Sommario: 1. La tutela e la valorizzazione dei beni culturali quale compito unitario. - 2. La contrapposizione fra tutela e valorizzazione nell'esperienza italiana degli ultimi decenni. - 3. Le prospettive di sistema aperte dal nuovo assetto costituzionale "a vocazione federale". - 4. La mancata creazione di un sistema integrato di tutela e valorizzazione nel Codice del 2004. - 5. (Segue) La disciplina separata dell'organizzazione e della programmazione del settore. - 6. La cooperazione fra le istituzioni e con i soggetti privati per un sistema integrato di tutela e valorizzazione.
1. La tutela e la valorizzazione dei beni culturali quale compito unitario
Il recente varo del Codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 induce a chiedersi se e come il nuovo Codice abbia saputo o sappia offrire un quadro istituzionale idoneo a svolgere una politica per i beni culturali più organica ed efficace di quanto possa essere avvenuto finora.
Il che equivale a chiedersi se e come il nuovo Codice, abbia saputo o sappia contribuire a comporre tra loro e a soddisfare insieme le due esigenze di fondo con cui si confronta ogni politica per i beni culturali che voglia essere organica ed efficace: la duplice esigenza della tutela e della valorizzazione, secondo la terminologia oggi entrata anche nella nostra carta costituzionale.
Si tratta di esigenze che appaiono di per sé distinte, se non contrapposte, e che peraltro non possono che essere soddisfatte in maniera complementare e interdipendente.
Da un lato, vi è l'esigenza di assicurare la concreta conservazione dei beni nella loro valenza di beni "testimonianza materiale avente valore di civiltà", secondo la ben nota definizione risalente agli anni '60 e ripresa oggi in apertura anche dall'attuale Codice.
Come tali i beni appaiono come portatori di valori che trascendono ogni specifico riferimento a dimensioni locali e territoriali e rivestono una portata di ordine non solo nazionale, ma sopranazionale, se non universale, da preservare e trasmettere quindi nel tempo mediante una politica di protezione e di conservazione dei beni stessi.
Dall'altro, vi è l'esigenza di assicurare la messa a disposizione dei beni culturali come risorsa e strumento di nuovo sviluppo civile, culturale e sociale, nonché anche, come oggi si insiste, quali veicolo e strumento di sviluppo economico: e ciò non solo per la collettività nazionale, ma anche e in particolare per le diverse collettività e realtà territoriali nel cui contesto i beni sono calati.
Come tali, i beni sono visti come entità il cui godimento e la cui utilizzazione corrispondono a una risorsa cui attingere e a un servizio da rendere a favore delle singole collettività territoriali e alla loro crescita complessiva.
Si tratta della duplice valenza dei beni, come valore da preservare e come risorsa e servizio da rendere, che è d'altronde già presente nella norma fondamentale dell'art. 9 Cost. ed è stata confermata dall'emergere della stessa nozione di beni culturali nell'ordinamento rispetto ad altre precedenti meno comprensive, oltre che condivisa sempre più diffusamente dalla coscienza sociale.
Sotto questo duplice profilo tutela e valorizzazione paiono quindi mettere in rilievo prospettive e valenze distinte e potenzialmente contrapposte, come è appena il caso di ricordare.
La tutela richiede di per sé una disciplina unitaria fondata anzi su regole e protocolli concordati nelle sedi disciplinari e scientifiche non solo nazionali, ma anche sopranazionali e chiede anche di essere governata ed amministrata avvalendosi di strutture e corpi tecnico-professionali che operino al di fuori di indirizzi e condizionamenti politici contingenti.
La valorizzazione che guarda al bene come risorsa e come servizio pare essere soprattutto azione da svolgere prevalentemente in sede regionale e locale a cura delle corrispondenti istituzioni di governo, pur sempre con l'apporto delle necessarie strutture tecnico-professionali, nell'ambito di indirizzi e scelte di sviluppo sociale ed economico.
In realtà, come è convincimento sempre più largamente condiviso, tutela e valorizzazione sono profili tra loro necessariamente complementari e interdipendenti di una politica che voglia essere organica ed efficace.
Se si considera la tutela nella sua portata più ampia (e oggi soprattutto sottolineata), essa corrisponde ad un'azione di protezione che non solo si esplica mediante una regolazione di carattere giuridico-amministrativo sull'uso e la circolazione dei beni (quale da noi hanno saputo impostare le fondamentali leggi del 1939), ma comprende anche un'attività positiva di intervento volta a individuare concretamente i beni, a prevenirne il deterioramento, a mantenerli e a ripristinarli in buono stato, che nel suo insieme si riassume in una politica di "conservazione programmata" (come si è detto significativamente) necessariamente calata o contestualizzata nel territorio.
A sua volta l'azione di valorizzazione non può prescindere dalla difesa e dalla protezione dei valori di cui i beni sono testimonianza e dal concorrere quindi alla conservazione dei beni per assicurare condizioni e opportunità idonee al loro utilizzo nell'ambito di un'azione altrettanto programmata attenta al contesto e allo sviluppo locale e territoriale.
I due profili di azione si integrano quindi funzionalmente e concorrono a formare perciò un compito unitario, che richiede di essere tradotto in una politica attiva di "messa in valore" dei beni, vale a dire in una politica di valorizzazione nel suo significato più pieno, che solo come tale può essere organica ed efficace.
2. La contrapposizione fra tutela e valorizzazione nell'esperienza italiana degli ultimi decenni
Se questa è la prospettiva cui fare riferimento, è noto peraltro che nel corso delle vicende italiane degli ultimi decenni, che pure hanno visto la progressiva crescita di attenzione, di cura e di messa in valore dei beni culturali, ma quasi per tale progressivo ampliamento di attenzione dalla mera tutela alla messa in valore dei beni, i due profili della tutela e della valorizzazione sono stati in certo modo contrapposti, fin al punto di giungere oggi ad essere fatti oggetto per Costituzione di distinte competenze legislative dello Stato e delle regioni.
Le vicende di questa contrapposizione si inseriscono d'altronde nel più generale processo di trasformazione del nostro ordinamento da Stato unitario a Stato regionale ed ora in prospettiva a carattere federale.
E' appena il caso di ricordare come si sia venuto creando un doppio binario di soggetti e di competenze rispettivamente per la tutela e la valorizzazione.
Da un lato, secondo la tradizionale impostazione dello Stato unitario le competenze di tutela sia legislative sia di governo e di amministrazione sono state riservate allo Stato e l'esercizio di queste è stato attribuito dai primi anni '70 all'apposito ministero organizzato in forma sostanzialmente centralizzata, sebbene articolato territorialmente e dotato di apposite strutture e corpi tecnico-professionali.
L'azione di tutela si è poi via via arricchita nel corso degli anni passando da una prevalente tutela di regolazione giuridico-amministrativa ad un'azione volta a impegnare sempre maggiori risorse negli interventi di conservazione e di ripristino dei beni, oltre che di miglioramento della gestione di beni di appartenenza statale.
Al punto che la tutela è stata percepita sempre più in termini di servizio da produrre e da rendere e da far richiedere per essa l'adozione di un modello organizzativo di tipo aziendale in luogo di quello ministeriale, oltre che maggiormente decentrato sul territorio.
Si è venuta comunque prevedendo ed elaborando una programmazione nazionale degli interventi per quanto riferita a singoli interventi e non calata in un quadro di riferimento territoriale.
Il che può spiegare, insieme all'entità delle risorse a disposizione, perché possa aver avuto riguardo più a interventi di eccellenza che non a progetti di intervento più sistematici.
D'altro lato, l'avvento dell'ordinamento regionale, accompagnato dalla crescente attenzione al riguardo da parte delle autonomie locali, ha visto il sorgere di non poche iniziative da parte degli enti autonomi territoriali volte a contribuire e a sostenere la conservazione e la messa in valore dei beni culturali.
E ciò al di là delle esigue competenze costituzionalmente assegnate alle regioni ordinarie e ad esse trasferite con la prima regionalizzazione del 1972 in tema di musei e biblioteche di enti locali e di quelle specificatamente attribuite dalle leggi agli enti locali ed in virtù della competenza riconosciuta alle regioni anche dalla giurisprudenza costituzionale e agli enti locali di provvedere agli interessi generali delle collettività e del territorio pur nel rispetto delle competenze riservate allo Stato.
In particolare, l'azione regionale ha visto destinare non poche risorse al settore volte in parte a compensare l'esiguità delle risorse ministeriali e in parte a far estendere la tutela ad un più vasto campo di beni (comprendendo anche le testimonianze della c.d. cultura materiale), specie mediante un'opera parallela di individuazione e di catalogazione dei beni nel territorio regionale, oltre che con l'apprestamento di migliori condizioni di accessibilità e di utilizzabilità dei beni stessi.
Di quest'ultimo tipo di intervento in epoca più recente è oggi certamente esemplare l'azione per l'individuazione e lo sviluppo dei c.d. distretti culturali.
Si è dato vita perciò anche a una programmazione regionale per i beni culturali che si è affiancata a quella nazionale con un carattere di maggior attenzione a beni come risorsa e servizio del territorio da valorizzare.
Si è così venuto a creare di diritto o di fatto un doppio binario di competenze, una sorta di spartizione in orizzontale fra tutela e valorizzazione.
Tuttavia, di fronte alla interdipendenza e all'obiettiva convergenza delle due modalità di azione, fin dalla fine degli anni '70 si è prospettata la necessità di superare un tale doppio binario e di dar luogo a un sistema che componesse tra loro l'unità del compito e il pluralismo dei soggetti competenti.
Creare un sistema di governo e di amministrazione dei beni culturali significava in particolare creare un assetto articolato in verticale di distinti ruoli funzionali, riservando al centro gli aspetti di regolazione, di coordinamento e di programmazione generale aventi carattere unitario e prevedendo poi un'articolazione decentrata di competenze integrate di tutela e valorizzazione da esercitarsi pur sempre mediante le apposite strutture e corpi tecnico-professionali nell'ambito dell'ordinamento regionale e sulla base di una programmazione altrettanto unitaria sul territorio.
E' il modello che è stato in certa guisa seguito per i beni ambientali con la seconda regionalizzazione, con il decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, e che si è realizzato in alcune regioni speciali in forza delle competenze attribuite dai rispettivi statuti di autonomia.
Ma per la generalità dei beni culturali tale modello non è stato realizzato: l'impegno assunto sempre con il d.p.r. 616/1977 all'art. 48 di varare di lì a due anni una legge quadro che stabilisse le funzioni amministrative di regioni ed enti locali per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale non ha avuto seguito.
Le successive tappe legislative hanno invece quasi inteso rimarcare e accentuare la distinzione fra tutela e valorizzazione (aprendo anzi un terzo fronte: quello della gestione dei beni connesso peraltro alla valorizzazione).
La terza regionalizzazione del 1998, attraverso il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 in attuazione della legge delega 15 marzo 1997, n. 59 per il c.d. federalismo amministrativo e nel rispetto delle riserve di competenza allo Stato già in questa previste, ha confermato la competenza statale in materia di tutela, ha espressamente riconosciuto e definito la competenza regionale in materia di valorizzazione e ha prefigurato in corrispondenza di ciò anche un decentramento della gestione di beni (musei) di appartenenza statale a regioni ed enti locali (poi non realizzata).
Peraltro, il d.lg. 112/1998, nel cercare di definire distintamente tutela e valorizzazione, non ha potuto che dettare delle definizioni che inevitabilmente sono venute a sovrapporsi e intrecciarsi, tanto che, significativamente, il d.lg. 112/1998 ha avvertito l'esigenza e ha fatto l'ulteriore scelta di prevedere sedi e modalità di cooperazione fra Stato, regioni ed enti locali.
In particolare, come è noto, ha previsto (artt. 154-155) l'istituzione in ogni regione della Commissione per i beni e le attività culturali con una composizione mista e con il compito di formulare proposte e pareri sia per il programma nazionale che per quelli regionali.
Come è appena il caso di notare è del tutto trasparente in queste previsioni la ricerca di un tramite stabile di coordinamento e di collaborazione fra i due ordini di soggetti e le rispettive programmazioni, cercando di prefigurare seppure in forma abbastanza timida una forma di cooperazione interistituzionale, cooperazione che, come si potrà rilevare più avanti, sembra ancor oggi la principale strada esistente per "fare sistema".
3. Le prospettive di sistema aperte dal nuovo assetto costituzionale "a vocazione federale"
Dopo il d.lg. 112/1998 il T.U. del 1999 (decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490) sui beni culturali non ha fatto che prendere atto di quanto già questo aveva disposto.
Si può notare invece come il nuovo assetto costituzionale "a vocazione federale" introdotto con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (che ha riformato il Titolo V parte seconda della Costituzione) poteva offrire l'occasione per creare un sistema integrato di governo e di amministrazione per i beni culturali, nonostante che a prima vista le nuove norme costituzionali possano dare l'impressione contraria.
Vero è che il nuovo Titolo V all'art. 117, sulla falsariga del d.lg. 112/1998, come già si ricordava, distingue fra tutela e valorizzazione per i beni culturali (e ambientali) riservando la prima alla competenza legislativa esclusiva dello Stato e la seconda alla competenza legislativa concorrente di Stato e regioni, quasi a sanzionare il lungo cammino percorso al riguardo dalla prassi e dalla legislazione precedente; il che sembra quindi tracciare ancora una divisione orizzontale di due ordini di competenze distinti.
Peraltro si può notare come l'aver riservato allo Stato la competenza legislativa esclusiva per la tutela e la determinazione dei principi fondamentali di disciplina della valorizzazione non poteva che favorire un'unità sul piano ordinamentale e una continuità di disciplina fra l'uno e l'altro profilo e in particolare la definizione di finalità e obiettivi comuni (come poi il Codice ha mostrato di voler fare).
Inoltre non va dimenticato che lo stesso Titolo V prevede già all'art. 116, comma 3, che con legge, sulla base di intese fra lo Stato e la regione interessata, possono essere attribuite forme e condizioni particolari di autonomia anche legislativa a singole regioni in alcune specifiche materie fra cui in particolare in tema di tutela dei beni culturali.
A sua volta il successivo nuovo art. 118 Cost. nel disciplinare l'assetto delle funzioni amministrative ha previsto che queste funzioni debbano ora essere distribuite secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza in tutte le materie ad opera della legge statale e della legge regionale secondo le rispettive competenze.
Il che implica che anche nelle materie di spettanza legislativa statale le funzioni amministrative possano e debbano essere attribuite a regioni ed enti locali quando la natura e la dimensione delle funzioni lo consenta e lo richieda e si debbano riservare al centro solo le funzioni che richiedono un esercizio unitario (non una disciplina unitaria) delle stesse.
Come si vede, il nuovo art. 118 elimina il c.d. parallelismo tra competenze legislative e competenze amministrative (che era presente nel precedente originario testo della Costituzione) e detta criteri appositi per il riparto delle funzioni amministrative fondati essenzialmente sul principio di sussidiarietà (verticale e orizzontale), della massima prossimità delle funzioni ai cittadini e alle realtà sociali.
Con ciò l'art. 118 apriva la strada a creare anche in materia di beni culturali un sistema integrato di governo e amministrazione ordinato verticalmente per distinti ruoli funzionali fra Stato, regioni ed enti locali.
Il che è poi nient'altro che quanto previsto dal Codice sulla scia della legislazione precedente dal d.p.r. 616/1977 in poi.
D'altronde, è particolarmente rilevante nel disegno tracciato dallo stesso art. 118 il fatto che il terzo comma del medesimo articolo, nel prevedere che la legge statale debba disciplinare forme di intesa e coordinamento fra Stato e regioni in alcune specifiche materie in ordine all'esercizio delle funzioni amministrative, dica poi espressamente che ciò debba avvenire fra l'altro in tema di tutela dei beni culturali: intese e coordinamenti quindi in ordine all'esercizio delle funzioni amministrative nell'ambito della stessa tutela e non fra tutela e valorizzazione.
Va infine ricordato come al principio di sussidiarietà verticale lo stesso art. 118, comma 4, accompagni l'espressa enunciazione del principio di sussidiarietà sociale o orizzontale, secondo cui tutte le istituzioni che compongono la repubblica debbono favorire lo svolgimento di attività di interesse generale da parte dei cittadini singoli e associati.
Il che, a sua volta, con riguardo al settore dei beni culturali, pare essere di grande rilievo se si tiene conto di quanto l'esperienza degli ultimi decenni ha potuto registrare di concorso e di contributo di privati (incentivati anche da apposite leggi già dagli anni '80) e soprattutto di enti del privato sociale, di enti privati con finalità sociali, al potenziamento delle risorse e delle opportunità per un efficace concreta politica attiva di messa in valore dei beni culturali.
In breve, nella linea tracciata dal nuovo Titolo V, il possibile sistema di governo e di amministrazione dei beni culturali sembra dover comprendere e allargarsi ai soggetti privati e in particolare ai soggetti del privato sociale.
4. La mancata creazione di un sistema integrato di tutela e valorizzazione nel Codice del 2004
Se questo è il quadro offerto dal precedente sviluppo legislativo e dalla riforma costituzionale, si può cercare ora di rispondere alla domanda iniziale: se il Codice di quest'anno ha colto l'occasione di creare un sistema integrato di governo e amministrazione dei beni culturali, che non solo il nuovo assetto costituzionale "a vocazione federale" offriva, ma anche le stesse intrinseche esigenze di organicità e di efficacia delle politiche postulano.
Ora certamente il Codice è il complesso normativo che per la prima volta ambisce a dettare un ordinamento che colleghi unità del compito e pluralismo dei soggetti operanti a tal fine.
E se appena si guarda alle disposizioni generali della parte prima e alle altre che rivestono comunque una portata generale, si può agevolmente rilevare come nell'impostazione del Codice si sia cercato non solo di esplicitare la duplice congiunta valenza dei beni culturali (come valore e come servizio), ma anche di delineare un disegno che integra tutela e valorizzazione.
Si veda come all'art. 1 si affermi in apertura che "la tutela e la valorizzazione concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura".
Si definiscono poi tutela e valorizzazione in termini tali da far convergere l'una con (o nel) l'altra.
La tutela (art. 3) viene primariamente individuata come servizio, come politica attiva di concreta individuazione, protezione e conservazione dei beni stessi a fini di pubblica fruizione e solo in seconda istanza come attività provvedimentale (di disciplina giuridico - amministrativa) volta - si sostiene - a conformare e a regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale.
Il che trova conferma anche nelle norme del Codice che disciplinano più specificamente nel suo svolgimento l'azione di tutela.
Si può sottolineare come venga ampliato l'oggetto della tutela facendo potenzialmente rientrare nella nozione di bene culturale una più ampia tipologia di beni e come si miri a dettare una disciplina dei beni che guarda sempre più alla natura intrinseca dei beni stessi indipendentemente dai soggetti di appartenenza (per quanto non si arrivi ancora a un regime comune che prescinda dall'appartenenza dei beni stessi).
In tale quadro, inoltre, si giustificano anche le procedure innovative dirette ad assicurare la verifica dell'interesse culturale sia nei beni di appartenenza pubblica come in quelli privati e in quelli suscettibili di privatizzazione e che tante polemiche hanno suscitato per l'introduzione del meccanismo del silenzio assenso nel procedimento di verifica (soprattutto per quel che concerneva la fattibilità dell'istituto e il concreto rispetto dei termini fissati).
Si consideri inoltre come venga in generale perfezionata la normativa sui procedimenti amministrativi di tutela e come, secondo gli enunciati dell'art. 3, vi si affianchino non poche norme che intendono promuovere la tutela nell'ottica della "conservazione programmata" (si veda al riguardo la norma generale dell'art. 29).
La valorizzazione appare a sua volta indirizzata non solo a "promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare la migliore utilizzazione e fruizione pubblica", ma anche "a promuovere e a sostenere gli interventi di conservazione del patrimonio stesso" (art. 6).
E se si considerano infine i principi dettati per la valorizzazione negli artt. 111 ss. si vede come ci si preoccupi di ampliarne il campo di azione nonché la gamma delle forme organizzative e degli strumenti operativi di cui valersi.
La finalizzazione unitaria delle due attività e l'integrazione funzionale delle stesse sembrano esservi dunque bene esplicitate.
In tale quadro ci si sarebbe quindi aspettati che, nel distribuire le competenze amministrative, venisse delineato un sistema policentrico, "a rete" in cui istituzioni centrali, regionali e locali concorressero, secondo ruoli diversi e complementari, a tale finalità unitaria con gli altri soggetti pubblici e privati.
E difatti, ancora nelle enunciazioni generali dell'art. 1, si adombra il concorso di tutte le istituzioni politiche e rappresentative che compongono l'ordinamento repubblicano, degli altri soggetti pubblici e degli stessi soggetti privati.
Ma se si guarda poi a come vengono distribuite le competenze di governo e di amministrazione è agevole rilevare come il Codice non dia poi seguito al disegno iniziale ma ripercorra ancora l'assetto tradizionale, il modello binario di spartizione delle competenze.
Allo Stato è confermata la integrale attribuzione delle funzioni di tutela dichiarate tutte "ad esercizio unitario" (benché in realtà si tratti solo di funzioni "a disciplina unitaria"), salvo quelle già attribuite o delegate alle regioni dal 1972.
Vengono peraltro richiamate ma applicate per ora solo a un ambito limitato di beni minori le forme di intesa e coordinamento fra Stato e regioni previste dall'art. 118, comma 3, in ordine all'esercizio delle funzioni amministrative.
Viene anche prevista la possibilità che sia lo stesso ministero ad attribuire in futuro l'esercizio di altre funzioni alle regioni sulla base delle medesime forme di intesa e di coordinamento (con ciò evitando di prevedere l'attribuzione vera e propria di funzioni e contemplando solo una sorta di "delega" conferita non con legge, ma con atto amministrativo per quanto negoziato).
Alle regioni si attribuiscono invece (d'altronde per obbligo costituzionale) le funzioni di valorizzazione, depurate peraltro della valorizzazione dei beni di appartenenza statale (si vedano in tal senso gli artt. 4, 7 e 112): scelta questa che ora la stessa Corte costituzionale ha di recente avallato. Nella difficoltà di decidere alla luce delle norme esistenti se la gestione dei beni rientri nella tutela o nella valorizzazione la Corte ha finito per stabilire salomonicamente che la gestione spetta al soggetto di appartenenza del bene (Corte costituzionale, sent. 19 dicembre 2003 - 20 gennaio 2004, n. 26).
Ma quel che merita sottolineare è che in più luoghi si precisa poi e si ribadisce che la valorizzazione deve svolgersi in maniera compatibile con la tutela.
Affermazione questa che non darebbe luogo ad alcuna perplessità se non fosse che è interpretata come sovraordinazione o, come è stato detto autorevolmente, come "gerarchizzazione" dell'una funzione sull'altra, con quanto ne può derivare anche nei rapporti fra lo Stato e le istituzioni regionali e locali oltre che sul modo di intendere l'una e l'altra funzione.
5. (Segue) La disciplina separata dell'organizzazione e della programmazione del settore
D'altro canto, che si sia inteso mantenere il modello binario di competenze, ordinate secondo un rapporto di separazione almeno in prima istanza, sembra confermato non solo da quanto il Codice dispone, ma anche da quanto il Codice non contempla e non ricomprende.
Come è noto, secondo la scelta fatta il Codice vuole essere soprattutto una normativa di ordinamento che ha inteso disciplinare le finalità e le modalità di svolgimento della tutela e della valorizzazione, lasciando al di fuori o toccando solo marginalmente altri profili peraltro altrettanto rilevanti e determinanti per una politica organica ed efficace dei beni culturali: l'organizzazione e la programmazione (a cui si riconnette poi strettamente anche il profilo delle risorse umane, professionali e finanziarie).
Da un lato, si è detto che l'organizzazione non conveniva venisse inserita nel Codice (a differenza di quanto è avvenuto nella quasi contemporanea codificazione francese in materia) per la necessaria flessibilità e mutabilità nel tempo che la relativa normativa deve avere.
Va detto peraltro che la normativa di organizzazione almeno nelle sue linee fondamentali rappresenta l'indispensabile completamento di qualsiasi disegno di politica istituzionale e il primo strumento di verifica della fattibilità ed efficacia concreta.
Ora, come è noto, l'organizzazione del ministero è stata disciplinata a parte, dapprima con il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 secondo un modello a segretario generale e direzioni generali che mostrava l'intendimento di ricomprendere nel ministero la totalità delle funzioni di tutela, valorizzazione e gestione, nonostante il contemporaneo varo del d.lg. 112/1998 ricordato, e nonostante qualche interessante apertura in tema di decentramento e autonomia degli organismi periferici (ad es. le c.d. sovrintendenze autonome) oltre che in tema di accordi con i privati (art. 10) e di utilizzazione di strumenti privatistici per la gestione.
Anche adesso il Codice è stato affiancato da un separato provvedimento (il decreto legislativo 8 gennaio 2004, n 3 pur fondato sulla stessa legge delega 6 luglio 2002, n. 137 sulla base della quale è stato emanato il Codice) che ha disposto una nuova riforma del ministero prevedendo al centro un accorpamento delle strutture per dipartimenti (senza più il segretario generale) e in periferia la creazione delle direzioni regionali (in luogo delle precedenti sovrintendenze regionali) coadiuvate dai comitati regionali di coordinamento composti dai sovrintendenti di ciascuna area (con le competenze specificate poi nel decreto del presidente della repubblica 8 giugno 2004, n. 173).
E' un provvedimento che è stato giustificato dall'esigenza di adeguare l'organizzazione del ministero al nuovo assetto regionale introdotto dalla riforma costituzionale del 2001 e di creare dei centri unitari di coordinamento su scala regionale.
Esso sembra però anche confermare la separatezza dell'organizzazione ministeriale dal resto dei soggetti operanti per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali (oltre ad aver destato anche non poche perplessità circa la sua coerenza con il principio della distinzione fra politica e amministrazione per il prevalere e l'estendersi delle competenze amministrative affidate a dirigenza a carattere fiduciario rispetto a quelle della dirigenza tecnico-professionale).
Le scelte organizzative adottate paiono quindi confermare il mancato accoglimento di una prospettiva di sistema integrato e il mantenimento di un assetto a carattere binario che non si apre alle possibilità offerte dal nuovo Titolo V e dall'applicazione del principio di sussidiarietà.
A sua volta, sul versante della programmazione, il Codice si limita a far rinvio in più di una norma all'esigenza di un'azione coordinata e programmata per questa o quella attività specifica.
Esemplare in tal senso è il già ricordato art. 29 secondo cui la conservazione deve "essere assicurata mediante una coerente, coordinata e progredita attività di studio, di prevenzione, manutenzione e restauro". Ma nulla il Codice dice in ordine a strumenti e modalità di programmazione che investano in modo compartecipato i soggetti variamente competenti.
Il tramite fra programmazione nazionale e programmazione regionale resta la Commissione regionale istituita dagli artt. 154-155 del d.lg. 112/1998: tali articoli sono infatti significativamente fatti salvi dal Codice stesso, che abroga invece gli altri articoli del medesimo decreto.
Per il resto, gli strumenti della programmazione nazionale restano quelli che la legislazione ha successivamente individuato: dalla programmazione triennale prevista a partire dalla legge 10 febbraio 1992, n. 145 e succ. modif. su cui si basa l'intervento ordinario del ministero alle altre programmazioni e decisioni di intervento a carattere variamente straordinario o aggiuntivo che si fondano su leggi ad hoc varate per le più diverse occasioni e su alcune fonti finanziarie apposite.
Si ricordino esemplarmente gli interventi finanziati sugli utili erariali del gioco del lotto (art. 3, comma 83 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e succ. modif.), gli interventi finanziati sui fondi dell'8 per mille dell'Irpef destinati allo Stato (decreto del presidente della repubblica 10 marzo 1998, n. 76 e succ. modif.) e da ultimo gli interventi da finanziarsi sul 3% degli stanziamenti per le grandi opere infrastrutturali come previsto dalla legge finanziaria del 2003 (art. 60, 4 c. legge 27 dicembre 2002, n. 289) e per il cui utilizzo è stata anche prevista la Costituzione di un'apposita società (Arcus) da parte del ministero (legge 16 ottobre 2003, n. 291).
E' indubbio che negli anni in varia forma vi sia stato un non trascurabile impegno a potenziare le risorse pubbliche a disposizione.
Tuttavia è altrettanto indubbio il carattere frammentato della programmazione e degli strumenti predisposti che trovano solo il loro punto di unità nella identità, anche se non sempre, di chi decide e di chi partecipa alla decisione (il ministro e gli organi sia amministrativi che tecnico-consultivi centrali), senza dimenticare il ruolo di proposta e di parere, anche se non sempre previsto, delle Commissioni regionali e della Conferenza dei presidenti di queste.
Il mancato inserimento nel Codice di norme sulla programmazione ovvero il mancato riordino degli strumenti e delle procedure di programmazione è l'altro segno della conferma del modello binario.
Il silenzio su organizzazione e programmazione è d'altronde, più in generale, il segno di come il Codice nella sua efficacia e operatività concreta resti condizionato e dipendenti da altre previsioni in ordine alle risorse organizzative, umane, finanziarie e alla messa a disposizione delle stesse, come testimonia il recente grido di denuncia dello stesso ministro nello scorso mese di agosto.
E certo non può non si può non concordare anche con chi osserva che il dibattito e le contesa sulle competenze, che spesso arricchisce il contenzioso costituzionale in materia, perde di significato e di importanza di fronte alla necessità di disporre in ogni caso di adeguate risorse organizzative, professionali, finanziarie organicamente finalizzate.
6. La cooperazione fra le istituzioni e con i soggetti privati per un sistema integrato di tutela e valorizzazione
Di qui allora la rinnovata necessità di "far sistema ".
Ora, se il Codice non costruisce ancora un sistema integrato di tutela e valorizzazione sul piano delle competenze, dell'organizzazione e della programmazione, sembra peraltro voler raggiungere o stimolare il raggiungimento di un tale risultato per altra via.
Forse il messaggio più significativo e internamente coerente che il Codice sembra voler dare è quello offerto dalla messa in rilievo (dalla valorizzazione se così è concesso dire) del metodo della cooperazione fra le istituzioni pubbliche e fra le istituzioni e i soggetti della società.
Il Codice (o i suoi redattori) sembra(no) aver avvertito l'interiore contraddizione che lo attraversa fra unitarietà del compito e il modello ripartito delle competenze e aver mirato allora a ricomporre il sistema facendo perno, come già il d.lg. 112/1998 aveva indicato e come d'altra parte la normativa e la prassi più recente ha fatto emergere, sul metodo della cooperazione che è prima di tutto cooperazione interistituzionale fra i soggetti componenti la repubblica (secondo il principio della leale collaborazione sancito dall'attuale testo costituzionale) e si allarga e si estende poi agli altri enti pubblici e ai soggetti privati, nell'esercizio della autonoma capacità di iniziativa per fini sociali che essi possono dispiegare.
Il metodo della cooperazione mediante accordi, intese e altri strumenti negoziali rappresenta, si può dire, un altro fil rouge nella trama normativa del Codice che si ritrova richiamato per finalità e su piani diversi.
Come già rilevato, esso appare ripreso, utilizzando le indicazioni offerte dal nuovo Titolo V, sebbene in forma limitata e più promessa che realizzata, come cooperazione interistituzionale al fine di consentire una possibile flessibilità e mobilità nell'assetto delle competenze amministrative.
Il Codice nulla dice circa le possibilità offerte dall'art. 116, comma 3, circa le forme e condizioni particolari di autonomia da definire con legge sulla base di apposite intese, né sul conferimento della titolarità di altre funzioni amministrative a regioni ed enti locali, e si limita a far applicazione del metodo della cooperazione sulla base dell'art. 118, comma 3, per prevedere il conferimento dell'esercizio (ovvero la delega) di ulteriori funzioni amministrative (artt. 4 e 5). Pur suscitando perplessità il fatto che si prevedano deleghe disposte non con legge ma con atti amministrativi negoziati, si tratta in ogni caso di possibilità da non lasciar cadere.
In secondo luogo, più ampiamente, il Codice fa riferimento e ripetutamente al metodo della cooperazione interistituzionale per lo svolgimento di attività di interesse comune fra Stato, regioni ed enti locali, pur evitando di richiamare e recepire le esperienze al riguardo più recenti e rilevanti.
E' noto che soprattutto negli ultimi anni mediante l'impiego degli strumenti della programmazione negoziata (dalla legge 662/1996 in poi) sono stati adottati proprio nel campo dei beni culturali intese interistituzionali e accordi di programma quadro fra Stato e regioni che hanno probabilmente rappresentato il mezzo più efficace per "fare sistema" e definire interventi in maniera più organica sul territorio.
Il Codice fa riferimento più genericamente ad accordi e intese non tanto su programmi organici, ma su singole attività e interventi.
Esso sembra spesso inquadrare la collaborazione di regioni ed enti locali in termini di ausiliarietà rispetto allo Stato e alle sue strutture, nell'ottica di quella "gerarchizzazione" delle funzioni che ispira il Codice.
Tuttavia è indubbio che esso affidi molta della riuscita nel conseguimento degli obiettivi che si propone in materia di tutela a tale azione concordata e agli apporti degli altri soggetti istituzionali. Anche per la valorizzazione si ritrova in senso inverso un analogo insieme di previsioni in ordine alla collaborazione dello Stato con regioni ed enti locali. Non si può dimenticare d'altronde che finora le risorse regionali e locali destinate al settore sono state di non poco conto rispetto alle corrispondenti statali.
Alla cooperazione interistituzionale per lo svolgimento di attività di interesse comune e per una programmazione concordata possono essere ricondotte anche le previsioni del Codice (art. 9) in ordine alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso (appartenenti ad enti ecclesiastici) da effettuarsi sulla base delle apposite intese fra Stato e regioni da una parte e le competenti autorità ecclesiastiche dall'altra.
Vi è infine una cooperazione che guarda in particolare ai soggetti privati per favorire il loro concorso nell'acquisizione di maggiori risorse come anche per consentire e promuovere la loro partecipazione nella gestione dei beni.
Le norme sparse nel Codice testimoniano e formalizzano una realtà già in gran parte esistente (si pensi al ruolo esplicato in particolare dalle fondazioni di origine bancaria, da altre fondazioni e associazioni ed enti senza scopo di lucro, nonché da altri e imprese) e danno applicazione al principio già ricordato della sussidiarietà orizzontale.
In breve, è ad una sempre più ampia assunzione di iniziativa e responsabilità da parte di persone e soggetti privati che anche il Codice si affida per la riuscita di una politica insieme organica ed efficace per i beni culturali.
E la diffusione di una sempre maggiore attenzione e sensibilità non può che essere una delle armi più efficaci al riguardo.
Ma ciò potrebbe e può essere anche più concretamente favorito se sussidiarietà sociale e sussidiarietà verticale trovassero la possibilità di realizzarsi congiuntamente attraverso la creazione di un reale sistema a rete di tutela e valorizzazione dei beni culturali.
[*] Relazione al Convegno I beni culturali in Italia dopo il Codice Urbani, Milano, Università Cattolica, 1° ottobre 2004.
Per la situazione normativa precedente al Codice si rinvia in generale al manuale a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il diritto dei beni culturali, Bologna, 2003 e bibl. ivi cit. nonché ai commentari Lo stato autonomista, a cura di G.D. Falcon ed altri, Bologna, 1998 e La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, a cura di M. Cammelli e altri, Bologna, 2000 e ai saggi contenuti ne Le istituzioni del federalismo, 1997, n. 2. Sul nuovo Codice si è tenuto presente in particolare di M. Cammelli, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: dall'analisi all'applicazione, in Aedon, 2/2004, nonché i commenti apparsi nel supplemento domenicale de Il sole 24 ore, vari numeri. Si rinvia inoltre a Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2004.