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Canoni e corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni culturali: prime riflessioni sul d.m. 161/2023

Un decreto inopportuno: appunti di un archeologo [*]

di Daniele Manacorda [**]

Sommario: 1. Un decreto assai inopportuno. - 2. Un “mostro giuridico”. - 3. Voglia di censura. - 4. Immateriale funzionale e retaggi ideologici. - 5. Una pluralità di argomenti. - 6. Al di là degli schieramenti.

An inappropriate decree: notes of an archaeologist
The subject of the use of public cultural heritage images has long been tangled in a clutter that is difficult to unravel. A first level, which concerns the provision of the image or its direct execution (nowadays easily accessible thanks to new technologies), is superimposed by a second level, which concerns the use of the image, which is still prevented when it is related to commercial activities. A third level, which claims to assess the content (aesthetic, ethical, cultural...) of forms of use, enters the sphere of freedom of expression with censorial purposes. In the recent decree 161 of the Minister of Culture, these three planes are paradigmatically confused and generate the confusion of which they are in part the product.

Keywords: reproduction of cultural heritage; image; copyright; freedom of expression; censorial purposes.

1. Un decreto assai inopportuno

Il recente decreto ministeriale 161 [1] ha suscitato un coro di proteste assai variegato, sollevando indignazione anche in quanti fino ad ora erano rimasti un po’ alla finestra rispetto al tema della libera fruizione delle immagini del patrimonio culturale pubblico. È utile riflettere sul perché. Da tempo il tema delle immagini del patrimonio culturale pubblico si avviluppa infatti in un groviglio che non si riesce a dipanare.

A un primo livello, che concerne la fornitura dell’immagine, sotto forma di supporto materiale o digitale, o la sua diretta esecuzione resa oggi alla portata di chiunque grazie alle nuove tecnologie, si sovrappone un secondo livello, che riguarda l’uso dell’immagine, tuttora impedito quando esso sia connesso ad attività commerciali, e quindi ad un lucro, spesso di non facile valutazione, a sua volta malamente confuso con un terzo livello, che vuole giudicare il merito del contenuto (estetico, etico, culturale...) delle forme di uso, entrando “a gamba tesa” nella sfera delicatissima dei diritti costituzionali, e in particolare della libertà di espressione. Nel d.m. 161 questi tre piani si confondono in modo paradigmatico e generano la confusione di cui sono in parte essi stessi il prodotto.

Come noto, con l’avvento di Gennaro Sangiuliano al ministero della Cultura, Antonio Leo Tarasco [2] ha assunto la carica di responsabile dell’ufficio legislativo e Francesco Gilioli quella di capo di Gabinetto. Alcuni dei vertici più delicati del ministero sono dunque rappresentati dal presidente e dal vicepresidente della Sic (Società per l’ingegneria culturale, che si presenta come una “associazione di studiosi, esperti ed appassionati di patrimonio culturale”, che ha fra i suoi principali obiettivi dichiarati il “riutilizzo dei dati dei beni culturali, ma a pagamento” [3], puntualmente ripreso dall’atto di indirizzo del ministro pubblicato il 13 gennaio 2023 [4], e dalla successiva direttiva, nella quale viene introdotto l’incremento della redditività degli istituti e luoghi della cultura “anche attraverso riproduzione ai fini commerciali di immagini” quale obiettivo e criterio di valutazione della performance dirigenziale [5].

Se parliamo di “messa a reddito” del patrimonio, non ho alcuna difficoltà ad affermare che sono anche io convinto della necessità di fare del nostro patrimonio culturale pubblico una fonte di ricchezza nell’ambito di uno sviluppo economico sano che produca conoscenza e lavoro [6]. Nessun dubbio quindi da parte mia che la concessione d’uso di spazi e di beni pubblici debba essere onerosa, anche se - a differenza di quanto indicato dal decreto - molto più flessibile in relazione alle situazioni di contesto e all’autonomia dei singoli istituti.

Penso anche che l’accesso a musei, parchi e istituti culturali debba, in base a valutazioni appunto contestuali, oscillare tra onerosità e gratuità alla luce di una concezione flessibile del bene pubblico. Insomma, l’an e il quantum rientrano nelle legittime scelte politiche dell’amministrazione protempore, così come i regimi di fornitura di beni e servizi. Basta argomentarle e metterci la faccia.

Tra i beni e i servizi rientrano evidentemente anche le fotografie, intese come forniture di beni prodotti e rilasciati dall’amministrazione a richiesta dell’utente. Di questo apparentemente si occupa il d.m. 161, nel definire i minimi tariffari previsti dal Codice (art. 108, co. 6), ma in realtà la sua formulazione è talmente maldestra da creare un accavallamento di piani, che ha generato grande confusione e suscitato allarmismi, a mio modo di vedere del tutto giustificati.

Il decreto si occupa dunque di forniture di beni, cioè di fotografie e diapositive, prodotte dall’amministrazione e rilasciate a titolo oneroso. Rientra infatti nella legittima discrezionalità politica la scelta di rilasciarle gratuitamente (in forma digitale, come fanno molti musei nel mondo) o dietro copertura delle spese sostenute o anche con un margine di profitto. Nulla quaestio. Sorprende semmai negativamente il fatto che l’amministrazione pubblica nel 2023 si occupi della fornitura di diapositive a colori, di stampe fotografiche bianco/nero in formato 13x18, 18x24 e via dicendo... Una cosa grottesca nell’era digitale, una dimensione arcaica, che non dà un’immagine di serietà e di autorevolezza all’Amministrazione che la propone. Di qui anche lo sconcerto e l’ironia che hanno accompagnato l’uscita della norma.

Per non parlare del pieno disconoscimento delle altre linee guida, quelle promosse dall’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale (Digital library) nell’ambito del Piano nazionale digitalizzazione (Pnd), le quali nascevano da un ampio confronto con tutte le articolazioni del ministero e da un dialogo proficuo con le associazioni riscuotendo il parere positivo del Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggisti, organo che, nel caso del decreto in questione, è stato invece del tutto ignorato.

2. Un “mostro giuridico”

Il fatto è che sul piano della fornitura di beni materiali (che ha un costo e quindi è soggetto a rimborso) si introduce un secondo piano relativo all’uso delle immagini, cioè la loro eventuale destinazione, che invece attiene a beni immateriali, che sono estranei alla materia del Codice [7], pur essendo surrettiziamente contemplati in una parte dell’art. 108 [8], che è appunto all’origine della confusione. Di qui, la questione sul tavolo da almeno dieci anni circa la legittimità di un canone imposto dalla amministrazione in relazione al tipo di uso delle immagini stesse.

Come noto, dopo la liberalizzazione parziale introdotta dall’Art bonus nel 2014 [9], la limitazione all’uso delle immagini di beni del patrimonio culturale pubblico è rimasta solo per quanto riguarda l’uso commerciale, il famoso ‘lucro’. Su questo punto la passata amministrazione fu irremovibile, nonostante la pressante richiesta di liberalizzazione, sostenuta in base ad una serie articolata di motivi, riportati in seguito [10]. Sì che non fu dato seguito neppure ad una motivata richiesta di apertura sollecitata nella passata legislatura all’unanimità dalla commissione cultura della Camera dei Deputati [11].

Sappiamo quanto sia arduo riconoscere la presenza del lucro in attività, anche di puro carattere informativo o educativo, che avvengono nella rete, ad esempio attraverso le inserzioni pubblicitarie che permettono a quelle attività economiche di sopravvivere, per non parlare del mondo dell’editoria. O quanto sia difficile discettare su dove compaia il lucro nelle infinite diverse modalità delle attività editoriali: si pensi ai parametri del costo di copertina e della tiratura di copie, anche quest’ultimo ormai arcaico, introdotti nel 1994 [12], per superare i quali le linee guida del recente Piano nazionale di digitalizzazione (Pnd) introducevano, proprio per questo motivo, la liberalizzazione totale in questo campo [13], pur mettendo così a nudo una evidente contraddizione nei riguardi delle altre tipologie di attività economiche.

Qui il passo indietro imposto dal decreto è stato violento e direi quasi provocatorio, nel momento in cui quelle linee guida sono espressamente richiamate nella premessa del decreto, e completamente smentite nel suo articolato e nel conseguente tariffario. Si spiegano anche così le ferme reazioni registrate anche da parte di chi altrimenti non si sentiva particolarmente sfavorito dal regime vigente (che liberalizzava le attività di ricerca e studio), che hanno generato ripetute risposte del ministro (rivolte sempre alla stampa e mai alle associazioni che hanno sinora chiesto invano un confronto sul tema) francamente imbarazzanti poiché non veritiere, dal momento che è assolutamente vero che il decreto in questione reintroduce l’onerosità dell’uso delle immagini per qualsiasi tipo di pubblicazione, anche scientifica, che riporti un prezzo di copertina: onerosità peggiorata dall’obbligo della marca di bollo dovuta per la richiesta di concessione che rende ancor più odioso il balzello per gli utenti [14].

Il diritto della pubblica amministrazione di ricavare un utile sulla concessione d’uso delle immagini del patrimonio in consegna si basa sulla convinzione che, cessato l’eventuale diritto d’autore, che peraltro potrebbe non essere mai sorto, il diritto di riproduzione di una immagine ricada in capo al proprietario dell’opera. Si tratta di una questione assai bizzarra sul piano giuridico, tanto più se il bene è pubblico e se le immagini, nella loro infinita varietà di rappresentazione, rientrano nella categoria dei beni comuni.

Come è stato tante volte evidenziato, la presunta esclusiva statale sulle immagini si basa sulla trasformazione di fatto della proprietà intellettuale garantita dal diritto d’autore in un diritto di proprietà reale: un tentativo acrobatico - scrive Roberto Caso [15] - di ricavare una pseudo proprietà intellettuale o uno pseudo diritto di sfruttamento commerciale attraverso un “mostro giuridico”, di cui Giorgio Resta ha dimostrato la inconsistenza (esclusività senza limiti temporali e di ampiezza, pseudo proprietà intellettuale eterna ed indefinita che fa evaporare il pubblico dominio) [16].

La cosa sembrerebbe peraltro superata dal testo della direttiva europea sul diritto d’autore recentemente recepito dalla normativa italiana, sia pure con una formula contraddittoria che ne svuota completamente la ratio in spregio al principio di gerarchia delle fonti del diritto. La legge 22/04/1941, n. 633 a protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio [17] ha recepito infatti solo formalmente nel dispositivo dell’art. 32-quater [18] quanto previsto dall’art. 14 della direttiva (Ue) 2019/790, di ispirazione liberalizzante, aggiungendo in calce il rinvio alle norme vigenti del Codice Urbani, che sono però in palese contrasto con l’indicazione europea [19].

3. Voglia di censura

Il fatto è che il decreto, dopo aver confuso maldestramente i due piani (ovvero fornitura di beni materiali e uso di beni immateriali) sulla base della norma presente nel Codice, li mescola ulteriormente, quel che è peggio, ad un terzo livello di intervento, che è quello che più preoccupa un’opinione pubblica magari non interessata professionalmente alla vicenda, ma attenta alla difesa dei diritti costituzionali. Il comma 2 dell’art. 2 del decreto stesso afferma infatti che “indipendentemente dal canone o dal corrispettivo individuato, la concessione per l’uso e la riproduzione dei beni culturali è comunque subordinata alla previa verifica di compatibilità della destinazione d’uso della riproduzione con il carattere storico-artistico dei medesimi beni culturali, ai sensi dell’articolo 20 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.

Si tratta di un richiamo francamente improprio. L’articolo 20 del Codice Urbani afferma soltanto che “I beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”. È una norma che riguarda palesemente la tutela materiale, fisica dei beni in custodia alla pubblica amministrazione (ripresa infatti nell’art. 107 del Codice stesso), e non certamente l’uso sociale della loro proiezione immateriale. L’interpretazione dell’art. 20 in funzione di una compressione della libertà di espressione dei cittadini trova tuttavia una sponda nelle voci di una parte della cultura giuridica italiana che, nella giurisdizione come nella riflessione dottrinale, non sembra cogliere la pericolosità del terreno.

Ho letto con sconsolata apprensione la richiesta da parte di Antonio Bartolini (in presenza di un vuoto normativo) di “misure preventive e successive inibitorie e repressive per l’utilizzo abusivo del bene culturale”, che coprano la “lacunosità del sistema repressivo” [20]. Per un non giurista come me tutto questo si chiama censura preventiva, o - come dice Caso - “un nuovo potere censorio camuffato da valutazione sulla compatibilità dell’uso con le finalità del bene” [21]. È la richiesta di uno stato etico e autoritario, che l’Italia ha infaustamente già conosciuto per secoli, e anche non più di cento anni fa, quale oggi lo conoscono alcuni dei peggiori stati autocratici del pianeta.

Sembrerebbe infatti del tutto evidente che chiunque abbia il diritto di trarre ispirazione dal patrimonio culturale della nazione (sia esso letterario attraverso le parole, musicale attraverso le note, o artistico, in quest’ultimo caso attraverso le immagini), avendo come limiti quelli già imposti dal codice penale per quanto riguarda il rispetto del pudore o delle convinzioni religiose [22]. Tutto il resto è protetto dal principio costituzionale della libertà di espressione, anche il cattivo gusto. Molti, ad esempio, hanno legittimamente criticato la pubblicità legittimamente prodotta di recente dal ministero del Turismo, che persegue un comportamento del tutto opposto a quello auspicato dagli attuali vertici del ministero della Cultura: un comportamento che - se il Mic avesse paradossalmente attivato l’avvocatura dello Stato - sarebbe stato duramente condannato dal Tribunale civile di Firenze. Quest’ultimo - come noto - ha recentemente emesso una sentenza [23], che lascia interdetti per la gravità delle sue affermazioni [24], basate su di un (per me inesistente) “diritto all’immagine” goduto non solo dalle persone, ma anche da muti oggetti di marmo, legno o tela, bizzarramente promossi a testimoni dell’identità culturale della nazione, con tanto di richiamo al genio italico [25].

Pur nella loro diversità, il dato che accomuna le sentenze emesse dai tribunali di Firenze e Venezia - scrive Caso - è “la sovrapposizione di aspetti non patrimoniali e patrimoniali, come il mescolamento tra strumenti giuridici pubblicistici (il codice dei beni culturali) e privatistici (i diritti della personalità del codice civile), nonché il richiamo feticistico all’art. 9 Cost.: tutti fattori che fanno velo ai reali interessi in gioco e alle finalità di questa nuova forma di pseudo-proprietà intellettuale, la quale vorrebbe fondare in capo allo Stato il potere di controllare in via esclusiva l’uso commerciale delle immagini dei beni culturali” [26].

L’intreccio maldestro di aspetti economici o addirittura vilmente monetari con aspetti sostanziali è il prodotto e la causa al tempo stesso della grande confusione in cui ci dibattiamo, che trova quindi una eco imbarazzante nelle recenti prese di posizione giurisdizionale, che maltrattano l’art. 9 della Costituzione, il cui scopo - ci spiega lucidamente Pierpaolo Forte - al di là dei tanti sui stiracchiamenti, “è la disponibilità universale del patrimonio” [27]. Che cosa c’entrano i canoni di concessione con un articolo che impone alla Repubblica [28] la “diffusione della cultura”? un concetto, anzi un obbligo, che cozza visibilmente con l’imposizione di canoni, balzelli, ostacoli e marche da bollo.

E qui non può mancare un riferimento diretto ed esplicito al concetto di diritto “al patrimonio” introdotto nei nostri ordinamenti dalla Convenzione di Faro, finalmente ratificata e quindi ormai impegnativa [29]. Ma i giudici di Firenze non sembra che l’abbiano mai letta a giudicare dalla loro pretesa che il diritto all’immagine non sia sul bene culturale, ma del bene culturale (come nulla sembrano conoscere del magistero di Massimo Montella [30]).

Insomma, è proprio questo disconoscimento del principio della diffusione della cultura previsto dall’art. 9, questo vulnus alla libera manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost., ma anche alla libertà della ricerca (art. 33 Cost.) e di iniziativa economica (art. 41 Cost.) che preoccupa tante persone, all’interno e all’esterno del mondo dei beni culturali. Perché il combinato disposto di uno Stato che cerca di fare cassa sulla rendita parassitaria e al tempo stesso coarta la libera manifestazione del pensiero deprime gravemente la creatività sociale e quindi la produzione di idee e di beni e, in ultima istanza, la ricchezza della nazione in senso lato. Quanto di più lontano da ciò che appare nel citato Atto di indirizzo, nel quale l’obiettivo di “fare cassa” con la commercializzazione del patrimonio culturale pubblico, e in particolare con le sue immagini, appare prioritario e quasi ossessivamente proclamato.

Questa pervicacia, malamente argomentata sul piano ideologico senza con questo dare alcuna garanzia di portare qualche spicciolo in più nelle casse dello Stato, si scontra peraltro con la realtà, stigmatizzata anche da una recente ordinanza della Corte dei Conti, che, in presenza del danno erariale prodotto, si è anch’essa apertamente pronunciata per una politica di open access [31].

4. Immateriale funzionale e retaggi ideologici

Se parliamo di immateriale economico è evidente la non convenienza di politiche di esclusiva. Pierpaolo Forte ricorda quanto sarebbe arduo perseguire in giudizio i contravventori per ricavarne un modesto corrispettivo, imbastendo peraltro contenziosi in 150 paesi del mondo ciascuno con i suoi codici di riferimento. Pagherebbero e pagano solo gli italiani: un vero autogoal per chi si riempie la bocca con l’immateriale funzionale e l’identità collettiva, per non parlare del Made in Italy!

Sul piano dell’immateriale funzionale, che cosa intende mai Bartolini quando richiama ad un suo “uso responsabile e decoroso”? qual è il canone di riferimento che decide il confine del decoro e di questa fumosa responsabilità? dove sono gli strumenti per tracciare la linea? chi ne dovrebbe disporre? perché si applicherebbe solo alle immagini dei beni artistici e non alla musica, alla letteratura, al folklore? I meno giovani ricordano la sobria trasposizione televisiva dei Promessi sposi fatta tanti anni fa da Sandro Bolchi o la geniale satira proposta dal Trio. Che cosa dovremmo dire di altre edizioni di gusto assai dubbio? condannarle al rogo come l’Ultimo tango di Bertolucci? perché i prodotti dell’arte dovrebbero avere uno statuto diverso? il cinema non è la settima arte? o scontiamo ancora una eredità dell’idealismo, che ha intriso da destra a sinistra la cultura del Novecento e continua a confonderci fra arte e non-arte (che per fortuna nessuna norma si è mai messa in testa il compito di definire)?

Sul piano dell’immateriale funzionale, se fosse sensata l’esistenza di un diritto all’immagine in capo al bene stesso, con tanto di richiamo al genio italico, lo scenario che si apre è quello del contenzioso con la Francia per la Gioconda di Leonardo. Dovremmo considerare illecito amministrativo qualunque apprezzamento critico del nostro patrimonio artistico.

Potremmo esprimere con il dovuto garbo dubbi sulla verginità della Madonna, ma non potremmo dire in pubblico “Quanto è brutto il Davide!”, “il Colosseo è un dente cariato mezzo falso!” [32], “la Venere di Botticelli sembra una sciampista!”, con buona pace di questo degnissimo mestiere.

La cultura giuridica italiana, come ogni altro comparto culturale, è ovviamente variegata nelle sue posizioni ed è quindi del tutto normale che l’interpretazione della norma giuridica si intrecci, anche confusamente, con le diverse prospettive culturali. Ad alcuni sembra naturale che la nota immagine pubblicitaria proposta da un'azienda produttrice di armi con sede nell'Illinois, che raffigura il David di Michelangelo con un mitra in mano [33], sia riprovevole e quindi ipso facto condannabile. Non così ad un archeologo come me.

Quel riferimento militare non fa che riprendere la posa del David michelangiolesco colto nell’atto di preparare la fionda con la quale ucciderà Golia. Qualcuno potrebbe dunque considerarlo un riferimento colto da parte di un pubblicitario che, per la nostra sensibilità, ha tuttavia prodotto qualcosa di sgradevole, ma non certo di illegale, dal momento che la produzione e vendita delle armi è prevista nei nostri ordinamenti. Parliamo dunque di sensibilità e/o di opportunità. Che cosa c’entrano i tribunali in tutto questo?

Lo stesso si dica per l’accusa di aver indebitamente stravolto l’idea artistica del David riproducendo nell’estate 2020 sulla rivista Gq - brand leader del mercato maschile della moda - l’immagine parziale della statua del David di Michelangelo, “simbolo dell’estetica maschile rinascimentale”, alternata “attraverso un fine lavoro di cartotecnica che consente un effetto morphing, all’immagine scultorea di Pietro Boselli, il modello italiano più famoso nel mondo” [34].

Ciascuno può liberamente giudicare se il prodotto sia di buono o di cattivo gusto, ma a nessuno sfuggirà che la tecnologia del morphing non fa che adeguare ai tempi quanto, senza l’ausilio delle tecnologie, fece nel 1919 [35] Marcel Duchamp applicando i baffi all’immagine della Gioconda (tratta da una normale cartolina) insieme ad una volgarissima didascalia (seguita poi da innumerevoli versioni). È (era) arte? domanda priva di senso, visto che, se Dio vuole, non esiste una definizione pubblica di che cosa sia effettivamente arte, tanto da metterla al riparo dagli strali dei vecchi e nuovi inquisitori.

Un uso caricaturale, che a qualcuno potrà pure apparire “svilente”, del patrimonio culturale attraverso la sua immagine è peraltro già libero e gratuito nella misura in cui è permessa la divulgazione delle immagini per “libera espressione del pensiero” ai sensi dell’art. 108, co. 3-bis. Il problema, in questi casi, è quindi ancora il lucro?

5. Una pluralità di argomenti

Se ci togliamo le vesti dei censori della pubblica morale, che nessuno ci ha chiesto di indossare, c’è dunque motivo di ritenere che, anche a normativa vigente inalterata, siano invece ampie le possibilità di agire in favore di una politica di apertura e di liberalizzazione, per la quale continuano ad essere valide le motivazioni di ordine giuridico, economico e culturale qui di seguito succintamente richiamate [36].

- Le immagini non sono beni materiali, ma immateriali; lo stesso Codice Urbani ci ricorda infatti che per beni culturali intendiamo “le cose immobili e mobili” (art. 2, co. 2). Basterebbe questo per chiudere qui una discussione oziosa, dal momento che la ispirazione materialistica del codice, preoccupato della fisicità del bene più che della sua valenza simbolica, trova concordi anche i fautori di una nuova stagione di censure pubbliche. E quindi il riferimento che il D.M. 161 fa all’art. 20 del Codice Urbani, che nulla ha a che vedere con la tutela degli aspetti immateriali del patrimonio, è inquietante e anzi irricevibile.

- Lo spostamento del ragionamento ad altri settori della produzione culturale, quali la letteratura o la musica, dà conto immediato della contraddizione che regola la limitazione dell’uso delle immagini del nostro patrimonio: i versi di Dante, le note di Verdi sono di tutti, non di chi possiede i manoscritti originali (quando esistono). Perché l’immagine del David di Michelangelo sarebbe proprietà di chi possiede la statua? tanto più se l’ente proprietario è un istituto pubblico, che dovrebbe agire ai fini della diffusione della cultura?

- Se il principio dominicale avesse una sua validità, sul piano dell’immateriale economico dovremmo chiederne l’estensione non solo al patrimonio culturale nel suo insieme. Abbiamo proposto altrove il caso dello spartito originale dell’Inno di Mameli, che è in mano pubblica: perché non paghiamo un canone di concessione ogni volta che lo eseguiamo in una manifestazione commerciale, ad esempio in uno stadio? [37]. Dovremmo estenderlo anche ad ogni bene demaniale, financo al paesaggio: perché non lo si fa? dov’è la differenza? perché non rendere esclusivo l’uso delle immagini del Vesuvio o delle Dolomiti?

- Qualsiasi manipolazione grafica dell’immagine di un’opera in pubblico dominio è un prodotto dell’ingegno, indipendentemente dalla sua qualità (sempre opinabile), e quindi non può non essere libera, indipendentemente dai suoi fini. Altrimenti non si spiega il successo della manipolazione - per fare un solo esempio - della fotografia della Gioconda.

- La potenzialità infinita della percezione di un’opera per tramite delle sue immagini, cioè il suo potere di ispirazione, non può rispondere ad un principio di diritto dominicale. Se i diritti d’autore sono scaduti - o non sono mai esistiti - l’opera è in pubblico dominio e, come tale, non può essere sottoposta a diritti ulteriori che riducano il riuso delle sue riproduzioni e si risolvano in una vera e propria tassa sull’ispirazione. La direttiva europea 1024 del 2019 lascia spazio - è vero - a possibili ricavi economici per musei, archivi e biblioteche, cui dà la possibilità di “imporre corrispettivi superiori ai costi marginali per non ostacolare il proprio normale funzionamento”, ma anche quella di “imporre costi inferiori o di non imporne affatto” [38].

- Ci sono anche solidi argomenti di natura economica. E infatti la riscossione dei diritti di immagine del patrimonio pubblico regolato dagli artt. 107 e 108 del Codice Urbani è da sempre ben più onerosa dei suoi ricavi e produce, nel suo complesso, danno erariale [39].

- La pretesa di trarre profitti dalle concessioni d’uso delle immagini per finalità commerciali si scontra con il fatto che le norme giuridiche esistenti negli stati del mondo non collimano con quelle dello Stato italiano: i costi per perseguire in giudizio all’estero i presunti abusi sarebbero altissimi e spesso inconcludenti.

- La libera circolazione delle immagini reca, al contrario, un enorme apporto pubblicitario alla conoscenza planetaria del nostro patrimonio e risponde in tal modo al principio costituzionale che ne promuove la diffusione (art. 9, co. 1).

- Occorre poi distinguere nettamente tra l’uso di cose e spazi da un lato (che è un uso rivale e quindi assoggettabile a canone di concessione) e quello delle immagini dall’altro (che è un uso non rivale), perché la loro natura è diametralmente opposta: se uso infatti liberamente l’immagine di un bene non ne impedisco contestualmente il libero uso da parte di altri. La natura di non rivalità dell’uso delle immagini le pone pertanto in una dimensione universalistica e quindi liberatoria.

- La condizione di non rivalità propria dell’uso, anche commerciale, delle immagini del patrimonio pubblico le esclude di fatto dal mercato, e quindi anche dall’uso esclusivo che potrebbe esserne fatto dai giganti della comunicazione globalizzata.

- La liberalizzazione dell’uso delle immagini permette alle comunità di generare informazione e innovazione, con giovamento del livello della produzione culturale, e contestuale creazione di lavoro e ricchezza. E questo ha ricadute positive di carattere fiscale sulla finanza pubblica. Ogni “ulteriore indebita restrizione del pubblico dominio dell’umanità e dei beni comuni della conoscenza” - ci ricorda Roberto Caso - produce “un allontanamento del nostro paese dal movimento planetario, che promuove l’accesso aperto alla cultura e un inutile rumore interpretativo di fondo, foriero di costi amministrativi e giurisdizionali” [40].

- La liberalizzazione può quindi incentivare conoscenza, tutela, innovazione e sviluppo per un paese che - come ci ricorda Stefano Baia Curioni [41] - ha “enormi difficoltà ad adeguarsi agli standard internazionali per la diffusione di una cultura digitale”, ed ha bisogno di “ridurre il deficit di informazione e di accesso alla rete” di cui soffre l’Italia. Questa è la strada.

6. Al di là degli schieramenti

In conclusione, mi associo all’auspicio di Pierpaolo Forte per una costante manutenzione degli impianti normativi in relazione alle evoluzioni delle conoscenze scientifiche e delle possibilità tecniche (ma non in senso difensivo e censorio). E alla sua conclusione (a proposito della squallida vicenda del recepimento della direttiva europea), che, se la scusa è finanziaria, in realtà si tratta di una questione di scelte politiche. La cultura giuridica, e la cultura in generale, dovrebbero orientare quelle scelte in senso alto, altissimo.

Anche se i materiali che abbiamo discusso possono andare in direzioni molto diverse, Baia Curioni dice necessaria e urgente una riforma della legge “per molti aspetti inadeguata” e Finocchiaro afferma che su questi temi occorre costruire consapevolezza giuridica e i relativi strumenti giuridici. Le direzioni possono essere diverse, dal momento che diversi sono gli approcci di partenza: se Girolamo Sciullo parla “del rapporto fra il bene culturale materiale e la sua immagine, fra il diritto dominicale sull’uno e la pretesa di utilizzo libero dell’altra” [42] (perché non viceversa?), per Roberto Caso siamo invece di fronte a un “presunto diritto all’immagine dei beni culturali” [43] evocato dalle recenti sentenze.

Ci troviamo insomma davanti ad un tema culturale, che divide gli ambienti accademici ma attraversa anche gli stessi schieramenti politici: sarebbe auspicabile togliere di mezzo le appartenenze e porsi al servizio della nazione nel senso costituzionale del termine, cioè dell’insieme dei cittadini. È in corso - scrive Forte - un ‘popolamento’ che traspone in digitale e immette in rete milioni di immagini tratte da beni culturali [44]. Stiamo infatti assistendo ad un fenomeno che ha del meraviglioso: perché non assecondarlo?

Prendiamo quindi almeno come un buon auspicio le parole di Giusella Finocchiaro quando ci invita a “cercare di pensare di valorizzare la circolazione del nostro patrimonio culturale piuttosto che limitarla [45]. Ecco: facciamolo! altrimenti agli italiani non si lascia che una vasta, profonda, convinta stagione di disobbedienza civile.

Oggi, senza l’art. 108 - scrive ancora Forte [46] - chiunque potrebbe usare liberamente queste benedette immagini. Bene. Poiché - come Giorgio Resta ha opportunamente ribadito - il Parlamento può certamente intervenire per riservare allo Stato privative sull’uso commerciale delle immagini del patrimonio culturale pubblico, “ma a condizione che tale intervento sia frutto di un ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti” [47], tale ragionevolezza vuole che un semplicissimo emendamento agli artt. 107 e 108 del Codice Urbani sostituisca la farragine attuale. Eccone una possibile bozza di lavoro.

Art. 107. Uso strumentale e precario e riproduzione di beni culturali

1. Il Ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali possono consentire la riproduzione nonché l’uso strumentale e precario dei beni culturali che abbiano in consegna, fatte salve le disposizioni di cui al comma 2 e quelle in materia di diritto d’autore.

2. È di regola vietata la riproduzione di beni culturali che consista nel trarre calchi, per contatto, dagli originali di sculture e di opere a rilievo in genere, di qualunque materiale tali beni siano fatti. Tale riproduzione è consentita solo in via eccezionale e nel rispetto delle modalità stabilite con apposito decreto ministeriale. Sono invece consentiti quelli ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto con l'originale e, previa autorizzazione del soprintendente, i calchi da copie degli originali già esistenti.

Art. 108. Canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione

1. I canoni di concessione per l’uso strumentale e precario dei beni culturali e i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto:

a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso;

c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni;

b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione fornitura delle riproduzioni;

d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente.

2. I canoni e i corrispettivi sono corrisposti, di regola, in via anticipata.

3. Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione concedente.

4. Nei casi in cui dall'attività in concessione possa derivare un pregiudizio ai beni culturali, l'autorità che ha in consegna i beni determina l'importo della cauzione, costituita anche mediante fideiussione bancaria o assicurativa. Per gli stessi motivi, la cauzione è dovuta anche nei casi di esenzione dal pagamento dei canoni e corrispettivi.

5. La cauzione è restituita quando sia stato accertato che i beni in concessione non hanno subito danni e le spese sostenute sono state rimborsate.

6. Gli importi minimi dei canoni per l'uso e dei corrispettivi per la riproduzione dei beni sono fissati con provvedimento dell'amministrazione concedente.

7. Sono in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale. La riproduzione di beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del presente titolo, attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose né, all’interno degli istituti della cultura, l’uso di stativi o treppiedi, è libera.

8. La divulgazione con qualsiasi mezzo e per qualsiasi finalità delle immagini di beni culturali di proprietà pubblica, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro. è libera e non può essere soggetta a restrizioni se non a tutela della riservatezza.”

 

Note

[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.

[**] Daniele Manacorda, consigliere di amministrazione del parco archeologico del Colosseo e della Soprintendenza speciale Abap di Roma, e membro della Commissione scientifica delle Scuderie del Quirinale, già professore ordinario di Metodologie della ricerca archeologica, Università degli studi Roma Tre, Largo Giovanni Battista Marzi n. 10, 00154 Roma, daniele.manacorda@uniroma3.it.

[1] Decreto ministeriale 11 aprile 2023, rep. 161 recante “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessine d’uso dei beni in consegna agli istituti della cultura statali”.

[2] Al libro di A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, Roma-Bari, 2019, ho dedicato una lunga riflessione in D. Manacorda, Patrimonio culturale, libertà, democrazia. Pensieri sparsi di un archeologo incompetente a proposito di Diritto e gestione del patrimonio culturale, in Il capitale culturale, 2020, 21, pagg. 15-57.

[3] Società italiana per l’ingegneria culturale, 9 dicembre 2021: “Sì al riutilizzo dei dati dei beni culturali, ma a pagamento” (https://www.facebook.com/SocietaItalianaIngegneriaCulturale/). Utile la lettura di S. Rizzo, in https://lespresso.it/.

[4] D.m. 8 del 13 gennaio 2013, atto indirizzo concernente l’individuazione delle priorità politiche da realizzarsi nell’anno 2023 e per il triennio 2023-2025.

[5] Direttiva generale per l’azione amministrativa e la gestione anno 2023 (https://storico.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/index.html#&panel1-1).

[6] Ne ho discusso già dieci anni fa in D. Manacorda, Petrolio, in De-tutela. Idee a confronto per la salvaguardia del patrimonio culturale e paesaggistico, (a cura di) L. Carletti, C. Giometti, Pisa 2014, pagg. 117-123, e in Id., L’Italia agli italiani, Bari, 2014.

[7] Codice dei beni culturali e del paesaggio, decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, art. 2, co. 2: “Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.

[8] Art. 108, co. 1 d): “dell'uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente”.

[9] D.l. 31 maggio 2014, n. 83, recante “Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo”, art, 12, co. 3 e successiva modifica con legge 4 agosto 2017, n. 124, art. 171.

[10] La posizione dei vertici del Ministero è riflessa nel contributo al tema proposto nel 2018 da Lorenzo Casini, al tempo capo di Gabinetto del ministro Franceschini: si veda L. Casini, Patrimonio culturale e nuove tecnologie. Riprodurre il patrimonio culturale? I "pieni" e i "vuoti" normativi, in Aedon, 2018, 3.

[11] Camera dei deputati, VII Commissione (Cultura, Scienza e Istruzione), Risoluzione 7-00423 Vacca, 7-00552 Belotti, 7-00553 Piccoli Nardelli, 7-00557 Mollicone e 7-00558 Aprea: Sulla riproduzione digitale dei beni culturali (https://www.camera.it/leg18/824?tipo=A&anno=2021&mese=06&giorno=16&view=filtered_scheda&commissione=07#).

[12] D.m. 8 aprile 1994, Tariffario per la determinazione di canoni, corrispettivi e modalità per le concessioni relative all'uso strumentale e precario dei beni in consegna al ministero.

[13] Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital library, Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022-2023, Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali - versione in consultazione [2022].

[14] Si veda il contributo di A. Brugnoli, Il DM 11 aprile 2023, n. 161 e il suo impatto sulla ricerca e sull’editoria: brevi note a margine di un caso studio in Open Access, in Aedon, 2023, 2.

[15] R. Caso, Il David, l’Uomo vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, in Il Foro Italiano, CXLVIII, 7-8, 2023, col. 2287.

[16] G. Resta, L’immagine dei beni culturali pubblici: una nuova forma di proprietà?, in Le immagini del patrimonio culturale: un’eredità condivisa?, (a cura di) D. Manacorda, M. Modolo, Atti del Convegno, Firenze, 12 giugno 2022), pagg. 73-86; Id., Le immagini dei beni culturali pubblici: una critica al modello proprietario, in Dir. Informazione e informatica, 2023.

[17] Aggiornata con le modifiche apportate dal d.lg. n. 177/2021 e dal d.l. n. 115/2022, convertiti con modificazioni dalla legge 21 settembre 2022, n. 142.

[18] “Alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arti visive, anche come individuate all’articolo 2, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non è soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, salvo che costituisca un’opera originale. Restano ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.

[19] Si veda il contributo di M. Modolo, Il DM 11 aprile 2023, n. 161: osservazioni e proposte, in Aedon, 2023, 2.

[20] A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo), in Aedon, 2023, 2.

[21] R. Caso, Il David, l’Uomo vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, cit., col. 2286.

[22] D. Manacorda, L’immagine del bene culturale pubblico tra lucro e decoro: una questione di libertà, in Aedon, 2021, 1.

[23] Sentenza 20 aprile 2023: cfr. Il Foro Italiano, CXLVIII, 7-8, 2023, coll. 2256-2267.

[24] La sentenza scrive - tra l’altro - che la società editoriale condannata “ha insidiosamente e maliziosamente accostato l’immagine del David di Michelangelo a quella di un modello, così svilendo, offuscando, mortificando, umiliando l’alto valore simbolico ed identitario dell’opera d’arte ed asservendo la stessa a finalità pubblicitarie e di promozione editoriale”; e sostiene che “come viene garantito, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, il diritto alla identità personale, inteso come diritto a non veder alterato e travisato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico e professionale, così occorre tutelare, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione, il diritto all’identità collettiva dei cittadini che si riconoscono come appartenenti alla medesima Nazione anche in virtù del patrimonio artistico e culturale che è parte della memoria della comunità nazionale.” Ai miei occhi incompetenti di diritto sembrano in proposito definitive le osservazioni critiche pubblicate da E. Sacchetto, Ancora sul David di Michelangelo e la Venere di “Open to Meraviglia”. Il parere dell’avvocato, in ArtTribune, 24 giugno 2023 (https://www.artribune.com/attualita/2023/06/david-michelangelo-venere-open-to-meraviglia-avvocato/) e il recente commento di Roberto Caso, cui ho già fatto riferimento.

[25] Sulla base di queste premesse, lo scenario grottesco che si apre è quello del contenzioso con la Francia per la Gioconda di Leonardo.

[26] R. Caso, Il David, l’Uomo vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, cit., col. 2283.

[27] P. Forte, Il terzo valore, in Aedon, 2023, 2.

[28] Quando leggo che uno stimato giurista scrive che “l’art. 9 Cost. affida la tutela del patrimonio culturale alla Repubblica, i.e. allo Stato” (A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo, cit.) chiedo lumi a chi può darmeli.

[29] L. 1 ottobre 2020, n. 133, Ratifica ed esecuzione della Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, sulla quale rinvio ai commenti di M. Cammelli, La ratifica della Convenzione di Faro: un cammino da avviare, e A. Gualdani, L’Italia ratifica la convenzione di Faro: quale incidenza nel diritto del patrimonio culturale italiano?, in Aedon, 2020, 3.

[30] Si veda almeno La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia, (a cura di) P.L. Feliciati, Atti del convegno di studi in occasione del quinto anno della rivista (Macerata, 5-6 novembre 2015), in Il Capitale culturale-Studies on the Value of Cultural Heritage, Suppl. 5, 2016; Economia e gestione dell’eredità culturale. Dizionario metodico essenziale, (a cura di) M. Montella, Padova, 2016; L’eredità di Massimo Montella, Giornata di studio (Macerata, 25 novembre 2021), in Il Capitale culturale, Supplemento 12, 2022.

[31] Corte dei Conti, sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, spese per l’informatica con particolare riguardo alla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano (2016 - 2020), delibera n. 50/2022/G 12 ottobre 2022, par. 5.1. (“Questioni aperte”), pagg. 125-127: “le trasformazioni radicali che il digitale ha prodotto nella nostra società invitano ad abbandonare i tradizionali paradigmi ‘proprietari’, in favore di una visione del patrimonio culturale più democratica, inclusiva e orizzontale”, notando di conseguenza che “le forme di ritorno economico basate sulla ‘vendita’ della singola immagine appaiono anacronistiche e largamente superate poiché, peraltro, palesemente antieconomiche”.

[32] Riprendendo la celebre definizione data da Antonio Cederna dell’immagine del Mausoleo di Augusto a Roma dopo la sua riesumazione in età fascista (A. Cederna, Mussolini urbanista, Roma-Bari 1979, fig. 69).

[33] Si veda, ad esempio, David di Michelangelo con un fucile in mano: la campagna dell'azienda di armi americana scatena le polemiche, in L'Huffington Post, 8 marzo 2014.

[34] https://www.crisalidepress.it/gq-italia-il-david-di-michelangelo-in-carta-lenticolare-diventa-3d/

[35] Preceduto qualche decennio prima da Eugène Bataille al quale dobbiamo una celebre Monnalisa che fuma una pipa (https://www.arteworld.it/lhooq-duchamp/)

[36] D. Manacorda, Dieci argomenti per una piena liberalizzazione dell’uso delle immagini del patrimonio culturale pubblico, in Le immagini del patrimonio culturale: un’eredità condivisa?, cit., pagg. 15-31.

[37] A Torino si custodisce il secondo manoscritto dell’inno, cioè la copia che Mameli inviò al Novaro affinché lo mettesse in musica (https://www.museidigenova.it/it/linno-nazionale-italiano).

[38] Direttiva (Ue) 2019/1024 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all'apertura dei dati e al riutilizzo dell'informazione del settore pubblico, Considerando (38) e (39).

[39] Il dato è ben noto e ricordato anche in A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., su cui D. Manacorda, Patrimonio culturale, libertà, democrazia. Pensieri sparsi di un archeologo incompetente a proposito di Diritto e gestione del patrimonio culturale cit., pagg. 28-30; si vedano anche le osservazioni di L. Casini, Patrimonio culturale e nuove tecnologie. Riprodurre il patrimonio culturale? I "pieni" e i "vuoti" normativi, cit.

[40] R. Caso, Il David, l’Uomo vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, cit., coll. 2287-2288.

[41] S. Baia Curioni, Rompere lo specchio di Narciso. I diritti di immagine relativi al patrimonio culturale come occasione di imprenditorialità, autonomia e decentramento, in Aedon, 2023, 2.

[42] G. Sciullo, Il d.m. 161 del 2023: un'analisi giuridica, in Aedon, Aedon, 2023, 2.

[43] R. Caso, op. ult. cit., col. 2287.

[44] P. Forte, Il terzo valore, cit.

[45] G. Finocchiaro, Alcune riflessioni oltre il decreto n. 161 dell’11 aprile 2023, in Aedon, 2023, 2.

[46] P. Forte, Il terzo valore, cit.

[47] G. Resta, L’immagine dei beni culturali pubblici: una nuova forma di proprietà?, in Le immagini del patrimonio culturale: un’eredità condivisa?, cit., pag. 82.

 

 

 



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