La digitalizzazione del patrimonio culturale
Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali
Sommario: 1. Premessa (perimetrazione del tema e precisazioni concettuali). - 2. Due richiami normativi essenziali. - 3. Accesso al patrimonio digitalizzato: due visioni a confronto. - 4. Una soluzione intermedia. - 5. Nuovi percorsi di valorizzazione del patrimonio digitalizzato.
Digitization, digital databases and enhancement of cultural heritage
The contribution introduces some conceptual clarifications necessary to better define the object of the study, from which it derives some practical conclusions: freedom and gratuitousness characterize the access to the essential service of essential service of making the cultural heritage available to the public and the re-use of basic (not-re-elaborated) digital data of the public administration, but not the offer of additional digital services of enhancement, which can meet the normal cost/correspondence criterion. The development of digitization and the creative and innovative use of information technology could provide the basis for the construction of a new model of a local museum capable of becoming the engine of a cultural, civil, social and economic renaissance of ancient villages and small towns.
Keywords: Digital Database; Cultural Heritage; Digitization.
1. Premessa (perimetrazione del tema e precisazioni concettuali)
La digitalizzazione del patrimonio, l'uso delle banche dati, le modalità di accesso e di fruizione del patrimonio digitalizzato costituiscono un tema non nuovo, ma già ampiamente discusso in questo primo ventennio del nuovo secolo. Certamente, però, la discussione su questi aspetti ha ricevuto un sovrappiù di attenzione in occasione del lockdown causato dalla pandemia da Covid-19, che ha determinato, come è noto, un'accelerazione dei processi di digitalizzazione e di accesso/fruizione on line già in atto [1].
Lo scopo di questo breve contributo è quello di discutere sulle possibili conseguenze di questi processi - anche sul piano dell'apertura di nuove prospettive di sviluppo - sulla prassi della valorizzazione del patrimonio culturale (e, quindi, anche sulle nozioni e sulle questioni, non solo giuridiche, legate al tema della valorizzazione).
In questo scritto si prenderanno in considerazione nel loro insieme, tralasciando le pur evidenti diversità, sia la digitalizzazione del patrimonio archivistico e librario (la consultazione da remoto del patrimonio digitalizzato), sia l'accesso da remoto via web al patrimonio, mobiliare e immobiliare, degli istituti e luoghi della cultura (la "visita" digitale del patrimonio), trattandosi in entrambi i casi, dal punto di vista della fruizione e della valorizzazione, di una modalità di accesso digitale a distanza, alternativa a quella reale (come si suole dire oggi, "in presenza"), al patrimonio culturale (sia esso costituito dai testi dei documenti di archivio e dei volumi di una biblioteca, oppure dalle immagini digitali di una galleria d'arte, di una pinacoteca o di un museo archeologico).
È noto che, nel nostro ordinamento, l'accesso alle biblioteche e agli archivi è oggi sostanzialmente libero e gratuito (salvo il pagamento del servizio di riproduzione, ove richiesto), sicché la digitalizzazione e la consultazione da remoto non sembrano presentare riflessi diretti di tipo economico nella gestione delle biblioteche e degli archivi (salvi taluni, possibili sviluppi applicativi in tema di riuso delle banche dati delle pubbliche amministrazioni, di cui si dirà qualcosa più avanti) [2]. Per i musei e per le aree e i parchi archeologici, i cui introiti sembra che siano costituiti per circa il novanta per cento dalla bigliettazione (legata alla visita fisica dei luoghi), è invece evidente che la riflessione sul rapporto tra digitalizzazione, accesso via web e valorizzazione investe, oltre che stimolanti temi generali di tipo estetico-culturale (e sociologico-filosofico) [3], anche urgenti temi (molto prosaicamente) economico-gestionali.
Ci si occuperà dunque di "beni digitali" convertiti in forma digitale a partire da risorse analogiche già esistenti, e non di risorse "create in digitale", il cui "unico formato è l'oggetto digitale" [4].
Non appare utile a tali fini la complessa discussione sulla natura "ontologica" dei beni culturali digitali. Che si tratti di artefatti nuovi e autonomi rispetto all'originale è fuori discussione. Essi sono il prodotto di elaborazioni tecnologiche e scientifiche estremamente complesse e raffinate, che però trovano la loro disciplina distinta nella copiosa normativa (internazionale, europea e nazionale) sulla "società dell'informazione", sul brevetto e sul copyright (che coprono l'infrastruttura tecnologica e il software).
Ma questi aspetti non vengono in rilievo ai fini della presente discussione. Dal punto di vista della valorizzazione del patrimonio culturale, si tratta comunque di "mezzi", di strumenti, essenzialmente di riproduzioni (eventualmente arricchite e integrate con altri contenuti ed effetti virtuali aggiuntivi) dei beni culturali originali, per i quali, sotto il profilo giuridico, non è necessario, né utile interrogarsi sulla quidditas, sull'essenza sostanziale di tali "oggetti" (che vivono contemporaneamente nel mondo 1 e nel mondo 3 di popperiana memoria) [5].
In disparte, infatti, il tema, cui si è fatto cenno, dei "diritti" che sorgono in relazione alla creazione di questi artefatti informatici, la loro natura intrinseca e la loro qualificabilità come autonomi beni giuridici a sé stanti non incidono più di tanto sulle considerazioni di tipo giuridico sul regime della valorizzazione (del tipo di valorizzazione) che essi consentono e introducono. Vedremo come, dal punto di vista giuspubblicistico, l'acquisto di questi strumenti, o il loro approntamento e la messa a disposizione del pubblico, la loro gestione a regime e la progressiva manutenzione ed eventuale implementazione, diano vita a comuni appalti di servizi (o a contratti di fornitura, o, più spesso, a contratti misti di appalto di servizi e di fornitura di beni) regolati del d.lg. n. 50 del 2016 (secondo il criterio della prevalenza di cui all'art. 28 del citato codice dei contratti pubblici).
Senza complicare eccessivamente il quadro ricostruttivo logico e giuridico di riferimento, si conviene altresì sulla considerazione per cui il tema della valorizzazione del patrimonio digitalizzato deve riferirsi "prevalentemente, se non esclusivamente, all''immagine' in senso lato del bene 'di base', poiché il riuso della parte immateriale cognitiva è invece, libera e gratuita come effetto della fruizione, anche quando generi nuovi beni di mercato" [6], ossia deve riferirsi essenzialmente alla riproduzione digitale del bene culturale "reale", in quanto modo diverso di fruirne, e non certo alle rielaborazioni creative di vario genere che il significato culturale del bene può generare e determinare.
Un'altra (e conseguenziale) premessa di perimetrazione del tema si rende necessaria: il tema "valorizzazione e digitalizzazione del patrimonio culturale" nulla ha a che vedere con la questione dei "beni culturali immateriali" (quelli delle Convenzioni Unesco di Parigi del 3 novembre 2003 e del 20 ottobre 2005, o della Convenzione di Faro del 2005) e del preteso ampliamento della nozione codicistica di bene culturale [7]. È errato pensare che le riproduzioni digitali caricate in internet costituiscano nuovi, autonomi "beni culturali immateriali". Caso mai si tratta di un nuovo "uso" del valore immateriale contenuto nel (ed espresso dal) bene culturale (materiale). È dunque errato postulare una duplicazione ontologica degli oggetti, per cui il bene culturale riprodotto, "una volta inserito in un sito internet", acquisirebbe "il carattere dell'immaterialità e della virtualità" [8]: in realtà non è l'"oggetto" della disciplina che cambia, ma la "disciplina" dell'oggetto (la disciplina di un suo nuovo uso possibile, effettuato attraverso un mezzo innovativo, che si affianca a quelli tradizionali).
Occorre non dimenticare in proposito il fondamentale principio di economia ontologica del rasoio di Occam (entia non sunt multiplicanda sine necessitate). Le riproduzioni in digitale del bene culturale non sono autonomi e distinti beni culturali immateriali, ma copie digitali del bene culturale reale (che è necessariamente una res corporalis) [9]. La riproduzione digitale del bene culturale reale è solo un (nuovo) modo di fruire del bene culturale che si affianca ai modi tradizionali e che arricchisce la disciplina della sua tutela-gestione-valorizzazione, senza che a tal fine occorra duplicare i beni (gli oggetti della disciplina). Altrimenti opinando si rischia di perdersi in un labirintico gioco di specchi con un effetto di illusoria moltiplicazione (dell'immagine) dell'unico oggetto reale, che è e resta il bene culturale (materiale) riprodotto. D'altra parte, a livello epistemologico, l'intera tradizione ermeneutica occidentale, da Schleiermacher a Gadamer, insegna che il testo vive di vita propria e si reduplica in tutti i riusi possibili, che generano potenzialmente altrettanti oggetti sociali [10]. Ma avventurarsi lungo questa strada ci porterebbe molto lontano, con poco costrutto sul piano della chiarificazione giuridica.
Anche nel caso, che peraltro qui non interessa, in cui la riproduzione digitale del bene culturale assurga ad autonoma rielaborazione creativa dell'originale, avremmo a che fare (al limite) con un'opera d'arte contemporanea e non certo con un nuovo "bene culturale" in senso tecnico [11]. Anche a voler ammettere che la "copia" digitale del bene culturale assurga alla dignità di autonomo bene in senso giuridico, possibile oggetto di autonomi diritti e di una sua autonoma circolazione giuridica, ciò non implica affatto l'ulteriore passaggio logico (infondato) per cui la riproduzione digitale diventerebbe per ciò solo un nuovo e ulteriore bene culturale aggiuntivo. Si tratta, dal punto di vista giuridico, solo di una copia, né più, né meno di una fotografia.
Il tema "valorizzazione e digitalizzazione del patrimonio culturale" ha, invece, a che fare per certi versi con il distinto tema del valore immateriale economico dei beni culturali, che non deve assolutamente essere confuso con quello dei beni culturali immateriali [12].
Occorre precisare (ancora) che queste riflessioni non investono il tema, pure cruciale, del confronto delle amministrazioni pubbliche titolari dei beni (e dei connessi diritti di riproduzione) con le Big Tech che dominano la rete, che esercitano un enorme potere di attrazione-cattura dei contenuti culturali dei singoli musei, istituti e luoghi della cultura pubblici, che continuano a muoversi in ordine sparso e in modo scoordinato e che non hanno né la massa critica, né le capacità di reggere un confronto alla pari con i questi giganti del web, di fronte ai quali i musei italiani, anche quelli "maggiori", si trovano nella scomoda posizione di dover scegliere tra l'esclusione (ignominiosa) dal parterre dei "più famosi musei del mondo" esposti in Google Art [13] e la cessione pressoché gratuita dei propri straordinari contenuti culturali. Del resto, lo stesso codice di settore del 2004, riprendendo un modello tradizionale nel nostro sistema della tutela, intesta all'autorità che ha in consegna il bene i poteri tecnico-discrezionali circa la sua riproducibilità (art. 108).
Come è stato di recente notato e ribadito [14], anche guardando all'interno della sola realtà statale, senza considerare la miriade di musei civici locali, l'idea della piena autonomia (tecnico-scientifica, organizzativa, economico-finanziaria) dei singoli musei (o, almeno, di quelli più importanti), che perciò si muovono ciascuno per sé, senza una visione e una regia unitarie, rende pressoché ingestibile il rapporto, in sé molto difficile, con i grandi operatori oligopolisti dei motori di ricerca (nonostante l'egregio tentativo ministeriale di creare una Digital Library unitaria). Tanto è vero che alcune grandi istituzioni museali italiane (ad es., la Galleria Borghese) hanno negoziato rapporti di licensing con primari operatori esteri (Google) in piena e sovrana autonomia, senza alcun raccordo né con il centro ministeriale, né con gli altri musei statali.
A quel che consta, inoltre, il progetto, ipotizzato nel 2016, di creare un portale unico ministeriale dei musei statali è stato via via abbandonato in favore della piena autonomia di azione sul web di ciascuna istituzione musale. D'altro canto, può osservarsi, che cosa sarebbe mai l'autonomia senza libertà di movimento nella rete e sui social? Il problema (probabilmente) è che sta passando l'idea (non molto intelligente, ma proprio per questo invincibilmente pre-potente) per cui chi non è visibile sui social e in rete semplicemente non esiste, è fuori dal mondo (quello virtuale, che però sta soppiantando quello reale: in una dimensione nella quale alla società dello spettacolo sta subentrando quella dell'apparire [15], che sostituisce allo spettacolo, che almeno postula un costrutto intellettuale e culturale piuttosto elaborato, lo short alla tik tok, i pop up, i post su Facebook e su Instagram, i trailer, gli hightlights, pochi secondi - spensierati e vacui - di pura apparizione) [16].
Forse è proprio questo - il rapporto impari con le Big Five technology companies - il problema "vero" più urgente, che richiede una scelta politica, strategica (cedere alle sirene della vetrina virtuale più grande del mondo spogliandosi di fatto del controllo dei propri contenuti culturali o "resistere" in uno spazio angusto di nicchia difendendo la propria piena autonomia?). Esigenza alla quale poi si aggiunge (e si lega), più in generale, quella, razionalistico-illuminista, di assicurare una regia unitaria (o, almeno, una qualche interoperabilità tra i vari sistemi messi in campo dai singoli istituti della cultura), per la quale taluni [17] hanno anche proposto l'idea di un'Agenzia tecnica unitaria e autonoma per la gestione dei diritti di licensing (e, più in generale, per la costruzione e gestione del patrimonio digitale). Idea sulla quale è più che lecito esprimere note di scetticismo (le ingegnerie istituzionali - le forme - raramente, quasi mai, riescono a cambiare le cose, la sostanza).
La questione del licensing (troppo complessa per essere qui esaminata), introduce poi, oltre al profilo dello sviluppo della apposita contrattualistica e della formazione di adeguate professionalità capaci di gestirla, il tema della garanzia di autenticità delle "copie" digitali, ossia il tema della certezza giuridica in ordine alla qualità e alla fedeltà (affidabilità) della riproduzioni (e degli annessi, eventuali, contenuti aggiuntivi). Tema sul quale sono già stati introdotti dalla Dottrina validi elementi di riflessione, ai quali qui per sintesi conviene rinviare [18].
2. Due richiami normativi essenziali
I riferimenti normativi essenziali per orientarsi in questi argomenti sono rappresentati, in estrema sintesi, dalla riforma del 2014-2017 dell'art. 108 del codice dei beni culturali, sulle riproduzioni dei beni culturali, e dalla disciplina - rimasta ad oggi inattuata - del riuso dei dati delle pubbliche amministrazioni [19].
Sotto il primo profilo è utile ricordare che l'originaria previsione del comma 3 dell'art. 108 del codice di settore (Canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione) prevedeva che "Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici per finalità di valorizzazione. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione concedente". L'art. 12, comma 3, lettere a) e b), del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106 ha esteso la gratuità della riproduzione per finalità di valorizzazione anche ai soggetti privati e ha aggiunto un nuovo comma 3-bis, che ha introdotto il principio della libertà e gratuità della "riproduzione di beni culturali diversi dai beni bibliografici e archivistici" effettuata senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale, nonché della "divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro, neanche indiretto". È successivamente intervenuto nuovamente il legislatore (art. 1, comma 171, lettere a) e b), della legge 4 agosto 2017, n. 124), che ha modificato il comma 3-bis estendendo la libera riproducibilità gratuita anche ai beni archivistici non sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del titolo II (Consultabilità dei documenti degli archivi e tutela della riservatezza) del codice [20].
Sotto il secondo profilo è utile considerare il decreto legislativo 18 maggio 2015, n. 102 (di attuazione della direttiva 2013/37/UE che modifica la direttiva 2003/98/CE, relativa al riutilizzo dell'informazione del settore pubblico). Il decreto del 2015, novellando il d.lg. 24 gennaio 2006, n. 36 (di recepimento della prima direttiva 2003/98/CE), ha (tra le altre cose) sostituito l'art. 7 (Tariffazione), consentendo, per le biblioteche, comprese quelle universitarie, i musei e gli archivi, in deroga alla regola generale che limita l'entità della tariffa alla sola copertura dei costi effettivi sostenuti per il riutilizzo di documenti, la facoltà di chiedere una maggiorazione nel caso di riutilizzo per fini commerciali, al fine di conseguire "un congruo utile da determinare in relazione alle spese per investimenti sostenute nel triennio precedente". La medesima novella ha inoltre aggiunto, nell'art. 11 (Divieto di accordi di esclusiva) del d.lg. n. 36 del 2006, un nuovo comma 1-bis in base al quale "Il diritto di esclusiva per la digitalizzazione di risorse culturali è definito con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, sentita l'Agenzia per l'Italia digitale, e comunque ha durata non superiore a dieci anni, fatta salva la possibilità di prevedere una durata maggiore soggetta a riesame nel corso dell'undicesimo anno e successivamente ogni sette anni". L'attuazione di entrambe le nuove previsioni del 2015 passa necessariamente per l'adozione di appositi decreti ministeriali [21], sinora non ancora emanati (verosimilmente per la perdurante incertezza sul merito delle scelte e per il non ancora risolto conflitto tra una visione liberale, che sostiene l'accesso libero, come diritto alla cultura, e una visione più economicistico-gestionale, che riterrebbe del tutto lecito e legittimo chiedere una minima contribuzione, che possa andare al limite anche oltre la mera copertura dei costi vivi, da reinvestire obbligatoriamente nella più efficiente ed efficace gestione dell'istituto della cultura e nel miglioramento del servizio all'utenza [22]).
È da notare subito che entrambe le discipline ora richiamate non riguardano le rielaborazioni delle riproduzioni digitali dei beni culturali. La prima (l'art. 108) riguarda la riproduzione del bene culturale materiale. La seconda (il d.lg. n. 36 del 2006) riguarda il riuso del dato mero detenuto dalla pubblica amministrazione, ossia, per gli archivi, le biblioteche, i musei, la riproduzione digitale dei testi o delle immagini, e non certo i nuovi "prodotti" digitali che possono essere offerti in rete (servizi "aggiuntivi" e integrativi di visita virtuale della galleria di opere d'arte, connessioni ipertestuali e contenuti informativi aggiuntivi nella consultazione digitale di archivi e biblioteche) [23]. Questi nuovi "prodotti" digitali (che possono essere elaborati, caricati e gestiti in amministrazione diretta da parte degli stessi istituti e luoghi della cultura o possono da questi essere acquistati sul mercato da operatori privati prestatori di servizi informatici e culturali con le normali procedure dettate dalla legge per i contratti delle pubbliche amministrazioni), oltre che protetti dal diritto d'autore, sono da trattare (per così dire) alla stessa stregua dei "servizi aggiuntivi" di cui alla legge Ronchey e all'art. 117 del codice di settore del 2004: si tratta di prodotti e di servizi che vengono offerti al pubblico per arricchire e migliorare la fruizione, si tratta dunque di "attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso"; si tratta, in altri termini, di attività di valorizzazione dei beni culturali (materiali) oggetto di riproduzione, come nuova e aggiuntiva forma di accesso alla loro fruizione pubblica.
Ne consegue che la regola della libertà e gratuità dell'accesso, che connota e permea di sé la mera fruizione (il mero accesso alla pubblica fruizione come servizio pubblico essenziale [24], come tale distinto dal servizio pubblico di valorizzazione), così come il riuso dei dati (non "rielaborati") della pubblica amministrazione, non trova diretta applicazione per questi "servizi aggiuntivi" digitali, che dovrebbero (analogicamente) partecipare, invece, della normale onerosità/corrispettività propria dei servizi di accoglienza del pubblico [25].
3. Accesso al patrimonio digitalizzato: due visioni a confronto
Volendo semplificare, può dirsi che, riguardo alla questione di come gestire l'accesso al patrimonio digitalizzato o alla fruizione digitale del patrimonio, si confrontano due visioni contrapposte: da un lato una visione (che potremmo dire) "proprietaria", che si lega a un'idea di valorizzazione soprattutto economica, in una logica di gestione efficiente ed efficace dell'istituzione museale, nella sua autonomia economico-finanziaria, attenta all'equilibrio di bilancio (e, perché no, all'aumento delle entrate e ai profitti da reinvestire nell'impresa culturale); dall'altro lato, una visione orientata verso l'idea del patrimonio come bene comune ad accesso libero, che si lega a una concezione della valorizzazione come fattore edificante della cittadina attiva, della educazione e formazione civica, della partecipazione consapevole dei cittadini alla comunità culturale [26].
La prima impostazione vede nel dato digitale essenzialmente una proiezione ideale del bene oggetto di proprietà (pubblica, demaniale o patrimoniale indisponibile qui poco importa), con un'inferenza che genera l'effetto di creare un oggetto virtuale appartenente comunque anch'esso all'ente titolare della collezione e come tale sottoposto alle medesime regole, non solo di tutela (rispetto a usi inappropriati e abusivi), ma anche di "gestione", di accesso alla pubblica fruizione e di valorizzazione. Questa impostazione ragiona dunque soprattutto di copyright e di canoni di concessione, di uso speciale e di riproduzione dei beni e immagina forme di accesso da remoto a pagamento, sulla falsariga del modello tradizionale ancora oggi contenuto nel codice di settore del 2004.
La seconda impostazione, invece, pone l'accento sulla demanialità come mero servizio di custodia del bene comune e rivendica un diritto soggettivo al patrimonio culturale, che deve essere offerto all'accesso gratuito dei cittadini, e ciò a maggior ragione, si sostiene, per l'accesso virtuale da remoto, che non determina in sé spese aggiuntive (se non marginali) di gestione dell'istituto e del luogo della cultura (anzi, potrebbe addirittura costituire una causa di risparmio, in relazione ai minori costi legati all'accesso fisico e alla circolazione di masse di visitatori). Sotto questo profilo verrebbe meno quel nesso tariffario, in qualche modo sinallagmatico, tra la prestazione di servizio pubblico - l'accesso al museo - e il pagamento del biglietto. Secondo questa impostazione, l'accesso digitale, in quanto privo di costi aggiuntivi, non dovrebbe soggiacere ad alcun prelievo economico, comunque denominato, a carico del cittadino.
Si deve peraltro chiarire che la potenziale riproducibilità delle riproduzioni e la "condizione de-materializzata e non rivale del bene digitale" [27], fruibile contemporaneamente da un numero indefinito di soggetti, senza effetti di suo consumo o deterioramento, non osta in alcun modo all'applicazione anche al dato informatico che racchiude la riproduzione del bene culturale di criteri e metodi "proprietari" di gestione e di disciplina dell'accesso alla fruizione, poiché è sempre possibile (e tutto sommato non proibitivo) applicare meccanismi di protezione che ne limitino o impediscano la ulteriore riproduzione e circolazione e ne circoscrivano ai soli soggetti abilitati la facoltà di accesso e di lettura.
Come in quasi tutte le questioni giuridiche, anche in questo caso probabilmente "il giusto sta nel mezzo", nel senso che, con un po' di buon senso, le due tesi in campo, depurate dei loro connotati ideologici, possono senz'altro convivere in un ragionevole equilibrio.
A meno che non si desiderino e non si invochino cambi epocali di impostazione giuridico-istituzionale, nel senso della piena gratuità dell'accesso ai musei (come è in parte per gli archivi e le biblioteche), e finché, dunque, si ritenga che abbia ancora un senso e sia accettabile sottoporre al pagamento di un biglietto di ingresso la visita ai musei e alle aree e ai parchi archeologici, non si vede perché debba escludersi la possibilità, per un museo, di "vendere" visite on line alle proprie collezioni, trattando dunque in modo analogo le visite virtuali alle visite reali. Se si vuole che i musei godano di quell'autonomia economico-finanziaria - che in qualche modo fonda (o, comunque, rafforza) l'autonomia organizzativa e la stessa autonomia tecnico-scientifica e di ricerca - finalmente (e faticosamente) raggiunta con le riforme del Ministro Franceschini del 2014-2017; si si vuole pensare al museo come un operatore economico che redige a approva un bilancio e soggiace ad obblighi di sana e prudente gestione in equilibrio, come del resto sembra che sia richiesto anche dall'Icom, allora non solo è possibile, ma è anche auspicabile (e forse necessario) ammettere che non tutti gli accessi da remoto, via web, debbano e possano essere liberi e gratuiti, ma debbano e possano (almeno in parte) essere subordinati al pagamento di un biglietto di ingresso, né più, né meno di quanto avviene con la visita tradizionale in presenza fisica in loco.
Una tale soluzione sarebbe valida non solo giuridicamente, ma anche sul piano, ovviamente, della gestione attenta e oculata dell'istituto culturale.
Naturalmente le considerazioni che precedono (così come quelle che seguono) danno per presupposto, come sfondo interpretativo non problematizzato, il sistema museale esistente oggi, a diritto vigente, in Italia, senza poter (né volere) affrontare qui le delicate e discusse questioni se abbia un senso (e, se sì, quali controindicazioni questa scelta possa implicare) voler considerare il museo, sul modello anglosassone, un operatore economico, da collocare senz'altro nel novero delle imprese culturali e creative [28].
In questo contesto, dunque, nulla osta, sul piano giuridico, a che un museo possa esigere il pagamento di un corrispettivo per l'accesso ai contenuti di prodotti digitali messi in rete. Ma è possibile e logico operare una distinzione fondamentale, che segue la linea essenziale di distinzione tra la "fruizione" e la "valorizzazione".
Se vi è analogia tra visita reale e visita virtuale (come tra consultazione diretta, fisica, in presenza, dei documenti di archivio e dei volumi di biblioteca e consultazione da remoto dei testi digitalizzati), non vi è tuttavia identità tra queste due modalità di fruizione. Con la conseguenza che, probabilmente, non sempre e non in ogni caso sarebbe ammissibile (e auspicabile) l'applicazione di un biglietto di accesso per le visite e le consultazioni via web. Sarebbe logico, ragionevole e proporzionato, in realtà, distinguere due livelli di accesso e di fruizione (e qui torna utile la nota distinzione tra fruizione e valorizzazione): un primo livello, di accesso di base, corrispondente, se si vuole, alla nozione di fruizione (di accesso alla pubblica fruizione), gratuito e libero; un secondo livello, arricchito di contenuti ulteriori, corrispondente, se si vuole, alla nozione di valorizzazione, condizionato al pagamento di un corrispettivo di ingresso [29].
Al livello di base corrisponderebbe in sostanza la mera visita della collezione (o la mera consultazione del materiale digitalizzato, guardando anche agli archivi e alle biblioteche), corredata solo delle didascalie tradizionali (autore, nome, data, possibile provenienza dell'opera), senza particolari "servizi aggiuntivi". Al livello più alto, a pagamento, corrisponderebbero, invece, vari menù di visita arricchiti di contenuti aggiuntivi (che possono essere ovviamente graduati e costruiti in mille modi: dalla migliore risoluzione delle immagini all'effetto zoom sui particolari dell'opera, dall'offerta di materiale didascalico e illustrativo più ricco e approfondito, alla proposta di approfondimenti storico-artistici sull'autore, dall'offerta di allestimenti multimediali agli itinerari "immersivi" e interattivi, fino alla visita guidata da uno specialista, da uno storico dell'arte, dal curatore della mostra o dal direttore del museo, etc.) [30].
Questa suddivisione, in base ai contenuti, tra una minima fruizione libera e gratuita e una valorizzazione a pagamento (a vari livelli di offerta), risulta coerente anche sul piano della sistematica giuridica. Mentre, infatti, l'accesso alla fruizione della collezione, in quanto bene pubblico, ben può essere preferibilmente orientata verso un'area di libertà e di gratuità (di vero e proprio diritto soggettivo, verrebbe da dire), l'accesso a servizi aggiuntivi e integrativi della visita di base, implicando anche un'elaborazione complessa e costosa di contenuti ed essendo, in quanto essa stessa creazione culturale, soggetta a diritto d'autore e a regole di copyright [31], ben potrebbe essere preferibilmente collocata in un'area di onerosità e di assoggettamento alla condizione del pagamento di un corrispettivo.
Ciò che appare fondamentale e che sembra garantire l'equilibrio, anche etico-giuridico, di questa soluzione è la piena libertà di scelta del cittadino, che deve sempre poter decidere liberamente se esercitare il suo diritto soggettivo di libero accesso al bene culturale - in quanto uso normale del bene demaniale - o se desidera "acquistare" servizi che accrescano e migliorino la qualità e i contenuti culturali della sua visita, scegliendo liberamente se e quale servizio culturale comprare.
Questa impostazione potrebbe dunque mettere d'accordo in qualche modo le due opposte visioni dell'accesso e dell'uso del patrimonio digitalizzato che abbiamo visto sopra, salvando a un tempo sia l'idea del patrimonio come bene pubblico e come fattore edificante della cittadinanza consapevole e attiva, sia l'idea del museo come istituto autonomo che deve autogestirsi in modo - per quanto possibile - tale da garantire equilibri di bilancio.
In tempi di pandemia, d'altra parte, se la cessazione delle visite fisiche ai musei ha messo a nudo la estrema fragilità di un'idea puramente imprenditoriale degli istituti e luoghi della cultura [32], evidenziando vieppiù l'indispensabile sostegno pubblico a carico della fiscalità generale, dall'altro lato ha imposto forme innovative e alternative per generare introiti, tra le quali indubbiamente l'offerta di servizi di valorizzazione on line a pagamento può svolgere un ruolo di grande rilievo.
Affianco alle iniezioni di liquidità straordinaria di fondi pubblici emergenziali, occorrerebbe indubbiamente stimolare e rafforzare la ricerca di soluzioni creative ispirate a quella che i francesi chiamano ingénierie culturel e che ha consentito loro di ricavare reddito non solo dal classico patrimoine culturel, ma finanche dagli actif immatériels (marchi commerciali, brevetti, immagini, domini internet, expertise) [33].
Questa impostazione mediana sembra inoltre conciliare bene tra loro l'esigenza di garantire un accesso democratico alla cultura e quella - pure salvaguardata dalla direttiva europea sul riuso delle banche dati - di garantire una minima remunerazione agli istituti della cultura per i costi di approntamento ed erogazione del servizio. Si coniuga bene altresì all'idea che lì dove vi sono servizi "aggiuntivi" e integrativi della mera visita virtuale, servizi che implicano uno sforzo elaborativo tecnologico sull'infrastruttura e culturale sui contenuti, lì vi devono essere anche forme adeguate di compensazione dei costi e di remunerazione degli investimenti.
5. Nuovi percorsi di valorizzazione del patrimonio digitalizzato
L'accesso on line al patrimonio culturale può d'altra parte essere occasione per innovare e per creare nuove forme di fruizione e di valorizzazione, divenendo da "necessità" (in tempi di pandemia) "virtù" (utilizzabile a prescindere dallo stato di necessità, come strumento comodo e facile di godimento dell'arte anche a distanza, in un'epoca in cui, forse, sarebbe bene prendere meno gli aerei, non tanto e non solo per la tutela della propria salute, ma soprattutto per la tutela della salute del pianeta).
Gli esempi virtuosi - in questo tempo di lockdown e di post-lockdown, sotto la spinta, dunque, della necessità - non sono certo mancati. Numerose istituzioni museali, artistiche e culturali hanno risposto a questo momento di crisi con ricchissimi programmi e iniziative online: progetti dedicati, conversazioni, tour virtuali [34].
Naturalmente, anche la visita virtuale (di base o "arricchita") può concludersi con una visita al bookshop e al punto vendita del merchandising. Con l'e-commerce non c'è evidentemente nessun limite all'acquisto on line di libri, poster, riproduzioni, gadget vari, con un "clic" sul catalogo dei beni offerti in vendita.
Occorrerà tuttavia prestare la massima attenzione a che la "visita virtuale" e l'accesso da remoto alle collezioni possano costituire un incentivo alla visita diretta e reale, e non, invece, un surrogato della visita "effettiva", tale da rendere inutile l'accesso fisico al museo: si profila, come è ovvio, il rischio che il continuo arricchimento degli strumenti di fruizione da remoto possa svuotare i musei e far perdere loro quel ruolo essenziale di luogo di incontro sociale.
Ma probabilmente si profilano altre (e più interessanti) innovazioni che potrebbero nascere da un uso creativo dell'intelligenza artificiale e della digitalizzazione.
Questi strumenti potrebbero consentire, ad esempio, un salto di qualità dei musei locali, sparsi sul territorio e legati alla storia e alla cultura delle comunità. Sotto la spinta della digitalizzazione, potrebbero nascere nuovi modelli di sviluppo dei musei legati alle comunità culturali di cui parla la Convenzione di Faro del 2005, capaci di essere a un tempo fattore costitutivo ed espressione della cultura della comunità locale, e ciò raccogliendo, custodendo, ordinando e presentando in modo efficace tutte le testimonianze materiali e immateriali della sua storia, dalla preistoria alla storia antica, dal Medio Evo fino alla modernità e alla storia recente. Il museo - se sapientemente collegato (fisicamente, se possibile, come è sicuramente agevole nei piccoli centri, e comunque in rete) con gli archivi (pubblici e privati, anche notarili ed ecclesiastici) e le biblioteche locali, potrebbe offrire un quadro completo della storia locale e potrebbe in tal modo costituire un vero e proprio centro di elaborazione culturale in cui si edifica la cittadinanza consapevole della comunità di heritage, in cui si conserva, si studia, si ricerca, si comunica e si diffonde la storia del territorio (in accordo, ad esempio, con le Deputazioni di storia patria, con le Università degli studi o con altri enti e istituzioni culturali, pubblici e privati). Un museo locale che potrebbe in questo modo diventare costruttore e custode dell'identità culturale della comunità di heritage [35].
In questo contesto la digitalizzazione consentirebbe una fruizione integrata e intelligente dei dati, favorendo percorsi di studio e approfondimento innovativi, anche tramite adeguati motori di ricerca. Questo straordinario materiale, sapientemente implementato e gestito, potrebbe naturalmente aprire spazi di grande rilievo e interesse non solo per lo studio e la ricerca scientifica, ma anche per l'informazione, la didattica, la formazione e, certamente, anche per la proposta di contenuti più attraenti per la visita, anche da remoto, e dunque come strumento di attrazione turistico-culturale [36].
Questi progetti, se ben pensati, progettati, elaborati, costruiti e gestiti, potrebbero da un lato costituire un fattore di crescita della consapevolezza nelle popolazioni locali delle proprie radici, della propria storia, della propria cultura, rafforzando il senso di identità e l'interesse, l'amore e la cura del patrimonio culturale locale, sia materiale che immateriale; dall'altro lato potrebbe rappresentare l'occasione e il catalizzatore per una crescita locale davvero sostenibile, imperniata sulla filiera delle imprese creative e culturali e sulle forme di turismo lento, esperienziale, legato a nuovi modelli di qualità ricettiva (gli alberghi diffusi, ad esempio, negli antichi borghi da restaurare), in combinazione con l'offerta agroalimentare di eccellenza territoriale [37].
In questo senso l'informatica - opportunamente demitizzata e ricondotta a ciò che essa è, ossia un (utile) strumento operativo - può svolgere il ruolo essenziale di tessuto connettivo per la costruzione di un nuovo modello di fruizione e di valorizzazione, una sorta di telaio sul quale intessere la trama di una ricucitura e ricostruzione di senso, della ragion d'essere degli antichi borghi e dei Comuni periferici, che potrebbero fungere da laboratorio per uno stile di vita più profondo ed equilibrato.
Note
[1] M. Cammelli ha giustamente evidenziato (su questa Rivista, nell'Editoriale del n. 1 del 2020, Pandemia: the day after e i problemi del giorno prima) l'apprezzabile "fiorire di iniziative basate sulle reti e sulle applicazioni digitali, alcune delle quali di ottima qualità ... [che] conferma come questa soluzione costituisca la strada maestra intorno a cui rivedere in futuro molti aspetti della conservazione e della fruizione del patrimonio culturale. A condizione però di ricordare che tutto questo non si ottiene sovrapponendo semplicemente il nuovo al vecchio (immutato) ma ripensando in profondità quest'ultimo". I temi principali che vengono in rilievo in questa riflessione sono bene indicati e impostati in L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I "pieni" e i "vuoti" normativi, in Aedon, 2018, 3 (con ivi ampi richiami bibliografici). Recenti contributi di rilievo in questa materia in G. Morbidelli, A. Bartolini (a cura di), L'immateriale economico nei beni culturali, Torino, 2016 (Atti del Convegno L'immateriale economico nei beni culturali organizzato dalla Fondazione CESIFIN e svoltosi in Firenze il 17 ottobre 2014). Si veda anche A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, Laterza, Roma-Bari, 2019, pag. 97 ss. È inoltre noto il forte sviluppo registrato negli ultimi anni dalla discussione sulle digital humanities e sull'uso delle ICT nella catalogazione, fruizione e valorizzazione dei contenuti culturali.
[2] Sul regime giuridico degli archivi si veda il recente, approfondito e completo studio di G. Sciullo, Gli archivi come elementi costitutivi del patrimonio culturale: missione e organizzazione giuridica, in Aedon, 2020, 1. Anche gli archivi di Stato sembrano peraltro muoversi in ordine sparso, con iniziative sicuramente lodevoli, ma che in qualche modo contraddicono l'idea di costruzione di un processo unitario sottesa alla riforma introdotta con il d.p.c.m. n. 169 del 2019, il cui art. 35 ha creato l'Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital Library, con compiti di coordinamento e promozione dei programmi di digitalizzazione del patrimonio culturale di competenza del ministero, attraverso l'apposito Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale. Così, ad esempio, l'Archivio di Stato di Milano ha sviluppato il portale Digitasmi, uno strumento finalizzato alla pubblicazione delle riproduzioni digitali dei propri fondi.
[3] Lo scrittore Mauro Covachic discute (su La Lettura del Corriere della Sera n. 451 del 9 luglio 2020, pag. 46, Ho visto Raffaello. E sì, è meglio di niente) dell'esigenza, per godere di un'opera, di vederla in uno spazio sociale insieme ad altre persone e sulla incolmabile lacunosità della visita virtuale, che costituisce un'esperienza radicalmente diversa dalla visita reale.
[4] Prendendo in prestito la terminologia dell'art. 1 della "Carta per la conservazione del patrimonio digitale" adottata dalla 32^ sessione della Conferenza Generale dell'UNESCO, 17 ottobre 2003.
[5] K.R. Popper, I tre mondi. Corpi, opinioni e oggetti del pensiero, Il Mulino, Bologna, 2012.
[6] P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, in P.A. Persona e Amministrazione, n. 2019, 2, pag. 288. L'A. (pag. 245 ss.) indaga sulla configurabilità di una nozione di "patrimonio digitale", di "bene pubblico digitale" che possa dar vita, in conseguenza, all'ipotesi di un "patrimonio pubblico digitale" frutto del processo di digitalizzazione di beni già sussistenti in forma materica e sottoposti ad un processo tecnologico di trasposizione, concludendo nel senso dell'esistenza di un "bene culturale digitalizzato" come autonomo oggetto giuridico di tipo documentale "portatore di immagini e conoscenza a contenuto culturale attinta dalla dimensione immateriale di quello di base", costituente, soprattutto se pubblico, "una forma di offerta alla sua fruizione".
[7] Come invece sembra postulare V. Gastaldo, I beni culturali al tempo dell'infosfera. Problemi di tutela e prospettive di regolamentazione, in Giust.Amm., 2020, 5, pag. 2 del testo on line, che sembra incentrare la riflessione sul rilievo che "La legislazione italiana di settore, come si è cercato di dimostrare attraverso le brevi riflessioni condotte nel presente lavoro, presenta ancora delle lacune legate alla mancanza di una regolamentazione in grado di fornire adeguata protezione alla componente immateriale dei beni culturali" (pag. 4).
[8] S. de Nitto, Concessioni d'uso del patrimonio culturale, in Patrimonio culturale e soggetti privati, (a cura di) A. Moliterni, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, pag. 244 ss., postula un "mutamento dell'oggetto della disciplina" a proposito della liberalizzazione della riproduzione operata dalla legge del 2014 (che avrebbe "scorporato concettualmente l'uso fisico del bene culturale dalla sua riproduzione", sicché il bene culturale riprodotto, "una volta inserito in un sito internet, acquisisce il carattere dell'immaterialità e della virtualità").
[9] Altra e diversa fenomenologia - da tenere ben distinta per evitare ulteriore confusione - è poi quella della riproduzione audio-video di uno spettacolo dal vivo, o, il che è equivalente sotto questo profilo, di una rievocazione storica, di un "bene culturale immateriale" come il canto a tenore sardo o la processione del santo, etc., fenomeni tutti, questi, per i quali si pongono problemi di copyright, di vendita di diritti televisivi, di riproduzione della riproduzione e di diffusione sulle varie piattaforme media, digitali e analogiche, terresti e satellitari, social media, etc. Si vedano al riguardo le interessanti considerazioni di F. Minio, Riflessioni in tema di tutela giuridica dell'appropriation art in ambito figurativo, in Aedon, 2019, 3.
[10] La letteratura non è un'idea o una sostanza stabile, è una pratica, un uso e un ri-uso (M Barenghi, Poetici primati. Saggio su letteratura e evoluzione, Quodlibet, Macerata, 2020).
[11] Circa il problema della riproducibilità delle opere d'arte nell'era del web e dei social media si veda su La Lettura del Corriere della Sera, n. 363 dell'11 novembre 2018, pag. 45, dove in un'intervista di Matteo Persivale a Maurizio Cattelan si illustra l'ultima installazione dell'artista milanese in Cina, alla Yuz museum di Xuhui district, Shanghai, consistente nella riproduzione (fatta da artisti cinesi esperti nella copia) della Cappella Sistina in scala 1:6. Sulla riproduzione dei beni culturali si veda L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I "pieni" e i "vuoti" normativi, cit., nonché, ivi, G. Liberati Buccianti, Recenti questioni in tema di diritto privato dell'arte, par. 4.
[12] Tema sul quale si vedano le proposizioni - a mio avviso conclusive della discussione - di G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, in Aedon, 2014, 1, ora in I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche (Atti di convegno svoltosi ad Assisi, 25-27 ottobre 2012), (a cura di) A. Bartolini, D. Brunelli, G. Caforio, Napoli, Jovene, 2014, pag. 119 e ss., nonché Id., L'immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3.
[13] Al sito https://artsandculture.google.com/ Google Arts & Culture features content from over 2000 leading museums and archives who have partnered with the Google Cultural Institute. È appena il caso di osservare in proposito che "I dati vengono gestiti da nuovi intermediari; è errato ritenere che internet sia uno strumento di disintermediazione"; fallito il tentativo di imporre l'interoperabilità dei servizi sul web ed essendosi ormai la rete strutturata nella competizione tra prestatori di "servizi a silos", "i nuovi entranti hanno un disincentivo a competere all'interno dei mercati presidiati da incumbent che hanno già accumulato dati" (così condivisibilmente S. Quintarelli, La rivoluzione immateriale, in Domenica del Sole 24 Ore del 13 settembre 2020, pag. XI).
[14] P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, cit., pag. 296 ss. (cui deve aggiungersi il richiamo al sopraggiunto, nuovo, regolamento di riorganizzazione del ministero, d.p.c.m. 2 dicembre 2019, n. 269 che, nell'art. 35, come già ricordato, contempla un apposito Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital Library, ufficio di livello dirigenziale generale dotato di autonomia speciale con il compito di coordinamento e promozione dei programmi di digitalizzazione del patrimonio culturale di competenza del ministero, nonché di indirizzo e vigilanza sugli altri organi e uffici aventi compiti in materia di catalogazione, archiviazione e digitalizzazione).
[15] Da Guy Debord (La civiltà dello spettacolo, trad. it. di P. Salvadori e F. Vasarri, Milano, 2008) a Gilles Lipovetsky, (Piacere e colpire. La società della seduzione, Raffaello Cortina ed., 2019).
[16] Ha suscitato curiosità (e qualche discussione) la decisione degli Uffizi di postare su Instagram il 17 luglio 2020, attraverso il proprio account istituzionale, la foto della nota influencer Chiara Ferragni davanti alla Nascita di Venere del Botticelli. Iniziative di fronte alle quali resta senza risposta la classica domanda se sia l'artista di turno a "valorizzare" l'immagine del museo o viceversa (ma questo è gossip).
[17] P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, cit., pag. 298 (il quale giustamente sottolinea - pagg. 269 e 288 - l'urgente necessità di approfondire giuridicamente il tema della speciale contrattualistica di licensing e di attrezzare le pubbliche amministrazioni di professionalità idonee a negoziare tali tipologie contrattuali, in costante evoluzione). In tal senso anche A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., pag. 279 ss.
[18] L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I "pieni" e i "vuoti" normativi, cit.; P. Forte, op. cit., pag. 292. Il tema della qualità dei contenuti ha complesse ricadute e implicazioni sul piano della filologia dei testi digitali (P. Italia, Editing Duemila. Per una filologia dei testi digitali, Salerno Editore, Roma, 2020; L. Tomasin, nel recensire il volume - sulla Domenica de Il Sole 24 Ore del 9 agosto 2020, pag. V, L'editor del Duemila impigliato nella rete - osserva giustamente come sia ormai fallito il tentativo di fondare l'elaborazione dei testi sulla partecipazione volontaria di soggetti interessati - come in Wikisource, considerato "uno dei miraggi della Digital Humanities", ed evidenzia come "a differenza di quello stampato, il testo fluttuante in rete è sempre correggibile - o guastabile, mercé la sua intrinseca instabilità", con il rischio che "il mezzo prenda il sopravvento sul testo"). In merito è utile ricordare che l'art. 14 della Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore dell'eredità culturale per la società fatta a Faro nel 2005, a proposito del rapporto tra eredità culturale e società dell'informazione, prevede che "Le Parti si impegnano a sviluppare l'utilizzo delle tecnologie digitali per migliorare l'accesso all'eredità culturale e ai benefici che ne derivano: a. potenziando le iniziative che promuovano la qualità dei contenuti e si impegnano a tutelare la diversità linguistica e culturale nella società dell'informazione; b. favorendo standard internazionali per lo studio, la conservazione, la valorizzazione e la protezione dell'eredità culturale, combattendo nel contempo il traffico illecito dei beni culturali; c. adoperandosi per abbattere gli ostacoli che limitano l'accesso alle informazioni sull'eredità culturale, specialmente a fini educativi, proteggendo nel contempo i diritti di proprietà intellettuale; d. riconoscendo che la creazione di contenuti digitali relativi all'eredità culturale non dovrebbe pregiudicare la conservazione dell'eredità culturale attuale".
[19] Si fa riferimento in questa sede esclusivamente alla riproduzione di beni culturali che sono già in libero dominio, senza occuparsi, dunque, delle possibili interferenze con le tematiche relative al diritto d'autore. Per un aggiornamento alla luce della direttiva UE 2019/1024 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa all'apertura dei dati e al riutilizzo dell'informazione del settore pubblico (c.d. Direttiva PSI-3), si veda M.C. Pangallozzi, La fruizione del patrimonio culturale nell'era digitale: quale evoluzione per il "museo immaginario"?, in Aedon, 2020, 2.
[20] Per un primo esame di questa nuova disciplina cfr. F.G. Albisinni, Dal potere autorizzatorio di tipo conformativo alle fattispecie normative abilitanti. Verso nuovi paradigmi in tema di amministrazione del patrimonio culturale, in Aedon, 2019, 1 (par. 2, La libera riproduzione di beni culturali). M. Modolo, A. Tumicelli, Una possibile riforma sulla riproduzione dei beni bibliografici ed archivistici, in Aedon, 2016, 1. V.A. Lazzaro, Innovazione tecnologica e patrimonio culturale tra diffusione della cultura e regolamentazione, in Federalismi.it, 2017, n. 24.
[21] In base al comma 4 dell'art. 7 del d.lg. n. 102 del 2015 "con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e sentita l'Agenzia per l'Italia digitale, da adottarsi entro il 15 settembre 2015, sono determinati i criteri generali per la determinazione delle tariffe e delle relative modalità di versamento da corrispondere a fronte delle attività di cui agli articoli 5, 6 e 9. Nel rispetto dei suddetti criteri, i musei, gli archivi e le biblioteche, comprese quelle delle università, individuano, provvedendo ad aggiornarle ogni due anni, le tariffe sulla base dei costi effettivi sostenuti dagli stessi enti, comprendenti i costi di raccolta, produzione, riproduzione, diffusione, conservazione e gestione dei diritti, maggiorati, nel caso di riutilizzo per fini commerciali, di un congruo utile da determinare in relazione alle spese per investimenti sostenute nel triennio precedente". Ad oggi tale decreto non risulta pubblicato.
[22] P. Forte, op. cit,, 158, riguardo al dibattito sul free access e sull'open source evoca il tema della "tragedia" dei commons e degli anticommons, segnalando anche il tema, di grande rilievo, della certezza e dell'affidabilità dei dati.
[23] M.F. Cataldo, Preservare la memoria culturale: il ruolo della tecnologia, in Aedon, 2020, 2, parla correttamente di "prodotti digitali" attraverso i quali "La tecnologia ... ha incrementato la fruizione pubblica dei beni culturali, introducendo una più ampia gamma di modelli di presentazione degli stessi e attraverso la creazione di nuovi prodotti culturali" (che indica, a titolo esemplificativo, "biblioteche digitali, siti web di musei dove effettuare visite virtuali, applicazioni per smartphones concernenti beni culturali; fra i nuovi prodotti culturali, si annoverano le mostre tridimensionali e le forme innovative di video-arte").
[24] La legge 12 novembre 2015, n. 182, di conversione del decreto-legge 20 settembre 2015, n. 146 (Misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione), ha aggiunto nel testo del decreto un articolo 01 (Livelli essenziali delle prestazioni nella cultura) che colloca la fruizione tra i servizi essenziali di cui alla lettera m) del secondo comma dell'art. 117 della Costituzione ("1.In attuazione dell'articolo 9 della Costituzione, la tutela, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale sono attività che rientrano tra i livelli essenziali delle prestazioni di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, nel rispetto degli statuti delle regioni ad autonomia speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano e delle relative norme di attuazione").
[25] Sul discrimine tra gratuità e onerosità/corrispettività legato alla natura degli usi, commerciali e non commerciali, si veda M.C. Pangallozzi, La fruizione del patrimonio culturale nell'era digitale: quale evoluzione per il "museo immaginario"?, cit.
[26] T. Montanari (a cura di), Costituzione incompiuta, Einaudi, Torino, 2013; I. Baldriga, Estetica della cittadinanza. Per una nuova educazione civica, Le Monnier, 2020.
[27] P. Forte, op. cit., pag. 263.
[28] Idea criticabile, dal punto di vista giuridico. Si può poi anche convenire - secondo il punto di vista degli economisti della cultura e degli esperti di gestione museale - sul fatto che il museo abbia una dimensione gestionale economica di rilievo e possa agire come un "operatore economico", nella sua autonomia organizzativa, gestionale e di bilancio. È noto e pacifico, del resto, che ormai anche gli enti no profit sono tali per lo scopo, ma non anche (necessariamente) per i mezzi adoperati e per le attività strumentali svolte. Non può non avvertirsi, tuttavia, che la collocazione del museo nell'ambito delle imprese si trascina con sé tutta la burocrazia irrazionale degli aiuti di Stato e della concorrenza e del mercato, non appena la contribuzione pubblica risulti superiore alle soglie rilevanti variamente stabilite.
[29] Parrebbe che anche P. Forte (op. cit., pag. 281) ipotizzi una simile distinzione, lì dove scrive che "Se si segue il percorso indicato, potrebbe essere utile provare a distinguere i valori epistemici, le conoscenze, recate con il bene digitale, dalla mera immagine e dai prodotti che ne consentano una dimensione virtualizzata, generati con la riproduzione che, s'è detto, è parte di ogni operazione di digitalizzazione".
[30] Daniel Birnbaum dal 2019 direttore a Londra di Acute Art, la prima piattaforma dedicata a progetti di realtà aumentata e realtà virtuale, intervistato da la Repubblica, 9 luglio 2020, pag. 37, spiega la differenza fra Ar, augmented reality, e Vr, virtual reality: "l'augmented reality si può godere solo sullo schermo dello smartphone; per la realtà virtuale servono occhiali che ricordano quelli dei videorama".
[31] Senza spingersi alla tesi della distinta e autonoma "suità" ontologica della riproduzione digitale del bene (su cui cfr. P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, cit., pagg. 253 e 259), è più agevole ipotizzare che assuma una sua piena autonomia di "prodotto culturale" a sé stante, distinto dal bene riprodotto, l'elaborazione della riproduzione digitale incrementata di contenuti tecnici - relativi al modo di "lettura" del dato - e/o contenutistici (testi di presentazione, altro materiale audiovisivo, collegamenti ipertestuali ad altri oggetti e contenuti didascalici, costruzione di percorsi guidati di visita, gamification, etc.) In tal senso lo stesso A. da ultimo richiamato sembra offrire utili argomenti ed esempi (sull'apporto autoriale implicato nel "popolamento" del "bene culturale digitalizzato", pag. 266 ss.).
[32] Sono stati sinora necessari oltre 125 milioni di euro per i soli musei statali, stanziati con i vari decreti-legge così detti "Cura Italia", "Rilancio" e "Agosto". Si stima in 65 milioni di euro la perdita dei musei statali nei tre mesi di quarantena. La massima parte dei musei pubblici italiani (statali e non) ricava mediamente il 90 per centro delle entrate dalle vendite dei biglietti.
[33] Il tema è approfondito in A.L. Tarasco, op. cit.
[34] Una rassegna delle varie iniziative messe in campo è reperibile in D. Maida, Mondo dell'arte e quarantena. 10 cose che musei e gallerie hanno fatto durante il lockdown, al sito art.tribune.it, 10 giugno 2020 (mostre fruibili on line, condivisione quotidiana di contenuti attraverso i canali social, presenza su youtube, tour guidati e "passeggiate con il direttore", attività didattiche per bambini e adulti, tv e radio, playlist su spotify, studio visit virtuali e opere realizzate "da casa"). Un reportage di Claudia Giraud del 17 giugno 2020 titolava "Gli Uffizi mattatori dei social: tra Instagram e Tik Tok è il museo più seguito al mondo per follower", riferendo che nel weekend il museo aveva superato il traguardo dei cinquecentomila follower su instagram ed era cresciuto oltre quota 21.700 (con 87.800 like) su tik tok, diventando il museo d'arte più seguito al mondo sulla piattaforma cinese. Il quotidiano Il Sole 24 Ore ha spesso dedicato spazio e interesse a queste problematiche (così nell'edizione on line del 22 maggio 2020 negli articoli di Alessia Maccaferri Fase2. Crescono i follower sui social grazie al raddoppio dei contenuti postati. "Ma farà la differenza il livello di coinvolgimento" spiega Lorenzini del Politecnico di Milano. On demand e interattivi, i musei nell'era post-Covid, e di Pierluigi Sacco Nuova vita ai musei dalle strategie digitali, pubblicato ne Il Sole 24 Ore del 6 luglio 2020, pag. 15).
[35] In tal senso sono già state avviate interessanti iniziative. Ad esempio, si è svolta a Roma il 4 ottobre 2020 la XX Assemblea Nazionale de "I Borghi più belli d'Italia", Associazione che valorizza e promuove i piccoli comuni italiani d'eccellenza, di cui fanno attualmente parte 312 Borghi, mentre il 1° ottobre 2020 è stato pubblicato il Manifesto dei Musei dei Piccoli Borghi e dei Territori, Dieci punti per definire il ruolo del Museo "come dispositivo di produzione culturale" per lo sviluppo e la rigenerazione della comunità nel territorio, elaborato da Laura Barreca, Valentina Bruschi, Francesco La Cecla, Maria Rosa Sossai e Vincenzo Vignieri (Museo Civico Castelbuono, 2020), dove si evidenzia il ruolo essenziale, nei processi di community development, delle agenzie culturali e, in particolare, dei musei dei piccoli borghi localizzati in territori interni.
[36] Ad esempio, L. Bindi, dell'Università degli Studi del Molise, Direttrice del Polo DiCultHer (The Digital Cultural Heritage, Arts and Humanities School) del Molise, osserva: "Sono sorte così esperienze di archivi regionali e locali delle eredità culturali, ecomusei che hanno utilizzato le piattaforme digitali in modo crescente per l'auto-implementazione "dal basso" delle informazioni e rappresentazioni del patrimonio locale condiviso" (dal sito AgCult, agenzia giornalistica specializzata nelle politiche pubbliche relative al settore della cultura e del turismo, 1 ottobre 2020).
[37] Sulle nuove frontiere del turismo culturale si vedano, in questa Rivista, n. 1 del 2020, i contributi di A. Sau (Le frontiere del turismo culturale) e di A. Areddu (Analisi giuridica degli itinerari culturali), nonché C. Vitale, La valorizzazione del patrimonio culturale nelle Aree Interne. Considerazioni preliminari, ivi, 2018, 3.
.