Digitalizzazione del patrimonio culturale
Strumenti giuridici per la digitalizzazione del patrimonio culturale
di Raffaella Pellegrino [*]
Sommario: 1. Le politiche europee per la digitalizzazione del patrimonio culturale. - 2. Oggetto della digitalizzazione: riproduzione di opere e materiali protetti da diritti d’autore e connessi o di pubblico dominio. - 3. (segue) Riproduzione di beni culturali. - 4. (segue) Documenti del settore pubblico: apertura dei dati e riutilizzo dell’informazione nel settore pubblico. - 5. Risultato della digitalizzazione: opere e materiali protetti da diritti d’autore e connessi e riproduzioni fedeli. - 6. (segue) Documenti del settore pubblico: accordi di esclusiva per la digitalizzazione di risorse culturali. - 7. La giurisprudenza sulla riproduzione dei beni culturali. - 8. Osservazioni conclusive.
La digitalizzazione del patrimonio culturale pone complesse questioni la cui soluzione richiede competenze multi-settoriali (p.e. tecnologiche, giuridiche), ma anche multi-disciplinari all’interno del medesimo settore. Sul piano giuridico, la digitalizzazione inizia con un atto di riproduzione di materiali culturali che, a seconda dei casi, possono essere opere e materiali protetti da diritti d’autore e connessi o di pubblico dominio, beni culturali, ma anche documenti; tali materiali possono essere nella disponibilità di soggetti privati, ma più spesso sono nella disponibilità di istituzioni culturali ed enti pubblici. Al contempo il risultato della digitalizzazione sono dati e documenti, ma possono essere nuove opere dell’ingegno di carattere creativo e materiali autonomamente tutelabili. Nel presente contributo la digitalizzazione del patrimonio culturale sarà esaminata alla luce della normativa sui diritti d’autore e connessi (l. n. 633/1941 e direttiva Ue 2019/790), sulla tutela dei beni culturali (d.lg. n. 42/2004) e sul riutilizzo dell’informazione del settore pubblico del settore pubblico (d.lg. n. 36/2006, dir. Ue 2019/1024), con l’obiettivo di fornire (senza alcuna pretesa di esaustività) una mappa iniziale per valutarne la conformità legale fin dalla progettazione, distinguendo tra oggetto della riproduzione (opere e materiali protetti o di pubblico dominio, beni culturali, documenti del settore pubblico) e risultato della riproduzione (opere e materiali protetti e non, dati e documenti del settore pubblico), ed evidenziando alcune particolarità legate alla natura, pubblica o privata, del soggetto nella cui disponibilità sono i beni digitalizzati.
Parole chiave: digitalizzazione del patrimonio culturale; strumenti legali; oggetto di riproduzione; risultato della riproduzione.
Legal instruments for the digitisation of cultural heritage
The digitisation of cultural heritage raises complex issues whose solution requires multi-sectorial (e.g. technological, legal), but also multi-disciplinary competences within the same sector. On a legal level, digitisation starts with an act of reproduction of cultural material which, depending on the case, may be works and material protected by copyright and related rights or in the public domain, cultural goods, but also documents; these materials may be hold by private entities, but more often they are held by cultural institutions and public bodies. At the same time, the result of digitisation is data and documents, but it can also be new creative works and independently protectable material. In this article, the digitisation of cultural heritage will be examined in the light of the legislation on copyright and related rights (l. no. 633/1941 and Eu Directive 2019/790), the protection of cultural heritage (d.lg. no. 42/2004) and the re-use of public sector information (d.lg. no. 36/2006, dir. Eu 2019/1024), with the aim of providing (without any claim to being exhaustive) an initial map to assess legal compliance by design, distinguishing between the object of reproduction (protected or public domain works and materials, cultural goods, public sector documents) and the result of reproduction (protected and non-protected works and materials, public sector data and documents), and highlighting some particularities related to the nature, public or private, of the entity which held the digitised assets.
Keywords: digitisation of cultural heritage; legal instruments; object of reproduction; result of reproduction.
1. Le politiche europee per la digitalizzazione del patrimonio culturale
Nell’ambito delle politiche europee per la cultura, intesa come fattore di crescita economica ma anche di coesione e di benessere sociale, la digitalizzazione e la conservazione del patrimonio culturale sono un importante ambito di azione. La Nuova agenda europea per la cultura del 2018 [1] prefigura una rivoluzione digitale per il patrimonio culturale, che consentirà “forme nuove e innovative di creazione artistica, un accesso più ampio e più democratico alla cultura e al patrimonio culturale e nuove modalità per accedere, consumare e monetizzare i contenuti culturali”.
La via da seguire è delineata sin dal 2006 con una serie di raccomandazioni con cui la Commissione incoraggia la digitalizzazione e l’accesso online del materiale culturale, di pubblico dominio o protetto da diritti di proprietà intellettuale, presente presso biblioteche, archivi e musei. Con la più recente raccomandazione 2021/1970 [2] la Commissione propone la creazione di uno spazio europeo dei dati per il patrimonio culturale, indicando Europeana (l’archivio digitale sostenuto dall’Unione Europea) come luogo in cui dovrebbero confluire i contenuti digitali realizzati dagli istituti di tutela del patrimonio culturale nell’ambito dei progetti di digitalizzazione. A tal fine sono fissati obiettivi, finali ed intermedi, ben precisi anche se privi di carattere prescrittivo: l’obiettivo ultimo da raggiungere entro il 2030 è la digitalizzazione in 3d di tutto il patrimonio culturale a rischio e il 50% dei monumenti, edifici e siti culturali più visitati fisicamente, mentre l’obiettivo intermedio, entro il 2025, è la digitalizzazione del 40% degli obiettivi globali.
Un’accelerazione imprevista verso la digitalizzazione si è poi avuta con la pandemia da Covid19 che, oltre a far emergere l’utilità dell’accesso digitale ai contenuti culturali [3], ha portato all’adozione del programma di sovvenzioni Next Generation EU, cui ha fatto seguito in Italia l’adozione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) del 2021. Ancora una volta, in tale contesto, la cultura è considerata un fattore strategico per il rilancio dell’economia e sono previsti ingenti investimenti per la digitalizzazione del patrimonio culturale al fine di favorire l’accessibilità di quanto custodito in musei, archivi, biblioteche e luoghi della cultura e di incentivare lo sviluppo di nuovi servizi da parte delle imprese cultuali e creative. Per dare seguito agli indirizzi generali, a livello nazionale, l’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale (Digital Library) ha poi adottato il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale (Pnd), accompagnato da cinque linee guida [4] che offrono modelli e suggeriscono procedure utili per affrontare le sfide organizzative e metodologiche connesse alla digitalizzazione.
La realizzazione dei progetti di digitalizzazione del patrimonio culturale pone complesse questioni la cui soluzione richiede competenze multi-settoriali (p.e. tecnologiche, giuridiche), ma anche multi-disciplinari all’interno del medesimo settore [5].
Sul piano giuridico, la digitalizzazione consiste nella “conversione di beni da un formato analogico ad un formato digitale” [6] ed inizia con un atto di riproduzione di materiali culturali che, a seconda dei casi, possono essere opere e materiali protetti da diritti di proprietà intellettuale o di pubblico dominio, beni culturali, ma anche documenti; tali materiali possono essere nella disponibilità di soggetti privati, ma più spesso sono nella disponibilità di istituzioni culturali ed enti pubblici. Contestualmente il risultato della digitalizzazione sono dati e documenti, ma possono essere nuove opere dell’ingegno di carattere creativo e materiali autonomamente tutelabili.
Sulla base di queste premesse, i progetti di digitalizzazione possono essere esaminati alla luce di differenti discipline, fra le quali (limitando l’elenco a quanto sarà oggetto di esame nel presente contributo) vi è la normativa sulla protezione del diritto d’autore e dei diritti connessi, quella sulla tutela dei beni culturali e quella sull’apertura dei dati ed il riutilizzo dell’informazione nel settore pubblico. Le prime due discipline sono parzialmente armonizzate a livello europeo: si vedano, da ultimo, la direttiva 2019/790/Ue sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale [7] e la direttiva 2019/1024/Ue relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (di seguito indicate rispettivamente anche come “direttiva Dsm” e “terza direttiva Psi”). Resta invece priva di armonizzazione la disciplina a tutela dei beni culturali, con conseguente frammentazione normativa a livello europeo e possibili criticità nella gestione degli usi transfrontalieri tipici dell’ambiente digitale.
L’applicabilità di ciascuna della predette discipline dovrà essere valutata caso per caso e fin dalla progettazione, ricordando che: (i) la digitalizzazione di opere e materiali protetti da diritti d’autore e connessi comporta un atto di riproduzione e di successiva diffusione che devono, in via di principio, essere autorizzati dai titolari dei diritti; (ii) l’oggetto e il risultato della riproduzione di un bene del patrimonio culturale pubblico possono essere documenti del settore pubblico, ma anche nuove opere dell’ingegno autonomamente tutelabili; (iii) in Italia la riproduzione dei beni culturali è soggetta alle regole del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, di seguito indicato come “Codice” o “Codice dei beni culturali”).
Nel presente contributo il tema della digitalizzazione del patrimonio culturale sarà esaminato alla luce delle predette discipline con l’obiettivo di fornire (senza alcuna pretesa di esaustività) una mappa iniziale per valutarne la conformità legale fin dalla progettazione, distinguendo tra oggetto della riproduzione (opere e materiali protetti o di pubblico dominio, beni culturali, documenti del settore pubblico) e risultato della riproduzione (opere e materiali protetti e non, dati e documenti del settore pubblico), ed evidenziando alcune particolarità legate alla natura, pubblica o privata, del soggetto nella cui disponibilità sono i beni digitalizzati. Non saranno invece oggetto di esame la normativa sul trattamento dei dati personali, da applicare qualora i beni da digitalizzare contengano dati personali, ed altre discipline la cui rilevanza andrà valutata caso per caso anche in relazione all’ambito territoriale di appartenenza dei beni e dei soggetti coinvolti.
2. Oggetto della digitalizzazione: riproduzione di opere e materiali protetti da diritti d’autore e connessi o di pubblico dominio
Nel patrimonio culturale oggetto di riproduzione a fini di digitalizzazione possono rientrare diversi tipi di opere e materiali, quali libri, riviste, giornali, fotografie, materiale sonoro e audiovisivo, che tipicamente rientrano nell’ambito di applicazione della normativa sui diritti d’autore e connessi. In questa materia è da ultimo intervenuta la citata direttiva 2019/790/Ue, volta ad armonizzare alcuni utilizzi, anche transfrontalieri, di opere e altri materiali protetti in ambiente digitale.
Da questo punto di vista, in fase di progettazione si dovrà valutare la tipologia di bene da digitalizzare ed il relativo status giuridico al fine di verificare se si tratta di opere e materiali (i) protetti, che possono essere utilizzati solo con il previo consenso degli aventi diritto tramite gestione individuale o collettiva dei diritti [8], oppure (ii) liberamente utilizzabili essendo entrati nel pubblico dominio per scadenza dei termini di durata dei diritti di esclusiva. Nel primo caso si dovrà anche valutare se è possibile beneficiare delle eccezioni e limitazioni ai diritti d’autore e connessi, che in casi speciali consentono talune utilizzazioni senza il consenso dei titolari dei diritti [9].
Tra le eccezioni rilevanti nel caso in cui i beni protetti oggetto di digitalizzazione siano nella disponibilità di istituti di tutela del patrimonio culturale vi è l’eccezione di conservazione del patrimonio culturale [10], disciplinata in Italia dall’art. 68, comma 2-bis, della legge sul diritto d’autore n. 633/1941, che ha recepito l’art. 6 della direttiva Dsm.
Si tratta di un’eccezione obbligatoria al diritto di riproduzione, che rende possibili atti conservativi delle opere e dei materiali per far fronte all’obsolescenza tecnologica o al degrado dei supporti originari, consentendo così la trasmissione nel tempo dell’importante patrimonio culturale custodito dagli istituti.
Beneficiari di tale eccezione sono solo gli istituti di tutela del patrimonio culturale, definiti come “le biblioteche, i musei, gli archivi, purché aperti al pubblico o accessibili al pubblico, inclusi quelli afferenti agli istituti di istruzione, agli organismi di ricerca e agli organismi di radiodiffusione pubblici, nonché gli istituti per la tutela del patrimonio cinematografico e sonoro e gli organismi di radiodiffusione pubblici” (art. 70-ter, comma 3, Lda). Come si vedrà in seguito, alcuni di tali enti sono anche destinatari delle norme sull’apertura dei dati e sul riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, circostanza che determina la contestuale applicabilità anche di tali disposizioni.
L’eccezione di conservazione del patrimonio culturale consente agli istituti, “per finalità di conservazione e nella misura a tal fine necessaria”, di riprodurre e realizzare copie, in qualsiasi formato e su qualsiasi supporto, di opere o di altri materiali presenti in modo permanente nelle loro raccolte. Quest’ultima condizione, come chiarisce il considerando 29 della direttiva Dsm, si verifica quando le opere ed i materiali sono di proprietà o sono stabilmente in possesso degli istituti a seguito “di un trasferimento di proprietà, di accordo di licenza, di obblighi di deposito legale o di accordi di custodia permanente”.
Un’altra norma volta ad agevolare l’utilizzazione delle collezioni custodite dagli istituti di tutela del patrimonio culturale è quella relativa alle opere fuori commercio [11] disciplinata dagli artt. 102-undecies-102-septiesdecies Lda, che hanno recepito l’art. 8 della direttiva Dsm. Non si tratta di un’eccezione in senso stretto, ma di un’utilizzazione che può essere effettuata tramite gestione collettiva dei diritti oppure in regime di eccezione ma solo qualora manchi un organismo di gestione collettiva sufficientemente rappresentativo.
Ai sensi di tale norma gli istituti di tutela del patrimonio culturale, previo rilascio di una licenza collettiva (anche con effetto esteso) da parte di un organismo di gestione collettiva, possono riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico e mettere a disposizione del pubblico a fini non commerciali le opere ed i materiali presenti in modo permanente nelle loro raccolte (artt. 102-undecies-septiesdecies Lda).
La ratio di tale disciplina, come chiarisce la stessa direttiva Dsm nel considerando 30, è consentire l’accesso al patrimonio culturale agevolando la realizzazione dei progetti di digitalizzazione su larga scala di patrimoni (culturali) che altrimenti resterebbero congelati, anche per la difficoltà di negoziare individualmente i diritti con i singoli titolari, in ragione dell’età delle opere o degli altri materiali, del loro scarso valore commerciale o del fatto che non siano mai stati destinati ad un uso commerciale (come nel caso di manifesti, volantini, opere audiovisive amatoriali).
È bene evidenziare che l’effettivo utilizzo delle opere può avvenire solo al termine di un articolato iter che si sviluppa per fasi successive e che vede il coinvolgimento attivo di diversi soggetti, ovvero: (i) gli istituti culturali, che devono valutare e verificare lo status “fuori commercio” delle opere; (ii) gli organismi di gestione collettiva, che devono accertare l’adeguatezza delle verifiche, informare i titolari ed interagire con il Ministero della cultura e l’Ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale (Euipo) e, infine, rilasciare la licenza; (iii) l’Euipo, che deve costituire e gestire una banca dati completa e di facile accessibilità. Tutto ciò con l’obiettivo comune di garantire un livello di protezione elevato ai titolari dei diritti che possono esercitare in qualsiasi momento il cd. opt-out, ossia chiedere all’organismo di gestione collettiva che ha rilasciato la licenza di escludere le opere o gli altri materiali dall’autorizzazione concessa (art. 102-quaterdecies Lda).
3. (segue) Riproduzione di beni culturali
In fase di progettazione i beni oggetto di digitalizzazione devono essere esaminati anche alla luce del già citato Codice dei beni culturali, che detta norme volte alla tutela ed alla valorizzazione del patrimonio culturale italiano di proprietà pubblica e privata, nonché regole particolari per la riproduzione dei beni culturali pubblici [12].
Da questo punto di vista, occorre innanzitutto valutare se i beni da riprodurre a fini di digitalizzazione sono “beni culturali” ai sensi del Codice e, in caso affermativo, se ci sono vincoli per la loro riproduzione derivanti dalla natura del soggetto nella cui disponibilità sono i beni stessi.
In base a tale normativa il patrimonio culturale è costituito dall’insieme di beni culturali e di beni paesaggistici. Tralasciando questi ultimi (di cui non ci si occuperà nel presente contributo), in generale sono considerati beni culturali “le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” (art. 2, comma 2, c.b.c.).
Più in particolare, ai sensi dell’art. 10 c.b.c., i beni culturali possono essere tali: (i) per ragioni soggettive dipendenti dalla natura del proprietario (comma 1); (ii) per espressa previsione di legge (comma 2); (iii) per intervenuta dichiarazione amministrativa di interesse culturale (comma 3). Nella prima categoria rientrano le cose immobili e mobili che appartengono “allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché a ogni altro ente e istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti” quando presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (comma 1), con esclusione delle cose che siano “opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni” (comma 5). In questi casi la verifica dell’interesse culturale è fatta, d’ufficio o su richiesta, nei modi previsti dall’art. 12 c.b.c., che pone una presunzione di culturalità finché non intervenga una formale verifica e sempre che si tratti di opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre settanta anni. Nella seconda categoria sono compresi i beni individuati come culturali dal comma 2 dell’art. 10 c.b.c. Nella terza categoria, infine, rientrano i beni dichiarati di interesse culturale ai sensi dell’art. 13 c.b.c. ed appartenenti ai privati o agli altri soggetti indicati nel comma 3 dell’art. 10 c.b.c.
Vi è poi un elenco di beni (quali affreschi, stemmi, graffiti, lapidi, studi d’artista ed altri) oggetto di specifiche disposizioni di tutela ai sensi dell’art. 11 c.b.c.
In presenza di “beni culturali”, occorre poi valutare se sussistono specifici obblighi dipendenti dalla natura (pubblica o privata) del soggetto nella cui disponibilità sono i beni stessi. In particolare, il Codice pone a carico di proprietari, possessori o detentori dei beni del patrimonio culturale una serie di obblighi che variano in ragione del tipo di soggetto (art. 1 c.b.c.): lo Stato e gli enti pubblici territoriali devono assicurare e sostenere “la conservazione del patrimonio culturale” e favorirne “la pubblica fruizione e la valorizzazione” (comma 3); gli altri soggetti pubblici (non territoriali) devono assicurare “la conservazione e la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale” (comma 4); i privati, infine, devono garantire “la conservazione” del patrimonio culturale (comma 5). I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica devono inoltre essere “destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela” (art. 2, comma 4, c.b.c.).
Sulla base di tali disposizioni si può dunque delineare l’esistenza di uno statuto dei beni culturali pubblici parzialmente diverso da quello per i beni culturali privati, con differenti gradazioni di doverosità a seconda del soggetto pubblico o privato che ha la disponibilità dei beni [13]. Sono, per esempio, esenti da obblighi di fruizione, ma non da quelli di conservazione e fatti salvi specifici precetti stabili dal Codice, i beni culturali di privati, diversamente dai beni culturali di appartenenza pubblica che devono essere conservati ma anche fruiti dalla collettività secondo le regole indicate dal Codice stesso che cambiano anche in base al tipo di soggetto pubblico (Stato, regioni, enti pubblici territoriali e non territoriali).
Nella fruizione del patrimonio culturale rientra anche la riproduzione, che deve essere conforme agli artt. 107 e 108 c.b.c. qualora i beni siano in consegna allo Stato, alle regioni e agli altri enti territoriali. In particolare, l’uso dei beni culturali dello Stato, delle regioni e degli altri enti territoriali può essere: (i) individuale effettuato per un periodo prolungato di tempo (art. 106 c.b.c.), (ii) strumentale e precario (art. 107 c.b.c.) oppure (iii) effettuato tramite riproduzione del bene (artt. 107 e 108 c.b.c.). L’uso, sia esso prolungato o transitorio, è caratterizzato dall’esclusività in favore di determinati soggetti con contestuale esclusione di altri e può essere concesso previo pagamento di un canone; la riproduzione, invece, attua un uso non escludente del bene, che può essere fruito contemporaneamente da più soggetti, e può essere effettuata con il pagamento di un corrispettivo [14].
L’uso prolungato o transitorio dei beni e la riproduzione sono subordinati all’autorizzazione da parte dei predetti soggetti pubblici consegnatari dei beni stessi, nonché al pagamento di un canone di concessione o di un corrispettivo di riproduzione, fatte salve le specifiche disposizioni da applicare qualora la riproduzione consista nel trarre calchi da originali o da copie, nonché quelle in materia di diritto d’autore per le opere protette (art. 107 c.b.c.).
Il canone di concessione per l’uso ed il corrispettivo di riproduzione, da corrispondere “di regola” in via anticipata, sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni sulla base di una serie di parametri indicati nel primo comma dell’art. 108 c.b.c. In particolare, i canoni di concessione per l’uso dei beni devono essere parametrati: in caso di uso stabile ex art. 106 c.b.c. al carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso (lett. a) e in caso di uso strumentale e precario ex art. 107 c.b.c. al tipo e al tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni (lett. c). I corrispettivi per la riproduzione, invece, devono essere correlati ai mezzi e alle modalità di esecuzione delle riproduzioni (lett. b), oltre che all’uso e alla destinazione delle riproduzioni, nonché ai benefici economici che possono derivare al richiedente (lett. d).
L’ultimo comma dell’art. 108 c.b.c. precisa, inoltre, che “con provvedimento dell’amministrazione concedente” sono fissati gli importi minimi dei canoni per l’uso dei beni e dei corrispettivi per la riproduzione. La determinazione degli importi minimi compete, dunque, all’amministrazione concedente che è l’amministrazione che ha in consegna i beni: ne consegue che ciascuna amministrazione potrà autonomamente gestire i beni sotto il profilo della valutazione economica determinando gli importi minimi in base ai quali sarà poi determinato il corrispettivo in concreto dovuto [15].
Se la regola generale per la riproduzione dei beni culturali dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali è quella del c.d. utilizzo pagante, ci sono dei casi caratterizzati dall’assenza di scopo di lucro in cui la riproduzione è consentita senza pagamento di un corrispettivo ma previa autorizzazione dell’amministrazione, ed altri casi in cui la riproduzione e la successiva divulgazione sono libere [16].
Il primo caso è quello disciplinato dal comma 3 dell’art. 108 c.b.c., secondo cui nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio oppure da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. In questi casi deve essere comunque effettuata una richiesta all’autorità competente, che può richiedere il rimborso delle spese sostenute per la riproduzione.
Il secondo caso, invece, è quello previsto dal comma 3-bis dell’art. 108 c.b.c., secondo cui a certe condizioni la riproduzione e la divulgazione sono libere e non necessitano di autorizzazione. In particolare, se effettuate senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale, sono libere le seguenti attività: (1) “la riproduzione di beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità ... attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né, all’interno degli istituti della cultura l’uso di stativi o treppiedi”; (2) “la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro”.
Per quanto riguarda la riproduzione dei beni culturali facenti capo al Ministero della cultura sono state recentemente elaborate, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 108 c.b.c., le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura del Ministero della cultura”, contenute nel decreto del Ministero della cultura 11 aprile 2023 rep. n. 161, da ultimo modificato dal d.m. 21 marzo 2024, rep. n. 108 [17]. Quest’ultimo decreto correttivo ha riscritto, a seguito delle numerose critiche ricevute da più parti, il contenuto delle Linee guida ministeriali.
I riferimenti normativi alla base delle ultime linee guida ministeriali sono l’art. 108 c.b.c., ma anche la direttiva 2019/1024/Ue secondo cui il riuso di taluni documenti nel settore pubblico deve essere gratuito, fatto salvo il recupero dei costi marginali e fatta eccezione per i documenti di biblioteche, musei ed archivi per i quali può essere chiesto un corrispettivo ma nel rispetto di determinati requisiti.
In sintesi, tralasciando le previsioni relative all’uso degli spazi, il pagamento di eventuali importi, a titolo di rimborso spese o di tariffa vera e propria, dipende dalla modalità di acquisizione delle immagini (eseguite da privati autonomamente o richieste all’amministrazione) e dal tipo di uso.
Quando le riproduzioni sono eseguite direttamente dai privati con mezzo proprio e ricorrono le condizioni stabilite dal sopra citato comma 3-bis dell’art. 108 c.b.c., non è necessaria l’autorizzazione e non è dovuto alcun corrispettivo; se però viene meno una delle condizioni previste dal Codice, a seconda dei casi, sarà necessaria l’autorizzazione dell’autorità che ha in consegna il bene (per esempio quando vi è uso di stativi all’interno degli istituti di cultura o di sorgenti fonti luminose) e/o sarà dovuto il corrispettivo per la riproduzione (per esempio quando la riproduzione e divulgazione sono effettuate a scopo di lucro o per fini diversi da quelli considerati liberi).
Se invece le riproduzioni sono richieste all’amministrazione è previsto, a seconda del tipo di uso, il rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione oppure il pagamento di una tariffa. Il rimborso è dovuto per gli usi previsti dai commi 3 e 3-bis dell’art. 108 c.b.c., ma anche in una serie di (otto) casi espressamente elencati nel decreto per i quali è prevista la riproduzione gratuita fatto salvo appunto il rimborso delle spese eventualmente sostenute dall’amministrazione per eseguire le riproduzioni. Si precisa poi che nessun rimborso è dovuto per le riproduzioni già disponibili online che restano liberamente scaricabili. Il pagamento di una tariffa per la riproduzione, invece, è dovuto fuori dei casi in cui è previsto il rimborso e per una serie di macro-prodotti indicati nel decreto.
In conclusione, sulla base del quadro sopra brevemente esposto, la riproduzione di un bene culturale di proprietà dello Stato, delle regioni e degli altri enti territoriali può essere effettuata previa autorizzazione e con pagamento del corrispettivo, fatti salvi i casi di utilizzazioni con rimborso spese o libere alle condizioni specificate nei commi 3 e 3-bis dell’art. 108 c.b.c. Ai beni culturali del Ministero della cultura si applicheranno anche le previsioni contenute nelle predette linee guida, che costituiscono una specificazione delle norme codicistiche. Se invece beni appartengono a soggetti pubblici diversi dallo Stato, dalle regioni e dagli altri enti territoriali non si applicano gli artt. 107 e 108 c.b.c., fermi restando gli altri eventuali obblighi di fruizione prescritti dal Codice. Se infine i beni culturali sono di proprietà privata, il proprietario potrà liberamente decidere a quali condizioni consentire la riproduzione, anche escludendola del tutto poiché su di esso non incombono obblighi di pubblica fruizione e prevale, in questa fattispecie, il diritto di proprietà.
4. (segue) Documenti del settore pubblico: apertura dei dati e riutilizzo dell’informazione nel settore pubblico
L’oggetto della riproduzione deve essere analizzato anche alla luce della normativa sul riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, applicabile qualora il bene rientri nella nozione di “documento” e sia nella disponibilità di soggetti pubblici. Da questo punto di vista, i documenti cartacei, le registrazioni audio e audiovisive, ma anche le stesse riproduzioni (fotografiche o con altro procedimento di riproduzione) di un bene del patrimonio culturale effettuate da un soggetto pubblico possono essere considerate documenti [18] riutilizzabili ai sensi di tale disciplina.
Il punto di riferimento normativo in questa materia è la direttiva 2019/1024/Ue [19], recepita in Italia dal decreto legislativo n. 200/2021 che ha modificato il decreto legislativo n. 36/2006. Resta invece marginale (e comunque non sarà oggetto di esame nel presente contributo) il più recente regolamento europeo 2022/868 relativo alla governance europea dei dati, che stabilisce le condizioni per il riutilizzo di determinate categorie di dati detenuti da enti pubblici, escludendo dal suo ambito di applicazione i dati detenuti da enti culturali e di istruzione [20]. Entrambi i predetti atti legislativi armonizzano taluni aspetti della c.d. società dei dati e, pur avendo ambiti di applicazione che non coincidono interamente, si basano sull’idea comune che “i dati generati o raccolti da enti pubblici o altre entità a carico dei bilanci pubblici debbano apportare benefici alla società” (cons. 6, reg. 2022/868).
Anche in questo caso, come già fatto in precedenza, occorre procedere ad un esame del caso concreto per valutare se sussistono le condizioni per l’applicabilità di tale disciplina, e, in caso affermativo, individuare le regole per la riproduzione ed utilizzazione dei documenti del settore pubblico.
I documenti che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2019/1024 sono definiti come “a) qualsiasi contenuto, a prescindere dal suo supporto (su supporto cartaceo o elettronico, registrazione sonora, visiva o audiovisiva); o b) qualsiasi parte di tale contenuto” (art. 2, par. 1, n. 6). Tale definizione, che fa coincidere il documento con il suo contenuto, va letta alla luce del considerando 30 che collega la nozione di documento alla rappresentazione e non al contenuto in sé: in particolare, “il termine «documento» dovrebbe comprendere qualsiasi rappresentazione di atti, fatti o informazioni - e qualsiasi raccolta dei medesimi - a prescindere dal supporto (su supporto cartaceo, in forma elettronica o sonora, visiva o audiovisiva)”. Il legislatore nazionale, in sede di recepimento, ha unito i due concetti di rappresentazione e di contenuto ed ha definito il “documento” come “la rappresentazione di atti, fatti e dati a prescindere dal supporto, cartaceo o elettronico, registrazione sonora, visiva o audiovisiva o qualsiasi parte di tale contenuto nella disponibilità della pubblica amministrazione o dell’organismo di diritto pubblico” (art. 2, comma 1, lett. c).
I documenti così individuati devono essere nella disponibilità di soggetti pubblici, ossia di pubbliche amministrazioni, organismi di diritto pubblico e imprese pubbliche e private che forniscono servizi di interesse generale, ma anche di biblioteche, comprese quelle universitarie, musei e archivi [21].
In presenza delle predette condizioni (oggettive e soggettive) vi è l’obbligo di consentire il riutilizzo dei documenti del settore pubblico, che devono pertanto poter essere utilizzati, riutilizzati e condivisi liberamente da chiunque e per qualsiasi finalità, commerciale o non commerciale, senza vincoli o con vincoli minimi, a meno che l’accesso e la condivisione siano espressamente esclusi o limitati.
Da tale principio di generale riutilizzabilità sono però esclusi una serie di documenti [22], fra cui (per quanto interessa ai fini del presente contributo) quelli nella disponibilità di enti culturali “diversi” da biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, musei e archivi [23]. Come chiarisce il considerando 65 della terza direttiva Psi, gli altri tipi di istituzioni culturali i cui documenti non sono soggetti al riutilizzo sono “le orchestre, i teatri lirici, le compagnie di ballo e i teatri, compresi gli archivi che ne fanno parte”, in ragione “della loro specificità di “arti dello spettacolo” e del fatto che quasi tutto il loro materiale è soggetto a diritti di proprietà intellettuale di terzi”.
Sono anche esclusi dall’obbligo di riutilizzo i documenti su cui terzi detengono diritti di proprietà intellettuale [24], mentre non sono esclusi quelli i cui diritti di proprietà intellettuale sono detenuti direttamente dalle biblioteche, comprese quelle universitarie, musei e archivi [25], che “dovrebbero comunque esercitare il proprio diritto di autore in maniera tale da agevolare il riutilizzo dei documenti” (cons. 54); così come l’eventuale diritto d’autore sulle banche dati spettante alle amministrazioni non può impedire o limitare il riutilizzo di documenti inseriti in tali raccolte [26].
Il riutilizzo dei documenti del settore pubblico deve essere gratuito, ma è prevista la possibilità di recuperare i costi marginali sostenuti per la riproduzione, messa a disposizione e divulgazione dei documenti, nonché per l’anonimizzazione di dati personali o per le misure adottate per proteggere le informazioni commerciali a carattere riservato [27]. Il recupero dei costi marginali è solo eventuale, in quanto gli Stati membri possono imporre costi inferiori o non imporne affatto (cons. 39 della terza direttiva Psi).
Sul piano della tariffazione è prevista un’eccezione al principio generale di gratuità (con recupero eventuale dei costi marginali) a favore di biblioteche, comprese quelle universitarie, musei e archivi che possono chiedere corrispettivi superiori (ai costi marginali) ma solo entro certi limiti [28] e ferma restando la possibilità di riutilizzo pienamente gratuito. Per garantire la trasparenza, inoltre, le tariffe devono essere definite in anticipo e sui siti istituzionali devono essere disponibili le condizioni applicabili, l’effettivo ammontare delle tariffe “compresa la base di calcolo utilizzata per tali tariffe e gli elementi presi in considerazione nel calcolo di tali tariffe” (art. 7, comma 9-ter, d.lg. 24 gennaio 2006, n. 36) [29].
Con specifico riferimento al patrimonio culturale, nel recepire la terza direttiva PSI il legislatore nazionale ha rafforzato il collegamento con il Codice dei beni culturali per i documenti nella disponibilità di biblioteche, musei e archivi, stabilendo che il riutilizzo dei documenti di tali enti deve essere autorizzato in conformità delle disposizioni codicistiche dettate per la valorizzazione e la fruizione dei beni culturali, ivi incluse quelle sulla riproduzione che prima di quest’ultima modifica non erano richiamate (art. 1, comma 2, d.lg. n. 36/2006) [30]. In ragione del richiamo al Codice dei beni culturali, il riutilizzo di un documento del settore pubblico che riproduca un bene culturale dello Stato, delle regioni e degli altri entri pubblici territoriali deve rispettare anche le regole codicistiche sulla riproduzione e la determinazione del corrispettivo di riproduzione dovrà essere fatta sulla base del combinato disposto dei principi di tariffazione dei documenti del settore pubblico e dell’art. 108 c.b.c., ove applicabile.
5. Risultato della digitalizzazione: opere e materiali protetti da diritti d’autore e connessi e riproduzioni fedeli
La valutazione degli aspetti legali di un progetto di digitalizzazione del patrimonio culturale può riguardare, da una parte, l’oggetto della riproduzione (come visto finora), e, dall’altra parte, il risultato della riproduzione. Questo, a seconda dei casi, potrà essere una riproduzione fedele o creativa, autonomamente utilizzata oppure inserita all’interno del processo produttivo di nuove opere separatamente tutelabili, ma potrà essere anche un nuovo documento del settore pubblico. Anche il risultato, dunque, andrà esaminato sulla base delle normative fin qui considerate, al fine di valutare se e quale tutela accordare a tali nuove entità e quale modello di gestione dei diritti utilizzare.
Dal punto di vista della normativa sui diritti d’autore e connessi, la riproduzione creativa, ossia frutto della creazione intellettuale dell’autore che ne riflette la personalità e si manifesta attraverso scelte libere e creative [31], sarà autonomamente tutelabile ed utilizzabile previo consenso dei titolari dei diritti, nel rispetto dei principi generali che regolano la materia.
Se invece la riproduzione è priva di originalità e fedele si possono ipotizzare diversi casi, a seconda dell’oggetto della riproduzione. Se la riproduzione ha ad oggetto un’opera protetta da diritti d’autore ed è ottenuta col processo fotografico o analogo, si potrà avere una fotografia tutelabile tramite diritti connessi (ove ricorrano le condizioni previste dall’art. 87 Lda), senza pregiudizio dei diritti sull’opera tutelata oggetto di riproduzione.
Se invece la riproduzione ha ad oggetto un’opera delle arti visive di pubblico dominio si applica il nuovo art. 32-quater Lda, secondo cui “il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non è soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, salvo che costituisca un’opera originale”, ferme restando però “le disposizioni nazionali in materia di riproduzione dei beni culturali” di cui al Codice dei beni culturali. Quest’ultimo articolo ha recepito (con modifiche) l’art. 14 della direttiva Dsm, che afferma il principio generale secondo cui i materiali di dominio pubblico dovrebbero rimanere tali una volta digitalizzati, anche perché “la protezione di tali riproduzioni attraverso il diritto d’autore o diritti connessi è incompatibile con la scadenza della protezione del diritto d’autore delle opere” (cons. 53 direttiva Dsm).
Il legislatore italiano si è però allontanato da tale principio poiché, a prescindere dal tipo di risultato (riproduzione creativa o fedele) e dalla scadenza dei diritti, la riproduzione di opere figurative di pubblico dominio che siano anche “beni culturali” deve essere effettuata nel rispetto delle disposizioni del Codice dei beni culturali [32]. Tale scelta, espressione di un orientamento politico volto alla tutela rafforzata del patrimonio culturale italiano oltre i confini temporali del diritto d’autore, pone questioni di conformità della norma nazionale con gli obblighi previsti dalla direttiva Dsm: tale estensione, infatti, può ostacolare l’obiettivo di armonizzare le norme relative alla circolazione delle riproduzioni fedeli di opere visive di pubblico dominio nel mercato unico digitale e, più in generale, vanificare l’esistenza stessa del pubblico dominio basato sulla durata limitata dei diritti d’autore e connessi.
A complicare ulteriormente il già confuso rapporto tra disciplina privatistica di diritto d’autore e disciplina pubblicistica dei beni culturali, è intervenuta la giurisprudenza italiana che, con orientamento ormai consolidato (come di vedrà nel par. 7), ammette un diritto all’immagine dei beni culturali, quale entità immateriale diversa ed ulteriore al bene materiale.
Il risultato della digitalizzazione, infine, può essere una nuova opera dell’ingegno diversa ed ulteriore rispetto alla mera riproduzione, autonomamente tutelabile secondo i principi generali in materia di diritti d’autore e connessi. Così, per esempio, un’opera multimediale o audiovisiva, un videogioco ed altre opere e materiali di varia natura saranno tutelabili tramite diritti d’autore e connessi, così come dagli altri diritti di proprietà intellettuale, ove ne ricorrano i rispettivi presupposti. Tali nuove entità potrebbero rientrare nel c.d. patrimonio culturale nato digitale, che la raccomandazione 2021/1970 definisce come “i beni creati in forma digitale, quali l’arte o l’animazione digitale, i musei virtuali, senza un equivalente analogico, o i contenuti creati al di fuori degli istituti di tutela del patrimonio culturale, come i social media o l’industria dei videogiochi”.
6. (segue) Documenti del settore pubblico: accordi di esclusiva per la digitalizzazione di risorse culturali
Il risultato di un atto di riproduzione, realizzato nell’ambito di un progetto di digitalizzazione del patrimonio culturale sviluppato da un soggetto pubblico, può essere un nuovo “documento” da inquadrare secondo la già richiamata normativa sul riutilizzo dell’informazione del settore pubblico.
In aggiunta ai principi già esposti sul riutilizzo dei documenti pubblici, occorre qui fare riferimento ad alcuni aspetti relativi alla gestione contrattuale dei documenti stessi da parte dei soggetti pubblici, senza però esaminare l’aspetto dell’individuazione del partner privato secondo il codice dei contratti pubblici (d.lg. n. 36/2023) [33].
In via di principio è vietato il riconoscimento di diritti di esclusiva negli accordi tra soggetti pubblici e partner privati. È però prevista una deroga nei casi di digitalizzazione di risorse culturali, in cui è possibile attribuire diritti di esclusiva a favore di terzi per un periodo non superiore a sette anni (art. 11, comma 3, d.lg. 36/2006), ma se l’esclusiva eccede tale periodo la sua durata è soggetta a riesame nel corso dell’ottavo anno e, successivamente, ogni cinque anni. La ratio di tale deroga è di agevolare i partenariati pubblico-privati e di consentire ai privati di recuperare gli investimenti fatti, essenziali per la digitalizzazione del patrimonio culturale e la sua conseguente accessibilità da parte della collettività.
A garanzia del principio di trasparenza del settore pubblico, è comunque stabilito che gli accordi che concedono diritti di esclusiva siano resi pubblici online e riconoscano agli enti pubblici il diritto di ricevere, a titolo gratuito, una copia delle risorse culturali digitalizzate che al termine del periodo di esclusiva sarà resa disponibile per il riutilizzo.
7. La giurisprudenza sulla riproduzione dei beni culturali
La contestuale applicabilità di differenti discipline non interamente armonizzate a livello europeo ed il carattere transfrontaliero dell’ambiente digitale rende il quadro giuridico per la digitalizzazione del patrimonio culturale incerto e affida, in ultima istanza, la risoluzione di eventuali contrasti interpretativi alle decisioni dell’autorità giudiziaria.
Emblematiche di tale conflittualità sono le vicende giudiziarie relative alla riproduzione per fini commerciali dell’immagine del David di Michelangelo (Tribunale di Firenze), dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci (Tribunale di Venezia) e, da ultimo, del dipinto del Duca Francesco I d’Este di Diego Velázquez (Corte di appello di Bologna), ossia beni culturali in consegna rispettivamente alla Galleria dell’Accademia di Firenze, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia e alla Galleria Estense di Modena.
Tali precedenti meritano attenzione poiché, da una parte, hanno rafforzato l’impatto del Codice dei beni culturali in ragione del riconoscimento di un autonomo (e discusso, quanto meno in dottrina) diritto all’immagine dei beni culturali basato sugli artt. 107 e 108 c.b.c. [34]; dall’altra parte, hanno posto sotto i riflettori la questione dell’ambito di applicazione territoriale del Codice e del suo possibile contrasto con il diritto dell’Unione.
Il provvedimento più recente è quello della Corte di Appello di Bologna [35] relativo alla riproduzione dell’immagine del ritratto del Duca d’Este di Velázquez all’interno del marchio (figurativo) di un’impresa modenese produttrice di aceto balsamico, senza pagamento del corrispettivo per la riproduzione. Tale vicenda, pur essendo caratterizzata da articolate e specifiche circostanze di fatto che hanno avuto inizio nel lontano 1985 (quali, per esempio, la richiesta per l’uso dell’immagine con successiva autorizzazione, su parere conforme delle autorità competenti, e con determinazione di un canone annuo), rappresenta un ulteriore passo verso il riconoscimento giurisprudenziale del diritto all’immagine dei beni culturali come diritto della personalità azionabile dalle amministrazioni consegnatarie.
La corte felsinea dà per certa l’esistenza del diritto all’immagine dei beni culturali ed approfondisce il rapporto tra disciplina pubblicistica contenuta nel Codice dei beni culturali e disciplina privatistica di diritto d’autore. Secondo i giudici si tratterebbe di discipline che non interferiscono fra loro: la prima tutela il patrimonio artistico nazionale ed è volta “a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura in attuazione dell’art. 9 Cost.”; la seconda, invece, è volta a proteggere le opere dell’ingegno di carattere creativo e il lavoro intellettuale degli autori. Di conseguenza il diritto all’immagine dei beni culturali non sarebbe un nuovo diritto di proprietà intellettuale, ma un diritto che opera su un piano diverso e sulla base di presupposti differenti. In ragione della diversa natura delle due discipline la durata illimitata del diritto all’immagine non sarebbe pertanto irragionevole, poiché la tutela pubblicistica è espressione di un’identità collettiva che l’ordinamento intende preservare nel tempo. Così argomentano sarebbe superata l’obiezione della contrarietà del Codice dei beni culturali alle disposizioni internazionali che stabiliscono una scadenza alla protezione ai sensi del diritto d’autore a favore del pubblico dominio [36].
La decisione della corte d’appello è in linea e richiama espressamente nell’iter argomentativo i noti precedenti del Tribunale di Firenze e di Venezia, che avevano già ammesso l’esistenza del diritto all’immagine dei beni culturali.
Nel 2023 il Tribunale di Firenze [37], in relazione alla riproduzione non autorizzata dell’immagine modificata del David di Michelangelo nella copertina di una rivista edita dalla Condè Nast, aveva affermato l’esistenza di un diritto all’immagine dei beni culturali fondato sugli artt. 107 e 108 c.b.c. che “rimettono alle amministrazioni consegnatarie il potere di legittimare, attraverso il proprio consenso, la riproduzione dei beni culturali”, “al pari del diritto all’immagine della persona, positivizzato all’art. 10 c.c.”. Tale diritto all’immagine sarebbe caratterizzato da un quid pluris, diverso dal mero sfruttamento economico della riproduzione, che consiste nella valutazione da parte delle amministrazioni della compatibilità delle modalità di utilizzo con le finalità di tutela dei beni culturali. Di conseguenza, la legittima riproduzione di un bene culturale necessita del pagamento di un corrispettivo, ma anche del consenso dell’amministrazione all’utilizzo dell’immagine reso all’esito di una valutazione discrezionale circa la compatibilità dell’uso prospettato con la destinazione culturale ed il carattere storico-artistico del bene.
Negli stessi termini anche il Tribunale di Venezia [38] aveva riconosciuto il diritto all’immagine dell’Uomo Vitruviano, bene culturale la cui immagine era stata riprodotta e commercializzata dalla Ravensburger in un puzzle senza l’autorizzazione e il pagamento del corrispettivo stabilito dal “Regolamento per la riproduzione dei beni culturali in consegna alle Gallerie dell’Accademia di Venezia”, elaborato ai sensi dell’art. 108 del Codice dei beni culturali. Anche in questo caso era stata riconosciuta l’esistenza del diritto all’immagine del bene culturale, inteso come un’entità immateriale “distinta dal supporto materiale cui inerisce e costituente un valore identitario collettivo destinato alla fruizione pubblica”, meritevole di tutela rafforzata che può essere azionata dall’amministrazione consegnataria del bene che è anche titolare del potere di autorizzare la riproduzione tenendo conto la sua destinazione.
Un’altra questione posta davanti al Tribunale di Venezia, non presente negli altri casi ove erano coinvolti solo soggetti con sede in Italia, riguarda l’ambito di applicazione territoriale del Codice dei beni culturali, che secondo i giudici travalica i confini nazionali e copre il territorio europeo ed internazionale, ragione per cui l’inibitoria contro la Ravensburger è stata concessa senza limiti territoriali.
Tuttavia, per impedire l’esecuzione del provvedimento italiano all’estero e la conseguente applicazione delle norme del Codice a soggetti basati all’estero e che svolgono fuori dai confini italiani l’attività contestata, la Ravensburger ha adito la Corte regionale di Stoccarda che, con sentenza del 2024 [39], ha affermato che il ministero e le Gallerie non possono impedire fuori dal territorio italiano la riproduzione del bene culturale sulla base del codice nazionale, che ha efficacia solo in Italia.
Tutti i sopra citati precedenti giurisprudenziali italiani, sia in sede cautelare che di merito, hanno argomentato richiamando alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità che aveva riconosciuto un diritto all’immagine anche relativamente a beni privi di qualsiasi tutela e oggetto del solo diritto di proprietà privata. È il caso, per esempio, della riproduzione di una barca in un calendario senza autorizzazione del proprietario del bene, ove la Corte di cassazione ha ammesso la tutela del diritto all’immagine e al nome di beni in ragione del loro valore economico [40].
Tornando alla digitalizzazione del patrimonio culturale è evidente che i principi affermati dalla giurisprudenza nazionale rilevano anche in caso di digitalizzazione, che (come visto sopra) ha inizio con un atto di riproduzione di materiali che possono rientrare nell’ambito di applicazione del Codice dei beni culturali. Nella pianificazione dei progetti di digitalizzazione occorre dunque prendere atto del (sempre più) consolidato orientamento interpretativo nazionale che ammette un diritto all’immagine dei beni culturali, pur con diverse criticità che saranno probabilmente affrontate in sede giudiziale nei prossimi anni.
Il tema principale resta il rapporto tra la disciplina pubblicistica dei beni culturali e la disciplina privatistica di diritto d’autore [41] in relazione a opere e materiali inizialmente protetti da diritti d’autore e connessi e successivamente attratti nel raggio di azione temporalmente illimitato della disciplina codicistica. Si considerino, per esempio, le opere dell’architettura e le opere figurative acquisite o commissionate dallo Stato, dalle regioni e dagli altri enti territoriali rispetto alle quali, in caso di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga a oltre settanta anni, vi è una presunzione di culturalità.
L’assoggettamento di tali beni divenuti “culturali” alle disposizioni codicistiche e al connesso diritto (illimitato) all’immagine dei beni culturali avrebbe la conseguenza di vanificare l’esistenza del pubblico dominio quale principio cardine del sistema di diritto d’autore, volto a tutelare l’interesse collettivo alla diffusione della cultura dopo un periodo di sfruttamento in esclusiva [42]. Inoltre, il sacrificio dell’esigenza dell’intera società alla libera fruizione culturale non sarebbe necessariamente compensato dalla pubblica fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale garantiti dal Codice dei beni culturali. In tal senso infatti sono ormai note, come evidenziato anche dalla Corte dei Conti che è intervenuta nel dibattito sulla digitalizzazione del patrimonio culturale, le difficoltà pratiche che incontrano gli enti pubblici nella gestione del patrimonio culturale e che dovrebbero indurre gli interessati ripensare i modelli i modelli di gestione abbandonando una visione strettamente proprietaria e monopolistica [43]. In quest’ottica, dunque, andrebbero emulate ed implementate le politiche di alcuni musei, anche nazionali (per esempio il Museo Egizio di Torino), volte a promuovere l’accesso aperto al proprio patrimonio culturale.
Il quadro normativo fin qui delineato costituisce una mappa iniziale ed esemplificativa degli aspetti giuridici da valutare (auspicabilmente) fin dalla progettazione nell’ambito dei processi produttivi di digitalizzazione del patrimonio culturale, sia essa curata da soggetti pubblici, privati o in partenariati pubblico-privato.
Più in generale, come suggerisce la Commissione nella già citata raccomandazione 2021/1970, questi progetti dovrebbero essere pianificati adottando un approccio olistico, che con una visione d’insieme prenda in considerazione i differenti aspetti (quali, per esempio, la finalità dei progetti, i gruppi di utenti destinatari, la qualità dei contenuti digitali e la loro conservazione), e dovrebbero essere supportati dalle necessarie risorse finanziarie ed umane.
In particolare, sul piano finanziario, per i progetti sostenuti con fondi dell’Unione Europea, la Commissione raccomanda (racc. 2021/1970) la messa a disposizione dei contenuti digitalizzati in Europeana, con conseguente adozione degli standard su cui si basa questa piattaforma. Da questo punto di vista l’implementazione di un archivio digitale europeo soggetto a condizioni d’uso condivise potrebbe indirettamente contribuire alla certezza dei rapporti giuridici, nella misura in cui i contenuti digitali messi a disposizione su Europeana saranno soggetti a termini e condizioni condivisi.
Dal punto di vista giuridico, si dovranno valutare le specificità normative vigenti a livello nazionale ed integrarle con gli obblighi di natura contrattuale posti dal soggetto finanziatore.
In Italia, per esempio, a completare il quadro normativo di riferimento concorrerà anche il Codice dei beni culturali ed i provvedimenti prescrittivi ad esso collegati, da interpretare anche alla luce delle decisioni giudiziarie che applicano in concreto a tali norme. Nel nostro ordinamento, infatti, pur se i precedenti giudiziari fanno stato solo fra le parti, possono avere un’efficacia persuasiva in casi analoghi, con intensità variabile a seconda che la decisione sia di un giudice di merito o di legittimità.
In un’ottica evolutiva l’impostazione nazionale che mira al controllo del patrimonio pubblico dovrà confrontarsi con le politiche europee che incoraggiano l’accesso aperto al patrimonio culturale anche per fini commerciali e che possono operare su un duplice livello: normativo, qualora norme di matrice europea introducano obblighi di apertura, e contrattuale, qualora nell’ambito di progetti finanziati le istituzioni concedenti prevedano obblighi di apertura a carico dei beneficiari. Non solo, ma considerare la riproduzione dei beni culturali principalmente come mera fonte di reddito può diventare controproducente e contrario agli obblighi di valorizzazione che lo stesso Codice dei beni culturali pone a carico dei soggetti pubblici. La valorizzazione, infatti, consiste anche in “attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso ... al fine di promuovere lo sviluppo della cultura” (art. 6, comma 1, c.b.c.), ferme restando le imprescindibili esigenze di tutela. È evidente che un aumento dei costi per la riproduzione dei beni culturali o un’eccessiva incertezza circa le condizioni d’uso di questi beni può disincentivare gli operatori dall’intraprendere progetti di digitalizzazione di beni culturali pubblici a favore di altri beni di più agevole accesso e riutilizzo.
Note
[*] Raffaella Pellegrino, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di scienze giuridiche, Università degli Studi di Bologna, Via Zamboni 22, 40126 Bologna, raffaella.pellegrino@unibo.it.
[2] La raccomandazione 2021/1970/Ue (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32021H1970&from=EN) è stata preceduta dalla raccomandazione 2011/711/UE sulla digitalizzazione e l’accessibilità in rete dei materiali culturali e sulla conservazione digitale (https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:283:0039:0045:IT:PDF), che ha sostituito la precedente raccomandazione 2006/585/Ce sulla digitalizzazione e l’accessibilità on line del materiale culturale e sulla conservazione digitale (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32006H0585).
[3] Per un esame dei provvedimenti governativi che in periodo di pandemia hanno portato alla chiusura dei luoghi della cultura, facendo emergere nuove forme di valorizzazione del patrimonio culturale (non più in loco), si veda: A. Ciervo, La chiusura dei musei e degli altri istituti e luoghi di cultura pubblici durante l’emergenza sanitaria, in Aedon, 2020, 2.
[4] Il Pnd e le linee guida sono consultabili in Aedon, 2022, 2. Di particolare interesse, rispetto ai temi trattati nel presente contributo, sono le “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale”.
[5] Per un esame delle molteplici questioni giuridiche che caratterizzano, con profili di problematicità, le attività di digitalizzazione delle collezioni museali si veda: M. Croce, La digitalizzazione delle collezioni museali Stato dell’arte e prospettive, in Aedon, 2023, 2.
[6] In questi termini cfr. raccomandazione 2021/1970/Ue, Definizioni.
[7] In materia di diritti d’autore e connessi si vedano anche la direttiva 2012/28/Ue su taluni utilizzi consentiti di opere orfane (attuata in Italia dal d.lg. n. 163/2014) e la direttiva 2014/26/UE sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e connessi e sulla concessione di licenze multi-territoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno (attuata in Italia dal d.lg. n. 35/2017).
[8] La normativa di riferimento in materia di gestione collettiva dei diritti d’autore e connessi è contenuta nella già citata direttiva 2014/26/Ue. Per approfondimenti sul tema della gestione collettiva dei diritti si veda, fra gli altri: G. Remotti, La gestione collettiva dei diritti d’autore e connessi, Giuffrè, 2024; M.L. Bixio, Modelli di gestione collettiva a tutela dei diritti d'autore: itinerari tra dinamiche concorrenziali ed interferenze di diritto sovranazionale, Giappichelli, 2020; D. Sarti, Il licensing collettivo, in AIDA, 2019, pag. 148 ss.
[9] Sul regime delle eccezioni in materia di diritti d’autore alla luce della direttiva DSM e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, si veda: C. Sganga, Le mille sorti e progressive delle eccezioni nel diritto d’autore europeo tra obbligatorietà, discrezionalità e flessibilità, in AIDA, 2021, pag. 449 ss.
[10] Si veda: A. Musso, Eccezioni e limitazioni ai diritti d’autore nella direttiva UE n. 790/2019, in Dir. Inf., 2020, pag. 411 ss.; F. Benatti, Le “nuove” eccezioni e limitazioni al diritto d’autore introdotte dal d.lgs. n. 177/2021, in Giur. comm., 2023, pag. 639 ss.
[11] Si veda: P. Attanasio e R. Pellegrino, L’impatto del recepimento della Direttiva 2019/790/UE sulla gestione collettiva dei diritti nel settore librario, in Sistema Editoria, 2023, pag. 31 ss.; G. Carraro, Le eccezioni per le opere fuori commercio, in AIDA, 2019, pag. 22 ss.
[12] Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Giuffrè, 2019.
[13] Sul punto v. il commento agli artt. 1-2, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, cit., pag. 12 ss.
[14] Sulla riproduzione dei beni culturali si veda: R. De Meo, La riproduzione digitale delle opere museali fra valorizzazione culturale ed economica, in Dir. inf. 2019, pag. 669 ss.; E. Sbarbaro, Codice dei beni culturali e diritto d’autore: recenti evoluzioni nella valorizzazione e nella fruizione del patrimonio culturale, in Riv. dir. ind. 2016, I, pag. 63 ss.
[15] Nella vigenza dell’abrogato art. 115, comma 7, del d.lg. 490/1999 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione dei beni erano fissati con decreto ministeriale. L’attuale Codice dei beni culturali ha modificato tale impostazione, attribuendo tale competenza alle singole amministrazioni (art. 108, comma 6). In tal senso si veda: C. Ventimiglia, Commento agli artt. 106-110, cit., pag. 995; A.L. Tarasco, Concessioni d’uso dei beni pubblici e politiche di prevenzione della corruzione, in Riflessioni in tema di lotta alla corruzione, (a cura di) M. Nunziata, Carocci Editore, 2017, pag. 481.
[16] Si veda: G. Gallo, Il decreto Art Bonus e la riproducibilità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 3.
[17] Il d.m. 2023, n. 161 è stato modificato una prima volta dal d.m. 1° maggio 2023, rep. n. 187 per la correzione di errori materiali, ed una seconda volta dal d.m. 21 marzo 2024, rep. n. 108 che ne ha rivisto in modo sostanziale il contenuto e la stessa nomenclatura. In dottrina si veda: G. Calculli, Il d.m. 21 marzo 2024, n. 108 del ministero della Cultura: un passo avanti, un passo indietro, in Aedon, 2024, 2. Per un’analisi della versione inziale del d.m. 161/2023 si veda anche: D. Manacorda, Un decreto inopportuno: appunti di un archeologo, in Aedon, 2023, 2; G. Piperata, I beni del patrimonio culturale tra canoni e corrispettivi, in Aedon, 2023, 2; F. Rossi, Una riflessione sull’impatto del d.m. 161 del 2023 sui musei italiani non statali, in Aedon, 2023, 2; G. Sciullo, Il d.m. 161 del 2023: un’analisi giuridica, in Aedon, 2023, 2.
[18] Sulla riconducibilità della riproduzione fotografica di un bene culturale o di opere delle arti visive alla nozione di documento si veda: G. Sciullo, “Pubblico dominio” e “Dominio pubblico” in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019/1024, in Aedon, 2021, 1, par. 4.
[19] La direttiva 2019/1024/Ue è la c.d. terza direttiva PSI (Public Sector Information) che ha abrogato la precedente direttiva 2003/98/Ce (c.d. prima direttiva PSI), che a sua volta era stata modificata, a seguito del riesame della Commissione, dalla direttiva 2013/37/Ce (c.d. seconda direttiva PSI).
[20] Il regolamento 2022/868 contiene un elenco di categorie di dati esclusi dal riutilizzo e, fra questi, i “dati detenuti da enti culturali e di istruzione” (art. 3, par. 2, lett. c. reg.). Come chiarisce il considerando 12, i “dati detenuti da istituti culturali, quali biblioteche, archivi e musei, nonché orchestre, compagnie d’opera o di balletto e teatri, e da istituti di istruzione non dovrebbero rientrare nel campo di applicazione del presente regolamento in quanto le opere e gli altri documenti in loro possesso sono prevalentemente coperti da diritti di proprietà intellettuale di terzi”.
[21] L’obbligo di rendere riutilizzabili i documenti di biblioteche, comprese quelle universitarie, musei ed archivi è stato introdotto già con la seconda direttiva PSI (2013/37/Ue), che ha esteso anche a questi soggetti l’applicabilità di tale disciplina.
[22] Cfr. art. 1, par. 2, direttiva 2019/1024 e art. 3 d.lg. n. 36/2006.
[23] Cfr. art. 1, par. 2, lett. j), direttiva 2019/1024 e art. 3, comma 1, lett. d), d.lg. n. 36/2006.
[24] Cfr. art. 1, par. 2, lett. c), direttiva 2019/1024 e art. 3, comma 1, lett. h), d.lg. n. 36/2006. La disciplina sul riutilizzo dell’informazione nel settore pubblico non incide sulla tutela dei diritti di proprietà intellettuale di terzi che, ai fini di questa disciplina, sono “esclusivamente il diritto d’autore e i diritti connessi, comprese le forme di protezione sui generis” (cons. 54). In relazione ai diritti di terzi il successivo considerando 55 precisa che “[s]e un terzo detiene diritti di proprietà intellettuale su un documento in possesso di biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, musei e archivi e il termine della durata della protezione non è ancora scaduto, tale documento dovrebbe essere considerato, ai fini della presente direttiva, un documento su cui dei terzi detengono diritti di proprietà intellettuale”.
[25] Cfr. art. 3, par. 2, direttiva 2019/1024 e art. 1, comma 2, d.lg. n. 36/2006.
[26] Cfr. art. 1, par. 6, direttiva 2019/1024 e art. 3, comma 1-bis, d.lg. n. 36/2006.
[27] Cfr. art. 6, par. 1, direttiva 2019/1024 e art. 7, comma 1, d.lg. n. 36/2006.
[28] L’art. 7, comma 3-bis, d.lg. n. 36/2006 (come già l’art. 6, par. 5, direttiva 2019/1024), stabilisce che qualora gli enti culturali chiedano un corrispettivo il “totale delle entrate provenienti dalla fornitura o dall’autorizzazione al riutilizzo dei documenti in un esercizio contabile non può superare i costi marginali del servizio reso, comprendenti i costi di raccolta, produzione, riproduzione, diffusione, archiviazione dei dati, conservazione e gestione dei diritti e, ove applicabile, di anonimizzazione dei dati personali e delle misure adottate per proteggere le informazioni commerciali a carattere riservato, maggiorati di un utile ragionevole sugli investimenti”. Inoltre, per utile ragionevole si intende “una percentuale della tariffa complessiva, in aggiunta a quella necessaria per recuperare i costi ammissibili, non superiore a cinque punti percentuali oltre il tasso di interesse fisso della BCE” (art. 2, lett. i-bis, d.lg. n. 36/2006).
[29] Cfr. art. 7 direttiva 2019/1024.
[30] Il d.lg. n. 200/2021, di recepimento della terza direttiva Psi, ha modificato l’art. 1, comma 2, del d.lg. n. 36/2006 facendo salva l’applicazione, oltre che degli artt. 122-130 c.b.c. (parte II, titolo II, capo III, “Principi della valorizzazione dei beni culturali”) già richiamati dalla precedente formulazione della norma, anche degli artt. 101-110 c.b.c. (parte II, titolo II, capo I, “Fruizione dei beni culturali”).
[31] Sul concetto di creatività in dottrina si veda: A Musso, Del diritto di autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Zanichelli Editore 2008, pag. 21 ss. In giurisprudenza da ultimo: Corte cass. civ., 29/04/2024, n. 11413, in Ced. Cass. civ. 2024.
[32] In dottrina si veda: M. Ricolfi, Le immagini del patrimonio culturale: illusioni perdute o nuove direzioni di marcia?, in Dir. Informazione e Informatica, 2024, pag. 1 ss.; C. Sappa, Qualche prima osservazione sul nuovo art. 32-quater l.a., in Giur. It., 2022, pag. 1262 ss.; M. Modolo, La riproduzione del bene culturale pubblico tra norme di tutela, diritto d’autore e diritto al patrimonio, in Aedon, 2021, 1; M. Arisi, Riproduzioni di opere d’arte visive in pubblico dominio: l’articolo 14 della Direttiva (EU) 2019/790 e la trasposizione in Italia, in Aedon, 2021, 1.
Sul rapporto tra diritto d’autore e codice dei beni culturali con particolare riferimento alla c.d. libertà di panorama ed all’art. 14 della direttiva DSM sulla riproduzione di opere di pubblico dominio cfr. anche: G. Dore, P. Turan, When Copyright Meets Digital Cultural Heritage: Picturing an EU Right to Culture in Freedom of Panorama and Reproduction of Public Domain, in IIC - International Review of Intellectual Property and Competition Law, 2024, pagg. 37-64, https://doi.org/10.1007/s40319-023-01408-6.
[33] Sui rapporti di partenariato pubblico-privato alla luce del codice dei contratti pubblici si veda: N. Vettori, Le “forme speciali di partenariato” per la valorizzazione dei beni culturali: la causa di comunione di comunione di scopo quale elemento di specialità, in Aedon, 2024, 1; M. D’Isanto, Il partenariato speciale pubblico-privato nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Aedon, 2023, 2; G. Manfredi, I beni culturali nel terzo codice dei contratti pubblici: continuità, discontinuità, delegificazione, in Aedon, 2023, 2; G. Sciullo, Il partenariato pubblico-privato in tema di patrimonio culturale dopo il Codice dei contratti, in Aedon, 2021, 3 (in relazione all’abrogato d.lg. n. 50/2016).
[34] Sul dibattito in dottrina circa l’esistenza di un diritto all’immagine dei beni culturali, si veda: C. Videtta, Le immagini dei beni culturali. Riflessioni a margine del dibattito, in Aedon, 2024, 2; A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo), in Aedon, 2023, 2; P. Forte, Il terzo Valore, in Aedon, 2023, 2; G. Resta, Le immagini dei beni culturali pubblici: una critica al modello proprietario, in Dir. Inf., 2023, pag. 143 ss.; A. Pirri Valentini, La riproduzione dei beni culturali: tra controllo pubblico e diritto all’immagine, in Giorn. dir. amm., 2023, 2, pag. 251 ss.
[35] App. Bologna, sent. 24 settembre 2024, n. 1792. Per un primo commento si veda: E. Rosati, Bologna Court of Appeal confirms that Italian image rights extend to cultural assets (which cannot be used commercially without authorization), in https://ipkitten.blogspot.com/2024/10/bologna-court-of-appeal-confirms-that.html.
[36] Si tratta, in particolare, della direttiva 2006/116/CE concernente la durata di protezione del diritto d’autore e di alcuni diritti connessi e dell’art. 14 della direttiva UE 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale.
[37] Trib. Firenze, sent. 20 aprile 2023, n. 1207, in Aedon, 2023, 2, nonché in Il Foro It., 2023, I, pag. 2256 ss., con nota di richiami e commento di R. Caso, Il David, l’Uomo Vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?
In passato il Tribunale di Firenze si era già pronunciato in sede cautelare sulla riproduzione del David, affermando gli stessi principi poi ripresi nella citata sentenza del 2023. In tal senso si veda: Trib. Firenze, ord. 11 aprile 2022, n. 1912, in Aedon, 2023, 2, nonché in Giur. Comm., 2024, pag. 269 ss., II, con nota di C. Vasta, Un diritto di esclusiva per tutelare il David di Michelangelo; Trib. Firenze, ord. 26 ottobre 2017, in Aedon, 2017, 3, nonché in Riv. dir. ind., 2018, I, pag. 277 ss., con nota di M.L. Franceschelli, La riproduzione di beni culturali a scopo di lucro.
[38] Trib. Venezia, ord. 24 ottobre 2022, in Aedon, 2023, 2.
[39] Corte regionale di Stoccarda, provvedimento del 18/03/2024, rif. 170247/22.
[40] Cass., 11 asgoto 2009, n. 18218, in Danno e resp., 2010, pag. 471 ss., con commento di G. Resta, L’immagine dei beni in Cassazione, ovvero: l’insostenibile leggerezza della logica proprietaria, ivi, pag. 477 ss., nonché di M. Pastore, Prove (a)tecniche di tutela esclusiva dell’immagine dei beni, ivi, pag. 486 ss.
[41] Sulla coesistenza e sul necessario coordinamento tra diritto d’autore e diritto dei beni culturali, con specifico riferimento alle riproduzioni fotografiche, si veda: A. Musso, Opere fotografiche e fotografie documentarie nella disciplina dei diritti di autore connessi: un parallelismo sistematico con la tutela dei beni culturali, in Aedon, 2010, 2.
[42] Si veda: P. Greco e P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno, in Trattato di diritto civile, Utet, 1974, pag. 192; A. Musso, Del diritto di autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche, cit., pag. 424 ss.
[43] In relazione ai rigidi criteri tariffari per la riproduzione dei beni culturali del MiC contenuti nel d.m. 161/2023, la Corte dei Conti ha rilevato come l’obsoleta visione proprietaria, alla base del decreto può risultare dannosa per la collettività in termini di rinunce e di occasioni perdute a causa dell’aumento dei costi e delle carenze gestionali delle strutture pubbliche, andando così in controtendenza con gli obiettivi di valorizzazione del patrimonio culturale e di circolazione delle conoscenze. In tal senso cfr. Corte dei Conti deliberazione 12/10/2022, n. 50/2022/G, e deliberazione del 20 ottobre 2023, n. 76/2023/G. Circa la necessità di ripensare il sistema di gestione del patrimonio culturale anche nei processi di digitalizzazione si veda: K. Kurcani, La riproduzione dei beni culturali: la tutela del bene alla prova della liberalizzazione della sua immagine, in Aedon, 2023, 2.