Editoriale
Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare
di Marco Cammelli [*] e Giuseppe Piperata [**]
Cultural Heritage: innovations to complete; tensions to avoid
The editorial, after pointing the dynamics of transformation that involved in the last years the sector of culture and more specifically that of cultural heritage, highlights the challenges that waiting the entire sector: from the attuation of Recovery Plan to the impact of the constitutional reform of the Article 9.
Keywords: Cultural Heritage; Reform of Mic; Recovery Plan; Article 9 of Constitution.
1. Nei prossimi anni oltre 6 miliardi di euro saranno investiti per il patrimonio di arte e cultura del nostro Paese. Si tratta di una cifra enorme, che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) articola tra missioni, obiettivi, progetti, interventi, misure. C’è di tutto in questo disegno strategico destinato prioritariamente a valorizzare l’intero settore culturale: investimenti sul turismo culturale, processi di digitalizzazione dei beni e dei luoghi, azioni concrete sulle bellezze paesaggistiche e sul verde urbano, interventi di abbattimento delle barriere architettoniche, dinamiche di rigenerazione culturale dei borghi, sostegni all’industria culturale e artistica.
Al di là delle concrete strategie progettate e degli specifici obiettivi declinati, è sicuramente la portata delle risorse economiche che verranno messe a disposizione l’elemento che maggiormente colpisce e, soprattutto, lascia intendere come l’Italia non possa rischiare di perdere una preziosa opportunità di intervento e di rilancio per un settore, quello della cultura, che oltre ad essere centrale per la nostra nazione e il nostro Sistema-Paese, intreccia, spesso anche condizionandoli, molti altri contesti di azione delle nostre istituzioni.
Ovviamente, l’intera strategia così come disegnata dovrà fare i conti con situazioni che presentano problematiche e criticità significative, provando a risolverle e a correggerle in modo da assicurare il buon esito degli interventi ipotizzati.
Nel frattempo, tra l’altro, l’intero settore della cultura e più nello specifico quello del patrimonio culturale sono oggetto di dinamiche di trasformazione, a volte originate da processi da tempo in atto, altre volte frutto di nuovi interventi, anche diretta conseguenza proprio della strategia pianificata.
Se si adotta la prospettiva giuridico-istituzionale tali problematiche e tali dinamiche appaiono evidenti e, in particolare, preoccupano l’osservatore, poiché non paiono accompagnate da adeguata consapevolezza le prime e da una chiara percezione della direzione verso cui si muovono le seconde.
Il settore del patrimonio culturale ha problemi che hanno lontane origini, ma che continuano a non essere presi nella giusta considerazione. I tentativi di ricorrere a riforme e innovazioni, sia sul piano amministrativo che su quello legislativo, non sono mancati. Tuttavia, non sempre tali interventi sono stati completati nella loro portata innovativa. Allo stesso tempo, nuovi problemi, sotto forma di tensioni o peggio conflitti, sembrano prospettarsi all’orizzonte, come conseguenza di nuovi cambiamenti nel contesto istituzionale e ordinamentale, introdotti anche in coerenza alla nuova strategia di ripresa e resilienza.
Le note che seguono sono dedicate proprio a questa situazione, partendo, però, dall’analisi di alcune dinamiche che paiono essere rilevanti per il settore del patrimonio culturale.
2. La crisi pandemica ha avuto significativi effetti negativi sul settore culturale italiano, ma non a tal punto da decretarne un irrimediabile declino. Anzi, alcuni dati dimostrano il contrario. Sottolinea l’ISTAT nel recente Rapporto BES 2021 che, anche se costretti ad operare in emergenza sanitaria, quasi tutti i musei italiani, oltre il 90%, sono rimasti aperti, sia pur senza continuità e grazie anche al c.d. Fondo ristori istituito dal d.l. 34/2020 e gestito dal Mic; durante il 2021 tre nuovi siti nazionali sono stati inseriti nella Lista del patrimonio mondiale Unesco, facendo riconquistare all’Italia il primato di Paese con il più alto numero di siti culturali: tutti segnali che dimostrano come cultura, patrimonio e politiche culturali continuino ad essere centrali riguardo alla nostra comunità nazionale e alla rappresentazione che di questa viene proiettata anche all’estero.
La dimensione culturale e la diffusione dei relativi contenuti, pertanto, continuano a determinare una crescente attrazione rispetto ad un pubblico molto variegato, grazie anche ad un complesso di fattori connessi allo spazio globale e sostenuti dalla capillarità delle reti e dal primato dell’immagine consentito dalle modalità digitali di comunicazione che assicurano incisività e livelli di diffusione fino a pochi anni fa inimmaginabili e non comparabili alla parola scritta.
Queste dinamiche si riflettono intensamente sul dato giuridico e, pur lasciando per il momento inalterate le basi del nostro sistema istituzionale, hanno gradualmente inciso su aspetti inediti delle politiche e delle regolazioni del patrimonio culturale a partire dalla loro significativa estensione a nuovi soggetti e a nuovi ambiti. I patrimoni culturali si sono, poi, moltiplicati: la materialità ha lasciato spazio anche all’immaterialità e molte dinamiche di patrimonializzazione hanno abbandonato la prospettiva storico-artistica per enfatizzare manifestazioni culturali del presente.
Ciò ha determinato anche un’estensione del Codice dei beni culturali, che prima ha interessato il paesaggio, ma che ora copre altre manifestazioni dell’espressione culturale (come dimostra l’art. 7 bis, che dispone un’estensione del Codice, a determinate condizioni, anche alle espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005). Con il risultato, date le caratteristiche di “patrimonio diffuso” del nostro paese, che l’incidenza della regolazione pubblicistica e delle politiche di settore in materia si è estesa a un’area molto più ampia rispetto al passato.
Si aggiunga, poi, la trasformazione del concetto di patrimonio culturale, oggi idoneo a ricomprendere anche quelle attività economiche, vere e proprie produzioni industriali riferibili in vario modo alla c.d. industria creativa. Si tratta di tendenze che per altri aspetti si inscrivono all’interno della più generale crescita della interdipendenza del patrimonio culturale e delle relative e diverse componenti con altri profili pubblici e privati compreso quello ambientale.
Da un lato, quindi, il diritto del patrimonio culturale conquista nuovi contesti patrimoniali da regolare, ma allo stesso tempo, tale ordinamento settoriale si trasforma per effetto dell’influenza di sedi sovranazionali e della relativa regolazione, che rendono l’ordinamento del patrimonio culturale ormai solo in parte definito in sede domestica sia nella disciplina di settore che per interventi specifici. La ratifica italiana della convenzione di Faro (2020) o il decreto legge con il divieto del passaggio delle grandi navi lungo il Canal Grande a Venezia (2021) ne sono, ai due estremi di generalità e concretezza, esempi appropriati e recenti.
3. Le ricadute di tale situazione sono evidenti e sono rappresentate da alcuni cambiamenti anche di tipo concettuale. É stata modificata persino l’accezione stessa di patrimonio culturale (PC), che oggi si articola in tre differenti ambiti: PC materiale e tangibile, corrispondente alla tradizionale definizione di bene culturale operata dal Codice; PC paesaggio e piano paesaggistico; PC immateriale e intangibile. Distinzioni divenute ormai necessarie, e certo non solo per i giuristi, perché si tratta di gruppi distinti per istituti diversi e regole differenziate il che tra l’altro pone il tema della più precisa delimitazione di ognuno di questi ambiti.
La differenziazione non si ferma solo alle categorie di patrimonio culturale, ma tocca il diverso atteggiarsi della domanda e della offerta. In particolare, si registra anche una crescente diversificazione della domanda e dei soggetti in vario modo interessati ai beni e alle attività culturali, perché accanto alla fruizione di massa dei beni culturali più conosciuti emergono domande culturali più specifiche e qualificate.
Il che mette in luce potenziali tensioni (per la fruizione, v. la riserva di accoglienza a privati presso istituti o luoghi di cultura) grandi e piccole di vario genere su un terreno ancora oggi insufficientemente presidiato per la mancanza di politiche dedicate e per difficoltà più specifiche. Come ad esempio, le forti resistenze degli operatori (e qualche timidezza pubblica di troppo) per una disciplina delle attività di guida turistica in grado di assicurare al pubblico e agli operatori turistici la necessaria disponibilità di dati rilevanti come formazione, specializzazione e esperienze qualificate di questo personale.
Manifestazioni di queste dinamiche di differenziazione si colgono anche a proposito dei finanziamenti destinati alla cultura, ma soprattutto nel rapporto con i privati, i quali oggi sono chiamati ad assumente ruoli molto peculiari nella collaborazione con le pubbliche amministrazioni e spesso di sostituzione delle stesse.
Ne consegue un’evidente difficoltà ad inquadrare e a riconoscere l’alterità presente in tale rapporto, tra “pubblici” sempre più numerosi e “privati” riconducibili a realtà tra loro molto diverse per statuti e regole.
4. Il settore della cultura e dei patrimoni culturali, quindi, è attraversato da processi di trasformazione, in parte recenti e in parte da tempo già avviati. Ciò richiede aggiustamenti sia con riferimento all’impianto ordinamentale, sia con riferimento all’articolazione del sistema istituzionale. Si tratta, tuttavia, di immaginare interventi che non portino alla progettazione di un nuovo modello di governo del patrimonio culturale, bensì che completino quanto già presente, come percorsi di riforma e innovazione, all’interno del nostro sistema, risolvendo anche possibili situazioni di conflitto.
Lo si vede già a proposito dei principi di riferimento per il settore, a partire da quelli dell’art. 9, sicuramente lungimiranti, ma non ancora del tutto acquisiti. Sono principi che richiedono una svolta molto maggiore di quanto fin qui si è operato, facendo di questa sequenza un compito primario della Repubblica in connessione al paesaggio, alla libertà di arte, scienza e insegnamento, art. 33, co. 1 Cost. e alla promozione della cultura come elemento chiave per la crescita della società e della persona, specie per le fasce sociali più deboli.
Si aggiunga, poi, che tali compiti di cura e promozione del patrimonio culturale, in un sistema istituzionale plurilivello come quello sancito dall’art. 5 Cost., vanno ampiamente ripartiti tra Stato, Regioni e Comuni (artt. 117-118 Cost.) peraltro già titolari di altre politiche pubbliche strettamente connesse. Il che rende più grave il fatto che sia in termini di decentramento che di cooperazione con i sistemi locali si sia fatto ben poco negli ultimi decenni.
L’articolazione istituzionale comporta, infatti, una forte accelerazione delle forme di cooperazione. Si tratta di modalità strutturali e funzionali nei rapporti tra diverse amministrazioni pubbliche e nelle relazioni pubblico-privato dalle quali dipende la praticabilità stessa di interi settori di intervento, come la valorizzazione, ma che l’effetto combinato di un approccio pan-pubblicistico spinto oltre il necessario (e anzi probabilmente rafforzato dalla stagione della pandemia e del PNRR) unito a una lettura esclusivamente verticale della sussidiarietà e della varietà delle possibili relazioni tra istituzioni e realtà socio-economica del contesto riducono ad una accezione ristretta e più subìta che cercata. Il che comporta il doppio svantaggio di rendere più ardua la collaborazione proprio dove, come per la gestione dei beni e nei servizi, sarebbe più necessaria, nonché di tradursi in logiche difensive e in regolazioni uniformi, come tali inadeguate tanto per le imprese che per le altre realtà privatistiche.
Il rischio che si corre è evidente: che possa aumentare ancor di più il divario tra la forte domanda di cooperazione che nasce dal sistema e contestuale varietà di strumenti di vario genere messi a disposizione dal legislatore, da un lato, e su quello opposto la loro scarsa praticabilità malgrado anche di recente si tenti di porre rimedio ricorrendo alla disposizione “in bianco” del Codice dei contratti pubblici (art.151, co. 3), e comunque l’esiguo numero di esperienze di collaborazione in atto spesso frenate da incertezze e difficoltà quotidiane.
Lo scarto tra queste realtà e i principi solennemente enunciati nelle sedi istituzionali e nelle fonti più elevate, Costituzione compresa, costituisce il segno di difficoltà non transitorie e conferma che resta determinante il terreno dell’organizzazione, dei saperi e della formazione del personale, dell’uso di strumenti appropriati.
C’è, poi, la “questione Ministero”, la principale sede istituzionale del settore della cultura, ormai da anni, alla ricerca del ruolo più idoneo da assumere e intanto costretta a vivere un’incerta condizione, in quanto prigioniera di fenomeni orientati verso direzioni opposte, ora tendenti all’immobilità, ora all’innovazione.
Non c’è dubbio che il Mic negli ultimi anni sia stato interessato da innovazioni significative, e anzi si può dire che se gli altri ministeri dovranno cogliere l’occasione del PNRR per procedere alle riforme attese da tempo, in questo caso i cambiamenti sono già in atto. Restano, tuttavia, aperti seri problemi e tensioni, il primo dei quali è costituito dalla diversa direzione che i cambiamenti in atto stanno praticando.
Negli ultimi anni, infatti, il Mic ha assunto funzioni riferibili a nuovi ambiti di attività (educazione, creatività, digitale), a interventi di sistema attraverso iniziative anche di alto profilo avviate in sedi internazionali (v. patrimonio culturale e G.20) o domestiche (fondo grandi progetti ’21-’31); ha portato avanti azioni inedite per il mecenatismo, la valorizzazione (art bonus e capitali italiane della cultura) o interventi straordinari di tutela del patrimonio culturale; ha riformato il sistema museale, scorporando in vario modo i musei dalle soprintendenze.
Altre innovazioni si sono poi registrate sul versante dell’organizzazione degli apparati tradizionali centrali e periferici del ministero: nuove unità sono state inserite a fianco delle preesistenti (v. nuove DG creatività e digital library), o strutture precedenti sono state incorporate in nuovi apparati (DG archeologia, belle arti, paesaggio; soprintendenze uniche) lasciando inalterata la vigente disciplina del Codice.
I tratti salienti di questo secondo versante sono ben diversi e talvolta opposti rispetto a quelli precedenti, perché si tratta del difficile innesto di nuovi obbiettivi e funzioni nei tratti genetici degli apparati ministeriali e amministrativi della esperienza italiana, dalla cui conservazione sostanzialmente invariata derivano frammentazione organizzativa e debole coordinamento (se non per linee verticali), dualismo e separazione rispetto agli apparati periferici, rigida gerarchia di uffici e personale, assetto funzionale esasperatamente settoriale.
Da ciò, le evidenti difficoltà di connessione tra i diversi settori interni e di relazione all’esterno con il contesto istituzionale e socio-economico su cui più volte è stata richiamata l’attenzione. Il rischio è che la distanza tra queste due anime del ministero ispirate a principi spesso opposti si traducano in logiche divaricanti. Una tensione di questa entità nel tempo rischia o il grippaggio e conseguente blocco o la più tradizionale delle soluzioni: netta separazione tra le due parti e dissolvenza delle relazioni reciproche.
Stando così le cose, c’è da chiedersi per quanto tempo questo dualismo possa reggere sia sul piano esterno della comunicazione e del ruolo istituzionale che su quello interno degli elementi comuni e indivisibili che restano e sono profondi. Il che equivale a interrogarsi anche sui prezzi (espliciti o nascosti) del mantenere immutato il Codice del 2004, nato su basi ancora interamente inscritte nelle leggi del 1939 e da tempo investito dai processi richiamati e da significativi mutamenti istituzionali (nuovo art. 9 Cost, convenzione di Faro, per limitarsi ai più recenti) che in più punti ne mettono in discussione la stessa impostazione.
5. Ed è proprio l’appena ricordata riforma dell’art. 9 della Costituzione a rappresentare una possibile fonte di nuove tensioni nel settore del patrimonio culturale. La l. cost. 11 febbraio 2022, n. 1, ha riscritto l’art. 9 Cost., prevedendo che la Repubblica tutela, oltre al paesaggio e al patrimonio storico e artistico della Nazione, anche “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Completa tale riforma anche la modifica all’art. 41 Cost., nel senso che l’ambiente (insieme alla salute) sono stati inseriti come limiti all’iniziativa economica privata, la quale può svolgersi liberamente a condizione di non recar danno a tali beni.
La riforma costituzionale si colloca in un processo più ampio, che consiste nell’implementazione di un diritto di protezione dell’ambiente declinato nella prospettiva della transizione ecologica, ossia di un’azione di governo che promuova non solo le politiche di tutela ambientale e di sviluppo sostenibile, ma anche quelle energetiche (prospettiva olistica). La transizione ecologica, infatti, presuppone l’integrazione di politiche relative alla protezione delle biodiversità, alla mobilità, alle energie, con anche alcune politiche legate all’economia e al sistema finanziario.
In tale direzione, pertanto, si sono mosse importanti innovazioni introdotte di recente nel nostro sistema: l’approvazione del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (Dicembre 2019); la previsione di alcune misure di semplificazione da parte del d.l. n. 76/2020 e di misure di accelerazione da parte del d.l. n. 77/2021; la trasformazione del ministero dell’Ambiente in ministero della Transizione ecologica (d.l. n. 22/2021, art. 2); l’approvazione del PNRR, in particolare la previsione della Missione 2 e di misure che destinano alla transizione ecologica circa il 37% dei fondi disponibili.
Si tratta di scelte che si iscrivono in un quadro evolutivo più ampio, che riguarda non solo alcune tendenze del diritto ambientale dell’UE, ma soprattutto precisi impegni che il nostro Paese (e la stessa UE) hanno assunto in sede internazionale con riferimento al contrasto ai cambiamenti climatici.
Sull’utilità e sull’opportunità della riforma costituzionale già in tanti si stanno interrogando, arrivando a conclusioni spesso divergenti tra chi la ritiene un’operazione puramente formale, inidonea a determinare cambiamenti significativi, e chi, invece, la identifica come il fattore diretto ad attivare un processo destinato a determinare nuovi equilibri e nuove gerarchie tra principi e interessi pubblici affidati alla cura delle pubbliche amministrazioni.
Difficile immaginare che la novella di un articolo che occupa uno spazio importante nella parte della Costituzione dedicata ai principi sia destinata a rimanere mera integrazione del dispositivo, senza alcuna ricaduta in termini legislativi, operativi, ma anche interpretativi sul sistema. Saranno il tempo e i fatti a mostrarci verso quale direzione muoveranno le innovazioni prodotte dalla riforma costituzionale.
Fin da subito, in questa sede, non si possono però non cogliere alcuni spunti di riflessione che la lettura del nuovo art. 9 Cost. offre soprattutto a proposito di due questioni: l’eventuale supremazia da riconoscere ad interessi sensibili per garantirne l’aprioristica protezione degli stessi e la necessità di ripensamento delle dinamiche di riequilibrio tra gli interessi connotati da tale primarietà.
La prima questione, quella della supremazia degli interessi, già nota a proposito della protezione del paesaggio, pare destinata a riproporsi, per effetto della richiamata riforma costituzionale, ora anche con riferimento alla protezione dell’ambiente.
Sappiamo che tradizionalmente l’enfasi data alla costituzionalizzazione della tutela del patrimonio culturale (art.9) è servita a sostenere la assoluta preminenza della protezione di tale interesse su ogni altro interesse pubblico in gioco. Al che si è giustamente opposto che in termini di principio l’indubbia primarietà da riconoscere a questo interesse non esclude la presenza e dunque il necessario equilibrio da raggiungere per la soddisfazione di altri interessi pubblici rilevanti. E si è aggiunto, data l’evoluzione dei principi in Italia e in Europa (Trattato di Lisbona, 2009), che in ordine all’interesse pubblico da considerare quando siano in discussione più opzioni e più interessi pubblici e privati resta comunque la necessità per la pubblica amministrazione di rispettare i principi generali tra i quali in particolare quelli di imparzialità, correttezza, buona fede, diligenza, ragionevolezza e proporzionalità, verificabili dal sindacato del giudice amministrativo.
Ora, il problema c’è e richiede una risposta diversa, perché primarietà non è sinonimo di esclusività come messo in luce da dottrina e giurisprudenza e perché la soluzione va cercata sul terreno che le è più proprio, quello di una amministrazione profondamente ripensata nella sua organizzazione e nel suo funzionamento. Capace cioè di cooperare al proprio interno con la messa in comune di apparati e attività istruttorie, di aprirsi all’esterno per intercettare e collaborare con esperienze e saperi di qualità riconosciuta (università, centri studi, laboratori e imprese specializzate), di tracciare una solida cornice (piani, programmi, linee guida) tale da consentire una valutazione adeguata del caso specifico e da assicurare continuità e riconoscibilità alle scelte operate.
Pertanto, insistere sulla preminenza e l’esclusività dell’interesse accudito sul piano normativo senza mettere in discussione l’impianto della disciplina e degli strumenti amministrativi pensati per realtà infinitamente più limitate e dunque senza coglierne l’insuperabile contraddizione con la costante dilatazione qualitativa e quantitativa del patrimonio culturale, porta a due effetti egualmente negativi: all’interno del Mic, sovraccarico di compiti e messa fuori gioco dei (tradizionali) strumenti disponibili; all’esterno, l’improprio “inseguimento” operato dalle leggi di settore (di altri settori e per altri interessi) che in termini eguali e contrari ricorrono a eccezioni, semplificazioni, by pass procedimentali e altro per modificare in via derogatoria e a proprio favore il regime vigente.
In questo modo, la posizione di superiorità di partenza del Mic non sempre resta tale all’arrivo, e in ogni caso viene meno proprio ciò che sarebbe più necessario: la ricerca della soluzione specifica più adeguata, entro un quadro complessivo di obbiettivi e linee guida, perseguita in concreto e con il confronto reciproco. É bene riflettere su ciò che sta avvenendo all’interno delle politiche indicate dal PNRR e in particolare per le fonti rinnovabili di energia perché offrono un quadro molto chiaro e attuale proprio di questi rischi.
E veniamo alla seconda questione sulla quale la recente riforma dell’art. 9 Cost. ci consente di ritornare, ossia un possibile contrasto tra due principi e due interessi primari, con la conseguenza dell’urgenza nell’individuare nuovi criteri per riequilibrarne i rapporti.
Vista l’ampiezza dei principi affermati molto dipenderà dall’orientamento che assumerà al riguardo la Corte costituzionale, la cui interpretazione sul punto, trattandosi di principi costituzionali fondamentali, potrebbe essere decisiva, nonché prevalere anche nei confronti delle Corti sovranazionali e europee. In ogni caso, le potenzialità della disposizione per i contenuti che introduce e per la collocazione prescelta sono potenzialmente enormi, investono direttamente anche l’operato del legislatore e della pubblica amministrazione e potrebbero portare ad imboccare strade fino a questo momento inesplorate.
È del tutto evidente che il nuovo contenuto dell’art. 9 Cost. può generare nuove tensioni sia tra interessi primari costituzionalmente protetti (l’ambiente e gli ecosistemi oltre al paesaggio e al patrimonio culturale), sia tra livelli di governo (dalla legislazione statale esclusiva a una trasversalità che si estende alle regioni).C’è anche il rischio che, malgrado le apparenze, l’innesto nell’art. 9 di altre e diverse finalità elevate al massimo rilievo di principi fondamentali più che aumentare la protezione degli interessi pubblici ora inseriti relativizzi, almeno nei casi di diretto contrasto reciproco, quelli preesistenti e dunque diminuisca per vecchi e nuovi la protezione complessiva.
Cosa fare? Tali possibili tensioni vanno evitate e vanno ricomposte, secondo nuovi meccanismi di bilanciamento e cercando di non ragionare ancora solo in termini di primarietà degli interessi.
In tale prospettiva, non convincono, ad esempio, le letture già avanzate, anche in autorevoli sedi, che suggeriscono un ritorno alla primarietà dell’interesse paesaggistico su tutto il resto, in particolare sulle azioni ambientali di decarbonizzazione, passando attraverso la ricentralizzazione dell’azione di tutela dello stesso, anche come gesto di sfiducia nei confronti delle amministrazioni regionali e locali, accusate di non aver saputo interpretare il ruolo decentrato ottenuto in tale settore e di non aver creduto negli strumenti di pianificazione.
Non è questa la strada giusta da intraprendere, anche perché non basta affermare al livello più alto la primarietà degli interessi: se non ci si concentra anche sul resto questi rischieranno, come i numeri primi, la solitudine.
Bisogna allora tornare alle istituzioni, alle amministrazioni, alle politiche pubbliche dedicate a questi interessi così rilevanti: è qui che risulta possibile operarne la sintesi, favorendone la concreta dialettica che solo personale amministrativo formato e aggiornato e sedi tecnico-amministrative di scala adeguata (spesso, tra l’altro, decentrata) possono assicurare. Viceversa, agire in senso opposto cercando di assicurarsi sul piano normativo una pregiudiziale condizione di prevalenza rispetto al resto o concentrando al centro le decisioni ultime non potrà funzionare. I patrimoni culturali di oggi esprimono importantissimi interessi generali, che in futuro e per effetto anche della riforma costituzionale dovranno essere confrontati concretamente con altri interessi.
Ci auguriamo che vengano affidati alla cura di amministrazioni pubbliche che sappiano responsabilmente compiere le necessarie azioni basate su valutazioni ravvicinate e confronti concreti, evitando le scorciatoie delle scelte centralizzate o degli automatismi affidati ad aprioristiche primazie, altrimenti - ne siamo convinti - la formale sovranità affermata per uno degli interessi non potrà che portare ad un indebolimento comune per tutti.
Note
[*] Marco Cammelli, emerito di Diritto Amministrativo dell’Università degli Studi di Bologna, Via Zamboni, 33, 40126, Bologna, marco.cammelli@unibo.it
[**] Giuseppe Piperata, ordinario di Diritto Amministrativo dell’Università IUAV di Venezia, Santa Croce, 191, Tolentini, 30135, Venezia, piperata@iuav.it
.