici delle città d’arte del Veneto a forte vocazione turistica”, non può che salutarsi con favore il tentativo della Corte di definire gli “equilibri precari tra il «non fare» per conservare e il «fare» per valorizzare” [72] attraverso un sindacato di proporzionalità delle modifiche e degli interventi previsti sul bene rispetto alle esigenze di protezione e di conservazione del patrimonio culturale da svolgersi in concreto, guardando cioè al contenuto e agli effetti delle misure regionali.

In che modo? Ripercorrendo e ricostruendo il bilanciamento effettuato dal legislatore regionale, verificando se il diritto fondamentale perdente non sia stato sottoposto ad un sacrificio eccessivo (utilizzando il test di proporzionalità) ed eventualmente sovrapponendo al bilanciamento del legislatore (alla regola legislativa del conflitto) un nuovo bilanciamento [73].

Scelta necessaria perché come si ricorda nella sentenza n. 29 del 3 marzo 2021, il sistema normativo dei beni culturali e paesaggistici non contempla “un divieto aprioristico di compiere interventi sui beni vincolati” che sono “consentiti, a condizione che siano compatibili con il valore culturale e paesaggistico del bene... compatibilità [che] deve essere in concreto accertata mediante il procedimento di autorizzazione”, ragione per cui al legislatore regionale non può precludersi, al fine di valorizzare il patrimonio storico artistico, anche in chiave di promozione turistica, la disciplina di interventi di consolidamento, restauro e ristrutturazione di edifici vincolati, persino rimuovendo divieti non previsti dalla disciplina codicistica [74], purché resti ferma l’applicazione della disciplina generale concernente il rilascio e il rispetto delle autorizzazioni previste dalla normativa statale [75].

Sull’esistenza di un “principio generale di valorizzazione e di promozione dei beni culturali con finalità turistica”, la Consulta si era del resto espressa nella sentenza 5 aprile 2012, n. 80 [76], precisando che tale riconoscimento “non altera il riparto di competenze tra Stato e regioni ma, al contrario, ne esalta le potenzialità in quanto permette di evidenziare come lo scopo perseguito da Stato e regioni, ciascuno nel proprio ambito di competenza, non possa che essere quello di realizzare un incremento qualitativo dell’offerta turistica”. A conferma della doverosità della valorizzazione economica del patrimonio culturale per la sua corrispondenza ai valori costituzionali espressi dagli artt. 9 e 97 della Costituzione, sulla quale non dovrebbe più aversi ragione alcuna di dubitare [77].

Un ulteriore varco per il legislatore statale, in grado di incidere sulle competenze regionali in materia di valorizzazione, è stato aperto dall’inclusione delle attività di tutela, valorizzazione e fruizione [78] del patrimonio culturale tra i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionaleex art. 117, co. 2, lett. m), Cost. [79] disposta dall’art. 01, della legge 12 novembre 2015, n. 182 di conversione del d.l. 20 settembre 2015, n. 146, “Recante misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione, al fine di inquadrare lo sciopero del personale operante nel settore dei beni culturali all’interno della disciplina dei servizi pubblici essenziali di cui alla legge 12 giugno 1990, n. 146 rispondendo così alle polemiche scatenate nell’estate 2015 dalla chiusura per sciopero o per la convocazione di assemblee sindacali di importanti siti museali romani e fiorentini [80].

Norma che chiaramente mira non solo a scongiurare danni al comparto turistico per effetto di una mancata regolazione dello sciopero nell’ambito della gestione dei servizi culturali ma, come correttamente osservato, anche a “valorizzare ulteriormente il patrimonio culturale come un bene che deve necessariamente essere fruito, affinché possa svolgere la sua funzione che è quella di trasmettere testimonianze di civiltà e favorire lo sviluppo della cultura” [81]. In questo senso si legge per lo meno il rinvio dell’art. 01, del d.l. 146/2015 all’art. 9 della Costituzione quale fondamento delle prestazioni essenziali disciplinate dal legislatore statale nel settore dei beni culturali.

Ciò detto, la possibilità riconosciuta al legislatore statale, in sede di determinazione dei “livelli essenziale delle prestazioni”, di non fermarsi alla soglia delle “norme fondamentali” spingendosi fino all’adozione di norme di dettaglio [82] e di espandere il contenuto minimo dei diritti civili e sociali riconosciuti a livello nazionale [83] al fine di soddisfare esigenze di carattere unitario [84], ben giustifica i timori di una contrazione delle competenze regionali [85] a maggior ragione in una materia, come quella della valorizzazione che, come si è visto, già subisce le conseguenze di una difficile ed incerta autonomia dalla funzione di tutela.

4. Oltre le materie e ai confini del patrimonio culturale

La riconduzione della tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione al novero dei compiti fondamentale della Repubblica quale strumento di promozione dello sviluppo culturale della collettività; l’evoluzione in termini qualitativi della nozione di bene culturale ed il conseguente aumento delle tipologie e del numero dei beni ritenuti meritevoli di tutela e l’accresciuta consapevolezza delle comunità locali in ordine al “valore” di tale patrimonio e alla sua capacità di concorrere allo sviluppo socio-economico del territorio non potevano che determinare una crescente domanda di competenze da parte del sistema delle autonomie locali che ha portato nel 2001, completando il processo di decentramento avviato dai d.p.r. 14 gennaio 1972, n. 3 e 24 luglio 1977, n. 616 e proseguito nella terza regionalizzazione con il d.lgs. n. 112/1998, da un lato ad enfatizzare la distinzione tra tutela e valorizzazione al fine di costituzionalizzare, in ordine all’esercizio delle competenze in materia di valorizzazione, il ruolo delle autonomie regionali e dall’altro a certificare il ruolo che le stesse autonomie si erano ritagliate, fra i molti silenzi del legislatore statale, nella promozione ed organizzazione delle attività culturali.

Il ventennio che è seguito ci racconta di un lento processo di ricentralizzazione avvallato dalla giurisprudenza costituzionale con argomentazioni e meccanismi diversi (dalle materie-attività alle materie trasversali [86], dall’attrazione in sussidiarietà al criterio della prevalenza [87]) e della conseguente marginalizzazione del ruolo delle autonomie regionali che nel settore dei beni culturali hanno paradossalmente trovato gli spazi maggiori per svilupparsi al di fuori dal binomio tutela/valorizzazione (sent. n. 94/2013) prima di essere “ingabbiate” dal principio di leale collaborazione (sent. n. 140/2015) e in quello delle attività culturali hanno dovuto fare i conti con emergenze finanziarie (leggasi fondazioni lirico-sinfoniche) e una dipendenza da fondi statali che hanno fatalmente condizionato il tenore stesso delle risposte opposte alle politiche di centralizzazione.

La rigida perimetrazione dei confini giuridici del patrimonio culturale ha sinora impedito alla giurisprudenza costituzionale di occuparsi di tutto ciò che si muove attorno al mondo dei beni culturali e che trascende i confini delle attività culturali a partire dalle nuove espressioni della creatività contemporanea (dal food [88] alla street art [89]) che cominciano a bussare con forza alle porte del “diritto del patrimonio culturale” scontrandosi con una disciplina di tutela del patrimonio culturale immateriale filtrata dai requisiti di “materialità” e “culturalità” (v. art. 7-bis del Codice), dominio, come si è visto, del legislatore statale. Ed è quindi facile prevedere che proprio su questi confini si sposterà ben presto, rinnovandosi forse di contenuti nuovi, il confronto tra Stato e autonomie territoriali [90].

4.1. L’altro confine aperto: il regionalismo differenziato

L’altro confine, come accennato, riguarda l’attivazione della clausola contenuta nell’art. 116, co. 3, Cost. riportata al centro del dibattito politico-istituzionale dall’approvazione nel Consiglio dei ministri del 2 febbraio scorso di un disegno di legge di definizione dei principi generali per l’attribuzione alle regioni ordinarie di “ulteriori forme e condizioni di autonomia” in tuttele materie di potestà concorrente e in quelle esclusive statali dell’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali oltre che nell’organizzazione della giustizia di pace, e delle regole procedurali per l’approvazione delle intese Stato-regione richieste dalla norma [91].

Se l’obiettivo è quello di riconoscere la “necessaria” differenziazione o per meglio dire quella differenziazione che consegue “necessariamente” al dato fattuale della diversità regionale, da ritenersi pienamente iscritta nel principio unitario espresso dall’art. 5 Cost. [92], il nodo, tutto ancora da sciogliere, è quello della quantità [93] di differenziazione possibile o auspicabile e della strada da percorrere per conseguirlo, senza cadere in “contraddizioni istituzionali insanabili” [94].

Abbandonata la strada maestra dell’effettiva attuazione del Titolo V della Costituzione [95] si è imboccata, non senza qualche stop and go (cfr. nt. 3), quella dell’attuazione del comma terzo del suo art. 116, monco però dei suoi pezzi complementari (dall’adozione dei livelli essenziali delle prestazioni [96] all’attuazione dell’art. 119 Cost.), con qualche malinteso di troppo sulle finalità della norma [97] e molte incertezze sulla sua concreta operatività in un contesto istituzionale nel quale gli “spazi reali” dell’autonomia legislativa regionale, nelle materie concorrenti, risultano condizionati più dalle clausole di flessibilità [98] individuate dalla giurisprudenza costituzionale che dalla “cerniera” dei principi fondamentali e sul contenuto stesso dell’autonomia ivi evocata, amministrativa (e, in seconda battuta, legislativa) [99] o anzitutto legislativa [100].

Certamente il riferimento alle materie contenuto nell’art. 116, co. 3, Cost., anche a voler prescindere dall’intrinseca debolezza del criterio materiale, non ha aiutato a capire da “dove” si dovesse partire per darne attuazione, in quanto “evocativo” di esperienze, quella della regionalizzazione, e di procedure, la tecnica del “ritaglio delle materie”, che hanno finito per condizionare, pur con alcune significative differenze [101], le prime richieste regionali [102].

Parzialmente diverso l’approccio nelle nuove bozze di intesa, aggiornate al 2019, nelle quali la richiesta di funzioni si accompagna a quella di competenze legislative senza limitarsi, tuttavia, a “ritagliare” quote di funzioni aggiuntive per soddisfare specifiche esigenze territoriali bensì chiedendo, in larga parte, il trasferimento di intere materie e connesse risorse finanziarie, umane e strumentali [103].

Al netto di richieste di maggiore flessibilità normativa ed organizzativa legate ai limiti della legislazione nazionale o alle carenze dell’amministrazione centrale, ammesso e non concesso che occorra scomodare il regionalismo differenziato per ottenerle [104], attenta dottrina concorda sul fatto che le richieste di maggiore autonomia ai sensi e agli effetti dell’art. 116, co. 3, Cost., dovrebbe invero passare attraverso la puntuale individuazione di politiche pubbliche (da ritenersi) strategiche per lo sviluppo e la crescita regionale, individuando obiettivi e selezionando strumenti operativi e finanziari all’uopo strettamente necessari, per poi negoziare con lo Stato un “progetto, nel quale competenze legislative e amministrative di Stato, regioni (e degli enti locali...) vengano a cooperare e ad intrecciarsi... che potrà essere più o meno ampio, e che potrà anche estendersi ad un complesso di materie, e quindi di obiettivi, con la possibilità che, nel gioco delle reciproche concessioni che un negoziato comporta, lo Stato e le regioni riescano anche a conseguire il risultato di coordinare meglio l’esercizio concreto delle proprie competenze, specialmente dal punto di vista amministrativo” [105]. In questa prospettiva, allora, il procedimento ex art. 116, co. 3, Cost. potrà assumere quel “ruolo più ampio” (rispetto a quello ex art. 118, co. 1, Cost.) consentendo “in certi casi di ritoccare il perimetro delle materie elencate nell’art. 117 Cost., trasferendo nello stesso tempo, a singole regioni, potestà legislative aggiuntive” [106].

Venendo alle proposte avanzate dalle tre regioni capofila [107] nell’attuazione del regionalismo differenziato occorre distinguere le posizioni “massimaliste” di Veneto e Lombardia da quella più “circoscritta” dell’Emilia-Romagna.

Il trasferimento proposto dalle prime due, quanto ai beni culturali, riguarda le competenze legislative e amministrative sia in materia di tutela che di valorizzazione [108] e in particolare: la titolarità e la gestione dei beni culturali mobili e immobili statali presenti nel territorio regionale; le funzioni in materia di tutela esercitate dalle soprintendenze [109] e la loro “regionalizzazione”; le funzioni di valorizzazione degli istituti e luoghi di cultura statali presenti nel territorio (musei, anche autonomi, e parchi archeologici) [110] e dei beni ivi presenti con l’attribuzione delle relative risorse finanziarie e umane, fatte salve (almeno per la Lombardia) le funzioni di tutela dei beni e delle collezioni presenti negli istituti comprese quelle attinenti al prestito; l’esercizio delle funzioni di tutela e valorizzazione sul patrimonio librario non statale [111]. La richiesta dell’Emilia-Romagna, invece, sembra puntare per lo più ad un rafforzamento del sistema museale regionale integrandovi musei e istituti di cultura statali [112] con l’aggiunta delle funzioni di tutela e valorizzazione dei beni librari [113].

Se la proposta emiliano romagnola parrebbe voler potenziare, in termini strategici, le politiche di valorizzazione di tutto il patrimonio culturale presente nel territorio regionale con “un’azione di ricucitura” che tramite specifiche aggiunte di compiti mira ad “assicurare l’esercizio unitario di funzioni attualmente ripartite fra Stato e regione, recuperandone in questo modo un maggiore (e spesso mancante) coordinamento”, sul fronte veneto e lombardo si intravede il rischio di uno scardinamento delle politiche pubbliche di settore, non solo per la richiesta di trasferimento degli apparati amministrativi preposti alla tutela quanto per l’ampiezza delle competenze invocate [114]. Dimenticando che la ricomposizione delle funzioni che insistono sui beni culturali (tutela, valorizzazione) e dei relativi strumenti (potestà legislativa, funzioni amministrative, titolarità dei beni, gestione del personale e delle risorse) non può prescindere dalla “garanzia di solidi relais, di robuste cerniere in grado di assicurare la coerenza e il reciproco coordinamento” fra il livello statale e le regioni differenziate [115]. A meno di non mettere in crisi la tenuta dell’intero sistema.

Per quanto riguarda le attività culturali, le richieste regionali sono allineate nella richiesta di una compartecipazione alla gestione del Fus e del Fondo per il cinema e l’audiovisivo [116], a conferma della necessità di mettere mano ad una riforma del finanziamento pubblico dello spettacolo [117] seriamente rispettosa delle prerogative regionali, anche se Lombardia e Veneto estendono la richiesta di autonomia legislativa e amministrativa all’intera materia concorrente della “promozione ed organizzazione delle attività culturali” andando oltre il limite della dimensione territoriale dell’interesse che, nell’attuale assetto istituzionale, delimita la competenza regionale in materia.

Per chiudere, senza poter concludere vista la vischiosità della materia e l’esito tutt’altro che certo del percorso del d.d.l. Calderoli, rimane sullo sfondo il problema del “necessario” conferimento delle “nuove” funzioni regionali agli enti locali [118], almeno a voler prendere sul serio il principio di sussidiarietà, scongiurando il rischio che si passi da un centralismo (quello statale) ad un altro (quello regionale) aumentando i problemi senza risolvere quelli sul tappeto [119].

Il più classico dei déjà vu...

 

Note

[*] Attualità - Valutato dalla Direzione. Lo scritto, in una versione in alcune parti differente, è stato destinato anche al successivo volume curato da L. Cuocolo, E. Mostacci, Il riparto di competenze tra Stato e regioni: vent’anni di giurisprudenza costituzionale sul Titolo V, Pacini, Pisa, 2023.

[**] Antonella Sau, professore associato in Diritto Amministrativo presso l’Università IULM di Milano, Facoltà di Arti e turismo, Via Carlo Bo 1, 20143 Milano, antonella.sau@iulm.it.

[1] Sebbene la dottrina avesse espresso non poche riserve sull’anelito definitorio del legislatore delegato prevedendo possibili conflitti di competenza tra Stato e autonomie locali, così M. Chiti, La nuova nozione di beni culturali nel d.lgs. 112/1998: prime note esegetiche, in Aedon, 1998, 1 e G. Sciullo, Beni culturali e principi della delega, ibidem. Sulla problematica trasposizione a livello costituzionale della distinzione tra tutela e valorizzazione v., per tutti, G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon, 2001, 1; F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002, pag. 275 ss. e A. Poggi, La difficile attuazione del titolo V: il caso dei beni culturali, in Federalismi.it, 2003, 8, pag. 1 ss. che osserva come negli altri casi in cui la “tutela” viene invocata per definire un titolo competenziale, concorrente o residuale, non assurge a “criterio distributivo delle competenze” ma a “modalità terminologica forse considerata chiarificatrice circa il contenuto della competenza. Nel settore che interessa, invece, è lo stesso criterio distributivo ad essere fondato sulle attività, laddove in tutti gli altri casi esso risiede o nella materia, ovvero nella tipologia di scelta politica assegnata dalla Costituzione sulla materia” (6, nt. 14).

[2] Si collocano viceversa “sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto” le enunciazioni statutarie relative alla “tutela del patrimonio culturale”, alla “tutela del patrimonio storico-artistico e paesaggistico” o più in generale alla “promozione della cultura”. Tali previsioni, di regola collocate tra i “principi generali” degli statuti, ad avviso del giudice costituzionale sono prive di carattere prescrittivo e vincolante e come tali non comportano “alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato” né fondano “esercizio di poteri regionali”, così Corte cost., 2 dicembre 2004, n. 372, analizzata da C. Tubertini, I beni e le attività culturali nei nuovi statuti regionali, in Aedon, 2005, 2.

[3] Sull’accidentato percorso che ha portato le regioni ad avanzare richieste di “maggiori autonomia” ai sensi e agli effetti dell’art. 116, co. 3, Cost. v. L. Violini, L’autonomia delle regioni italiane dopo i referendum e le richieste di maggiori poteri ex art. 116, comma 3, Cost., in Rivista AIC, 2018, 4, pag. 319 ss., per un’analisi delle pre-intese del 2018 v. C. Tubertini, La proposta di autonomia differenziata delle regioni del Nord: un tentativo di lettura alla luce dell’art. 116, comma 3 della Costituzione, in Federalismi.it, 2018, 8, pag. 2 ss. e F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: quali «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna?, in Federalismi.it, 2019, 6, pag. 2 ss.; sulle modifiche apportate alle intese del 2028 sempre F. Pallante, Ancora nel merito del regionalismo differenziato: le nuove bozze di intesa tra Stato, e Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, ibidem, 2019, 20, pag. 2 ss.

[4] G. Sciullo, Autonomia differenziata e beni culturali, in Aedon, 2008, 1. Che quello della cooperazione interistituzionale sia il principio cardine della disciplina dei beni culturali è reso evidente dalle molte disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio che prevedono la stipulazione di accordi o intese sia in materia di tutela (artt. 5, co. 3, 4 e 5; 17; 18, co. 2 e 29, co. 5) che di valorizzazione (artt. 7, co. 2; 102, co. 4 e 5; 103, co. 1; 112, 118 e 119). Sul tema, per tutti, M. Cammelli, Cooperazione, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2020, pag. 295 ss.

[5] Come ben evidenzia G. Clemente di San Luca, La elaborazione del “diritto dei beni culturali” nella giurisprudenza costituzionale. Parte IV. L’influenza esercitata dalla giurisprudenza costituzionale sul legislatore successivo, in Aedon, 2007, 1, la giurisprudenza costituzionale nella materia in esame ha contributo non solo a ridisegnare l’assetto delle competenze legislative e amministrative ma anche ad integrare la disciplina del regime giuridico dei beni culturali.

[6] I passaggi sono tratti dalla sentenza n. 26/2004, in cortecostituzionale.it, nella quale la Corte rintraccia il fondamento teorico del criterio storico-normativo accolto nelle pronunce precedenti (n. 94/2003 e 6/2004) nella qualificazione della tutela e della valorizzazione come “materie-attività” traendone la conseguenza che “l’oggetto ad esse sotteso (i beni culturali) non è sottratto per intero alla competenza generale delle regioni, ma solo per la parte relativa alle «attività» cui fa riferimento l’art. 117 Cost. (tutela e valorizzazione)”, così F. Marini, La «tutela» e la «valorizzazione dei beni culturali» come «materie-attività» nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2004, 1, 197 ss., 197-198.

[7] Discostandosi come osserva A. Poggi, La Corte torna sui beni culturali (brevi osservazioni in margine alla sentenza n. 26/04), in Federalismi.it, 2004, 6, pag. 1 ss. 4, dai propri precedenti in materia.

[8] Dissipando così i dubbi sorti all’indomani della riforma costituzionale in ordine alla collocazione nell’art. 117 della materia della “gestione”, sul tema, per tutti, G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, cit., par. 2; C. Barbati, Tutela e valorizzazione dei beni culturali dopo la riforma del Titolo V: la separazione delle funzioni, in Giorn. dir. amm., 2003, 2, pag. 145 ss.; Idem, L’attività di valorizzazione (art. 111), in Aedon, 2004, 1; sulla neutralità della funzione di gestione rispetto alle funzioni di tutela e valorizzazione si era già espresso S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2001, pag. 33 ss.

[9] Sui confini della potestà normativa statale v. C. Barbati, Funzioni e compiti in materia di valorizzazione del patrimonio culturale (art. 7), in Aedon, 2004, 1.

[10] Il novellato art. 117, co. 6, Cost., assegna infatti allo Stato la potestà regolamentare nelle sole materie di competenza esclusiva salva la possibilità di delega alle regioni, le quali esercitano potestà regolamentare tanto nelle materie di potestà concorrente che residuale. Resta ferma la potestà regolamentare degli enti locali in ordine all’”organizzazione e lo svolgimento delle funzioni ad essi conferite” ai sensi dell’art. 117, co. 6, Cost.

[11] Ripristinando di fatto il principio del parallelismo tra le funzioni, come osserva G. Pastori, Le funzioni dello Stato in materia di tutela del patrimonio culturale (art. 4), in Aedon, 2004, 1.

[12] C. Barbati, regioni e attività culturali, in Cultura e governi locali, (a cura di) C. Barbati e G. Clemente di San Luca, Jovene Editore, Napoli, 2015, pag. 3 ss., 4-5.

[13] Salvo poi ridimensionare la presenza all’interno del Capo V del d.lgs. n. 112/1998 di una norma dedicata allo “spettacolo” (art. 156) che avrebbe potuto giustificarne una differente collocazione rispetto alle attività culturali nel novellato Titolo V e ribadire l’omogeneità tra spettacolo ed attività culturali ai fini della loro riconducibilità al novero della potestà concorrente. Scelta dovuta alla necessità di evitare le conseguenze dell’attrazione dello spettacolo tra le materie c.d. innominate del comma 4 dell’art. 117, prima fra tutte l’esclusione della potestà regolamentare del Governo (infra par. 2). Sulla problematica collocazione dello spettacolo nel nostro sistema istituzionale v. C. Barbati, Lo spettacolo: il difficile percorso delle riforme (dalla Costituzione del 1948 al “nuovo” Titolo V e “ritorno”), in Aedon, 2003, 1.

[14] Che definiva le attività culturali “quelle rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte”.

[15] Per F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, cit., “il criterio utilizzato nel decreto 112 si fonda, dunque, sull’immaterialità dell’attività culturale, configurata come il complesso dei comportamenti umani che caratterizzano la nascita del bene culturale. Sicché, se la res di interesse storico o artistico è già venuta ad esistenza, le attività che ad essa si riferiscono possono articolarsi nella ‘tutela’ e nella ‘valorizzazione’...; mentre se il bene è ancora in fieri la fattispecie è riconducibile alla ‘promozione e organizzazione di attività culturali’” (283); analogamente M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2015, per i quali la promozione si sviluppa “attraverso tutte quelle iniziative volte a dare forma alla creatività culturale” (325).

[16] In questi termini M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento dei beni culturali, cit., pag. 324.

[17] Così C. Barbati, regioni e attività culturali, cit., pag. 5, che ricorda come le attività culturali, anche dopo l’inserimento tra le materie di legislazione concorrente, non abbiano mai avuto una disciplina sostanziale unitaria funzionale a tipizzarne le espressioni e a determinarne i principi fondamentali di disciplina compresi i criteri funzionali al riparto delle competenze fra i diversi livelli di governo.

[18] Mi riferisco alla legge 14 novembre 2016, n. 220 di “Disciplina del cinema e dell’audiovisivo” che ha abrogato il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 28 di “Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137” adottato all’indomani della riforma costituzionale per adeguare la disciplina di settore al nuovo assetto costituzionale e alla legge 22 novembre 2017, n. 175 recante “Disposizioni in materia di spettacolo e deleghe al Governo per il riordino della materia” che all’art. 1, co. 2, elenca, in termini non tassativi, le attività dello spettacolo dal vivo.

[19] Così M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento dei beni culturali, cit., pag. 337.

[20] Responsabilizzando il ruolo delle regioni dato che “tale riparto incide non solo sugli importanti e differenziati settori produttivi riconducibili alla cosiddetta industria culturale, ma anche su antiche e consolidate istituzioni culturali pubbliche o private operanti nel settore (come, ad esempio e limitandosi al solo settore dello spettacolo, gli enti lirici o i teatri stabili); con la conseguenza, inoltre, di un forte impatto sugli stessi strumenti di elaborazione e diffusione della cultura” (Corte cost., n. 255/2004).

[21] Come rileva C. Barbati, La promozione pubblica dello spettacolo: i soggetti (note di contesto per una disciplina di sistema), in Aedon, 2007, 3, par. 3, osservando come dietro queste “resistenze” vi sia stata spesso una certa “confusione” sulle forme e le misure del decentramento nell’ambito e ai fini della promozione dello spettacolo.

[22] Più volte richiamato dalla giurisprudenza precedente per risolvere i problemi di ordine intertemporale determinati dalla sovrapposizione del nuovo riparto di competenze Stato-regioni a quello previgente (Corte cost., ord., 23 luglio 2002, n. 383; Corte cost., 23 luglio 2002, n. 376, in cortecostituzionale.it).

[23] Scelta che ha indotto la dottrina più attenta a parlare di una vera e propria ultrattività del previgente riparto di competenze, pur giustificata da ragioni di necessità e di temporaneità della soluzione predisposta, più che di un’applicazione del principio di continuità, così M. Belletti, Necessità e temporaneità irrompono nel riparto di competenze Stato-regioni sotto forma di continuità e sostanziale ultrattività, in Le regioni, 2005, 1-2, pag. 241 ss. e in part. 249 ss.; in termini analoghi C. Tubertini, La disciplina dello spettacolo dal vivo tra continuità e nuovo statuto delle autonomie, in Aedon, 2004, 3, par. 4 e S. Foà, Costituzionalità provvisoria, continuità istituzionale e monito al legislatore statale: la disciplina dello spettacolo (a margine di C. cost. 255 e 256 del 2004), in Federalismi.it, 2004, 22, pag. 1 ss.

[24] In sintesi, si legge in motivazione, “non si può privare la società civile e i soggetti che ne sono espressione (enti pubblici e privati, associazioni, circoli culturali, ecc.) dei finanziamenti pubblici indispensabili per la promozione e lo sviluppo di attività che, normalmente, non possono affidare la loro sorte alle mere leggi del mercato”.

[25] Principio già esplicitato nelle sentenze n. 370 del 23 dicembre 2003, n. 16 del 16 gennaio 2004 e n. 51 del 28 gennaio 2005, tutte in cortecostituzionale.it.

[26] Per un commento analitico della sentenza v. C. Tubertini, Promozione delle attività culturali e autonomia di spesa delle regioni: il rilievo delle “esigenze di carattere unitario”, in Aedon, 2005, 3 e P. Caretti, Le competenze in materia di spettacolo: la Corte «riscrive» il decreto legislativo in materia di cinematografia, in Giur. cost., 2005, 4, pag. 2830 ss.

[27] Deve infatti essere “considerato come il livello di governo regionale - e, a maggior ragione, quello infraregionale - appaiano strutturalmente inadeguati a soddisfare, da soli, lo svolgimento di tutte le tipiche e complesse attività di disciplina e sostegno del settore cinematografico. Ciò in quanto tali attività - diversamente opinando - risulterebbero esposte al rischio di eccessivi condizionamenti localistici nella loro gestione, a fronte, invece, della necessità di sostenere anche iniziative di grande rilevanza culturale prescindendo da questi ultimi” (Pt. 8 in motivazione).

[28] Procedure concertative introdotte dalla legge 15 novembre 2005, n. 239 che prevede che i decreti ministeriali concernenti i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività di spettacolo a valere sul Fus siano adottati d’intesa con la Conferenza Unificata. Tali decreti possono comunque essere adottati qualora l’intesa non venga raggiunta entro 60 giorni.

[29] Cfr. C. Barbati, La promozione pubblica dello spettacolo: i soggetti (note di contesto per una disciplina di sistema), cit., parr. 3.1 e 4.

[30] Nella composizione del quale la presenza di membri designati dalla Conferenza Unificata è del tutto minoritaria.

[31] Replicando lo schema di funzionamento del Fus i cui fondi vengono ripartiti “sentito” il “Consiglio superiore dello spettacolo” istituito dall’art. 3 della legge n. 175/2017.

[32] F. Benelli, R. Bin, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle regioni, in Le regioni, 2009, 6, pag. 1185 ss. e in part. 1210.

[33] Per quanto munite di personalità giuridica di diritto privato, le fondazioni lirico sinfoniche realizzano infatti “finalità dello Stato” con un ambito operativo nazionale che eccede la dimensione regionale o locale, come confermano gli “ingenti flussi di denaro con cui lo Stato ha sovvenzionato e continua a sovvenzionare tali soggetti” (cfr. Corte cost., 21 aprile 2011, n. 153).

[34] Vale a dire per quanto non espressamente previsto dal d.lgs. 29 giugno 1996, n. 367 che ne ha previsto la privatizzazione in senso formale. Per una ricostruzione delle complesse vicende che hanno riguardato gli ex enti lirico-sinfonici si rinvia a P. Carpentieri, Il diritto amministrativo dell’eccellenza musicale italiana: l’organizzazione e il finanziamento delle fondazioni lirico-musicali, in Aedon, 2018, 3.

[35] Sull’intervento statale in materia di ricerca scientifica e tecnologica ascritta alla competenza concorrente v. Corte cost., 26 gennaio 2005, n. 31, in cortecostituzionale.it.

[36] Come osserva A. Morrone, Lo “spettacolo” dopo la riforma del titolo V: idee per una legge generale, in Le regioni, 2009, 1, pag. 47 ss. e in part. 69.

[37] Su tale aspetto si soffermano ampiamente F. Benelli, R. Bin, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle regioni, cit., pag. 1210.

[38] Mi riferisco alla sentenza n. 71 del 5 aprile 2018 relativa alla gestione statale del “Fondo nazionale per la rievocazione storica” previsto dalla legge finanziaria per il 2017 per “la promozione di eventi, feste e attività e la valorizzazione dei beni culturali attraverso la rievocazione storica” la cui disciplina è stata dichiarata illegittima nella parte in cui non contemplava l’intesa in seno alla Conferenza Stato-regioni per l’adozione del decreto ministeriale di determinazione dei criteri di accesso al Fondo.

[39] Come rileva M. Picchi, A proposito del fondo per la rievocazione storica, in Aedon, 2019, 2, par. 3, per la quale sarebbe quello regionale il livello di governo adeguato all’esercizio della funzione di promozione di “beni, luoghi e tradizioni che non hanno un rilievo nazionale ma che si contraddistinguono per il carattere dell’’affectio’ per le comunità di riferimento perché con essi hanno uno stretto legame dal momento che ne esprimono i profili identitari e le origini” (par. 3), tanto più se si considera l’esiguità del Fondo (tale da non giustificare “lo scopo unitario ricostruito dalla Corte”) e gli altri interessi che possono essere perseguiti attraverso la promozione delle rievocazioni storiche, come quelli legati al turismo e allo sviluppo economico del territorio.

[40] Come osserva S. Foà, La legge regionale sulla tutela dei locali storici è legittima perché non riguarda «beni culturali» ma «beni a rilevanza culturale». La Corte costituzionale «sorvola» sulla distinzione tra tutela e valorizzazione, in Le regioni, 2003, 6, pag. 1232 ss., “non si toccano gli istituti di tutela di cui al testo unico dei beni culturali e ambientali, proprio perché non si tratta di tutelare i beni culturali cui quel testo è rivolto; piuttosto si valorizzano beni che hanno una rilevanza storica, artistica e ambientale e che possono essere oggetto di disciplina regionale” (1237); per un commento della sentenza v. inoltre A. Poggi, Verso una definizione aperta di “bene culturale”? (a proposito della sentenza n. 94/2003 della Corte costituzionale), in Aedon, 2003, 1; F.S. Marini, I «beni culturali» e i «locali storici» del Lazio: una differenza storico-normativa, in Giur. cost., 2003, 2, pag. 775 ss. e P. Carpentieri, Tutela e valorizzazione dei beni culturali. Il commento, in Urb. app., 2003, 9, pag. 1015 ss.

[41] Tesi nota, come ricorda P. Carpentieri, Tutela e valorizzazione dei beni culturali. Il commento, cit., pag. 1027, che viene però usata per la prima volta “come criterio di convivenza delle competenze statali e regionali... scontando in anticipo che la sua applicazione potrebbe comportare reciproci (purché fisiologici) sconfinamenti”, così A. Poggi, Verso una definizione aperta di “bene culturale”? (a proposito della sentenza n. 94/2003 della Corte costituzionale), cit., par. 4.

[42] In realtà, come osserva S. Foà, La legge regionale sulla tutela dei locali storici è legittima perché non riguarda «beni culturali» ma «beni a rilevanza culturale». La Corte costituzionale «sorvola» sulla distinzione tra tutela e valorizzazione, la Corte, “frenata” dalle definizioni contenute nel d.lgs. n. 112/1998, si limita ad affermare “sbrigativamente e solo per inciso che comunque, pur trattandosi di beni non rientranti nella disciplina del testo unico dei beni culturali, la legge regionale si occupa solo della relativa valorizzazione” senza però parlare della valorizzazione in modo così chiaro ma limitandosi a richiamare il tema “dei finanziamenti per la... valorizzazione” mentre si sarebbe potuta spingere ben oltre, sino a “giustificare interventi del legislatore regionale rientranti in una nozione di tutela non riferita ai beni culturali di cui al testo unico, ma a beni che possono vantare una diversa qualificazione ed un titolo differente a fondamento della loro protezione o «salvaguardia»“, senza violare l’art. 117 Cost. (1237).

[43] Così P. Carpentieri, Tutela e valorizzazione dei beni culturali. Il commento, cit., che evidenzia come il dictum della Corte tocchi in realtà “un nervo sensibile della materia” denunciando “un passaggio di oggettiva difficoltà nella distinzione tra valorizzazione e tutela: e cioè il fatto che la valorizzazione del bene culturale non può che ridondare in una tutela, mentre una efficace tutela del bene costituisce già essa valorizzazione dello stesso” (1021).

[44] Sugli aspetti definitori e di contenuto del governo del territorio vedasi, ex multis, Corte cost., 7 ottobre 2003, n. 307; Corte cost., 19 dicembre 2003, n. 362; Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196 e Corte cost., 14 ottobre 2005, n. 383, tutte in cortecostituzionale.it.

[45] Materia che, come il giudice costituzionale non dimentica qui di ribadire, pur avendo un “proprio ambito materiale” allo stesso tempo “contiene l’indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce anche una materia-attività... (v. sentenza n. 26 del 2004), condividendo alcune caratteristiche con la tutela dell’ambiente, non a caso ricompresa sotto la stessa lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, in quanto in entrambe assume rilievo il profilo teleologico della disciplina” chiarendo poi che “nelle materie in cui ha primario rilievo il profilo finalistico della disciplina, la coesistenza di competenze normative rappresenta la generalità dei casi” come conferma l’art. 118, co. 3 della Costituzione che proprio in materia di beni culturali stabilisce che la legge statale preveda forme di intesa e coordinamento tra Stato e regioni.

[46] Sul rapporto tra “governo del territorio” e “tutela dei beni culturali” vedasi: A. Roccella, Governo del territorio: rapporti con la tutela dei beni culturali e l’ordinamento civile, nota a Corte cost., n. 232/2005, in Le regioni, 2005, 6, pag. 1256 ss.; A. Crosetti, Governo del territorio e tutela del patrimonio culturale: un difficile percorso di integrazione, in Riv. giur. ed., 2018, 2, pag. 81 ss.; F. Salvia, Spunti di riflessione per una teoria sui beni culturali urbanistici, in Studi in memoria di Antonio Romano Tassone, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017, Vol. 2, pag. 2283 ss.

[47] Annottata da S. Mabellini, La “presunzione di culturalità” apre un ulteriore varco statale nella competenza regionale, in Giur. cost., 2013, 4, pag. 2770 ss. e in part. 2771 e L. Casini, “Le parole e le cose”: la nozione giuridica di bene culturale nella legislazione regionale, in Giorn. dir. amm., 2014, 3, pag. 257 ss.

[48] Come osserva S. Mabellini, La “presunzione di culturalità” apre un ulteriore varco statale nella competenza regionale, cit., pag. 2771 s., convertendo così “la (puntuale) esclusione, ex art. 117, co. 2, lett. s) Cost., della funzione legislativa regionale di tutela dei beni dichiarati di interesse culturale, in una (generalizzata) sottrazione di quella stessa funzione sui beni la cui culturalità non sia stata previamente negata”. Sugli effetti distorsivi della sentenza si sofferma anche L. Casini, “Le parole e le cose”: la nozione giuridica di bene culturale nella legislazione regionale, cit., per il quale l’assunto della Corte non sembra tener conto del fatto che una cosa non identificata oggi come bene culturale potrebbe esserlo in futuro, soprattutto se di qualche rilievo storico, e che i cimeli non ritrovati, ferma l’applicazione dell’art. 91 del Codice, non possono certamente essere già stati dichiarati di interesse culturale (262).

[49] P. Carpentieri, Tutela e valorizzazione dei beni culturali. Il commento, cit., pag. 1027.

[50] Che al più potrà occuparsi dei beni immateriali o di situazioni non sufficientemente regolate, come accaduto in materia di borghi storici e di città d’arte o a proposito delle botteghe storiche e dei reperti di archeologia industriale, come segnala L. Casini, “Le parole e le cose”: la nozione giuridica di bene culturale nella legislazione regionale, cit., pag. 264.

[51] Per C. Marzuoli, Sub Art. 88, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 365 ss. e in part. 368-370, benché il monopolio statale in materia di ricerca si spieghi con la prescrizione del regime di proprietà pubblica previsto dall’art. 91 del Codice e quindi in una “logica puramente proprietaria”, tale riserva pone problemi di ordine costituzionale sia rispetto alla libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. che rispetto alla libertà di ricerca scientifica ex art. 33 Cost. ragione per cui l’oggetto della riserva dovrebbe riguardare “un’attività diretta al ritrovamento della cosa, che implica o può implicare una manomissione del contenuto o l’occupazione di luoghi altrui” ma non “un’attività diretta all’acquisizione della semplice conoscenza dell’esistenza della cosa” dovendosi “coordinare l’interpretazione della norma con quei principi concernenti la libertà di studio e di ricerca scientifica” (370).

[52] S. Mabellini, La “presunzione di culturalità” apre un ulteriore varco statale nella competenza regionale, cit., pag. 2774.

[53] In questi termini S. Cavaliere, Oscillazioni in senso centralistico della giurisprudenza costituzionale in tema di altri beni culturali diversi da quelli identificati tali ai sensi della normativa statale, in Amministrazioneincammino.luiss.it, 2014, pag. 11 s.

[54] Sgombrando il cambio da ogni dubbio in ordine alla sovrapposizione con la disciplina della valorizzazione, la Corte ha premura di precisare che sebbene attraverso le operazioni di restauro possa giungersi sino alla “valorizzazione dei caratteri storico-artistici del bene” questa non va confusa con la “valorizzazione del bene al fine della fruizione” che “non incidendo sul bene nella sua struttura, può concernere la diffusione della conoscenza dell’opera e il miglioramento delle condizioni di conservazione negli spazi espositivi” (Punto 9 in diritto). In realtà, come evidenzia F. Marini, La «tutela» e la «valorizzazione dei beni culturali» come «materie-attività» nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., pag. 199, la nozione di valorizzazione ex art. 152, co. 3, lett. a), del d.lgs. n. 112/1998 comprende anche le attività concernenti “il miglioramento della conservazione fisica dei beni che non escludono affatto un intervento sul bene” come conferma la più recente giurisprudenza in materia (infra par. 3).

[55] Definendo il restauro “una delle attività fondamentali in cui si esplica la tutela” la Corte ha riconosciuto allo Stato la possibilità di porre limiti ai titoli formativi rilasciati dalle regioni in quanto relativi allo svolgimento di un’attività riconducibile ad un ambito materiale di competenza esclusiva dello Stato escludendo al contempo, pur senza precisare se la formazione professionale comprenda anche quella dei restauratori, un’invasione della competenza legislativa concorrente in materia di “formazione professionale” in quanto l’art. 3 del decreto ministeriale contestato - il d.m. n. 420/2001 di modifica del d.m. 294/2000 - si limitava a identificare i soggetti abilitati a svolgere attività di restauro per conto dello Stato o di enti pubblici nazionali senza disciplinare i relativi percorsi formativi ed entrare nel merito dei requisiti di ammissione, del reclutamento e dello status dei docenti (sul tema sia consentito rinviare al mio, Un passo in avanti nella disciplina della formazione dei restauratori: il decreto del Miur 2 marzo 2011, in Aedon, 2011, 2, in part. par. 1 e a C. Tubertini, I limiti della potestà legislativa statale in materia di formazione professionale nella tutela dei beni culturali, in Aedon, 2004, 2).

[56] Sulla funzione di valorizzazione e i profili di sovrapposizione con la tutela v. per tutti L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 3, pag. 651 ss.

[57] Che ha dichiarato costituzionalmente illegittimi per violazione dell’art. 120 Cost. gli artt. 2-bis e 4-bis del d.l. 8 agosto 2013, n. 191 (introdotti dalla legge di conversione 7 ottobre 2013, n. 112), nella parte in cui non prevedono l’intesa fra Stato e regioni in tema di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Le disposizioni impugnate, modificando l’art. 52 del Codice, attribuiscono rispettivamente ai comuni, sentito il soprintendente, i poteri di promozione e salvaguardia delle attività commerciali e artigianali tradizionali espressione di identità culturali collettiva ai sensi delle Convenzioni Unesco del 2003 e del 2005 sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e la protezione e promozione delle diversità culturali, e agli uffici territoriali del ministero il potere, sentiti gli enti locali, di vietare gli usi di attività ambulanti e di posteggio ritenuti non compatibili con la tutela e la valorizzazione delle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico.

[58] Da intendersi come “ordinario” quando le competenze interessate da tale concorso siano quelle di tutela e valorizzazione e solo “eventuale” qualora l’intervento legislativo in materia di tutela intercetti altri ambiti materiali di competenza regionale perché, quantunque dalla configurazione della tutela come materia-attività discenda la possibilità che questo si rifletta su altre materie (commercio, turismo, artigianato), l’assenza dell’intima connessione che caratterizza il rapporto tra tutela e valorizzazione induce a ritenere che l’effetto di tale concorso di competenze sia, in tale ipotesi, “strettamente legato alle caratteristiche dell’intervento” concreto posto in essere dalla legge statale, così G. Sciullo, Corte costituzionale e nuovi scenari per la disciplina del patrimonio culturale, in Aedon, 2017, 1, par. 4.

[59] Discostandosi dal precedente indirizzo della Corte che chiamata a pronunciarsi sui limiti introdotti dal legislatore veneto al commercio itinerante nei centri storici, proprio al fine di tutelare i centri storici e l’arredo urbano, non aveva avuto dubbi nel ricondurre tale intervento alla materia del commercio di competenza residuale delle regioni, ci si riferisce a Corte cost., 8 luglio 2010, n. 247, in cortecostituzionale.it, annotata da M. Malo, Il «commercio degli ultimi», fuori dai centri storici maggiori (del Veneto), in Le regioni, 2011, 5, pag. 1025 ss.

[60] Sul radicamento di un concorso di competenze qualora non sia individuabile in termini “qualitativi” o “quantitativi” un ambito materiale che possa considerarsi prevalente sugli altri, v. Corte cost., 24 luglio 2009, n. 237 e Corte cost., 8 giugno 2005, n. 219, tutte in cortecostituzionale.it.

[61] Prevalenza che, come osserva G. Sciullo, Corte costituzionale e nuovi scenari per la disciplina del patrimonio culturale, cit., “si riferisce non alle materie in quanto tali, ma all’afferenza del nucleo disciplinare contenuto nella legge: a rilevare è se tale nucleo vada ascritto prevalentemente ad una materia oppure se tocchi in misura non significativamente difforme più materie” (sui criteri per l’individuazione della materia, relativi all’oggetto, alla disciplina e alla ratio, e non invece ai suoi aspetti marginali e riflessi v., ex plurimis, Corte cost., 11 giugno 2014, n. 167 e Corte cost., 9 maggio 2014, n. 119). Per tali ragioni l’A. aveva già avuto modo di osservare come le misure stabilite dalle disposizioni impugnate dovrebbero ricondursi in termini prevalenti a quelle in cui si articola la tutela (cfr. G. Sciullo, Concorrenza di competenze in tema di beni culturali, in Riv. giur. urb, 2015, 3, pag. 379 ss. e in part. 389-392); dello stesso avviso P. Carpentieri, Il decoro dei monumenti deve attendere le intese con le regioni: come subordinare la tutela (art. 9 Cost.) al commercio e alla “leale collaborazione” interistituzionale, in Giur. cost., 2015, 4, pag. 1246 ss. e in part. 1248 ss., che fa però leva sulla prevalenza gerarchica della tutela sulla valorizzazione.

[62] Sul quale, a titolo esemplificativo, Corte cost., 13 marzo 2014, n. 44 e Corte cost., 7 marzo 2008, n. 50, entrambe in cortecostituzionale.it.

[63] Sul tema, v. D. Sorace, L’amministrazione pubblica del patrimonio culturale tra Stato e regioni: dalla sussidiarietà al “principio dell’intesa” (una prima lettura del Codice dei beni culturali e ambientali), in Le regioni, 2005, 3, pag. 315 ss. e in part. 337-338; P. Carpentieri, Il decoro dei monumenti deve attendere le intese con le regioni: come subordinare la tutela (art. 9 Cost.) al commercio e alla “leale collaborazione” interistituzionale, cit., pag. 1250; G. Manfredi, Il riparto delle competenze in materia di beni culturali e leale collaborazione, in Le Ist. del Fed., 2017, 3, pag. 791 ss. e in part. 808-809.

[64] Così S. Mabellini, Un caso di “non prevalenza” della competenza statale che segna un ulteriore passo indietro per la potestà legislativa delle regioni, in Giur. cost., 2015, 4, pag. 1237 ss. e in part. 1240 ss. che denuncia un “ambiguo adattamento” del diritto interno alle Convenzioni Unesco (1244) ma anche L. Casini, “Le parole e le cose”: la nozione giuridica di bene culturale nella legislazione regionale, cit., sorpreso dal mancato riferimento nel comma 1-bis dell’art. 52 alle regioni dato che i locali storici sono tra le poche categorie di beni identificati, ai fini della valorizzazione, dalla legislazione regionale (265).

[65] S. Mabellini, op. ult. cit., pag. 1241.

[66] Parametri di superficie che non vanno a sommarsi all’aumento del 20% previsto dall’art. 3-ter, co. 1, l.r. 11 agosto 2009, n. 13 che si applica solo ai manufatti adibiti a “caliscendi” come definiti dall’art. 3-bis, co. 2.

[67] Compatibilmente con le previsioni del piano demaniale marittimo comunale per cui sarà il comune al momento del rilascio del titolo abilitativo richiesto per l’intervento sul trabucco a far valere i limiti imposti dal piano.

[68] I giudici osservano a tal proposito che “la maggior ampiezza della passerella di accesso al trabocco, prevista dal comma 3-quater [l.r. n. 13/2009] è coerente con l’assolvimento dell’esigenza di consentire, da un lato, la fruizione del trabocco da parte delle persone con disabilità e, dall’altro, l’osservanza dei parametri di sicurezza per la pubblica incolumità dei soggetti fruitori, sia in chiave turistica che didattico-culturale, in tal senso rimanendo rispettato l’ambito di esercizio dei poteri fissato nell’art. 6 del cod. beni culturali”.

[69] Gli ampliamenti sul bene tendono infatti a scongiurare una fruizione incontrollata che comprometta il carattere storico-culturale del bene.

[70] Orientamento confermato nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5 della l.r. Molise, 11 novembre 2020, n. 12, recante “Disposizioni in materia di valorizzazione e utilizzazione commerciale e turistica del trabucco molisano” impugnata dal Governo su presupposti sostanzialmente analoghi. La Corte, con sentenza 28 febbraio 2022, n. 45, in cortecostituzionale.it, confermata la linea di confine tra tutela e valorizzazione dei trabucchi tracciata nella sentenza n. 38/2020, ha infatti respinto la censura di legittimità dell’art. 5 della legge molisana nella parte relativa alla definizione dei limiti dimensionali dei trabucchi (sia di nuova costruzione che esistenti, in caso di loro ristrutturazione o ampliamento) ribadendo che la previsione di una superficie di occupazione massima del manufatto “risponde alla finalità di circoscrivere l’area complessiva destinata alla valorizzazione dei trabocchi in funzione, sia dell’ottimizzazione dei flussi turistici (cui è strumentale la regolazione dell’attività di ristorazione) sia di un più fruibile soddisfacimento delle visite didattico-culturali” così come la maggiore misura della passerella d’accesso è “coerente con l’assolvimento dell’esigenza di consentire, da un lato, la fruizione del trabocco da parte delle persone con disabilità e, dall’altro, l’osservanza dei parametri di sicurezza per la pubblica incolumità dei soggetti fruitori, sia in chiave turistica che didattico-culturale, in tal senso rimanendo rispettato l’ambito di esercizio dei poteri fissato nell’art. 6 del codice dei beni culturali”. Tali previsioni non possono comunque “determinare alcun pregiudizio per le aree attinte da vincolo paesaggistico, ove sono ubicati i trabucchi di nuova o di antica realizzazione, o per quei trabucchi che dovessero - in ipotesi - risultare essi stessi sottoposti alla normativa di tutela dei beni culturali” in quanto la legge regionale richiama il rispetto della disciplina codicistica che impone l’autorizzazione paesaggistica per interventi da compiersi sui beni vincolati e che subordina ad autorizzazione gli interventi sui beni culturali (cfr. artt. 146 e 21, d.lgs. n. 42/2004).

È stata invece accolta, fra le altre proposte, la censura dell’art. 1, co. 2 nella parte in cui stabilisce che i “trabucchi [senza alcuna distinzione in ordine all’epoca della loro realizzazione] e l’area circostante fino ad una fascia di 50 metri dal sedime sono considerati beni culturali sottoposti alla disciplina di cui al decreto legislativo n. 42/2004”, in quanto “l’inequivoco tenore letterale della norma tradisce l’intento del legislatore regionale di sostituirsi allo Stato nello svolgimento di compiti che sono rimessi alla competenza esclusiva di quest’ultimo, procedendo direttamente all’individuazione di beni culturali che tali non sono secondo la normativa di settore [cfr. art. 10, co. 4, lett. l) e co. 5 del d.lgs. n. 42/2004]... agendo in antitesi rispetto alle finalità indicate dal comma 1 dell’art. 1 della legge... protese alla sola valorizzazione dei trabucchi”. Del tutto in linea, peraltro, con l’orientamento già espresso nella sentenza n. 194/2013.

[71] Previa acquisizione del parere favorevole (decisorio) della soprintendenza cui spetta impedire interventi che possano compromettere la “consistenza originaria del tratturo” (piuttosto critica su questo passaggio della sentenza G. De Giorgi, Le “lunghe strade verdi” degli armenti. Gli antichi tratturi tra competenza statale e regionale (commento alla sentenza Corte costituzionale 5 luglio 2005, n. 388), in Aedon, 2006, 1, spec. par. 7).

[72] Per citare F. Guella, Conferme sulle competenze rispetto alla «non materia» paesaggio: le possibilità di intervento regionale sui profili di «valorizzazione» nella disciplina dei c.d. trabucchi, in Giur. cost., 2020, 6, pag. 1439 ss. e in part. 1446-1450.

[73] G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2010, pagg. 202-203.

[74] Diverso sarebbe stato se il legislatore regionale avesse derogato ad una norma codicistica dato che “quando una norma è riconducibile ad un ambito materiale di esclusiva competenza statale, nella specie la tutela dei beni culturali, le regioni non possono emanare alcuna normativa, neppure meramente riproduttiva di quella [statale]” (cfr. Corte cost., 20 novembre 2014, n. 259, in cortecostituzionale.it) che quindi si applica in ambito regionale seppure non espressamente richiamata dallo stesso legislatore regionale.

[75] Ricordiamo che i principi del Codice continuano ad essere ascritti dalla giurisprudenza tra le c.d. “norme di grande riforma economico-sociale” attuative dell’art. 9 della Costituzione e come tali vincolanti anche le regioni a statuto speciale, tra le tante, Corte cost., 7 novembre 2007, n. 367; Corte cost., 27 giugno 2008, n. 232; Corte cost., 23 marzo 2012, n. 66; Corte cost., 24 luglio 2012, n. 207; Corte cost, 20 luglio 2016, n. 189; Corte cost., 12 ottobre 2017, n. 212; Corte cost., 23 luglio 2018, n. 172 con nota di G. Soricelli, Beni culturali paesaggistici e norme di grandi riforme economico sociali: un binomio possibile?, in Giur. cost., 2018, 5, pag. 1207 ss.; Corte cost., 15 novembre 2018, n. 201; Corte cost., 26 giugno 2020, n. 130 e Corte cost., 22 luglio 2021, n. 160, tutte in cortecostituzionale.it. Sull’operatività del limite in questione nel nuovo assetto costituzionale v. E. Cofrancesco, Corsi e ricorsi storici nella giurisprudenza costituzionale in tema di norme fondamentali di riforma economico sociale, nota a Corte cost., 25 ottobre 2017, n. 229, in Giur. cost., 2017, 6, pag. 3051 ss. e spec. 3056-3057 e G.A. Ferro, Le norme fondamentali di riforma economico sociale ed il nuovo Titolo V della Costituzione, in Nuove Autonomie, 2005, 4-5, pag. 633 ss.

[76] Si tratta della sentenza che ha travolto gran parte delle disposizioni del c.d. Codice del turismo, d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79, per eccesso di delega e violazione della competenza (residuale) delle regioni in materia di turismo ma non l’art. 24, una tra le poche ad aver superato il vaglio della Corte, che affida al Presidente del Consiglio dei ministri o al Ministro delegato, di concerto con l’allora Ministro per i beni e le attività culturali, il compito di promuovere la realizzazione di iniziative turistiche finalizzate ad incentivare la valorizzazione del patrimonio storico-artistico, archeologico, architettonico e paesaggistico presente sul territorio italiano.

[77] Così M. Cammelli, Immateriale economico e profilo pubblico del bene culturale, in L’immateriale economico dei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli, A. Bartolini, Torino, Giappichelli, 2018, pag. 91 ss. e diffusamente G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e... di come addomesticare gli scoiattoli, in Aedon, 2018, 3.

[78] In realtà per la dottrina maggioritaria la fruizione sarebbe priva di autonomia sul piano sistematico rappresentando “un aspetto della valorizzazione, più esattamente una finalità che questa deve perseguire e uno degli ambiti della disciplina relativi a tale funzione”, così G. Sciullo, Tutela, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pagg. 150-151 e M. Dugato, Fruizione e valorizzazione dei beni culturali come servizio pubblico e servizio privato di utilità pubblica, in Aedon, 2007, 2; minoritaria la posizione di P. Carpentieri, Il decoro dei monumenti deve attendere le intese con le regioni: come subordinare la tutela (art. 9 Cost.) al commercio e alla “leale collaborazione” interistituzionale, cit., che guarda alla fruizione come all’insieme delle attività volte a garantire “le condizioni minime di decoroso accesso e di accettabile visibilità e godibilità dei monumenti” imputando alla valorizzazione quel “quid pluris” volto ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio culturale (1248, nt. 2).

[79] Sulla problematica definizione del concetto di “livello essenziale”, senza alcuna pretesa di esaustività, M. Luciani, I diritti costituzionali tra Stato e regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione), in Pol. dir., 2002, 3, pag. 345 ss.; C. Pinelli, Sui “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.), in Dir. pubbl., 2002, 3, pag. 881 ss.; A. D’Aloia, Diritti e stato autonomistico. Il modello dei livelli essenziali delle prestazioni, in Le regioni, 2003, 6, pag. 1063 ss. e sulle procedure per la loro identificazione E. Balboni, I livelli essenziali e i procedimenti per la loro identificazione, nota a Corte cost., 27 marzo 2003, n. 88, ibidem, pag. 1186 ss.

[80] Per una ricostruzione delle vicende che hanno portato all’emanazione del d.l. n. 146/2015 e sulle conseguenze della qualificazione dei servizi finalizzati alla fruizione del patrimonio culturale come servizi pubblici essenziali anche sul piano della determinazione concreta dei livelli essenziali delle prestazioni nel settore culturale si rinvia a G. Piperata, Sciopero e musei: una prima lettura del d.l. n. 146/2015 e C. Zoli, La fruizione dei beni culturali quale servizio pubblico essenziale: il decreto legge 20 settembre 2015, n. 146 in tema di sciopero, entrambi in Aedon, 2015, 3.

[81] Così G. Piperata, op ult. cit., par. 4.

[82] Come osservano T. Martines, A. Ruggeri, C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano, Giuffrè, 2019, tale “determinazione potrebbe legittimamente aversi tanto a mezzo di principi quanto con regole” dovendosi distinguere “l’oggetto della disciplina” (ossia i livelli) dal “modo della stessa” (190-191).

[83] Questo perché “l’essenzialità richiamata dalla lett. m) del comma 2 dell’art. 117 sarebbe non l’essenzialità prescritta dalla Costituzione, (il «minimo») ma quella stabilita dall’indirizzo politico ([ossia]l’«uniformità»...)”, così E. Balboni, I livelli essenziali e i procedimenti per la loro identificazione, cit., pag. 1190. Fermo restando, prosegue l’A., che “le regioni possono assicurare ai diritti civili e sociali... livelli di protezione integrativi o supplementari, più elevati di quelli essenziali, ancora una volta secondo le proprie determinazioni di indirizzo politico e destinandovi le proprie risorse finanziarie” (1191).

[84] Rimesse ovviamente al sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale come ricorda G.A. Ferro, Le norme fondamentali di riforma economico sociale ed il nuovo Titolo V della Costituzione, cit., pag. 677 s.

[85] Come sottolinea A. D’Aloia, Diritti e stato autonomistico. Il modello dei livelli essenziali delle prestazioni, cit., nella materia de qua “la graduazione dell’intervento statale non corre in parallelo con le figure formali della competenza regionale (concorrente, «piena» o «residuale»), ma si muove piuttosto all’interno di queste, seguendo percorsi di approfondimento o linee di «generalità» dettati soltanto dalla necessità di realizzare adeguatamente l’obiettivo dell’eguaglianza e della tutela dei diritti nei «livelli essenziali»” (1089-1990).

[86] Per G. Falcon, Il regionalismo differenziato alla prova, diciassette anni dopo la riforma costituzionale, in Le regioni, 2017, 3, pag. 626 ss., è stata proprio l’espansione delle competenze statali ordinamentali (come l’”ordinamento civile”) e di quelle trasversali (come “il livello essenziale delle prestazioni”, “la tutela dell’ambiente” e così via) ad aver segnato l’arretramento, nell’ambito della legislazione statale, del ruolo di “raccordo” tra competenze statali e regionali svolto dalla determinazione dei principi fondamentali della materia (628). Per un’analisi più complessiva dell’opera di razionalizzazione svolta dalla Corte costituzionale dopo la riforma costituzionale del 2011 si rinvia ai saggi di M. Belletti, La riforma del Titolo V sotto attacco. Dall’entusiasmo regionalista alle torsioni centraliste, in Le regioni, 2021, 1-2, pag. 25 ss. e R. Di Maria, La potestà legislativa regionale, fra (endogena) autonomia politica ed (esogena) attuazione programmatica, ibidem, pag. 115 ss.

[87] Che non opera mai a favore delle regioni costituendo una “riedizione post-riforma dell’interesse nazionale” come osservano F. Benelli, R. Bin, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle regioni, cit., pag. 1209 s.

[88] Al quale la dottrina dedica già da tempo attenzione, tra gli ultimi contributi quello di M. Brocca, Cibo e cultura: nuove prospettive giuridiche, in Federalismi.it, n. 19 del 2017.

[89] Si consenta il rinvio al mio, Street art: le ragioni di una tutela, le sfide della valorizzazione, in Federalismi.it, 2021, 23.

[90] Si pensi al ruolo centrale assegnato alle “comunità patrimoniali” dalla Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, c.d. Convenzione di Faro, e alle polemiche innescate dal suo recepimento, avvenuto con legge 1° ottobre 2020, n. 133, ben rappresentate nei saggi di P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in Federalismi.it, 2017, 4, pag. 23 ss. e G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro “sul valore del patrimonio culturale per la società”: politically correct vs. tutela dei beni culturali?, ibidem, 2021, 8, pag. 224 ss.

[91] Per una prima lettura del testo v. F. Pizzetti, Prime osservazioni sul ddl “Disposizioni per l’Autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario”, in Rassegna Astrid, 2023, 3 e anche E. Caterini, E. Iorio, La difficile attuazione del regionalismo differenziato, ibidem.

[92] Per tutti, M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art. 116.3 Cost., in Astrid Rassegna, 2019, 10, pag. 1 ss.; L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, in Rivista AIC, 2019, 3, pag. 574 ss.; R. Bin, Unità e differenziazione: il problema costituzionale e le prospettive, in Munus, 2020, 3, XIII ss.; S. Staiano, Anti-mitopoiesi. Breve guida pratica al regionalismo differenziato con alcune premesse, in Federalismi.it, 2002, 29, pag. 182 ss.; S. Pajno, Il regionalismo differenziato tra principio unitario e principio autonomista: tre problemi, ibidem, 2020, 5, pag. 94 ss.

[93] La dottrina è concorde nel ritenere che non possano essere tutte le funzioni a tutte le regioni, pena la violazione stessa del criterio di riparto delle competenze definito dal Titolo V della Costituzione, trattandosi di “uno strumento di rifinitura della ordinaria disciplina in materia e di messa a punto di quote di decisione e di funzioni aggiuntive ritagliate su misura sulle specifiche esigenze di singole realtà regionali”, in questi termini M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art. 116.3 Cost., cit., pag. 5, dello stesso avviso, tra gli altri, L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, cit., pag. 577 s.; S. Staiano, Anti-mitopoiesi. Breve guida pratica al regionalismo differenziato con alcune premesse, cit., pagg. 185-186; R. Bin, Le materie nel dettato dell’articolo 116 Cost., in Forum di Quaderni costituzionali, 26 giugno 2019, pag. 11; L. Violini, L’autonomia delle regioni italiane dopo i referendum e le richieste di maggiori poteri ex art. 116, comma 3, Cost., cit., pag. 324; M. Carli, Il regionalismo differenziato come sostituto del principio di sussidiarietà, in Federalismi.it, 2019, 21, pag. 2 ss., che rileva criticamente l’inconsistenza delle motivazioni a sostegno delle richieste avanzate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (5).

[94] Come osserva A. Spadaro, Appunti sul “regionalismo differenziato: una buona idea che può diventare un disastro, in Federalismi.it, 2019, 9, pag. 2 ss., “anche sorvolando sulle (non trascurabili) diversità ‘interne’ alle regioni speciali, ci potremmo trovare presto di fronte a tre “modelli” di regioni: ordinarie (alcune delle quali troppo piccole), speciali (alcune delle quali ingiustificate) e differenziate (si spera poche), accompagnati dal coesistente/parallelo ‘disordine’ dei poteri delle Province, Città metropolitane e Comuni, le cui competenze sovrapposte sarebbero, in alcuni casi, incomprensibilmente troppo estese o troppo esigue” (16).

[95] In tal senso gli ammonimenti di R. Bin, “Regionalismo differenziato” e utilizzazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. Alcune tesi per aprire il dibattito, in Le Ist. del fed., 2008, pag. 1 ss. e in part. 14 ss.; G.C. De Martin, A voler prendere sul serio i principi costituzionali sulle autonomie territoriali, in Rivista AIC, 2019, 3, pag. 337 ss. e 352 ss. e M. Cammelli, Mezzo secolo di regioni: buone domande e qualche risposta, in Le regioni, 2021, 1-2, pag. 70 ss., in part. 74-76 che invitano a riflettere sulla crisi profonda del regionalismo italiano (cfr. M. Cammelli, regioni e regionalismo: la doppia impasse, in Le regioni, 2012, 4, pag. 673 ss.) che ha indotto attenta dottrina a chiedersi se non sia addirittura passato il tempo del regionalismo differenziato (cfr. A. Natalini, Il tempo del regionalismo differenziato è ormai passato?, in Riv. giur. del Mezzogiorno, 2022, 1, pag. 85 ss.).

[96] Proprio nell’analisi del d.d.l. Calderoli, L. Spadacini, M. Podetta, L’autonomia differenziata, la c.d. Bozza Calderoli e la legge di bilancio per il 2023, in Astrid Rassegna, 2023, 2, pag. 1 ss. ben evidenziano come i Lep siano utilizzati per risolvere “a monte” il problema della mancata istituzione del fondo perequativo previsto dall’art. 119 Cost. e quindi non tanto per definire i livelli essenziali delle prestazioni che lo Stato intende assicurare in tutto il territorio nazionale quanto per individuare “soglie di spesa regionali” in certi settori a beneficio delle regioni differenziate.

[97] Dall’esistenza di un presunto “diritto” delle regioni (e dei “loro popoli”) all’autonomia differenziata al “malinteso” sul diritto alla restituzione del “residuo fiscale” derivante dai risparmi di spesa delle regioni c.d. virtuose, smontati da S. Staiano, Anti-mitopoiesi. Breve guida pratica al regionalismo differenziato con alcune premesse, cit., pag. 184 e 186 s.

[98] Infra par. 4, nt. 86. Clausole che, è bene ricordarlo, incidono anche sulle materie di competenza residuale delle regioni per cui non si capisce perché le forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’art. 116, co. 3, non possano riferirsi anche a tali ambiti (così, G. Falcon, Il regionalismo differenziato alla prova, diciassette anni dopo la riforma costituzionale, cit., pag. 629 e S. Mangiameli, Appunti a margine dell’art. 116, comma 3, della Costituzione, in Le regioni, 2017, 4, pag. 661 ss., pagg. 677-679). Pensiamo, per le interconnessioni evidenziate nel presente lavoro, alla materia del turismo, del commercio e dell’artigianato che si intrecciano in maniera inestricabile nella definizione di politiche pubbliche di decoro urbano “trasversali” alle politiche di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale.

[99] È noto che in una prima fase la dottrina si sia chiesta se l’art. 116, co. 3, fosse funzionale soprattutto al conferimento di funzioni e competenze amministrative in connessione con l’art. 118, Cost., sostanzialmente inattuato nella sua fase discendente, così M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art. 116.3 Cost., pag. 13 ss. che parla di “oblio” dell’art. 118 Cost., che con il superamento del parallelismo fra competenze legislative e amministrative avrebbe dovuto garantire fluidità e flessibilità al sistema; in termini sostanzialmente analoghi S. Staiano, Anti-mitopoiesi. Breve guida pratica al regionalismo differenziato con alcune premesse, cit., che invita ad esplorare la strada del trasferimento “anche differenziato, e non solo uniforme” di funzioni amministrative sulla base dell’art. 118, co. 1, Cost. “e, quando si tratti, del conferimento di funzioni ulteriori nelle materie di legislazione esclusiva dello Stato, la dislocazione di esse verso la regione può essere accompagnata dalla delega della corrispondente potestà regolamentare (art. 117, co. 6), integrando a livello regionale funzione amministrativa e funzione normativa, benché di rango sub-legislativo... A questo punto, e solo a questo punto, potrebbe venire in discorso una possibile dislocazione differenziata delle competenze legislative, secondo l’art. 116, c. 3 Cost... solo se, ai fini di un migliore esercizio delle funzioni... si renda necessario accompagnare alla dislocazione di funzioni amministrative..., dallo Stato verso singole regioni, la dislocazione di una quota di potestà legislativa” (184).

[100] Consentendo così alle regioni di ottenere, oltre le materie e al di là delle funzioni, “il governo di una politica pubblica senza subire i vincoli che attanagliano la sua autonomia legislativa”, in questi termini R. Bin, Le materie nel dettato dell’articolo 116 Cost., cit., pagg. 10-11, che anche in uno scritto successivo ha poi sottolineato come la perdita di centralità della legge nel rapporto Stato-regioni induca a guardare “agli obiettivi politici e politico-amministrativi” più che alle norme, per cui “all’autonomia regionale ‘standard’, quella definita dall’art. 117 Cost. (nel cui ambito si è svolta l’opera di trasferimento delle funzioni amministrative in passato, e si potrà forse svolgere nuovamente in futuro), può affiancarsi un’autonomia modellata in forme ‘nuove’ e ‘particolari’ proprio perché orientate ad incentivare e rendere stabili forme di collaborazione politica tra la regione e lo Stato, particolarmente intense in determinate materie che caratterizzano gli interessi, il territorio, l’economica regionale: rispetto alle quali le regioni possono chiedere aperture di autonomia (anche legislativa) derogatorie rispetto all’assetto ‘standard’ delle competenze” (cfr. Unità e differenziazione: il problema costituzionale e le prospettive, cit., XXVII).

[101] Per un’analisi dettagliata delle posizioni regionali v. L. Violini, L’autonomia delle regioni italiane dopo i referendum e le richieste di maggiori poteri ex art. 116, comma 3, Cost., cit., pag. 337 ss.

[102] R. Bin, Le materie nel dettato dell’articolo 116 Cost., cit., pag. 8.

[103] Con il rischio concreto, come osserva M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art. 116.3 Cost., cit., pag. 9, di usare l’art. 116, co. 3, per avviare una sorta di quarta regionalizzazione, ben oltre le finalità assegnate dalla Costituzione al regionalismo differenziato, e con l’ulteriore aggravio di procedervi in un quadro, quello della strumentazione specifica legata alla stipulazione dell’intesa, del tutto inadeguato a reggerne l’impatto.

[104] Ancora M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art. 116.3 Cost., cit., pag. 13, nt. 36.

[105] Così F. Cortese, La nuova stagione del regionalismo differenziato: questioni e prospettive, tra regola ed eccezione, in Le regioni, 2017, 4, pag. 689 ss., pagg. 697-698, per il quale, stante l’attuale assetto del rapporto Stato-regioni, è proprio questa la “chance più interessante del ricorso all’art. 116, co. 3” e R. Bin, Le materie nel dettato dell’articolo 116 Cost., cit., pag. 11.

[106] M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art. 116.3 Cost., cit., pag. 15.

[107] Ci si riferisce alle versioni aggiornate a maggio/luglio 2019.

[108] Compresa la non meglio precisata competenza legislativa relativa agli “interventi a favore del patrimonio culturale di origine veneta che si trova all’estero” espressione che sembra chiamare in causa la categoria dei beni culturali minori, con tutto ciò che ne consegue in ordine ai limiti posti dalla Corte costituzionale alla loro individuazione (trattandosi di beni che non si trovano nel territorio italiano i confini operativi della funzione di valorizzazione sembrano invero piuttosto marginali).

[109] La Lombardia chiede anche il trasferimento delle funzioni dei segretariati regionali con annesse risorse.

[110] La richiesta della Lombardia si limita ad alcuni siti e musei. Premesso che sull’elenco non c’è accordo con il Mic perplime che una tale richiesta, proprio perché “selettiva”, non sia accompagnata da una motivazione sulle ragioni della scelta di alcuni istituti invece che di altri: maggiormente in grado di favorire la crescita culturale, identitaria, sociale ed economica del territorio di riferimento rispetto ad altri o semplicemente maggiormente attrattivi? Scorrendo la lista delle richieste il dubbio sorge (Pinacoteca, Cenacolo vinciano, Biblioteca Braidense, Palazzo Ducale di Mantova, Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri a Capo di Monte, solo per fare alcuni esempi).

[111] Un ritorno alla situazione precedente alla modifica dell’art. 5 del Codice dei beni culturali da parte della legge 6 agosto 2015, n. 125.

[112] Anche in questo caso si fanno salve le funzioni di tutela dei beni e delle collezioni presenti negli istituti, comprese quelle attinenti al prestito.

[113] In questo senso anche la proposta della regione Toscana che nel documento “Proposta di regionalismo differenziato per la regione Toscana” adottato dalla Giunta il 20 maggio 2018, nell’ambito della valorizzazione integrata dei beni culturali e del sistema museale regionale, propone anche la creazione di un centro regionale per la valorizzazione dei musei toscani e la programmazione di un evento annuale, su un tema condiviso tra Stato, regione, comuni e Università, mostrando così specifica attenzione al coinvolgimento delle realtà territoriali e delle autonomie funzionali nelle politiche di valorizzazione del patrimonio culturale regionale. Tra le regioni che hanno conferito mandato di avviare i negoziati con il Governo, hanno espresso interesse ad una maggiore autonomia nella “materia” dei beni culturali la regione Campania, Lazio, Piemonte e Umbria (cfr. Dossier Servizio Studi del Senato “Verso un regionalismo differenziato: le regioni che non hanno sottoscritto accordi preliminari con il Governo”, luglio 2018, pag. 13 ss.).

[114] Così M. Cammelli, Regionalismo differenziato e patrimonio culturale: quello che resta, in Aedon, 2019, 3, pag. 1 ss., per il quale l’adozione di piani e programmi, per le attività, e di standard e LEP per l’organizzazione e i servizi non toglierebbe il fatto che il sistema verrebbe cambiato in profondità creando un modello “che da binario diventa integrato nel quale per molti aspetti lo Stato finisce dove comincia la regione” (3).

[115] Regione Toscana, Relazione all’”Ipotesi di autonomia speciale per i beni culturali ex art. 116, comma 3, Cost.” per la regione Toscana, in Aedon, 2003, 1, par. 1.1. Raccordi, quelli previsti nella proposta elaborata dal gruppo di lavoro che ha portato alla definizione del progetto di autonomia speciale per la regione Toscana del 2003, di diverso tipo: raccordi generali e specifici di natura legislativa (facendo cioè salva la competenza statale in materie trasversali in grado di incidere sulla materia dei beni culturali e mantenendo la competenza statale, esclusiva o concorrente, anche relativamente ad alcuni profili della tutela), raccordi specifici di natura amministrativa assicurati da funzioni o beni mantenuti allo Stato e da funzioni trasferite alla regione ma da svolgersi in collaborazione con il ministero o altre regioni; raccordi di carattere informativo e infine i necessari poteri sostitutivi in caso di inerzia o inadempimento.

[116] Nessun cenno al Fondo nazionale (decisamente meno ricco) per la rievocazione storica, benché maggiormente “rilevante” per l’identità culturale regionale.

[117] Senza dimenticare le specificità delle condizioni di produzione, rappresentazione e diffusione delle forme dello spettacolo, alcune delle quali, quelle cinematografiche, sono bisognose di interventi “che non possono trovare nella sola ‘dimensione’ locale le condizioni necessarie alla produzione e a garantirne una adeguata circolazione”, così C. Barbati, Lo spettacolo, una delle schede di lavoro della citata “Ipotesi di autonomia speciale per i beni culturali ex art. 116, comma 3, Cost.”, par. 2.

[118] Nelle intese si legge che nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 117, co. 2, lett. p), e 118 Cost., con riguardo alle materie oggetto dell’intesa, le regioni “possono” conferire in tutto o in parte, con legge, le funzioni amministrative ad essa attribuite a comuni, province e città metropolitane garantendo loro le risorse necessarie. Un auspicio, per l’appunto, che ci riporta al “nervo scoperto” del mancato completamento della riforma delle autonomie locali dopo la legge 7 aprile 2014, n. 56, come ricorda anche G.C. De Martin, A voler prendere sul serio i principi costituzionali sulle autonomie territoriali, cit., pagg. 353-355.

[119] M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art. 116.3 Cost., cit., pagg. 10-11.

 

 

 



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