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I beni culturali nel nuovo codice dei contratti pubblici

I beni culturali nel terzo codice dei contratti pubblici: continuità, discontinuità, delegificazione

di Giuseppe Manfredi [*]

Sommario: 1. Continuità e discontinuità nella disciplina dei contratti relativi ai beni culturali. - 2. Segue: legificazione/delegificazione e norme “autoesecutive”. - 3. Ambito di applicazione, rinvio alle norme generali del codice, divieto di avvalimento. - 4. Qualificazione degli esecutori e dei direttori tecnici. - 5. Progettazione, varianti e collaudo. - 6. Contratti a titolo gratuito, forme speciali di partenariato, sponsorizzazioni.

Cultural goods in the third Public Contracts Code: continuity, discontinuity, delegification
The paper examines the provisions of the new public procurement code on contracts relating to cultural heritage. First of all, the research focuses on the profiles of continuity and discontinuity in the legal discipline of the public contracts in this field, comparing both the previous and the actual code. Then, the analysis moves on the field of application, especially about the prohibition of availment, and on the qualification of the executors. In the end, the paper deals with the planning, the variations and the testing, and finally on the special forms of public-private partnership.

Keywords: cultural heritage; public procurement; contracts relating to cultural heritage; public-private partnership; prohibition of availment.

1. Continuità e discontinuità nella disciplina dei contratti relativi ai beni culturali

Anche il nuovo Codice dei contratti pubblici ex d.lg. 31 marzo 2023, n. 36, come i due codici dei contratti precedenti, detta una disciplina speciale per i contratti relativi ai beni culturali.

Questa disciplina è collocata nei tre articoli del titolo III della parte VII del libro II, rubricato I contratti nel settore dei beni culturali, e nei venticinque articoli dell’allegato II.18, intitolato “Qualificazione dei soggetti, progettazione e collaudo nel settore dei beni culturali” [1].

Va detto subito che, come vedremo meglio in seguito, il complesso di queste disposizioni, in sostanza, riprende la più parte dei contenuti delle disposizioni del codice dei contratti del 2016, e di quelle del regolamento attuativo emanato con il decreto 154 del 2017 dal ministro dei Beni e delle Attività Culturali di concerto con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti [2].

Il che potrebbe sembrare dissonante rispetto a quanto è disposto dall’art. 1 della legge delega n. 78 del 2022, che aveva incaricato il governo di riordinare la disciplina dei contratti pubblici anche al fine di “semplificare la disciplina vigente in materia”, e nel primo dei principi e criteri direttivi dettati nel secondo comma aveva previsto il “perseguimento di obiettivi di stretta aderenza alle direttive europee, mediante l'introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione corrispondenti a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse”.

Ma qui la sostanziale continuità rispetto ai contenuti del codice abrogato non pare dovuta a una qualche sorta di inerzia o di trascinamento, perché piuttosto pare frutto di una scelta consapevole, e senz’altro condivisibile.

Nella relazione illustrativa redatta dalla commissione istituita presso il Consiglio di Stato, a cui il governo aveva affidato la redazione del progetto del decreto legislativo, si legge infatti che in diversi casi la commissione ha “scelto di conservare - verificandone preventivamente il positivo impatto - le norme del codice vigente che, in sede applicativa, hanno dato buona prova di sé”.

E a ben vedere la disciplina dei contratti inerenti ai beni culturali dettata dal codice del 2016 non presentava particolari criticità, probabilmente perché veniva da un’elaborazione durata anni, e che era il frutto di una risalente dialettica tra specialità e assimilazione, ossia tra la tendenza normativa che voleva garantire la specialità del regime di questi contratti e quella che invece voleva sottoporli al regime generale dei contratti pubblici.

La prima si ricollegava al bisogno di tutelare la “centralità” e la “pervasività” delle finalità conservative del bene culturale, “con il corollario della prevalenza della esigenza di ridurre al minimo i rischi di perdita o deterioramento del bene rispetto ai profili di ordine economico” [3]; la seconda invece voleva assicurare la concorrenzialità nell’affidamento dei contratti in parola, per ovvie ragioni di economicità e di tutela del mercato.

Sino all’inizio degli anni novanta era prevalsa la specialità, perché riguardo all’affidamento degli appalti relativi ai beni culturali l’art. 7 della legge n. 44/1975 derogava alla regola delle “gare mediante pubblico incanto o licitazione privata” stabilita dall’art. 3 della legge di contabilità dello Stato del 1923, ove consentiva di “provvedere direttamente in economia o a trattativa privata, qualora sia accertata la convenienza di omettere le formalità del pubblico incanto o della licitazione privata”: in questo modo l’amministrazione aveva un’ampia discrezionalità, della quale si poteva servire per adeguare gli affidamenti dei contratti alle finalità conservative di cui s’è detto [4].

Con la legge c.d. Merloni n. 109 del 1994, che com’è noto era ispirata a intenti di moralizzazione dell’intero settore dei lavori pubblici, era invece prevalsa l’assimilazione, perché anche i contratti in discorso erano stati sottoposti alla disciplina generale degli appalti di lavori pubblici.

Il che però aveva recato a diverse critiche da parte degli operatori del settore, che temevano che le esigenze conservative venissero pregiudicate dall’eccessiva rigidità delle procedure ex lege 109 [5]: sicché in un primo tempo le modifiche recate al testo della legge 109 dalla Merloni-ter e dalla Merloni-quater erano andate nel senso di un progressivo recupero della specialità della disciplina dei contratti in discorso; e in un secondo tempo era stato emanato un testo normativo appositamente dedicato a questi contratti, il d.lg. n. 30/2004 [6].

La dialettica tra le due tendenze è poi stata risolta con il primo e con il secondo codice dei contratti, perché entrambi hanno disciplinato anche i contratti relativi ai beni culturali, ma riservando loro diverse norme speciali, ispirate ai contenuti del decreto legislativo del 2004.

E anche la legge delega n. 78, ove predicava la semplificazione e il mantenimento dei livelli minimi di regolazione, aveva puntualizzato che ciò doveva avvenire “tenendo conto delle specificità dei contratti [...] nel settore dei beni culturali”.

Sicché una semplificazione consistente nell’eliminazione di una gran parte delle clausole e delle formule che erano state impiegate nello scorso decennio per regolare questi contratti probabilmente non avrebbe avuto nessuna utilità, e avrebbe rischiato di andare a scapito delle specificità del settore.

2. Segue: legificazione/delegificazione e norme “autoesecutive”

Invece il peculiare meccanismo di delegificazione - previa legificazione - che viene previsto nel terzo codice pure riguardo ai contratti sui beni culturali desta qualche perplessità.

La scelta del legislatore del 2016 di affidare il completamento della disciplina codicistica dei contratti pubblici a un gran numero di decreti ministeriali e di linee guida di Anac era stata abbastanza imprudente, perché in questo modo si era creato un meccanismo troppo complesso: il quale, come spesso accade ai meccanismi troppo complessi, si era inceppato, perché diversi dei provvedimenti attuativi previsti dal d.lg. 50/2016 sono stati emanati in ritardo, e altri non sono mai stati emanati - d’altro canto nel nostro ordinamento non è una novità che i regolamenti di esecuzione o di attuazione di questa o di quella legge si facciano attendere per anni, o anche per decenni: per restare nel settore dei beni culturali, è noto che la legge sulla tutela delle cose d’interesse artistico e storico 1089/1939 è rimasta in vigore sino alla fine dello scorso secolo senza che venisse emanato il regolamento di esecuzione, tant’è che per sessant’anni per l’applicazione di questa legge s’era impiegato il regolamento n. 363 del 1913, di esecuzione della legge 364 del 1909 [7].

Il legislatore del 2023 invece ha previsto un meccanismo più semplice, dato che ha deciso di inserire una serie di disposizioni negli allegati del codice - peraltro negli allegati vengono inserite anche disposizioni che, vigente il codice del 2016, erano dedotte in uno dei provvedimenti attuativi di fonte secondaria, che in questo modo vengono legificate; e al contempo ha previsto che una parte degli allegati potrà essere delegificata tramite l’emanazione di regolamenti governativi o ministeriali.

Nella relazione illustrativa si legge che così facendo “si è scelto di redigere un codice che non rinvii a ulteriori provvedimenti attuativi e sia immediatamente ‘autoesecutivo’, consentendo da subito una piena conoscenza dell’intera disciplina da attuare. Ciò è stato possibile grazie a un innovativo meccanismo di delegificazione che opera sugli allegati al codice (legislativi in prima applicazione, regolamentari a regime)” [8].

Riguardo ai contratti di appalto inerenti i beni culturali l’art. 133 del nuovo codice prevede dunque che “i requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori e dei direttori tecnici, nonché i livelli e i contenuti della progettazione e le modalità del collaudo sono individuati nell'allegato II.18”; e che, “in sede di prima applicazione del codice, l'allegato II.18 è abrogato a decorrere dalla data di entrata in vigore di un corrispondente regolamento adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con decreto del ministro della Cultura, di concerto con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, che lo sostituisce integralmente anche in qualità di allegato al codice”.

Quindi, come vedremo meglio in seguito, nell’allegato sono stati inseriti sia i contenuti di una gran parte delle norme generali che nel codice del 2016 erano dedotte negli artt. 146-150, sia quelli delle norme di dettaglio che erano dettate nel decreto interministeriale n. 154/2017.

È innegabile che tramite questo meccanismo si rende possibile l’applicazione immediata del codice, e si assicura una maggiore certezza del diritto: il che, ovviamente, agevola l’operato sia delle pubbliche amministrazioni, sia dei privati che si relazionano con esse - e, detto incidentalmente, va apprezzato anche il fatto che qui il legislatore abbia chiamato i regolamenti con il loro nome, invece di ricorrere alle definizioni più o meno equivoche (in termini di linee guida, o di decreti di natura non regolamentare) che sono state così in voga negli ultimi tempi [9].

Però questa tecnica di delegificazione suscita perplessità ove si discosta dallo schema previsto dal comma 2 dell’art. 17 della legge n. 400/1988: e non tanto ove l’emanazione dei regolamenti è affidata ai singoli ministri anziché al governo, ma soprattutto ove non vengono indicate le “norme generali regolatrici della materia”.

Vero è che questo schema è dettato da una legge ordinaria, che non vincola la legislazione successiva, e infatti viene derogata usualmente a partire almeno dalla legge n. 537/1993: è però altrettanto vero che le leggi di delegificazione dovrebbero comunque fissare le “norme generali regolatrici della materia”, se non altro in ossequio al principio di legalità sostanziale - che da sempre è controverso, ma comunque trova diversi riscontri nella giurisprudenza costituzionale [10].

Ciò nondimeno, si sa che nella prassi la delegificazione spesso si è risolta nella attribuzione del parlamento al governo di una serie di deleghe in bianco a normare questa o quella materia [11].

Ora, dal comma 14 dell’art. 225 del codice si desume il favore del legislatore per i regolamenti di delegificazione degli allegati “il cui contenuto sia identico a quello dell'allegato stesso”, perché per essi viene previsto un procedimento semplificato: ed è ovvio che in questo caso non c’è bisogno di applicare il comma 2 dell’art. 17 della legge 400.

Ma dal comma 14 dell’art. 227, e dal comma seguente (che per alcuni dei regolamenti previsti dal codice dispone che, ove il loro contenuto non sia identico quello degli allegati delegificati, dev’essere acquisito il parere delle competenti commissioni parlamentari [12]) pare desumersi che è possibile pure una delegificazione senza nessun “limite contenutistico alla modificazione dell’allegato, che potrà anche essere sensibilmente cambiato rispetto a quello originario” [13].

In questo caso pure nel settore che qui interessa la delegificazione potrebbe dunque portare a una più o meno rilevante discontinuità rispetto alla disciplina previgente, perché teoricamente (anche se, ovviamente, l’ipotesi è ben poco plausibile) il ministro della Cultura e il ministro delle Infrastrutture potrebbero decidere di sostituire l'allegato II.18 con un regolamento che non contiene le disposizioni che riguardo ai requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori, alla progettazione, etc., sono funzionali a garantire la conservazione dei beni culturali [14].

Ed è ovvio che la sostituzione di una disciplina di fonte primaria con una disciplina di fonte secondaria di per sé sola non costituisce una semplificazione, perché in questo modo non si pone un freno all’espansione della normatività e al disordine che ne viene, ma ci limita a sostituire l’attore della produzione normativa, che diventa o il governo, o il ministro, in luogo del parlamento [15].

3. Ambito di applicazione, rinvio alle norme generali del codice, divieto di avvalimento

Passando ora ai contenuti delle singole disposizioni, l’art. 132 del nuovo codice, intitolato “Disciplina comune applicabile ai contratti nel settore dei beni culturali”, riprende i contenuti dell’art. 145 e del comma 3 dell’art. 146 del codice del 2006, innanzitutto ove delimita il campo di applicazione delle norme del titolo III precisando che esse si applicano ai contratti inerenti i “beni culturali tutelati” secondo il codice dei beni culturali e del paesaggio ex d.lg. n. 42 del 2004 , e gli scavi archeologici.

In questo modo ancora una volta si è evitata la formula equivoca, inerente i “beni del patrimonio culturale” sottoposti a tutela ex d.lg. n. 42/2004, che era stata impiegata nel codice del 2006 per individuare i contratti oggetto di disciplina speciale [16]: sicché risulta pacifico che la disciplina speciale non trova applicazione ai contratti pubblici relativi ai beni paesaggistici [17].

Sulla base della clausola in parola si può poi escludere anche che la disciplina speciale vada applicata a quelli che vengono definiti come beni culturali extracodicistici, id est ai beni culturali non tutelati dal codice di settore del 2004, ma da fonti diverse: e, in particolare, ai beni che vengono presi in considerazione dalla legislazione regionale per finalità di valorizzazione [18].

E sempre in base a questa formula, ove fa riferimento ai soli beni “tutelati”, la disciplina in parola non si applica neppure ai beni che sarebbero astrattamente riconducibili alle nozioni di cui all’art. 10 del codice dei beni culturali, ma che non sono stati oggetto una dichiarazione amministrativa di interesse culturale, né vengono considerati di interesse culturale ope legis [19].

Si è poi sostenuto che queste disposizioni non trovano applicazione neppure ai beni culturali cosiddetti minori, ossia ai beni elencati nel testo dell’art. 11 del Codice dei beni culturali, che sono assoggetti alle sole disposizioni del medesimo Codice “espressamente richiamate”, perché si è osservato che questi beni non possono essere considerati “bene culturale a tutti gli effetti” [20].

La formula secondo cui “per quanto non diversamente disposto nel presente capo, trovano applicazione le pertinenti disposizioni del presente codice” può considerarsi espressiva della sintesi della dialettica specialità/assimilazione della quale s’è detto poc’anzi, perché chiarisce che per tutto quanto non è normato dalla disciplina speciale dei contratti sui beni culturali trova applicazione la disciplina generale dei contratti pubblici dettata dal codice [21].

La clausola sul divieto di avvalimento rappresenta un’ennesima espressione della diffidenza dell’ordinamento italiano nei confronti di questo istituto, la quale spesso si è contrapposta alla diversa sensibilità dell’ordinamento eurounitario, ove l’avvalimento viene ritenuto funzionale al perseguimento di un obiettivo pro-concorrenziale, o, se si preferisce, al favor partecipationis alle procedure di affidamento [22].

Qui il divieto evidentemente si ricollega all’esigenza di garantire la conservazione dei beni culturali, dato che con esso (come con diverse delle clausole che ora sono inserite nell’allegato II.18) si vuole garantire la specifica competenza in materia dell’esecutore dei lavori su detti beni, e viene giustificato con un richiamo all’art. 36 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea - che però pare incongruo, perché questa disposizione per le esigenze di “protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale” consente di derogare ai principi in tema di libera circolazione delle merci: i quali in ordine all’avvalimento non vengono in gioco.

Peraltro poco tempo fa la Corte Costituzionale nella sentenza n. 91/2022 ha avuto modo di pronunciarsi su una questione di legittimità dell’identica clausola di cui all’art. 146 del precedente Codice dei contratti che era stata promossa con l’ordinanza 195/2020 del Tar Molise: la vicenda è abbastanza curiosa, perché il giudice rimettente non dubitava della legittimità del divieto di avvalimento, ma, piuttosto, della “irragionevolezza nella mancata estensione di un analogo divieto al subappalto, posto che tale istituto, nel confronto con l'avvalimento, offrirebbe meno garanzie di tutela”.

La questione comunque è stata dichiarata infondata dalla consulta sulla base della considerazione che, nella disciplina speciale di cui qui si discute, è il subappalto a offrire una maggiore garanzia per le esigenze di tutela dei beni su cui si interviene, perché “in base alla disciplina del subappalto relativo ai beni culturali soltanto l'operatore dotato di una qualificazione specialistica può eseguire i lavori relativi a tali beni, e questo di per sé assicura loro una effettiva e adeguata tutela”, mentre “nel caso dell'avvalimento, il concorrente da solo non dispone delle qualifiche per partecipare alla gara, ma, una volta integrate nell'azienda le risorse e le competenze necessarie, tramite l'avvalimento, esegue in proprio le relative prestazioni”.

4. Qualificazione degli esecutori e dei direttori tecnici

Come s’è già detto, l’art. 133 del terzo codice - rubricato “Requisiti di qualificazione - ha previsto che tutte le norme sui requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori e dei direttori tecnici, sulla progettazione e sul collaudo dei contratti di appalto relativi ai beni culturali vengono inserite nell'allegato II.18: nel quale pertanto confluiscono in gran parte sia i contenuti delle norme generali che nel Codice abrogato erano dedotte negli artt. 146-150, sia quelli delle norme di dettaglio che erano dedotte nel decreto 154/2017.

Ora, dato che queste disposizioni sono particolarmente dettagliate, per cercare di non annoiare oltre misura chi ci legge di seguito ci si limita solo a dar conto sinteticamente dei principali contenuti dell’allegato [23].

Va detto fin d’ora che nell’allegato non sono state riprese tutte le norme previgenti: ad esempio mancano quelle sull’affidamento degli appalti (divieto di affidamento congiunto, divieto di assorbimento delle categorie specialistiche in altre categorie di lavori, etc.) che in precedenza erano dedotte nell’art. 148 del codice del 2016 - però va ricordato che il divieto assoluto di affidamento congiunto dei lavori concernenti beni mobili, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati, etc., con lavori di altre categorie di opere generali o speciali, che era stato affermato nella Merloni-quater, non di rado aveva creato gravi problemi operativi, sicché esso aveva ricevuto dei temperamenti già a partire dal d.lg. 30 del 2004, e anche secondo il codice del 2016 vi si poteva derogare laddove la necessità di affidamento congiunto venisse da “motivate ed eccezionali esigenze di coordinamento dei lavori, accertate dal responsabile del procedimento” [24].

Detto questo, seguendo l’ordine dell’articolato occorre rappresentare innanzitutto che l’art. 1 precisa che i lavori che sono oggetto dell’allegato riguardano lo scavo archeologico, comprese le indagini archeologiche subacquee, il monitoraggio, la manutenzione e il restauro di beni culturali immobili, il monitoraggio, la manutenzione e il restauro dei beni culturali mobili, delle superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico, artistico o archeologico [25].

Le esigenze conservative vengono perseguite in primo luogo tramite le norme speciali sulla qualificazione, che - al pari del divieto di avvalimento di cui s’è detto poco più sopra - sono intese a garantire che gli interventi sui beni culturali possano essere eseguiti solo da soggetti che hanno specifiche competenze e specifica esperienza in materia [26].

Come requisiti generali degli esecutori dei lavori l’art. 5 prevede che l’iscrizione camerale dell’impresa dev’essere coerente con i lavori da svolgere - per i lavori inerenti scavi archeologici, l’iscrizione dev’essere relativa a scavi archeologici, etc.

Quanto ai requisiti speciali - ai sensi dell’art. 100 del codice, l'idoneità professionale, la capacità economica e finanziaria e le capacità tecniche e professionali - l’art. 7 prevede che gli esecutori devono avere un’idonea direzione tecnica, secondo quanto previsto dall’art. 11, e devono aver eseguito lavori su beni tutelati per un importo pari ad almeno il settanta per cento dell’importo della classifica per cui viene chiesta la qualificazione.

E precisa che a tal fine i lavori - eseguiti in forza di un contratto di appalto o di subappalto, dato che a mente del successivo art. 9 l’impresa non può valersi dei lavori che ha affidato in subappalto a terzi - e attestati da certificato di esecuzione, valgono senza limiti di tempo, ma “a condizione che sia rispettato il principio di continuità nell'esecuzione dei lavori”, oppure, in alternativa, che dall’epoca dell’esecuzione dei medesimi non sia cambiata la direzione tecnica [27].

Di conserva, nel caso di cessione dell’azienda o di suo ramo, i requisiti dell’impresa cedente vengono trasferiti solo laddove venga trasferito anche il direttore tecnico che ha diretto i lavori della cui certificazione ci si vuole avvalere [28].

Per le imprese con più di cinque lavoratori occupati in media nell’ultimo decennio vengono poi previsti anche requisiti di idoneità organizzativa che per la categoria Og2 consistono in determinate percentuali di costi per il personale impiegati in lavori di detta categoria, per le categorie Os2-a e Os2-b nella presenza nell’organico dell’impresa di precise percentuali di restauratori di beni culturali e di collaboratori restauratori di beni culturali, e per la categoria Os25 nella presenza di una percentuale di archeologi [29].

Quanto all’adeguata capacità economica e finanziaria l’art. 8 rinvia alle norme generali dell’art. 100 del codice, salvo che per le imprese qualificate esclusivamente nelle categorie Os2-a, Os2-b e Os25, per le quali la capacità in parola “è dimostrata da idonee referenze bancarie rilasciate da un soggetto autorizzato all'esercizio dell'attività bancaria”.

Per i lavori di importo inferiore a 150.000 euro l’art. 10 prevede gli stessi requisiti di idoneità organizzativa previsti per i lavori di importo superiore alla soglia, mentre per l’idoneità tecnica viene richiesta l’avvenuta esecuzione di lavori della categoria oggetto dell’affidamento di importo non inferiore a quello del contratto da stipulare, o, alternativamente, l’idonea direzione tecnica che è prevista per i lavori di importo superiore.

Correlativamente l’art. 11 prevede requisiti stringenti anche per i direttori tecnici dell’imprese esecutrici, che per la durata dell'appalto non possono rivestire un analogo incarico per conto di altre imprese qualificate per i lavori sui beni culturali - e se essi non sono titolari, o soci, o dipendenti dell’impresa, devono essere “legati” alla impresa medesima con un “contratto d'opera professionale regolarmente registrato”: per la categoria Og2 essi devono essere o architetti, oppure titolari di laurea magistrale in conservazione dei beni culturali, per le categorie Os2-a e Os2-b restauratori dei beni culturali, etc., e devono avere almeno due anni di esperienza nel settore.

5. Progettazione, varianti e collaudo

Riguardo alla progettazione, va detto in primo luogo che l’art. 3 dell’allegato prevede che anche gli interventi sui beni culturali sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e nell’elenco annuale previsti nell’art. 37 del codice, e vengono eseguiti “secondo i tempi, le priorità e le altre indicazioni derivanti dal criterio della conservazione programmata”, secondo quanto previsto dall’art. 29 del Codice dei beni culturali e del paesaggio [30]: pertanto le amministrazioni a tal fine devono redigere un documento sullo stato di conservazione di ogni bene.

Va poi detto che l’allegato dispone la riduzione dei livelli di progettazione prevista dalla lettera q) dell’art. 1 della legge delega n. 78, e che è attuata in via generale nell’art. 41 del codice: anche qui pertanto la progettazione si articola solo in due livelli, il progetto di fattibilità tecnico-economica e il progetto esecutivo [31].

Nondimeno, la disciplina speciale della progettazione degli interventi sui beni culturali resta per certi aspetti più articolata, e per altri più flessibile di quella ordinaria.

Più articolata perché negli artt. 13 e 14 ancora una volta si prevede che tra i contenuti del progetto di fattibilità figura anche la scheda tecnica che descrive “le caratteristiche, le tecniche di esecuzione e lo stato di conservazione dei beni culturali su cui si interviene, nonché eventuali modifiche dovute a precedenti interventi”, al fine di dar conto delle caratteristiche del bene e di fornire indicazioni sulle metodologie da applicare, e che dev’essere previamente approvata dal Soprintendente competente.

La scheda è redatta da un restauratore per i “lavori di monitoraggio, manutenzione o restauro di beni culturali mobili, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico, artistico o archeologico”, e da un archeologo per gli scavi.

La disciplina è poi più flessibile perché a mente dell’art. 12 si può od omettere il progetto esecutivo (e dunque affidare gli interventi sulla base del solo progetto di fattibilità), oppure ridurne i contenuti, in via generale quando, per la natura o lo stato di conservazione del bene, non è possibile “l'esecuzione di analisi e rilievi esaustivi”, oppure sono possibili solo “soluzioni determinabili solo in corso d'opera”, e dunque il Rup dispone l'integrazione della progettazione in corso d'opera - a cui provvede l’impresa esecutrice, con elaborati che ovviamente devono essere approvati dall’amministrazione [32].

Oppure, riguardo a lavori su beni culturali mobili, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico, artistico o archeologico, quando questi lavori “non presentino complessità realizzative”.

Espressione del rilievo delle esigenze conservative sono poi pure le disposizioni intese a garantire che le funzioni inerenti la progettazione, la verifica della medesima e la direzione dei lavori vengano svolte da figure dotate di adeguata professionalità [33].

L’art. 18 prevede che la verifica dei progetti venga svolta da chi ha redatto la scheda tecnica, oppure, in ordine agli interventi su beni mobili culturali, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico artistico o archeologico, da un funzionario con profilo professionale di restauratore, in possesso di specifica esperienza e di capacità professionale coerente con l'intervento; riguardo agli interventi su beni immobili, da un funzionario con profilo professionale di architetto, e, riguardo ai lavori di scavo archeologico, da un funzionario con la qualifica di archeologo, anch’essi in possesso di esperienza specifica e capacità professionale coerente con l'intervento.

L’art. 19 dispone che la progettazione, “nei casi in cui non sia prevista l'iscrizione a un ordine o collegio professionale”, può essere curata anche da un soggetto con qualifica di restauratore di beni culturali, ovvero, “secondo la tipologia dei lavori, da altri professionisti di cui all'articolo 9-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in entrambi i casi in possesso di specifica competenza coerente con l'intervento da attuare” [34].

E prevede altresì che la direzione dei lavori e il supporto tecnico alle attività del Rup e del dirigente competente per la redazione del programma triennale comprendono un restauratore di beni culturali qualificato ai sensi della normativa vigente [35], ovvero, secondo la tipologia dei lavori, un altro dei professionisti di cui all'articolo 9-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, con competenze coerenti con l’intervento ed esperienza almeno quinquennale.

Analogamente, le disposizioni in tema di collaudo di cui all’art. 22 prevedono che per il collaudo dei beni inerenti alla categoria Og2 l’organo di collaudo deve comprendere anche un restauratore con competenze coerenti con l’intervento ed esperienza almeno quinquennale, etc. [36].

La maggiore flessibilità della quale s’è detto poco più sopra riguardo alla progettazione sopra torna in gioco in ordine alla disciplina delle varianti nell’art. 21: che in primo luogo esclude dalla nozione di variante gli interventi che vengono disposti “per risolvere aspetti di dettaglio, finalizzati a prevenire e ridurre i pericoli di danneggiamento o deterioramento dei beni tutelati”, purché essi non modifichino qualitativamente l'opera e non comportino una variazione in aumento o in diminuzione superiore al venti per cento del valore di ogni singola categoria di lavorazione, nel limite del dieci per cento dell'importo complessivo contrattuale [37].

In secondo luogo, ammette entro il limite del venti per cento le varianti in corso d'opera rese necessarie “per fatti verificatisi in corso d’opera, per rinvenimenti imprevisti o imprevedibili nella fase progettuale, per adeguare l'impostazione progettuale qualora ciò sia reso necessario per la salvaguardia del bene e per il perseguimento degli obiettivi dell'intervento”, e quelle “giustificate dalla evoluzione dei criteri della disciplina del restauro”.

In sostanza, anche qui le disposizioni del Codice paiono ispirate dalla consapevolezza del fatto che spesso non ogni aspetto degli interventi sui beni culturali può essere definito precisamente ex ante [38].

6. Contratti a titolo gratuito, forme speciali di partenariato, sponsorizzazioni

Veniamo infine all’art. 134, intitolato “Contratti gratuiti e forme speciali di partenariato”.

Questa disposizione ha contenuti abbastanza eterogenei, che sembrano accomunati dal fatto di riguardare tutti delle forme di collaborazione tra amministrazione e privati le quali esulano dal novero dei partenariati disciplinati nel libro IV del nuovo codice, e che sono intese a cercare di rimediare alla (o, forse, di alleviare la) cronica mancanza di risorse nel settore dei beni culturali [39].

Il primo comma, che dispone che per le attività finalizzate alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali l’amministrazione “può stipulare contratti gratuiti” ai sensi del primo comma dell’art. 8, ma “ferme restando le prescrizioni dell'amministrazione preposta alla loro tutela in ordine alla progettazione e all'esecuzione delle opere e delle forniture e alla direzione dei lavori e al loro collaudo”, in sostanza si limita a precisare che anche in questo contesto trova applicazione la regola che viene appunto dettata nell’art. 8, secondo cui “nel perseguire le proprie finalità istituzionali le pubbliche amministrazioni sono dotate di autonomia contrattuale e possono concludere qualsiasi contratto, anche gratuito, salvi i divieti espressamente previsti dal codice e da altre disposizioni di legge”.

Si potrebbe pensare che si tratta di una precisazione abbastanza superflua, perché, se è vero che la regola posta dall’art. 8, collocato nel titolo del libro primo del Codice dedicato ai Principi generali, ha portata generale, dovrebbe essere pacifico che essa trova applicazione anche in ordine ai contratti relativi ai beni culturali: qui però forse il legislatore non è incorso in una svista, e piuttosto ha ritenuto che questa ripetizione fosse opportuna per tranquillizzare le amministrazioni che si occupano dei beni culturali sulla liceità dei contratti a titolo gratuito, dato che, come si dirà fra poco, negli scorsi anni esse sono andate incontro a qualche problema già quando hanno impiegato i contratti di sponsorizzazione [40].

D’altro canto anche il primo comma dell’art. 8 costituisce null’altro che una esplicitazione della generale capacità di diritto privato della pubblica amministrazione, sulla quale concordano da decenni dottrina e giurisprudenza [41], e che qui viene enunciata in termini di “autonomia contrattuale”.

Diversi sono i motivi che possono avere indotto il legislatore a rendere esplicito un principio che si riteneva vigente anche in precedenza, ma tra di essi con tutta probabilità v’è l’intento di evitare le incertezze che talvolta riemergono ancora in proposito: incertezze che, in una materia particolarmente delicata quale quella dei contratti della pubblica amministrazione, espongono i funzionari a rischi di responsabilità di vario genere - e di conserva espongono le amministrazioni ai rischi di inazione che per solito vengono dalla cosiddetta paura della firma [42].

La precisazione sul fatto che l’autonomia contrattuale consente anche la stipula dei “contratti gratuiti” dei quali dice anche l’art. 134 si spiega più agevolmente, se si considera in primo luogo che nel codice del 2016 la gratuità pareva consentita solo nell’area, abbastanza circoscritta, della realizzazione delle opere pubbliche disciplinata dall’art. 20, e, in secondo luogo, che in diritto civile questa categoria è abbastanza controversa [43].

Il secondo comma è dedicato alle “forme speciali di partenariato”, e prevede che esse possono essere “attivate con enti e organismi pubblici e con soggetti privati”, per “assicurare la fruizione del patrimonio culturale della nazione e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla sua tutela o alla sua valorizzazione”, e dunque sono “dirette a consentire il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l'apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali”.

Riguardo alle identiche formule contenute nell’art. 151 del codice del 2016 in dottrina si era osservato che esse sono di lettura tutt’altro che facile, perché manca un’indicazione dei contratti che possono essere stipulati per dette finalità [44].

Ma dato che per affidare questi partenariati l’art. 151 prevedeva una procedura semplificata (si faceva rinvio alle norme sull’affidamento dei contratti di sponsorizzazione di cui all’art. 19 del vecchio codice), per evitare una discrasia rispetto alle procedure ordinarie di affidamento dei contratti di partenariato v’era da pensare che i partenariati speciali potessero consistere solo in contratti che sono “estranei alle figure dell’appalto e della concessione come configurate dal diritto dell’Unione”, oppure che comunque non rientrano nell’ambito di applicazione del diritto interno che attua il diritto eurounitario perché hanno come oggetto dei servizi non economici di interesse generale, oppure perché riguardano prestazioni di valore inferiore alle soglie di rilevanza europea [45].

È una lettura che può essere riproposta pure riguardo al comma 2 dell’art. 134, perché anche secondo il nuovo codice la procedura di scelta del partner nei partenariati speciali pare ancora una volta destinata a essere oggetto di una procedura semplificata.

Ora, in proposito il comma 2 prevede testualmente che deve procedersi a questa scelta “attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato analoghe o ulteriori rispetto a quelle previste dall'articolo 8”: è però evidente che questa formula è il frutto di un lapsus calami, dato che l’art. 8 non prevede nessuna procedura [46].

Pare dunque che qui piuttosto debba trovare applicazione un altro articolo che è collocato nel titolo I del libro primo del codice, ossia l’art. 13: questo articolo, dopo avere affermato nel primo comma che le disposizioni del codice si applicano ai contratti di appalto e di concessione, e dopo aver precisato nel secondo comma che esse “non si applicano ai contratti esclusi, ai contratti attivi e ai contratti a titolo gratuito”, nel quinto comma prevede che “l’affidamento dei contratti di cui al comma 2 che offrono opportunità di guadagno economico, anche indiretto, avviene tenendo conto dei principi di cui agli articoli 1, 2 e 3”.

Dato che l’art. 3 enuncia il principio dell'accesso al mercato, che deve avvenire “nel rispetto dei principi di concorrenza, di imparzialità, di non discriminazione, di pubblicità e trasparenza, di proporzionalità”, se ne desume che anche nella scelta del partner nei partenariati speciali dovrà applicarsi una procedura competitiva o concorsuale [47]: e pare presumibile che in proposito trovino applicazione le norme dettate dall’art. 3 della legge di contabilità dello Stato n. 2440/1923, che come noto ha una portata generale.

E veniamo infine al terzo comma, che prevede che “l'affidamento di contratti di sponsorizzazione di lavori, servizi o forniture per importi superiori a 40.000 euro, mediante dazione di danaro o accollo del debito, o altre modalità di assunzione del pagamento dei corrispettivi dovuti, ivi compresi quelli relativi a beni culturali” avviene tramite un procedimento che consiste nella “previa pubblicazione sul sito internet della stazione appaltante, per almeno trenta giorni, di apposito avviso, con il quale si rende nota la ricerca di sponsor per specifici interventi, ovvero si comunica l'avvenuto ricevimento di una proposta di sponsorizzazione, indicando sinteticamente il contenuto del contratto proposto”.

Trascorso il termine di trenta giorni, “il contratto può essere liberamente negoziato, purché nel rispetto dei principi di imparzialità e di parità di trattamento fra gli operatori che abbiano manifestato interesse”.

Queste formule vengono da una storia un poco involuta.

Se riprendiamo la distinzione, di origine contabilistica, tra contratti attivi e contratti passivi della pubblica amministrazione, è ovvio che le sponsorizzazioni sono contratti attivi, perché da esse nei bilanci pubblici viene un’entrata: e quindi non rientrano nel novero dei negozi disciplinati nei tre codici dei contratti pubblici che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, ossia gli appalti e le concessioni, che invece sono contratti passivi, dato che per l’amministrazione comportano un’uscita [48].

Nel testo modificato dalla legge Merloni-quater l’art. 2 della legge n. 109 del 1994 aveva dunque precisato che la disciplina dei lavori pubblici non trova applicazione ai contratti di sponsorizzazione: salvo per quanto riguarda la qualificazione degli esecutori dei lavori.

E ciò perché le sponsorizzazioni possono essere o sponsorizzazioni pure, di puro finanziamento, che consistono in una mera dazione di denaro all’amministrazione da parte dello sponsor privato, oppure sponsorizzazioni tecniche, tramite le quali lo sponsor invece realizza a sue spese un’opera pubblica [49]: in questo secondo genere di sponsorizzazione il privato realizza dunque una prestazione analoga a quella che pone in essere un appaltatore o un concessionario di opera pubblica, e pertanto viene assoggettato alle norme sui lavori pubblici che sono intese a garantire la corretta esecuzione dell’intervento.

Il testo originario del codice dei contratti pubblici del 2006 nell’art. 26 aveva però iniziato a complicare le cose perché, oltre a riprendere la norma sulla qualificazione degli sponsor che figurava nella legge Merloni, aveva anche previsto che nella scelta degli sponsor si applicassero “i principi del Trattato”: dal che discendeva l’applicabilità alle sponsorizzazioni tecniche del regime previsto dall’art. 27 per tutti i contratti esclusi, ossia dell’obbligo di rispettare i “principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”, e quello di far precedere l’affidamento del contratto dall’invito ad almeno cinque imprese.

Il decreto-legge n. 5 del 2012, intitolato “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo” convertito nella legge n. 35/2012, aveva poi disposto l’inserimento nel codice del 2006 dell’art. 199-bis: una disposizione specificamente dedicata alle sponsorizzazioni dei beni culturali, la quale dettava una disciplina estremamente articolata, che prevedeva l’obbligo di inserire tutti gli interventi oggetto di sponsorizzazione nella programmazione triennale dei lavori pubblici, e modalità di selezione dello sponsor estremamente puntigliose, molto più complesse sia di quelle previste dalla legge e dal regolamento di contabilità dello Stato per i contratti attivi, sia di quelle dettate dall’art. 27 del primo Codice per i contratti esclusi.

Questa disposizione si ricollegava alle polemiche che erano sorte in ordine alla nota vicenda della sponsorizzazione del Colosseo.

In un primo tempo il commissario delegato per la realizzazione degli interventi urgenti nelle aree archeologiche di Roma e Ostia dal ministero per i Beni e le Attività Culturali aveva indetto una procedura concorsuale per l’affidamento di una sponsorizzazione tecnica dei lavori di restauro del Colosseo: ma dopo aver valutato come irregolari entrambe le offerte pervenute, aveva deciso di stipulare a trattativa privata un contratto di sponsorizzazione pura con una delle due imprese che avevano partecipato alla procedura aperta.

Mentre l’autorità di vigilanza sui contratti pubblici aveva ritenuto l’operato del commissario corretto, perché a suo avviso sussistevano le “particolari ragioni” in presenza delle quali la legge di contabilità dello Stato ammette il ricorso alla trattativa privata, l’Agcm in una nota del 20 dicembre 2011 lo aveva criticato pesantemente, in particolare in base alla considerazione che “la scelta di optare ... per una procedura negoziata, svoltasi interpellando un numero molto limitato di soggetti, appare come una indebita restrizione del confronto concorrenziale che avrebbe potenzialmente potuto portare l’amministrazione appaltante a beneficiare di un’offerta più vantaggiosa” [50].

Dato che il clima culturale e politico di un decennio fa era incentrato sulla tutela del mercato concorrenziale e sulla lotta alla corruzione, ciò aveva recato a un intervento del governo e del parlamento tanto tempestivo quanto estemporaneo, che rischiava di risolversi in un’eterogenesi dei fini.

Infatti l’art. 199-bis, nato per evitare che si ripetesse un - preteso - vulnus al mercato concorrenziale nel settore delle sponsorizzazioni, paradossalmente rischiava di far venire meno ogni forma di mercato in questo settore, dato che le procedure introdotte nel 2012 erano talmente complesse e defatiganti da poter senz’altro scoraggiare i possibili sponsor [51].

Pertanto il codice del 2016 aveva voluto “sbloccare il settore” [52], e nell’art. 19 aveva introdotto quella procedura semplificata per l’affidamento di tutti i contratti di sponsorizzazione che ora ritroviamo nell’art. 134 del nuovo codice.

Si tratta di una scelta senz’altro condivisibile: anche se da un punto di vista formale risulta abbastanza singolare che nel terzo comma dell’art. 134, inserito nella parte del codice dedicata a “I contratti nel settore dei beni culturali”, venga dettata una disciplina che pare applicabile non solo alle sponsorizzazioni dei beni culturali, ma anche a ogni altro contratto di sponsorizzazione - com’è singolare pure che nella rubrica di questo articolo alla disciplina delle sponsorizzazioni non si faccia nessun cenno.

 

Note

[*] Giuseppe Manfredi, professore Ordinario di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza, via E. Parmense, n. 84 - 29122 (Piacenza), giuseppe.manfredi@unicatt.it.

[1] La rubrica del titolo III del codice vigente è dunque più corretta di quella della corrispondente partizione del codice del 2016, ossia il capo III del titolo VI della parte II, che invece era intitolato “Appalti nel settore dei beni culturali”, perché anche tra le disposizioni speciali sui beni culturali del secondo codice v’erano quelle dedicate alle sponsorizzazioni e alle forme speciali di partenariato, ossia a negozi che, come si dice anche più avanti nel testo, non sono contratti d’appalto.

[2] In questo senso cfr., tra i primi commenti alle disposizioni in parola, A. Guerrieri, I contratti in deroga, in Il nuovo corso dei contratti pubblici. Principi e regole in cerca di ordine (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36), (a cura di) S. Fantini, H. Simonetti, Città di Castello, 2023, pag. 185 ss., e D. Caldirola, I contratti nel settore dei beni culturali, in Nuovo Codice dei contratti pubblici. Commentario ragionato, (a cura di) M.A. Cabiddu, M.C. Colombo, D. Caldirola, M. Casati, D. Ielo, A. Napoleone, M. Rizzo, Milano, 2023, pag. 456 ss.

[3] Così P. Carpentieri, P. Ungari, I contratti relativi ai beni culturali, in Trattato sui contratti pubblici, (a cura di) M.A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli, Milano, 2008, IV, pag. 2974.

[4] Cfr., fra i tanti, D. Vaiano, Art. 197, in AA. VV., Codice dei contratti pubblici, Milano, 2007, pag. 1718 ss., e P. Carpentieri, P. Ungari, I contratti relativi ai beni culturali, cit., pag. 2975 ss.

[5] Cfr. ad es. G. Santi, Il restauro e la manutenzione di beni culturali mobili nel d.p.r. 21 dicembre 1999, n. 554, in Aedon, 2001, 2, e Id., Attività di restauro di beni culturali e legge Merloni-quater: il recupero della specialità nella disciplina dell'evidenza pubblica, in Aedon, 2002, 2.

[6] Su cui v. E. Picozza, I contratti con la pubblica amministrazione tra diritto comunitario e diritto nazionale, in I contratti con la pubblica amministrazione, (a cura di) C. Franchini, Torino, 2007, I, pag. 33, e, più ampiamente, C. Vitale, La realizzazione dei lavori di restauro dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2005, 2, pag. 219 ss.

[7] Per precisione va detto che in questo caso la mancata emanazione del regolamento di esecuzione non era stata dovuta solo all’inerzia del governo, dato che vi aveva concorso anche una vicenda abbastanza curiosa: come riferiscono T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 1995, pag. 8, e, più di recente, A. Rocella, I luoghi di culto come beni culturali, in Eph. iuris can., 2023, pag. 95 ss., negli anni immediatamente seguenti all’entrata in vigore della legge del 1939 di redigere uno schema di regolamento venne incaricata una commissione nominata dal ministro dell’Educazione nazionale, ma il testo definitivo non venne approvato in conseguenza della caduta del fascismo, e dunque cadde nel dimenticatoio.

[8] Probabilmente l’alternativa consistente nell’emanazione di un regolamento unico per l’esecuzione di tutte le disposizioni codicistiche è stata scartata in considerazione dell’insuccesso dello schema di regolamento che era stato elaborato in attuazione del d.l. n. 32 del 2019, al fine di risolvere i problemi cagionati dalla ritardata o mancata emanazione dei provvedimenti attuativi previsti nel testo originario del codice del 2016: pare che lo schema del regolamento unico non avesse potuto essere approvato perché - a causa della solita bulimia del nostro legislatore - quand’era stato completato i suoi contenuti risultavano già superati dalle modifiche del codice intervenute medio tempore.

[9] In proposito cfr. M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in Giustizia insieme, 21 dicembre 2022. Sui noti problemi di qualificazione delle figure di cui si dice nel testo v. M.P. Chiti, Il sistema delle fonti nella nuova disciplina dei contratti pubblici, in Giorn. dir. amm., 2016, 4, pag. 436 ss., G. Morbidelli, Linee guida dell’Anac: comandi o consigli?, in Dir. amm., 2016, 3, 273 ss. e M. Ramajoli, B. Tonoletti, Qualificazione e regime giuridico degli atti amministrativi generali, in Dir. amm., 2013, 1-2, pag. 53 ss.

[10] Cfr. G. Demuro, che in Le delegificazioni nelle leggi nn. 59 e 127/1997: “Il fine giustifica i mezzi”?, in Osservatorio sulle fonti 1997, (a cura di) U. De Siervo, Torino, 1998, pag. 246, sostiene che lo schema del comma 2 dell’art. 17 è “l’unico che permette di rispettare i limiti costituzionali del rapporto tra Parlamento e Governo”.

[11] Anche a questo proposito, come noto, sono state scritte le proverbiali biblioteche di dottrina, ma cfr. almeno i contributi di B. Caravita, La débâcle istituzionale della potestà normativa del Governo. Riflessioni in ordine al mutamento del sistema delle fonti, in Federalismi, 2017, n. spec. 2, pag. 1 ss., e di N. Lupo, La normazione secondaria e il fenomeno della fuga dalla legge n. 400 del 1988 al vaglio del Comitato per la legislazione, ivi, Focus Fonti, 2017, 3, pag. 1 ss.

[12] Tra questi regolamenti però non figura quello di delegificazione dell’allegato II.18. Peraltro già in passato alcune clausole di delegificazione avevano previsto i pareri delle commissioni parlamentari a mò di surroga degli adempimenti di cui al comma 2 dell’art. 17, ma trattasi di prassi opinabile, perché intuibilmente i pareri non possono compensare la mancata predeterminazione per legge delle norme generali: v., in questo senso, G. Tarli Barbieri, Le delegificazioni per la razionalizzazione e la semplificazione amministrativa, in Osservatorio sulle fonti 1996, (a cura di) U. De Siervo, Torino, 1997, pag. 179.

[13] Lo si legge nel § 15 dell’ebook di R. Chieppa, M. Santise, H. Simonetti, R. Tuccillo (a cura di), Il nuovo Codice dei contratti pubblici. Questioni attuali sul d.lgs. n. 36/2023, Piacenza, 2023.

[14] Detto incidentalmente, nel caso dei beni culturali per giustificare la delegificazione in questi termini pare dubbio che si possa sempre impiegare l’argomento della tecnicità della materia che in genere viene speso per fondare i poteri normativi delle autorità indipendenti, dato che, a quanto consta a chi scrive, non vi sono regole tecniche da cui ad esempio possa desumersi - per così dire, a rime obbligate - quali professionisti debbano occuparsi della progettazione, quanti debbano essere i livelli di progettazione, etc. E sempre incidentalmente va detto che è vero che scelte arbitrarie purtroppo vengono fatte (e fin troppo spesso) anche dal parlamento - cfr. in proposito almeno gli scritti pubblicati in Annuario Aipda 2004. Condizioni e limiti alla funzione legislativa nella disciplina della pubblica amministrazione, Milano, 2005: ma in punto di diritto, come s’è già accennato nel testo, v’è ragione di ritenere che la predeterminazione per legge delle norme generali discenda dai principi costituzionali - e in prospettiva diversa va detto che forse v’è una maggiore possibilità che in parlamento qualcuno, perché dotato di una visione più lucida (o forse anche solo per spirito di contraddizione), si faccia avanti per denunciare l’arbitrarietà della scelta.

[15] Sulla limitata utilità delle delegificazioni a fini della semplificazione normativa cfr. almeno G. Demuro, La delegificazione come strumento di semplificazione: una difficile coesistenza, in Osservatorio sulle fonti 1999, (a cura di) U. De Siervo, Torino, 2000, pag. 193 ss.: per come sono state condotte, le delegificazioni nel diritto vivente per lo più si sono dunque risolte in uno dei diversi strumenti che hanno consentito al governo di divenire il “signore delle fonti”, secondo la definizione impiegata ad esempio da M. Cartabia, Il Governo “signore delle fonti”?, in Gli atti normativi del Governo tra Corte costituzionale e giudici, (a cura di) M. Cartabia, E. Lamarque, P. Tanzarella, Torino, 2011, pag. 169 ss.

[16] Interpretata letteralmente, questa formula poteva indurre a ritenere che la disciplina speciale potesse trovare applicazione non solo ai beni culturali - che sono oggetto della seconda parte del Codice dei beni culturali e del paesaggio -, ma anche ai beni paesaggistici - che sono oggetto dalla terza parte del medesimo codice: e ciò perché le due categorie di beni fanno entrambe parte del “patrimonio culturale”, dato che esso, a mente del comma 1 dell’art. 2 del codice n. 42 del 2004, “è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici” - così G. Spattini, Art. 198, in Codice dei contratti pubblici commentato, (a cura di) L. Perfetti, Milano, 2013, 2114: e sul punto - a voler applicare la (opinabile) regola interpretativa espressa con il latinetto rubrica legis non est lex - era dubbio che fosse risolutiva l’intitolazione del capo II del titolo IV della parte II del codice del 2006, Contratti relativi ai beni culturali. Questa lettura portava però a un risultato non accettabile, ossia una discontinuità di difficile spiegazione rispetto alla disciplina previgente, il d.lg. n. 30/2004, che era dedicato agli appalti inerenti i soli beni culturali, e non era coerente con la legge delega in base a cui era stato emanato il codice del 2006: così P. Carpentieri, P. Ungari, I contratti relativi ai beni culturali, cit., pag. 2990 ss.

[17] Così, in relazione al d.lgs. 163/2016, G. Maggi, Appalti nel settore dei beni culturali, in I nuovi appalti pubblici, (a cura di) M. Corradino, S. Sticchi Damiani, Milano, 2017, pag. 585 ss.

[18] Sulla nozione di beni culturali extracodicistici, v., per tutti, G. Severini, Artt. 1-2, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2012, pag. 29 ss., A. Bartolini, Beni culturali, voce in Enc. dir. annali, VI, Milano, 2013, pag. 106.

[19] Così, sempre in relazione alle norme del primo Codice dei contratti, T. Paparo, Contratti relativi ai beni culturali (artt. 197-205), in Commentario al Codice dei contratti pubblici, (a cura di) M. Clarich (a cura di), I ed., Torino, 2010, pag. 981 ss. Sulle diverse categorie di beni culturali ex art. 10 del Codice n. 42 del 2004 v. G. Pastori, Art. 10, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, 2007, 97 ss., e G. Morbidelli, Art. 10, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., pag. 123 ss.

[20] Così, in ordine alla disciplina dettata dal Codice dei contratti del 2006, P. Carpentieri, P. Ungari, I contratti relativi ai beni culturali, cit., pag. 2995.

[21] Con riferimento all’identica clausola del Codice del 2016 cfr. S. Antoniazzi, Contratti pubblici e beni culturali: specialità della disciplina e obiettivi di tutela, di conservazione e valorizzazione, in Giustamm.it, 2019, 7.

[22] I termini della questione vengono individuati con chiarezza in particolare già nello scritto di F. Cintioli, L’avvalimento tra principi di diritto comunitario e disciplina dei contratti pubblici, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2011, pag. 1421 ss. In proposito cfr., tra gli scritti recenti, almeno M. Renna, S. Vaccari, Raggruppamenti temporanei di imprese e avvalimento: relazioni giuridiche e principali criticità, in Dir. econ., 2021, pag. 181 ss., A. Nicodemo, Il contratto di avvalimento tra diritto interno e comunitario: uno, nessuno e centomila, in Federalismi, 2019, 4.

[23] Sulla disciplina previgente, che come s’è detto nel testo per lo più è riprodotta nell’allegato in discorso, si rinvia in generale ai puntuali scritti di A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione profili di specialità, in Aedon, 2017, 1, P. Carpentieri, Appalti nel settore dei beni culturali (e archeologia preventiva), in Urb. app., 2016, 8-9, pag. 1014 ss., F.G. Albisinni, I contratti pubblici concernenti i beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2016, 4, pag. 510 ss., S. Antoniazzi, Contratti pubblici e beni culturali: specialità della disciplina e obiettivi di tutela, di conservazione e valorizzazione cit.

[24] V. in proposito D. Vaiano, Art. 200, in Codice dei contratti pubblici, cit., pag. 1735 ss.

[25] Cfr. D. Caldirola, I contratti nel settore dei beni culturali, cit., pag. 457 ss.

[26] Cfr., con riferimento alle corrispondenti disposizioni del Codice abrogato, in particolare P. Carpentieri, Appalti nel settore dei beni culturali (e archeologia preventiva), cit., pag. 1019, che richiama anche i contenuti delle disposizioni del d.p.r. n. 34 del 2000.

[27] Da segnalare che la giurisprudenza amministrativa che si è occupata del meccanismo del c.d. cumulo alla rinfusa per la qualificazione dei consorzi stabili ha avuto modo di affermare che il particolare rigore delle norme sulla qualificazione degli esecutori dei contratti relativi ai beni culturali si ricollega alla “particolare delicatezza derivante dalla necessità di tutela dei medesimi, in quanto beni testimonianza avente valore di civiltà, espressione di un interesse altior nella gerarchia dei valori in giuoco (art. 9 Cost.)" - così Cons. St., V, n. 403/2019.

[28] Cfr., sugli analoghi contenuti del Codice abrogato, in particolare A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione profili di specialità, cit., 3.

[29] Sulle analoghe norme del decreto interministeriale del 2017 v. le puntuali considerazioni di S. Antoniazzi, Contratti pubblici e beni culturali: specialità della disciplina e obiettivi di tutela, di conservazione e valorizzazione, cit., pag. 7.

[30] Cfr., sulla disciplina previgente, F.G. Albisinni, I contratti pubblici concernenti i beni culturali, cit., pag. 512.

[31] I contenuti dell’uno e dell’altro vengono rispettivamente negli artt. 13 e 15. L’art. 16 inoltre prevede contenuti particolari per entrambi questi documenti nel caso in cui la progettazione riguardi scavi archeologici.

[32] Cfr. D. Caldirola, I contratti nel settore dei beni culturali, cit., pag. 458. Per considerazioni sulla - analoga - disciplina pregressa v. P. Carpentieri, Appalti nel settore dei beni culturali (e archeologia preventiva), cit., pag. 1018 ss.

[33] Cfr. A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione profili di specialità, cit., 4.

[34] L’art. 9-bis del Codice 42/2004 dispone: “In conformità a quanto disposto dagli articoli 4 e 7 e fatte salve le competenze degli operatori delle professioni già regolamentate, gli interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonché quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi, di cui ai titoli I e II della parte seconda del presente codice, sono affidati alla responsabilità e all'attuazione, secondo le rispettive competenze, di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell'arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale”.

[35] Che la direzione dei lavori rientri nelle competenze dei restauratori lo prevede peraltro anche l’allegato 1 del decreto del ministero per i Beni e le Attività culturali 86/2009.

[36] Cfr. A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione profili di specialità, cit., pag. 5.

[37] Cfr. F.G. Albisinni, I contratti pubblici concernenti i beni culturali, cit., pag. 513.

[38] G. Maggi, Appalti nel settore dei beni culturali, cit., pag. 593, aveva osservato che “si potrebbe addirittura ipotizzare che il legislatore, per tutelare ad ampio raggio l’interesse alla conservazione del bene, abbia voluto deferire, più che alla fase della progettazione, proprio al momento dell’esecuzione la disamina degli aspetti più tecnici e concreti dell’intervento”.

[39] La questione è ampiamente nota, ma cfr., fra i tanti, almeno A. Leon, V. Tuccini, La dimensione economica del patrimonio culturale, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2011, pag. 230 ss., e, da ultimo, G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e... di come addomesticare gli scoiattoli, in Aedon, 2018, 3.

[40] Che non possono considerarsi contratti a titolo gratuito, ma anch’essi non comportano un esborso di somme a carico dell’amministrazione.

[41] Sulla generale capacità di diritto privato della P.A. v. almeno G. Pericu, Note in tema di attività di diritto privato della pubblica amministrazione (1966), ora in Id. Scritti scelti, Milano, 2009, e, di recente, V. Cerulli Irelli, Amministrazione pubblica e diritto privato, Torino, 2011, pag. 69 ss.

[42] Nei primi commenti al codice il senso di questa disposizione viene letto in modi diversi: vi è chi afferma che essa sarebbe intesa a superare definitivamente il pregiudizio anticontrattuale cui si ispirava in passato il nostro diritto amministrativo - così L.R. Perfetti, Sul nuovo codice dei contratti pubblici. In principio, in Urb. app., 2023, 1, pag. 5 ss.: in ottica sistematica forse si può pensare che il fatto che per indicare la capacità di diritto privato qui si è impiegata l’espressione “autonomia contrattuale” è dovuto all’intento di chiarire ciò che è stato efficacemente definito come la “neutralità tecnica” degli strumenti di diritto privato impiegati dell’amministrazione da parte di un a. che pure non nega la specificità della funzione dalla pubblica amministrazione - A. Moliterni, Amministrazione consensuale e diritto privato, Napoli, 2016, spec. pag. 485: neutralità che invece viene messa in discussione da G. Clemente di San Luca, L. De Fusco, Il principio di autonomia contrattuale nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Federalismi, 2023, 21, pag. i quali pertanto criticano l’affermazione del principio in discorso. L’intento di superare “ogni residua ambiguità e incertezza” sull’uso degli strumenti di diritto privato viene postulato ad es. da G. Napolitano, Il nuovo Codice dei contratti pubblici: i principi generali, in Giorn. dir. amm., 2023, 3, pag. 296. Il fatto che i contratti della pubblica amministrazione vengano considerati come particolarmente esposti a rischi corruttivi viene sottolineato ad es. da M. Renna, I principi, in Il nuovo corso dei contratti pubblici. Principi e regole in cerca di ordine (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36), cit., pag. 1 ss.

[43] Cfr. ad es. L. Bozzi, Alla ricerca del contratto gratuito atipico, in Riv. dir. civ., 2004, 2, pag. 209 ss. Peraltro il contratto gratuito che nella prassi recente delle pubbliche amministrazioni veniva impiegato con maggiore frequenza, ossia il contratto di lavoro gratuito (su cui v., da ultimo, G. Impellizieri, Sulla controversa questione della legittimità del lavoro gratuito per la Pubblica Amministrazione, in Lav. giur., 2022, pag. 294 ss.), che già secondo il comma 2 dell’art. 8 era destinato a trovare applicazione solo “in casi eccezionali”, da ultimo è stato vietato dal comma 3 dell’art. 2 della legge sull’equo compenso n. 49/2023.

[44] G. Sciullo, Patrimonio culturale e PSPP secondo il Codice dei contratti, in Il capitale culturale, 2022, suppl. 2022, 21, pag. 81 ss. Nel prosieguo dello scritto l’A. comunque fa diversi esempi concreti di contratti di partenariato speciale stipulati da questa o da quella amministrazione. Sui partenariati speciali cfr. almeno anche C. Napolitano, Il partenariato pubblico-privato nel diritto dei beni culturali: vedute per una sua funzione sociale, in Diritti fondamentali, 2019, 2, L. Ferrara, F. Rota, Gli strumenti di valorizzazione e promozione del patrimonio culturale tra disciplina di settore e codice dei contratti pubblici, in amministrativ@mente, 2021, 4, e S. Antoniazzi, Contratti pubblici e beni culturali: specialità della disciplina e obiettivi di tutela, di conservazione e valorizzazione, cit., pag. 24 ss., P. Rossi, Partenariato pubblico-privato e valorizzazione economica dei beni culturali nella riforma del codice degli appalti, in Federalismi, 2018, 2, pag. 2 ss.

[45] G. Sciullo, Patrimonio, op. ult. cit., pag. 85.

[46] Ovvio che un riferimento in questo senso non lo si ritrova neppure nella formula di cui al terzo comma dell’art. 8, per cui “le pubbliche amministrazioni possono ricevere per donazione beni o prestazioni rispondenti all'interesse pubblico senza obbligo di gara”, dato che con essa ci si limita a escludere che debba svolgersi una procedura ai fini dell’accettazione delle donazioni.

[47] Sul significato e sulle implicazioni dell’art. 3 si rinvia a R. Dipace, Tipologie di procedimenti, in Il nuovo corso dei contratti pubblici. Principi e regole in cerca di ordine (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36), cit., pag. 110.

[48] L’Avcp lo aveva affermato con chiarezza già nella determinazione n. 24/2001. V., in proposito, R. Dipace, La sponsorizzazione, in I contratti con la pubblica amministrazione, cit., pag. 1193 ss. Sul distinguo tra contratti attivi e contratti passivi della P.A. v., in generale, G. Roehrssen Di Cammerata, I contratti della pubblica amministrazione, Bologna, 1967, pag. 38.

[49] Cfr. G. Piperata, Sponsorizzazioni e appalti pubblici degli enti locali, in Riv. trim. app., 2002, 1, pag. 67 ss.

[50] Peraltro della questione s’era occupata anche il giustizia amministrativa: la sentenza n. 6028/2012 della I sezione del Tar Lazio aveva rigettato il ricorso promosso dal Codacons per difetto di legittimazione. Questa pronunzia era poi stata confermata dalla VI sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 4034/2013, che aveva affermato pure che le valutazioni discrezionali svolte in ordine all’equilibrio sinallagmatico del contratto non paiono scorrette. Sulla vicenda v. A. Fantin, Le sponsorizzazioni dei beni culturali: nuovi orizzonti del partenariato pubblico-privato, in Il capitale culturale, 2011, pag. 125 ss., S. Cavaliere, Le sponsorizzazioni e la tutela del patrimonio culturale, in Amministrazione in cammino, 12 maggio 2012, nonché, volendo, G. Manfredi, Le sponsorizzazioni dei beni culturali e il mercato, in Aedon, 2014, 1.

[51] Sulla dialettica tra le varie esigenze sottese alla disciplina delle sponsorizzazioni v. in particolare G. Comporti, Sponsorizzazioni ed erogazioni liberali, in Aedon, 2015, 2, e sia permesso rinviare ancora a G. Manfredi, Le sponsorizzazioni dei beni culturali e il mercato, cit.

[52] P. Carpentieri, Appalti nel settore dei beni culturali (e archeologia preventiva), cit., pag. 1024.

 

 

 



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