Canoni e corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni culturali: prime riflessioni sul d.m. 161/2023
I beni del patrimonio culturale tra canoni e corrispettivi [*]
di Giuseppe Piperata [**]
Cultural heritage between fees concession for the use and reproduction
The Author reflects on the impact of the ministerial decree on cultural administration and users interested in the use of cultural heritage and above all in their possible reproduction.
Keywords: Concessione fees; Reproduction of cultural heritage; Use of cultruale heritage.
L’immagine del David di Michelangelo modificata con la tecnica lenticolare e pubblicata senza autorizzazione sulla copertina di un noto periodico; la riproduzione in migliaia di esemplari dell’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci venduta come puzzle; la Venere di Urbino del Tiziano, insieme al Bacco del Caravaggio e ad altri quadri famosi riproposti da una nota piattaforma di condivisione di video per adulti con l’intento di segnalare i capolavori dell’arte che maggiormente spiccano per l’erotismo che esprimono. Sono questi alcuni degli ultimi casi in cui le amministrazioni pubbliche consegnatarie di importanti beni del patrimonio culturale nazionale sono state costrette ad attivarsi con diffide o più incisive azioni giudiziali dirette a impedire usi illegittimi ed anche inappropriati delle immagini relative a tali beni. L’impressione è che si tratti della punta di un iceberg, con la parte non ancora emersa e visibile di ben più ampie dimensioni. Non meraviglia, quindi, che il ministero della Cultura, sia intervenuto con il decreto ministeriale 161 del 2023, per definire le linee guida da seguire per poter determinare gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi da richiedere per la concessione d’uso e di riproduzione dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali. Una reazione normativa, probabilmente, figlia dell’esigenza di governare un fenomeno (quello dell’uso individuale e, in particolare, a fini di lucro del patrimonio culturale) prima che si trasformi in emergenza.
Ma altre ragioni hanno contribuito all’emanazione del d.m., ragioni che possiamo già individuare nelle premesse del provvedimento regolativo, a cominciare da quella più formale e giuridica, in quanto riconducibile all’esigenza di dare attuazione agli artt. 107 e 108 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, in particolare al comma 6 di quest’ultimo. Più concreto (e funzionale) appare invece un altro obiettivo del d.m., rappresentato dall’opportunità di definire criteri omogenei per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi, mentre l’evidenziata “necessità di realizzare una adeguata valorizzazione economica del patrimonio culturale statale ove le fattispecie di concessione in uso e di riproduzione si realizzino a scopo di lucro” indica una precisa direzione - se non politica, quantomeno strategica e operativa - che il MiC intende seguire a proposito di quelli che possono essere alcuni usi individuali e strumentali dei beni culturali dello Stato.
Come era facile prevedere, l’emanazione del d.m. ha riaperto un vivace dibattito tra coloro che si occupano delle politiche relative al patrimonio culturale; un dibattito, tra l’altro, che non è rimasto circoscritto all’analisi delle scelte di fondo contenute nel decreto stesso, ma che da questo è partito per ritornare su problematiche molto più ampie riguardanti il patrimonio culturale italiano, problematiche che ancora sono alla ricerca di possibili soluzioni convincenti e condivise. È senz’altro positivo approfittare di ogni occasione utile per discutere di beni culturali, poiché in questo modo si contribuisce anche a mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su un settore così strategico per il nostro Paese. Ma, nel farlo, è altrettanto necessario cercare di non confondere troppo i piani e fare confusione tra le esigenze di rivedere alcuni aspetti generali riguardanti l’impianto di sistema e gli ambiti più limitati su cui possono impattare singoli interventi specifici.
Rimaniamo pertanto nel campo più circoscritto su cui il d.m. è destinato ad impattare, pur sapendo che ad ogni riflessione riguardante tale contesto fa da sfondo l’amletica alternativa in materia di uso individuale del patrimonio culturale, ossia se sia più opportuno ampliare ancor di più gli spazi della liberalizzazione e gratuità ovvero, al contrario, potenziarne le dinamiche di redditività. Del resto, il d.m. sembra dare per acquisito il punto di equilibrio indicato oggi dall’ordinamento, collocandosi in chiave attuativa “a valle” di quello che è già il disegno graduale e a cerchi concentrici voluto dagli artt. 106 ss. del Codice. Tale disegno ruota intorno a tre perni: le concessioni presuppongo che l’uso o la riproduzione dei beni del patrimonio culturale consentite siano compatibili con il loro carattere storico o artistico; per le riproduzioni, la distinzione tra uso per finalità lucrative o non lucrative dell’immagine del bene culturale è determinante ai fini della gratuità o meno della concessione; spetta all’autorità che ha in consegna il bene determinare il canone per le concessioni in uso e i corrispettivi per le riproduzioni dei beni culturali, potendo anche fissare con un proprio provvedimento gli importi minimi di riferimento.
Ed è proprio quest’ultimo l’aspetto che il d.m. valorizza, ponendosi come obiettivo quello di fornire alcune linee guida utili per le amministrazioni statali consegnatarie dei beni del patrimonio culturale chiamate a determinare canoni e corrispettivi per gli usi non liberalizzati e a definire anche gli importi minimi e massimi degli stessi. Adesso, tocca quindi ai singoli istituti e luoghi di cultura dello Stato attivarsi per completare - rispetto ai beni dei quali sono consegnatari - il quadro regolativo già impostato dalle Linee guida. È prevedibile che tale processo di completamento dovrà fare i conti con almeno due fattori di criticità, il primo interno all’amministrazione pubblica e il secondo esterno alla stessa e riguardante l’utenza, entrambi riconducibili alle ricadute, anche pratiche, che l’attuazione del d.m. è destinato ad avere.
Partiamo dal primo fattore di criticità, quello interno e riferibile all’impatto del d.m. sulle amministrazioni culturali. Non v’è dubbio che la realizzazione di quanto previsto dal decreto passi dalla capacità di ogni singola amministrazione interessata di trovare la giusta risposta organizzativa per far fronte ai vari adempimenti regolativi e procedurali ipotizzati. Alle amministrazioni, infatti, viene chiesto un non semplice lavoro di definizione degli elenchi, con la successiva specificazione dell’incremento dei canoni e dei corrispettivi mediante l’adozione di un apposito tariffario. Il mancato adempimento non esime l’amministrazione interessata dal richiedere i canoni e corrispettivi dovuti per assenza di parametri di riferimento, potendo trovare applicazione in queste ipotesi quanto contenuto nelle tabelle dell’Allegato al d.m. (cfr. art. 3, c. 3).
Ma vi è di più. Si tratta di uno scenario destinato a potenziare la responsabilizzazione delle strutture, chiamate non solo a dettagliare gli elenchi e gli importi dei canoni e dei corrispettivi, ma anche a governare le dinamiche di concessione di uso degli spazi e di riproduzione delle immagini in chiave di valorizzazione economica e a vigilare sugli usi dei beni di cui sono consegnatari, sapendo che eventuali illecite utilizzazioni degli stessi determinerebbero un mancato guadagno facilmente quantificabile secondo le tabelle adottate e di cui - se tollerato - si potrebbe essere chiamati a rispondere anche in sede di giurisdizione contabile. La dottrina, a commento di alcuni recenti casi giurisprudenziali in tema di illecita riproduzione del patrimonio culturale, ha segnalato al riguardo che non esiste un diritto all’immagine del bene culturale, ma al massimo si può parlare di una potestà dell’amministrazione sull’immagine del bene, in quanto la posizione delle strutture amministrative rispetto ai beni culturali è rappresentabile come una situazione ad esercizio doveroso, con la conseguenza che tali strutture devono “esercitare una sorveglianza sull’uso dell’immagine da parte di terzi impedendone l’abusivo sfruttamento e deve anche curare di sfruttarne economicamente le potenzialità in aderenza al criterio per cui la finalità di promozione della persona umana per mezzo della cultura (art. 9 Cost.) va, per quanto possibile, coniugata con il rispetto di principi gestionali improntati a buona andamento (art. 97 Cost., comma 2, Cost.) e equilibrio dei bilanci delle istituzioni (anche) culturali (art. 97, comma 1, Cost.)” [1].
Si aggiunga, inoltre, che alle strutture amministrative viene anche chiesto un importante (e non sempre facile) lavoro di verifica di compatibilità dell’utilizzazione proposta con il carattere storico-artistico dei medesimi beni culturali, da svolgere previamente e indipendentemente dal canone o dal corrispettivo individuato e alla luce dell’art. 20 del Codice. Operazione, questa, che richiede risorse umane e competenze tecniche adeguate e può assorbire molte energie dell’amministrazione interessata. Ovviamente, non è detto che tale criticità si trasformi in ostacolo. Bisogna, tuttavia, prenderla in considerazione fin da subito e affrontarla, immaginando misure organizzative e funzionali adeguate, anche facendo tesoro - per quanto riproducibili nel settore dell’utilizzo dei beni culturali - delle buone pratiche e delle esperienze già maturate dalla pubblica amministrazione nei campi della gestione di patrimoni pubblici informativi e della conseguente tariffazione a carico dei privati.
E veniamo al secondo fattore di criticità, esterno all’amministrazione e riguardante l’utenza interessata all’uso dei beni culturali e soprattutto alla loro eventuale riproduzione. Alcuni dei contributi pubblicati nel presente numero di Aedon ben evidenziano che, mentre l’implementazione della valorizzazione economica attraverso la definizione dell’incremento dei canoni non pone particolari problemi per le concessioni in uso dei beni culturali - ovviamente, fermo restando sempre la primazia dell’esigenza di tutela dei medesimi -, viceversa, analogamente non può dirsi riguardo al diverso utilizzo immateriale degli stessi attraverso le possibili modalità di riproduzione della loro immagine. Il primo uso, infatti, implica sempre la fisicità nell’occupazione degli spazi o nell’apprensione del bene, e ciò giustifica, se vogliamo, la previsione di ricavi a favore dell’amministrazione come controprestazione per l’uso esclusivo ed escludente concesso; il secondo, invece, prescinde da qualsiasi materialità e non determina l’esclusione di altri dalla fruizione del bene riprodotto, e eventuali ricavi pretesi come corrispettivi possono giustificarsi in ragione, ad esempio, dell’attività svolta dall’amministrazione finalizzata a consentire la replica o la riproduzione del bene culturale o dello sfruttamento economico cui il privato intende sottoporre quella replica o quella riproduzione.
Il d.m. tiene insieme le due dinamiche, anche perché è il Codice, per primo, a fare altrettanto. Ma soprattutto, promuovendo una maggiore valorizzazione in termini economici del nostro patrimonio culturale attraverso la definizione di tabelle, elenchi e importi dei corrispettivi, avrebbe un effetto favorevole per la pubblica amministrazione, la quale vedrebbe aumentata la redditività del proprio patrimonio, e un effetto meno favorevole per coloro che sono interessati ad un utilizzo dello stesso mediate la sua riproduzione per immagini, che vedrebbero, invece, ridotto l’ambito della liberalizzazione e gratuità, soprattutto per gli usi richiesti per scopi lucrativi. Anche su questo punto - lo abbiamo già visto - è il Codice ad anticipare il decreto, affidando alla sussistenza o meno di uno scopo lucrativo a fondamento della utilizzazione della immagine l’effettiva apertura degli spazi di liberalizzazione dell’uso che già il Codice stesso delimita, escludendo la gratuità dell’uso anche quando eventualmente lo scopo lucrativo si sovrapponga a quello della valorizzazione del bene (art. 108, c. 3). Ma, si sa, nel caso della riproduzione delle immagini del patrimonio culturale, il confine tra l’utilizzazione per scopo di lucro e le utilizzazioni per altri scopi non è sempre così netta e la distinzione si presta ad equivoci e incertezze operative [2].
Incertezze destinate, oggi, a riproporsi proprio come conseguenza dell’entrata in vigore del d.m., ma che non possono essere invocate per giustificare un comportamento inerziale delle pubbliche amministrazioni nell’attuazione di quanto il Codice, prima ancora che il decreto, pretende. È importante, invece, che le criticità segnalate vengano subito affrontate, in particolare dal ministero che, in ogni caso, con l’adozione del d.m. ha dimostrato di essere consapevole che sulla questione dell’uso delle immagini dei beni culturali, oggi, si gioca una partita importante per le politiche di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio storico e artistico e, di conseguenza, che tale questione merita di entrare tra i punti più urgenti della agenda di governo del settore. Agenzie di stampa specializzata hanno riportato voci che confermerebbero la volontà del ministero di intervenire nuovamente sul d.m. per migliorarlo e correggere eventuali punti critici. Un intervento di correzione sul d.m. sarebbe sicuramente positivo e sarebbe anche utile per recuperare, ad esempio, un maggior “dialogo” tra Linee guida del decreto e altri interventi riguardanti la digitalizzazione del patrimonio culturale (che potrebbe servire anche ad alleggerire l’impatto organizzativo del d.m. sulle pubbliche amministrazioni) o possibili dinamiche di raccordo tra l’amministrazione statale e le altre amministrazioni (ma anche enti privati) per una cooperazione nella definizione operativa dei parametri di calcolo di canoni e corrispettivi legati all’uso del patrimonio (che spesso per i fruitori non è percepibile in tutte le sue distinzioni e sfumature dominicali o competenziali).
Non tutto, però, potrà essere risolto intervenendo sul d.m. Le polemiche che l’adozione dello stesso ha alimentato, le contrapposizioni dottrinali che sono seguite agli arresti giurisprudenziali sui casi all’inizio ricordati stanno a significare che forse l’ambito di cui si occupano gli artt. 106 ss. del Codice richiede degli interventi di sistema ad un piano legislativo, in modo non necessariamente da orientare una scelta netta verso la gratuità o, viceversa, la redditività dell’uso del patrimonio, ma quantomeno da chiarire meglio le condizioni in presenza delle quali è giusto che l’amministrazione culturale pretenda dei ricavi e, soprattutto per le dinamiche di riproduzione delle immagini dei beni culturali, fornisca un quadro giuridico più adeguato per governare fenomeni sempre più esposti al progresso delle nuove tecnologie.
Note
[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.
[**] Giuseppe Piperata, professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università IUAV di Venezia, Santa Croce 191, Venezia, giuseppe.piperata@iuav.it.
[2] Si vedano, al riguardo, gli esempi riportati da D. Manacorda, Dieci argomenti per una piena liberalizzazione dell’uso delle immagini del patrimonio culturale pubblico, in Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?, a cura di D. Manacorda, M. Modolo, Pacini, 2023, spec. pag. 17 s.