Sommario: 1. Art. 1. Oggetto della disciplina. - 2. Art. 2. Patrimonio storico, artistico, demo-etno-antropologico, archeologico, archivistico, librario. - 3. Art. 3. Categorie speciali di beni culturali. - 4. Art. 4. Nuove categorie di beni culturali.
1. Art. 1. Oggetto della disciplina
Il primo articolo del Testo Unico definisce l'oggetto della disciplina ed i valori costituzionali di riferimento. Sotto il primo profilo, viene precisato che la disciplina ha come oggetto la tutela dei beni culturali. Se però andiamo a leggere l'art. 148 del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112 vediamo come quest'ultimo ha avuto cura di definire le funzioni ed i compiti dei poteri pubblici in materia di beni culturali, distinguendo la "tutela", la "gestione", la "valorizzazione", la "promozione".
Il Testo Unico si occupa pienamente della prima funzione che consiste in "ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali" (così il citato art. 148, lett. c). Per la verità la delega non delimitava in modo così rigoroso l'oggetto del Testo Unico che avrebbe dovuto coordinare le disposizioni legislative vigenti alla data di entrata in vigore della legge, nonché quelle entrate in vigore nei dodici mesi successivi. Questa delimitazione temporale, però, ha fatto che sì che nella redazione del Testo Unico non si potesse tenere conto dell'ordinamento e delle competenze degli uffici centrali e periferici del nuovo ministero per i beni e le attività culturali, istituito con il decreto legislativo n. 368, emanato il 20 ottobre 1998, fuori dei termini previsti dalla legge di delega. Ciò spiega perché nella disciplina del Testo Unico si utilizzi il termine generico "ministero", che comprende ognuno degli organi che lo compongono, salvo nei casi in cui nelle previgenti leggi di tutela vi fosse una precisa indicazione dei soggetti istituzionali titolari della funzione.
Quanto alle attività di gestione, promozione e valorizzazione, si tratta di attività che hanno trovato una più compiuta disciplina in altri testi normativi recenti, come il d.lg. 112/1998 ed il d.lg. 368/1998, anche se nel Testo Unico esiste un Capo, il sesto, composto di ventisette articoli (dal 91 al 117), dedicato alla "valorizzazione e godimento pubblico".
Sotto il secondo profilo,
la disposizione in esame ha cura di precisare che i beni culturali compongono
il "patrimonio storico e artistico nazionale" e la disciplina di
tutela che li riguarda costituisce attuazione dell'art. 9 della Costituzione.
L'interpretazione delle disposizioni sulla tutela dei beni culturali deve
avvenire quindi in modo da renderla il più coerente possibile con i
principi costituzionali e la giurisprudenza della Corte costituzionale che
li ha elaborati. Il che costituisce un vincolo ordinario per l'attività
dell'interprete che avrebbe operato comunque, anche in assenza di un'espressa
previsione.
2. Art. 2. Patrimonio storico, artistico, demo-etno-antropologico, archeologico, archivistico, librario
In ordine all'individuazione dell'oggetto della tutela, gli estensori del testo si sono trovati davanti una precisa alternativa: accogliere una definizione unitaria di bene culturale oppure fare riferimento ai singoli beni già previsti dalla legislazione vigente e quindi formanti oggetto di differenti norme di tutela.
Com'è noto, la prima ipotesi affondava le sue radici in una vasta opera di elaborazione culturale che ha preso le mosse dai lavori della cosiddetta "Commissione Franceschini" (istituita con la legge 26 aprile 1964, n. 310) ed è arrivato fino al d.lg. 31 marzo 1998, n. 112.
Nella relazione della suddetta Commissione per la prima volta era proposta una nozione unitaria di bene culturale che innovava profondamente rispetto alle tradizionali categorie delle "cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico", fissate dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089, cui la legge 29 giugno 1939, n. 1497 aggiungeva la categoria delle "bellezze naturali".
La "Commissione Franceschini" proponeva invece una definizione unitaria, per cui il bene culturale era definito quale "testimonianza materiale avente valore di civiltà". La terminologia nuova doveva riflettere un modo nuovo di concepire la politica di tutela dei beni culturali. Infatti, la legge del 1939 muoveva da una concezione dell'intervento pubblico in materia basata essenzialmente sulla finalità di mera conservazione fisica delle cose di interesse storico o artistico, e perciò la disciplina faceva perno sull'assoggettamento del bene ad un rigoroso regime vincolistico.
Il mutamento terminologico avrebbe dovuto comportare un cambiamento di prospettiva, per cui il regime giuridico si sarebbe imperniato sul valore culturale che non è rappresentato dall'oggetto materiale nella sua estrinsecazione fisica, bensì dalla funzione sociale del bene, visto come fattore di sviluppo intellettuale della collettività e come elemento storico attorno a cui si definisce l'identità delle collettività locali.
Sulla nuova concezione dei beni culturali si è potuta facilmente innervare una nuova visione dell'intervento pubblico in materia, consistente nel passaggio da un'attività di tutela statica del bene ad un intervento diretto a garantire alla collettività una fruizione ampia ed effettiva del valore culturale custodito nel bene. Ciò comporta che l'intervento pubblico sui beni culturali non dovrebbe esaurirsi nell'attività di tutela, ma dovrebbe attribuire sempre più rilievo alle attività dirette a favorire la fruizione collettiva dei beni culturali, e cioè le attività di valorizzazione e di gestione.
A questa nozione unitaria di bene culturale si è recentemente rifatto l'art. 148 del d.lg. 112/1998, secondo cui i beni culturali sono "quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demo-etno-antropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente di civiltà così individuati in base alla legge".
Di contro, gli articoli 2 e 3 del Testo Unico non codificano una nozione unitaria ma fanno riferimento alle singole specie di bene culturale già riconosciute dalla legislazione vigente. Si è optato pertanto per quella che nel parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo, è stata chiamata una "definizione normativa" di bene culturale.
Essa assume come suo nucleo centrale le "cose" regolate dalla l. 1089/1939, ma non si ferma ad essa. Infatti sottopone al regime dei beni culturali anche altre categorie di cose oggetto di diversa disciplina con finalità riconducibili alle aree della tutela e della valorizzazione.
Per procedere all'individuazione della nozione di bene culturale, il legislatore delegato ha utilizzato un criterio che viene così sintetizzato nel sopracitato parere del Consiglio di Stato: "si è pertanto ritenuto di dover partire dal presupposto che, dopo avere effettuato la dovuta ricognizione delle disposizioni esistenti che potessero considerarsi rientranti nella materia, per poter qualificare una disposizione legislativa come effettivamente attinente alle materie dei beni culturali o dei beni ambientali, dovesse riscontrarsi nel dato normativo un carattere di 'realità' nel senso più ampio del termine: in altre parole il bene nella sua materialità deve costituire l'elemento centrale della fattispecie regolata dalla norma; ed il suo valore culturale o ambientale deve improntare la ratio del contenuto dispositivo".
Questa scelta del legislatore delegato è stata criticata dal parlamento. In particolare il parere reso sullo schema di decreto legislativo dalla VII commissione della Camera dei deputati affermava che dovesse ritenersi "preferibile la definizione introdotta dal d.lg. 112/98, che indirizza verso un concetto giuridico nuovo di bene culturale e quindi offre la possibilità di un intervento unitario sul patrimonio culturale e ambientale".
Lo stesso parere delineava altresì una "soluzione di compromesso", consistente nell'affidare, dopo l'elencazione di cui agli articoli 2 e 3 agli istituti della dichiarazione e degli elenchi, previsti da altre disposizioni del decreto, il compito di identificare i beni da sottoporre a tutela. Tuttavia, queste indicazioni non sono state recepite dal legislatore delegato, che è stato mosso da alcune, peraltro fondate preoccupazioni.
In primo luogo, si è voluto evitare quelle accuse di genericità e di "espansionismo" che avrebbero potuto riguardare l'uso di una definizione onnicomprensiva come quella di "testimonianza avente valore di civiltà". In tal caso si sarebbero espanse oltremodo le ipotesi in cui i privati proprietari, interessati ad un uso particolaristico del bene, si sarebbero trovati sottoposti alle ingerenze da parte dei poteri pubblici. Problema che non si è posto in sede di elaborazione del d.lg. 112/1998 per il semplice motivo che quest'ultimo riguardava un campo materiale diverso da quello del Testo Unico. Infatti, mentre la disciplina ora in esame riguarda la tutela dei beni culturali e quindi immediatamente coinvolge gli interessi dei soggetti privati proprietari dei beni, il d.lg. 112/1998 poteva adottare, senza eccessive preoccupazioni, una definizione unitaria che era funzionale esclusivamente alla ripartizione delle competenze tra centro e periferia.
La definizione adottata dal d.lg. 112/1998 serve, infatti, a delimitare aree di funzioni e prescinde dalla sua applicazione nei confronti di soggetti privati. Una conseguenza di grande rilievo pratico della scelta di non elaborare un concetto giuridico unitario di bene culturale è che in questo modo è stata mantenuta in vita la distinzione tra beni culturali appartenenti alla mano pubblica e quelli appartenenti ai privati.
In secondo luogo, l'accoglimento di una nozione unitaria di bene culturale avrebbe portato con sé il grave sospetto di un "eccesso di delega". Infatti, la norma di delega autorizzava il governo esclusivamente a procedere al "coordinamento formale e sostanziale" delle norme vigenti alla data di entrata in vigore della legge, nonché quelle che sarebbero entrate in vigore nei sei mesi successivi. L'estensione del coordinamento dal piano formale a quello sostanziale ha consentito di attribuire la qualifica di bene culturale ad ogni bene che comunque formava già oggetto di una disposizione normativa basata sul suo valore culturale e quindi giustifica l'unificazione nel Testo Unico della disciplina di una serie di beni prima considerati da discipline diverse. Invece l'adozione di una definizione unitaria di bene culturale non conosciuta dalla normativa precedente probabilmente sarebbe andata ben oltre il confine del "coordinamento sostanziale" per invadere il terreno delle scelte normative completamente innovative.
Precisati i limiti che il Testo Unico incontrava nell'individuazione dei beni culturali, va subito dopo osservato come i redattori della normativa in esame abbiamo sfruttato ampiamente i margini di azione consentiti dalla delega.
Da una parte, hanno previsto l'unificazione del regime giuridico della tutela con riferimento a tutti i beni elencati, che prima erano contemplati da discipline diverse. Dall'altra, hanno incluso tra i beni culturali sottoposti al suddetto regime giuridico unitario dei beni che precedentemente non rientravano in tale categoria, anche se comunque erano protetti dall'ordinamento in ragione del loro valore culturale. Sotto questo profilo le innovazioni più importanti consistono nelle previsioni che includono tra i beni culturali i "beni archivistici", i "beni librari" e le "fotografie con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico". Ciò comporta, come si è detto, la sottoposizione di questi beni al regime previsto dal Testo Unico, con particolare riguardo alle sanzioni penali ed alle modalità di tutela.
Quanto ai beni archivistici, disciplinati dal dpr 30 settembre 1963, n. 1409, si è seguita l'indicazione già a suo tempo formulata dalla "Commissione Franceschini", secondo cui il documento, per essere attratto nell'orbita dei beni culturali, ha bisogno di un'ulteriore qualificazione. Più precisamente la suddetta Commissione aveva individuato il momento costitutivo del bene culturale archivistico nella valutazione implicata dall'operazione di scarto. Il Testo Unico ha fatto suo questo criterio, con la conseguenza che ha lasciato fuori dalla sua disciplina i documenti delle pubbliche amministrazioni ancora legati all'esercizio delle funzioni amministrative e gli archivi correnti.
Si tratta di un criterio che ha un preciso fondamento nella legislazione vigente, secondo cui mentre la consultabilità del bene archivistico ricade sotto le disposizioni del dpr 1409/1963, l'accesso ai documenti ed agli archivi correnti è sottoposto al regime di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241. La tutela apprestata riguarda, in virtù del quarto comma, sia gli archivi che i singoli documenti dello Stato e degli enti pubblici. Per gli archivi ed i documenti appartenenti ai privati, invece, affinché operi la disciplina di tutela è necessario che essi rivestano "notevole interesse storico". Quest'ultimo attributo, in virtù del successivo art. 6, è dichiarato dal ministero. Tra i beni culturali archivistici non sono espressamente menzionati i documenti e gli archivi degli Stati preunitari, e di questa assenza si era lamentato il Consiglio di Stato nel succitato parere. Ma a questa osservazione il ministero ha replicato che la formula "archivi e singoli documenti dello Stato" è comprensiva degli archivi degli Stati preunitari, visto che questi sono stati acquisiti al demanio dello Stato.
L'altra innovazione riguarda i "beni librari", che comprendono: A) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato e degli enti pubblici (comma 5); B) le raccolte librarie appartenenti a privati, se di eccezionale interesse culturale (combinato disposto dei commi 3 e 5); C) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe, le incisioni, aventi carattere di rarità e pregio (comma 2, lett. c e comma 5); D) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico (comma 2, lett. d e comma 5). In base al successivo art. 6, l'interesse particolarmente importante delle cose indicate alla precedente lett. c) è dichiarato dalla regione.
Quanto alle fotografie, l'applicazione del regime di tutela richiede il concorso di due presupposti: A) il carattere di rarità; B) il pregio artistico o storico (laddove va evidenziato che la tutela non richiede che la fotografia abbia valore artistico e storico, essendo sufficiente che il pregio del bene riguardi un aspetto oppure l'altro). Al medesimo regime di tutela delle fotografie sono sottoposti i relativi negativi e matrici (comma 2, lett. e).
Per il resto, l'articolo 2 si riferisce alle "cose" contemplate dalla l. 1089/1939, in relazione alle quali si possono continuare ad applicare le corpose elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali che ad esse si riferiscono. In particolare, il Testo Unico ha mantenuta ferma la distinzione tra "le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demo-etno-antropologico" e le "cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante".
Com'è noto, la distinzione tra le due categorie di cose è generalmente ravvisato nel fatto che mentre le cose appartenenti alla prima categoria (corrispondente all'art. 1 della l. 1089/1939) devono comunque avere un valore intrinseco, quelle appartenenti alla seconda (già prevista dall'art. 2 della l. 1089/1939) sono immobili rispetto ai quali non sono in questione valori intrinseci, che potrebbero mancare del tutto, ma i suddetti beni "sono ritenuti di particolare significato per la loro connessione con fatti storici qualificati anche se solo genericamente" [1].
Il sesto comma conferma il principio dell'esclusione dall'ambito applicativo della disciplina di tutela delle opere d'arte contemporanea, e cioè "le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni". Tuttavia, questa previsione va comunque raccordata con quella di cui al comma 1, lett. c), che fa oggetto di tutela "le collezioni o serie di oggetti che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico". Al riguardo sembra plausibile sostenere che la collezione di opere di un artista vivente, i cui singoli esemplari non formano oggetto di tutela ai sensi del sesto comma, potrebbero invece riceverla ai sensi del comma 2.
Egualmente è stata
confermata l'impostazione del legislatore del 1939 secondo cui la tutela viene
accordata solamente ai beni che rivestono un certo livello di interesse. Perciò,
con riferimento alle varie specie di beni culturali, la disposizione in esame
collega qualificazioni del tipo: "un interesse particolarmente importante",
"un eccezionale interesse artistico o storico", il "carattere
di rarità e pregio", il "carattere di rarità e di
pregio artistico o storico" l'"eccezionale interesse culturale",
il "notevole interesse storico". Si tratta cioè di graduazioni
dell'interesse che giustifica il regime di tutela piuttosto ambigue, che danno
luogo a contorni assai incerti delle fattispecie che giustificano, tra l'altro,
la costituzione di obblighi a carico di soggetti privati. Probabilmente in
sede di "coordinamento sostanziale" il legislatore delegato avrebbe
potuto fare qualche sforzo definitorio maggiore piuttosto che riproporre formule
tralaticie, lasciando così irrisolti i problemi applicativi.
3. Art. 3. Categorie speciali di beni culturali
Mentre l'articolo precedente individua le diverse specie di beni culturali cui si applica integralmente la disciplina di tutela, questa disposizione definisce "beni culturali" talune categorie di cose soggette a speciale disciplina da parte di specifiche norme della legge 1 giugno 1939, n. 1089 oppure di disposizioni speciali successivamente emanate. L'inserimento di questa disposizione può considerarsi una conseguenza del criterio scelto ai fini dell'individuazione dei beni culturali, e cioè quello secondo cui tutte le volte in cui si ravvisa l'esistenza di una norma che tutela in qualsiasi modo un determinato bene, in ragione del suo valore storico, artistico, archeologico, ecc. si è in presenza di un bene culturale.
In particolare, la lettera a) va coordinata con l'art. 51 del Testo Unico, che riproduce l'art. 13 della l. 1089/1939, stabilendo che "chi dispone e chi esegue il distacco di affreschi, stemmi, graffiti, lapidi, iscrizioni, tabernacoli ed altri ornamenti esposti o non alla pubblica vista deve ottenere l'autorizzazione del soprintendente". La lettera b) va coordinata con l'art. 52 del Testo Unico, che riproduce quanto previsto dall'art. 4-bis del d.l. 9 dicembre 1986, n. 832 aggiunto dalla legge di conversione 6 febbraio 1987, n. 15.
In base a questa previsione non sono soggetti ai provvedimenti di rilascio previsti dalla normativa in materia di locazione di immobili urbani quegli studi di artista il cui contenuto in opere, documenti, cimeli e simili è tutelato, per il suo valore storico, da un provvedimento ministeriale che ne prescrive l'inamovibilità da uno stabile del quale contestualmente si vieta la modificazione della destinazione d'uso. Non può essere modificata la destinazione d'uso degli studi d'artista adibiti a tale funzione da almeno venti anni e rispondenti alla tradizionale tipologia a lucernaio. La lettera c) va coordinata con l'art. 53 che riproduce le previsioni dell'art. 3 della l. 28 marzo 1991, n. 112, in virtù del quale con provvedimento del soprintendente o nei regolamenti di polizia urbana sono individuate le aree aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale in cui l'esercizio del commercio non è consentito o è consentito solo con particolari limitazioni. In tale caso, l'esercizio del commercio è subordinato al nulla osta del soprintendente.
Infine, per quanto concerne
i beni presi in considerazione dalle lettere d), e), f), il riferimento è
all'art. 65 del Testo Unico, che riproduce l'art. 35 della l. 1089/1939, come
modificato dalla l. 30 marzo1998, n. 88. Con riguardo a tali beni, è
vietata, se costituisce danno per il patrimonio storico e culturale nazionale,
l'uscita dal territorio della Repubblica, salvo l'assenso del ministero all'uscita
temporanea, ai sensi del successivo art. 69.
4. Art. 4. Nuove categorie di beni culturali
La disposizione in esame non faceva parte del testo inviato per il parere al Consiglio di Stato ed alla competenti Commissioni parlamentari. Come abbiamo visto in sede di commento all'art. 2, proprio tali Commissioni avevano prospettato l'opportunità di introdurre una nozione unitaria di "bene culturale", seguendo un orientamento che affonda le sue radici nelle proposte della "Commissioni Franceschini" e che ha trovato recentemente espressione nel d.lg. 31 marzo 1998, n. 112.
Gli estensori del Testo Unico non hanno ritenuto di dovere accogliere la suddetta indicazione parlamentare, preferendo procedere, all'art. 2, ad un'elencazione dei diversi tipi di beni cui la legislazione previgente attribuiva una qualche forma di tutela in ragione del loro valore culturale.
Dell'indicazione parlamentare è rimasta traccia in questo articolo aggiunto in extremis al corpo del Testo Unico. Esso rende omaggio alla definizione unitaria di "bene culturale" inteso quale "testimonianza avente valore di civiltà". Ma la formula non ha un'immediata efficacia operativa che consenta di qualificare una cosa come bene culturale. Infatti, i beni non ricompresi nelle elencazioni di cui agli artt. 2 e 3 dovranno essere comunque individuati da apposite leggi. Perciò siamo in presenza di una specie di "norma di chiusura" del sistema di individuazione dei beni culturali che da una parte conferma come le singole specie di beni culturali devono essere espressamente individuate da una norma di legge, dall'altro lato consacra, ove ce ne fosse ancora bisogno, il definitivo tramonto della concezione estetizzante dei beni culturali a favore di una più ampia visione degli stessi e delle politiche pubbliche che li riguardano.
[1] Cfr. T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano 1995, III ed., 164.