Le sfide e gli strumenti della valorizzazione
Le “forme speciali di partenariato” per la valorizzazione dei beni culturali: la causa di comunione di scopo quale elemento di specialità
di Nicoletta Vettori [*]
Sommario: 1. Premessa. - 2. Le “forme speciali di partenariato” pubblico-privato (PSPP) nel settore culturale tra secondo e terzo Codice dei contratti pubblici. - 2.1. La disciplina dell’art. 151, comma 3, d.lg. 18 aprile 2016, n. 50. - 2.2. La disciplina del nuovo articolo 134, comma 2, d.lg. 31 marzo 2023, n. 36. - 2.3. Considerazioni critiche. - 3. Una diversa ipotesi ricostruttiva: la causa di “comunione di scopo” quale elemento di specialità. - 3.1. I caratteri del PSPP quale tipologia di partenariato collaborativo. - 4. “Forme speciali di partenariato”, valorizzazione del patrimonio culturale e sviluppo dei territori. - 5. Nota conclusiva.
The ‘special forms of partnership’ for the enhancement of cultural heritage: the common purpose as the element of speciality
The new Public Contracts Code has confirmed the provision of ‘special forms’ of public-private partnership that can be activated for the protection and enhancement of cultural goods, giving the institute a different systematic position and broadening its scope of application. This makes it impossible to define a more precise legal status for the institute. The thesis that is proposed is that the characterising element, which may also justify the particular procedural discipline envisaged, is the ‘collaborative’ nature of the relationship, or rather (using a category from civil law) the cause of common purpose.
Keywords: collaborative public-private partnerships; public contract code; enhancement of cultural heritage; economic development of local communities.
Il nuovo codice dei contratti pubblici ha confermato la previsione delle “forme speciali di partenariato” pubblico-privato (di seguito anche PSPP) attivabili nel settore culturale, ampliandone l’ambito di applicazione.
È una scelta che merita di essere sottolineata perché si tratta di una tipologia contrattuale che può avere delle potenzialità, ma che finora ha risentito di incertezze applicative dovute alla laconicità della disciplina e alla conseguente difficoltà di individuare le regole da seguire sia in fase di costituzione che di esecuzione del rapporto.
La diversa collocazione sistematica della norma, insieme ad alcune disposizioni innovative del nuovo codice dei contratti pubblici (in primis i principi generali di cui agli artt. 6 e 8) consentono oggi di definire uno statuto giuridico più preciso dell’istituto.
Obiettivo del presente contributo è, dunque, offrire una proposta ricostruttiva degli elementi che connotano la specialità di queste forme di partenariato, distinguendole in modo netto dal partenariato per così dire ‘ordinario’ (di seguito anche PPP) previste nel Libro IV del nuovo Codice.
A tal fine si analizzerà la disciplina posta dal codice dei contratti pubblici nella formulazione previgente e in quella attualmente in vigore (§§ 2., 2.1, 2.2., 2.3.), per poi individuare i profili distintivi dell’istituto, esaminando i dati normativi e giurisprudenziali rilevanti (§§ 3, 3.1.) e tenendo conto dei caratteri delle attività di valorizzazione per cui può essere utilizzato (§ 4).
2. Le “forme speciali di partenariato” pubblico-privato (PSPP) nel settore culturale tra secondo e terzo Codice dei contratti pubblici
Le forme speciali di partenariato pubblico-privato in ambito culturale sono previste dall’art. 134, comma 2, d.lg. 31 marzo 2023, n. 36 recante il nuovo Codice dei contratti pubblici (di seguito anche Ccp), che sostituisce l’art 151, comma 3, d.lg. 18 aprile 2016, n. 50.
A quest’ultima norma ancora rinvia l’art. 89, comma 17 [1], d.lg. 3 luglio 2017, n. 117, recante il Codice del Terzo settore [2] (di seguito anche Cts). Gli elementi comuni lasciano pensare ad un’identità di fattispecie [3], l’una generale aperta a tutti i soggetti privati, l’altra riservata agli enti del Terzo Settore; lo dimostra il fatto che le esperienze applicative e le analisi dottrinali hanno interessato prevalentemente la disposizione del Codice dei contratti pubblici su cui merita concentrare l’attenzione.
2.1. La disciplina dell’art. 151, comma 3, d.lg. 18 aprile 2016, n. 50
L’art. 151, comma 3, d.lg. n. 50/2016 era inserito tra i Regimi particolari di appalto nel settore culturale [4] e prevedeva la possibilità per lo Stato, le Regioni e gli altri enti territoriali di attivare “forme speciali di partenariato”, con altri soggetti pubblici o con soggetti privati, aventi ad oggetto “il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l’apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili” allo scopo di “assicurare la fruizione del patrimonio culturale della Nazione e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla tutela” [5]. Per l’individuazione dei partner privati si rinviava alle procedure semplificate previste dall’art. 19 Ccp, relativo ai contratti di sponsorizzazione [6].
Data la laconicità della normativa, i caratteri di questo istituto si sono sviluppati in via di prassi.
Secondo le indicazioni operative fornite dall’allora Mibact (oggi ministero della Cultura) il PSPP poteva trovare applicazione nell’ambito degli accordi di valorizzazione di cui all’art. 112 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, sia nella fase “ascendente” - di definizione dell’accordo per l’individuazione di obiettivi e di strategie - sia nella fase “discendente” - per l’elaborazione dei piani e dei progetti di realizzazione delle scelte programmate. Sul piano strutturale era ricostruito come una fattispecie aperta e flessibile in base alla quale avrebbero potuto combinarsi “diversi tipi e cause contrattuali” [7].
Da un’analisi delle prassi applicative è emerso che pur trattandosi di un partenariato di tipo contrattuale (e non istituzionale) ha assunto in molti casi una connotazione “quasi-organizzativa”, attraverso la previsione di comitati tecnici a composizione mista pubblico-privata con compiti di programmazione e controllo dell’attività oggetto del partenariato [8]. Per quanto riguarda le finalità, è stato utilizzato quasi esclusivamente per progetti di valorizzazione, in particolare per attuare la collaborazione scientifica e di ricerca sul patrimonio culturale (ex art. 118, comma 1, d.lg. n. 42/2004), la cooperazione in attività di valorizzazione (ex artt. 6, comma 3, e 11, comma 1, d.lg. d.lg. n. 42/2004), l’instaurazione di rapporti con fondazioni bancarie e soggetti del Terzo settore [9].
Con riferimento al significato da attribuire alla dichiarata “specialità” del partenariato sono state prospettate varie ipotesi [10]. Alcune di queste danno rilievo ai caratteri sostanziali che può assumere il contratto stipulato tra le parti, mentre altre danno prevalenza agli aspetti formali-procedurali.
Secondo una prima ricostruzione l’art. 151, comma 3, si riferiva a contratti che, pur presentando i caratteri propri del genus, non fossero riconducibili a nessuna delle figure previste dall’art. 180, comma 8, d.lg. n. 50/2016. In sostanza, si tratterebbe di una specialità rispetto ai contratti di PPP nominati, ma comunque ‘interna’ al modello di partenariato delineato dal Codice dei contratti pubblici [11]. Di conseguenza, secondo questa impostazione, anche il PSPP nel settore culturale dovrebbe presentare gli stessi caratteri strutturali del partenariato ‘ordinario’ (natura sinallagmatica, onerosità, allocazione dei rischi in capo al privato, durata del rapporto parametrata in ragione della necessità di raggiungere l’equilibrio economico-finanziario) [12].
Seconda una diversa ipotesi, invece, “le collaborazioni suscettibili di rientrare nelle ‘forme speciali di partenariato’ si distinguono dal PPP ‘ordinario’ e corrispondono ad un modello intermedio fra il contratto sinallagmatico e il contratto associativo, in cui la logica dello scambio è sostituita da una logica di interazione fra le parti per una finalità comune”. In questa prospettiva, si è precisato però che “la distinzione fra logica di scambio e logica cooperativa, per essere idonea a fungere da elemento caratterizzante sul piano della configurazione teorica, ossia capace di rivelare la presenza di un partenariato ‘ordinario’ o di uno ‘speciale’, va intesa in termini non assoluti, ma relativi. Il che a sua volta comporta, come corollario, che ascrivere un accordo di partenariato in concreto stipulato all’una o all’altra categoria può rivelarsi operazione non sempre agevole e comunque da condurre al di là della qualificazione (...) utilizzata” [13].
In sostanza, questa seconda tesi sembra avallare l’idea (prospettata nella circolare del ministero prima richiamata) che le speciali forme di partenariato potrebbero assumere, a seconda della scelta operata in concreto dalle parti, sia i caratteri strutturali dei PPP “ordinari” sia caratteri diversi; la specialità si risolverebbe nella “flessibilità” della fattispecie suscettibile di modellarsi in base alle esigenze del singolo caso [14].
Infine, un terza lettura, avanzata valorizzando le indicazioni contenute in un’altra circolare ministeriale [15], dà rilievo agli aspetti formali: la specialità del partenariato culturale si legherebbe alla peculiare finalità, nonché alla specificità dell’oggetto [16] e della procedura indicati nel testo dell’art. 151, comma 3. In questo senso, si è sostenuto: “la specialità sussiste per il solo fatto che il partenariato si modella su quanto indicato (in termini di soggetti, finalità e oggetto) da tale disposizione; e questo sarebbe motivo sufficiente per giustificare un regime derogatorio (ossia semplificato) per la scelta del partner privato”. In altre parole “l’‘eccezione culturale’ consentirebbe di per sé uno snellimento procedurale ignoto in altri ambiti” [17] a prescindere dai caratteri strutturali del rapporto.
Tuttavia, nella consapevolezza di un possibile contrasto con le regole europee in materia di contratti pubblici, si rilevava che, considerata la procedura iper-semplificata prevista per la scelta del partner, i partenariati speciali non potevano che assumere la forma di contratti non compresi nell’ambito di applicazione del diritto euro-unitario perché aventi ad oggetto servizi non economici di interesse generale o perché riguardanti prestazioni di valore inferiore alle soglie di rilevanza europea.
2.2. La disciplina del nuovo articolo 134, comma 2, d.lg. 31 marzo 2023, n. 36
Prima di soffermarsi sulle interpretazioni appena descritte, conviene analizzare la nuova disciplina contenuta nell’articolo 134, comma 2, d.lg. 31 marzo 2023, n. 36 che presenta alcune significative differenze [18] e ha dato adito a nuove proposte ricostruttive.
In primo luogo è mutata la collocazione sistematica: l’art. 151 chiudeva il Capo III (Appalti nel settore culturale), Titolo VI (Regimi particolari di appalto), Parte II del Codice del 2016, mentre l’art. 134 è posto nel Titolo III, relativo a I contratti nel settore dei beni culturali, della Parte VII, recante le Disposizioni particolari per alcuni tipi di contratti.
In secondo luogo sono state ampliati sia la finalità dell’istituto, che può riguardare non solo la tutela ma anche la valorizzazione del bene culturale, sia l’oggetto che non comprende più soltanto i beni immobili, ma anche quelli mobili.
Infine, sul piano procedurale non si rinvia alla disciplina per la stipula dei contratti di sponsorizzazione (che oggi trova autonoma collocazione al comma 4 dello stesso art. 134), bensì all’art. 8 del Codice [19] che, nel sancire il principio di autonomia contrattuale, pone le condizioni di ammissibilità dei contratti gratuiti e delle donazioni a favore delle amministrazioni.
Come anticipato, la nuova disciplina ha già ricevuto alcuni commenti. Anche in questo caso una tesi pone l’accento sugli aspetti procedurali, l’altra sui caratteri sostanziali del rapporto.
Secondo un primo commento, l’ultima lettura avanzata per l’art. 151, comma 3, del Codice del 2016, ovvero la tesi della c.d. “eccezione culturale”, può essere riproposta anche per l’istituto previsto dal nuovo Codice che continua a prevedere una disciplina semplificata. La specialità del partenariato, dunque, dipenderebbe dalla presenza degli elementi indicati dalla norma.
Tuttavia si precisa che, con riferimento alle regole da seguire per la scelta dei partner, il rinvio all’art. 8 (contenuto nel nuovo art. 134) non è rilevante e anzi è da considerare un errore, dato che la disposizione non disciplina alcuna procedura. Secondo l’Autore la norma che il legislatore avrebbe inteso richiamare è l’art. 13, recante l’Ambito di applicazione, ove si prevede che le disposizioni del nuovo Codice “non si applicano ai contratti esclusi, ai contratti attivi e ai contratti a titolo gratuito” (art. 13, comma 2), precisando che quando tali contratti “offrono opportunità di guadagno economico, anche indiretto” l’affidamento “avviene tenendo conto dei principi di cui agli articoli 1, 2 e 3” (art. 13, comma 5). Da ciò si ricava che, anche nei partenariati speciali del settore culturale, per la scelta del contraente “dovrà applicarsi una procedura competitiva o concorsuale” che si ritiene possa essere quella definita dalle “norme dettate dall’art. 3 della legge di contabilità dello Stato n. 2440/1923” [20].
In un altro recente commento si propone una lettura diversa che sembra rinvenire la specialità nella natura ‘non onerosa’ del rapporto. Enfatizzando il rinvio all’art. 8, si sostiene, infatti, che le forme speciali di partenariato devono rientrare nel genus dei contratti a titolo gratuito, intesi come “quei contratti per i quali si esclude ogni sacrificio economico da parte della P.A.” [21].
Secondo questa interpretazione ciò varrebbe a sancire la distinzione dal modello dai contratti di partenariato ‘ordinario’ e ad escludere le procedure per la scelta del partner dall’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici [22], fatto salvo il rispetto dei principi generali del risultato, della fiducia, dell’accesso al mercato qualora tali contratti offrano “opportunità di guadagno economico, anche indiretto”, come stabilito dall’articolo 13, comma 5, Ccp.
2.3. Considerazioni critiche
Alla luce della nuova disciplina, e più in generale del sistema del nuovo Codice dei contratti pubblici, nessuna delle interpretazioni prospettate pare pienamente convincente.
La prime due tesi, quella della “specialità interna” al PPP “ordinario” e quella che individua la “flessibilità” come tratto caratterizzante dell’istituto, sono oggi smentite dalla nuova collocazione e dai contenuti della disposizione.
Come ricordato, infatti, l’art. 134 non ricade più sotto la disciplina dell’appalto, ma compare tra le disposizioni dedicate a particolari tipi di contratto; inoltre, sul piano procedurale, rinvia all’art. 8 che richiama tipologie contrattuali escluse dall’applicazione delle regole previste per i partenariati disciplinati dal Libro IV del nuovo Codice. Se ne ricava che le forme speciali di partenariato del settore culturale devono presentare caratteri diversi [23], perciò non dovrebbe più considerarsi ammissibile neppure l’‘assorbimento’ da parte del PSPP di modelli del partenariato ordinario” [24].
D’altra parte, la tesi che fa leva sulla c.d. “eccezione culturale”, seppur predicabile anche alla luce del nuovo testo - che non riporta modifiche per quanto riguarda l’oggetto e la finalità dell’istituto - non convince fino in fondo, perché dà esclusivo rilievo ai dati testuali senza preoccuparsi di definire i caratteri sostanziali del rapporto e, in questo modo, non offre alcuna indicazione in grado di giustificare la semplificazione procedurale prevista dalla norma.
Come noto, infatti, in base alle regole nazionali ed europee che orientano l’attività contrattuale delle amministrazioni né l’ambito materiale interessato né il contenuto dei contratti sono motivi idonei a giustificare deroghe o limitazioni alle procedure competitive ad evidenza pubblica. Di conseguenza, accogliendo questa interpretazione, le forme di PSPP sarebbero utilizzabili solo per contratti di valore inferiore alle soglie comunitarie. Il che avrebbe l’effetto di limitarne la portata.
Per ragioni diverse non convincono le ricostruzioni avanzate rispetto all’art. 134 del nuovo Codice.
Della prima tesi non sono pienamente condivisibili né l’idea che il rinvio all’art. 8 sia un errore dei compilatori né la soluzione cui si giunge in termini di procedure da seguire. Pare, infatti, che il richiamo all’art. 8 possa essere interpretato come la volontà di legittimare pienamente l’atipicità di questi rapporti, in linea con la tendenza ad ampliare gli ambiti di discrezionalità delle amministrazioni nell’esercizio dell’attività contrattuale che emerge anche da altre disposizioni del Codice (a partire dall’art. 2). D’altra parte, se è vero che per definire le procedure per l’affidamento dei contratti gratuiti (richiamati all’art. 8, comma 1) è necessario far riferimento all’art. 13, commi 2 e 5; tuttavia, ciò non sembra implicare che la scelta del partner debba seguire sempre “una procedura competitiva o concorsuale”. L’art. 13, comma 5, e quindi i principi di cui agli artt. 1, 2, e 3 operano soltanto per i contratti da cui il privato possa derivare un vantaggio economico anche indiretto (quindi per i contratti di sponsorizzazione di cui all’art. 134, comma 4, Ccp) ma non necessariamente per i contratti di partenariato speciale se privi di tale carattere.
Anche la seconda soluzione interpretativa non convince completamente, a meno di una precisazione. Se, infatti, è condivisibile che l’assimilazione ai contratti gratuiti e alle donazioni valga ad escludere la riconducibilità dei PSPP ai PPP “ordinari”, non implica però che debbano necessariamente assumere la forma di contratti non onerosi per la parte pubblica (i.e. “contratti per i quali si esclude ogni sacrificio economico da parte della P.A.” [25]). Si può sostenere, infatti, che il rinvio all’art. 8 impedisca che i partenariati speciali siano strumenti con cui si opera un trasferimento di utilità a favore di un privato, ma - per le ragioni che si vedrà subito - non esclude del tutto che l’amministrazione investa delle risorse e, dunque, sopporti un sacrificio economico per sostenere l’operazione negoziale, sempre che in questa si realizzi un determinato assetto di interessi.
3. Una diversa ipotesi ricostruttiva: la causa di “comunione di scopo” quale elemento di specialità
Nel formulare una possibile ipotesi ricostruttiva si muove dal presupposto che la specialità vada rinvenuta negli aspetti sostanziali del rapporto, ma che sia anche necessario individuare una soluzione che possa spiegare la semplificazione procedurale, consentita dalla norma per la scelta del partener, alla luce delle regole europee.
Al riguardo l’idea di fondo è che il tratto caratterizzante, capace di giustificare anche le deroghe procedurali, sia il carattere “collaborativo” del rapporto ovvero - usando una categoria civilistica - la causa di comunione di scopo [26].
In questa prospettiva, le speciali forme di partenariato del settore culturale sono da considerare strutturalmente assimilabili agli istituti disciplinati dal Titolo VII del Codice del Terzo settore [27], dall’art. 18 d.lg. 23 dicembre 2022, n. 201 [28], in materia di servizi pubblici locali, e dal nuovo articolo 6, comma 1, Ccp riguardante i moduli organizzativi di amministrazione condivisa [29].
La significativa (e apprezzabile) differenza è che questa fattispecie può coinvolgere anche soggetti privati diversi dagli enti del Terzo settore, perciò anche operatori profit disponibili a stipulare contratti a titolo gratuito, giustificati da causa liberale [30] o comunque non sinallagmatici.
La tesi trova sostegno nell’analisi della dottrina, prima richiamata, che ha messo in evidenza come il tratto ricorrente di questo partenariato culturale, per come attuato nella prassi, fosse la prevalenza di una logica cooperativa/associativa rispetto alla logica dello scambio; e sembra confermata da alcuni recenti dati normativi e giurisprudenziali.
È vero, infatti, che anche l’art. 134, comma 2, Ccp si presenta come una fattispecie aperta e flessibile; tuttavia, il rinvio ai contratti gratuiti e alle donazioni lascia intendere che queste forme di partenariato non devono essere caratterizzate da corrispettività delle prestazioni [31], come si ricava anche dalla relazione illustrativa allegata allo schema del nuovo codice [32].
Nello stesso senso depone l’iper-semplificazione delle procedure per la individuazione del contraente [33]. Infatti, i più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale ed europea relativi al settore degli affidamenti dei servizi socio-sanitari, ove si è posto un problema di disciplina applicabile, dimostrano che l’elemento che rende ammissibile una deroga alle procedure competitive in via generale (cioè, anche oltre le soglie di rilevanza comunitaria) è l’assenza di uno dei caratteri tipici dei contratti di appalto e di concessione, vale a dire il legame sinallagmatico tra le prestazioni.
Sul piano interno rileva in questo senso la nota sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2020 che ha disatteso l’interpretazione pro-concorrenziale diffusa nella giurisprudenza amministrativa [34], la quale predicava una prevalenza delle regole del Codice dei contratti pubblici su quelle del Codice del Terzo settore [35]. Per quanto qui rileva, la Corte ha affermato che il partenariato collaborativo disciplinato dal Codice del Terzo settore costituisce un modello diverso e alternativo rispetto ai contratti di appalto proprio perché “non si basa sulla corresponsione di prezzi e di corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico” [36]. In questa prospettiva, è la natura non sinallagmatica dei rapporti a giustificare l’esclusione delle procedure competitive previste dal Codice dei contratti pubblici.
D’altra parte, a livello europeo, la Corte di Giustizia afferma che un rapporto può essere escluso dall’ambito di applicazione delle direttive sugli appalti e sulle concessioni soltanto se ha carattere non oneroso [37] elemento che, anche di recente, è stato ritenuto sussistente ove “ciascuna delle parti si impegni a eseguire una prestazione in cambio di un’altra” e dunque sia pattuita la corresponsione di corrispettivi quali “controprestazioni dirette della prestazione da realizzare” [38].
Ne deriva che affinché un rapporto consensuale non sia considerato oneroso (e quindi equiparabile all’appalto) se uno dei contraenti partecipa mediante l’erogazione di utilità economicamente valutabili, è necessario che queste non vadano a costituire un prezzo per gli apporti dedotti dalle altre parti, potendo soltanto coprire i costi effettivamente sostenuti [39]. Ciò dimostra che nella prospettiva della Corte di Giustizia Europea, la categoria dell’onerosità si lega strettamente a quella dell’interdipendenza delle prestazioni.
Da ultimo, questi approdi giurisprudenziali sono stati recepiti nel nuovo art. 6 Ccp che nel definire le caratteristiche dei partenariati di amministrazione condivisa, esclusi dall’ambito di applicazione del Codice, richiede che siano “privi di rapporti sinallagmatici”.
Tanto considerato, pare dunque potersi sostenere che il PSPP in ambito culturale possa essere ricondotto al genus dei partenariati collaborativi (o con comunione di scopo) che si differenzia da quello definito dalle disposizioni del Libro IV dal Codice dei contratti pubblici [40] non solo per gli aspetti procedurali, ma anche e primariamente per le caratteristiche sostanziali del rapporto.
3.1. I caratteri del PSPP quale tipologia di partenariato collaborativo
Il primo tratto distintivo riguarda il ruolo dei soggetti pubblici e dei soggetti privati nelle fasi di costituzione e di esecuzione del rapporto.
Nel PPP ‘ordinario’ (o oneroso-sinallagmatico) il ruolo della parte pubblica consiste nel definire gli obiettivi da raggiungere e si concentra soprattutto nella fase iniziale di definizione del progetto. Nel PSPP, invece, enti pubblici e soggetti privati devono collaborare sia nella fase di progettazione che in quella di realizzazione dell’intervento, quali parti attive e co-responsabili seguendo la logica della co-progettazione [41]. Di conseguenza la previsione, ricorrente nella prassi [42], di una sede di confronto e di coordinamento fra partner, per la definizione dei progetti di intervento e per la loro verifica, è da considerare un elemento essenziale per ascrivere il partenariato a questo modello.
Il secondo elemento distintivo riguarda la struttura del rapporto.
Nel PPP ordinario, pur nel quadro della collaborazione tra le parti propria di ogni rapporto consensuale, l’assetto degli interessi si configura in termini di onerosità e di interdipendenza delle prestazioni: il soggetto privato si impegna a svolgere determinate attività (realizzare dei lavori, utilizzare un bene, gestire un servizio) in cambio di un corrispettivo economico, ovvero di un corrispettivo unito al diritto di trarre delle utilità economiche dallo sfruttamento del bene o dallo svolgimento del servizio.
Diversamente nel partenariato collaborativo il rapporto, anche quando stipulato con operatori profit, deve caratterizzarsi per una logica cooperativa (non di scambio) e per finalità non lucrativa.
Merita sottolineare che ciò non significa che debba mancare qualsiasi investimento finanziario a carico della P.A. (e dunque che per questa sia un’operazione negoziale del tutto priva di sacrifici economici) ovvero che debba essere assente qualsiasi profilo di impegno reciproco. Al contrario, la disponibilità di risorse pubbliche (finanziarie, di mezzi e/o di personale) è spesso necessaria, così come eventuali impegni tra la P.A. e il privato che condividono la gestione di un bene o di servizio, sono senz’altro indispensabili. Quel che occorre, piuttosto, è che gli eventuali impegni non siano configurati in termini di corrispettività e che siano assenti finalità lucrative. Conseguentemente le utilità eventualmente messe a disposizione dalla P.A. non possono rappresentare un “prezzo” per l’impegno profuso dal privato né costituire per questo un utile, ma devono essere ‘indipendenti’ dallo stesso o limitarsi a coprire i costi effettivamente sostenuti e documentati.
La ratio che sottende questo assetto è chiara: tutte le risorse messe a disposizione dalle parti (pubbliche e private) devono essere destinate alla realizzazione del servizio o dell’intervento, dunque devono andare a beneficio (non dei contraenti ma) dei destinatari dello stesso, ossia, nel caso in esame, dei cittadini titolari dei diritti di fruizione del bene culturale oggetto di tutela o di valorizzazione.
In questo senso è possibile sostenere che gli atti giuridici posti in essere per la costituzione di tali rapporti, quale che sia la natura giuridica degli operatori, non rispondono alla funzione dello scambio (do ut des - do ut faces) ma a quella della “comunione di scopo”, ossia della condivisione di diritti, obblighi, rischi e responsabilità per la realizzazione in comune di un determinato obiettivo.
In pratica, ciò richiederà di stabilire - per ogni rapporto - lo scopo comune e i contenuti che definiscano l’assetto di interessi in termini di co-responsabilità in tutte le fasi (dalla progettazione fino alla esecuzione), nonché di individuare i meccanismi rimediali più adeguati [43].
È senz’altro prevedibile che accordi di questo tipo possano attrarre maggiormente enti non profit istituzionalmente orientati a non produrre utili o a investirli interamente nell’attività sociale [44]. Tuttavia è da apprezzare il fatto che la norma non preveda limiti, perché ciò consente di non escludere a priori operatori profit che potrebbero essere disposti a concorrere alla realizzazione dell’intervento, adeguandosi ai caratteri dell’operazione negoziale. Del resto, la “comunanza di interessi” tra privati e parte pubblica non è aspetto che può essere ammesso (o negato) in via generale e astratta e in base alle caratteristiche del potenziale partner, ma andrà verificato in concreto rispetto al singolo intervento e andrà assicurato mediante un’adeguata definizione del contratto da stipulare.
Come anticipato, la caratteristica appena descritta giustifica il terzo carattere distintivo del PSPP il quale riguarda le procedure per la scelta dei contraenti.
Con il PPP ‘ordinario’ la P.A. conferisce ad uno specifico privato determinate utilità e/o il diritto di ricavare un utile dall’uso di un bene pubblico o dalla gestione di un servizio; pertanto, in base alle regole europee, le procedure di scelta del contraente devono seguire un metodo competitivo e pro-concorrenziale.
La struttura cooperativa che caratterizza il PSPP, invece, consente una semplificazione procedurale, anche se occorrerà distinguere in base al tipo di contratto da stipulare.
Se il privato può trarre dall’operazione negoziale un vantaggio economico, anche indiretto, sarà effettivamente necessario il rispetto dell’art. 13, comma 5, che impone di tener conto dei principi del risultato, della fiducia e dell’accesso al mercato (artt. 1, 2 e 3 Ccp); pertanto, dovranno essere svolte procedure comparative che potrebbero essere analoghe a quelle previste per il contratto di sponsorizzazione dallo stesso art. 134, commi 4 e 5, Ccp.
Se invece mancano del tutto trasferimenti di utilità pubbliche, perché il privato agisce per spirito di liberalità oppure partecipa all’operazione dietro esclusivo rimborso dei costi sostenuti e documentati, sarà legittima (ex artt. 8, comma 1, e 13, comma 2) anche un’ulteriore semplificazione procedurale. In particolare, le trattative pre-negoziali, pur nel rispetto dei principi generali dell’azione amministrativa (pubblicità, trasparenza, imparzialità, buon andamento), non dovranno rispondere ad una logica competitiva e pro-concorrenziale e potranno assumere anche forme atipiche [45]; tanto che potrebbero rimanere non tipizzate in via normativa, così da essere lasciate nella piena disponibilità delle parti.
Sotto questo profilo, il fatto che il legislatore abbia mantenuto una disciplina concisa non può essere considerato un limite ma, al contrario, una potenzialità che consente di adattare le procedure e gli accordi da concludere alle peculiarità degli obiettivi prefissati e alle esigenze del singolo caso. Il che si pone in linea con l’intento - proprio del nuovo Codice - di legittimare un recupero di margini discrezionalità nell’ambito delle operazioni contrattuali.
4. “Forme speciali di partenariato”, valorizzazione del patrimonio culturale e sviluppo dei territori
L’ipotesi prospettata, oltre che sostenuta dai dati normativi e giurisprudenziali richiamati, pare coerente anche con le funzioni che il partenariato in ambito culturale è diretto a perseguire e che il legislatore del 2023 ha ulteriormente rimarcato, ampliando l’oggetto e le finalità (cfr. supra § 2.2).
Entrambe le integrazioni, infatti, sono da salutare con favore non solo perché recepiscono le esigenze emerse nella prassi, ma anche perché l’istituto - per i caratteri messi in evidenza - risulta particolarmente adeguato a veicolare la partecipazione dei privati secondo coordinate pienamente compatibili con i principi costituzionali e internazionali in materia, implementando quella che potremmo definire la dimensione sociale della c.d. valorizzazione economica dei beni culturali.
Come noto, infatti, dato che i contenuti e gli strumenti della valorizzazione del patrimonio culturale non sono tipizzati dal legislatore [46], da tempo si discute se questa possa avere anche delle finalità e delle ricadute di ordine economico.
Alla luce dell’art. 9 della Costituzione e del Codice dei beni culturali e del paesaggio, è pacifico che le attività di valorizzazione debbano avere primariamente una finalità culturale, ossia debbano tendere a “promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso (...) al fine di promuovere lo sviluppo della cultura” [47]. Sono così chiaramente riconducibili alla valorizzazione gli interventi diretti ad assicurare i diritti di godimento pubblico (art. 105), la promozione di progetti di studio, di ricerca (art. 118) e di disseminazione del patrimonio culturale (art. 119).
La stessa omogeneità di letture non sussiste rispetto alla c.d. valorizzazione economica intesa come il complesso delle “iniziative dirette non solo a migliorare la redditività del patrimonio culturale (...), ma anche a ‘sfruttare’ il bene culturale per creare ricchezza in un contesto esterno al bene” [48]. A questo fenomeno la dottrina riconduce una pluralità di istituti: le riforme in chiave aziendalistica dei musei [49], la disciplina dei c.d. servizi aggiuntivi [50], la concessione di usi esclusivi del bene (art. 106) i contratti di sponsorizzazione (art. 120) gli accordi con le fondazioni bancarie (art. 121) e, più in generale, tutte le iniziative collegate al turismo culturale.
Senza entrare nel merito delle opposte posizioni, è sufficiente considerare che da una lettura sistematica delle disposizioni della Costituzione e del Codice dei beni culturali emerge con chiarezza l’ordine di priorità che deve orientare gli obiettivi della valorizzazione: la finalità culturale (i.e. di aumento della conoscenza e di sviluppo della cultura) è prioritaria rispetto alle eventuali ricadute economiche, le quali sono possibili fintantoché l’uso prescelto “garantisca la conservazione e la fruizione pubblica del bene” e “sia assicurata la compatibilità della destinazione d’uso con il carattere storico-artistico del bene medesimo” [51], nonché con la finalità di crescita culturale cui la fruizione deve tendere [52]. Ne deriva un criterio direttivo chiaro, che vincola la valutazione discrezionale dell’amministrazione competente a promuovere i progetti di valorizzazione ovvero ad autorizzare le iniziative proposte dai privati.
Da ciò si ricava che non sono ammissibili attività di mero “sfruttamento economico” o di “messa a reddito” del patrimonio culturale [53], mentre sono consentiti - e anzi da favorire - modelli organizzativi che permettano una gestione efficiente dei beni e dei servizi culturali, assicurandone la sostenibilità sul piano economico-finanziario.
D’altra parte, merita senz’altro considerazione il collegamento tra processi di valorizzazione del patrimonio culturale e lo sviluppo del contesto territoriale di riferimento [54], un collegamento che va ad individuare la terza dimensione della valorizzazione che (per differenza da quelle appena richiamate) si può definire “sociale”.
Infatti, se il binomio cultura-sviluppo è un dato da tempo acquisito [55], fonti normative recenti, di livello nazionale [56] e internazionale [57], hanno messo in rilievo la necessità di privilegiare quelle forme di gestione dei beni culturali che siano in grado di attivare processi di sviluppo ispirati a logiche di inclusione e di sostenibilità sociale, portati avanti mediante l’azione congiunta dei differenti livelli di governo e la partecipazione attiva delle comunità locali. Il riferimento è, in particolare, alla Convenzione di Faro che riconosce l’importanza di coinvolgere le popolazioni insediate sul territorio nei processi di riconoscimento, di conservazione e di valorizzazione del patrimonio culturale, inteso come insieme delle risorse materiali e delle memorie storiche nelle quali esse si riconoscono.
Il dato è significativo di una specifica prospettiva: i destinatari della fruizione del patrimonio culturale non rilevano solo come individui che ne beneficiano per la soddisfazione di un interesse personale, ma anche come appartenenti alla comunità che abita un determinato territorio e che trae beneficio dallo sviluppo delle economie locali che l’investimento sul bene può generare.
Non si ignora che, in concreto, il confine possa essere sottile e che sia complesso individuare dei requisiti generali per distinguere tra attività di mero sfruttamento economico - che rischiano di tradursi in processi di mercificazione-monetizzazione privi di valore educativo - e progetti capaci di generare occasioni di lavoro (culturale, artigiano, turistico etc..), opportunità di sviluppo di nuove competenze, creazione di indotti economici, senza perciò far venire meno il valore edificante dell’iniziativa.
Tuttavia il PSPP, per come qui ricostruito, potrebbe assicurare almeno due elementi utili per limitare i rischi.
In primis una adeguata valutazione tecnico-scientifica dell’intervento di valorizzazione da parte delle amministrazioni competenti, a partire dal ministero della Cultura cui è affidato il potere di autorizzare le concessioni in uso dei beni che non sono nella sua disponibilità (ex art. 106, comma 2-bis). La natura collaborativa del partenariato è funzionale in tal senso perché presuppone la partecipazione delle amministrazioni a tutte le fasi dell’iniziativa, attraverso tavoli tecnici di progettazione e di esecuzione, e perché incentiva il coinvolgimento di soggetti che fanno “ricerca applicata alla tutela e alla valorizzazione” (in primis le Università), che possono rappresentare un’ulteriore garanzia a favore della compatibilità del progetto con il valore storico-artistico del bene e con le finalità culturali che l’iniziativa deve perseguire.
D’altra parte, è stato sottolineano che il successo dei processi di valorizzazione è strettamente legato agli interventi sul contesto di riferimento [58] e al loro inserimento in piani strategici di sviluppo locale [59]. Anche sotto questo profilo il PSPP ha delle potenzialità poiché la semplificazione e l’atipicità delle procedure consente il coinvolgimento di una pluralità di attori secondo una logica di prossimità che rende possibile ricadute economiche più immediate e dirette sulle comunità di riferimento.
Per queste ragioni, l’adeguatezza dei partenariati di tipo collaborativo rispetto alla realizzazione della finalità sociali dei processi di valorizzazione economica, rappresenta un ulteriore argomento a sostegno dell’ipotesi ricostruttiva proposta.
In definitiva, alla luce dell’analisi svolta, pare potersi sostenere che il PSPP sia riconducibile al genus dei partenariati collaborativi (o con comunione di scopo), attestandosi come strumento di attuazione di alcuni principi che stanno trovando sempre maggiore riconoscimento nel sistema amministrativo: il principio di sussidiarietà orizzontale, il principio di collaborazione - di recente introdotto anche nella disciplina generale [60] - e il principio di atipicità dell’attività amministrativa consensuale.
Tale lettura, supportata dalle coordinate sistematiche ricavabili dal nuovo Codice dei contratti pubblici e dai dati giurisprudenziali richiamati, offre un’interpretazione delle “forme speciali di partenariato” nel settore culturale coerente con la disciplina europea e in grado di valorizzare la specificità e le potenzialità dell’istituto.
Note
[*] Nicoletta Vettori, professoressa associata di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Studi aziendali e giuridici dell’Università di Siena, Piazza S. Francesco 7/8, 53100 Siena, nicoletta.vettori@unisi.it.
[1] L’art. 89, comma 17, d.lg. 3 luglio 2017, n. 117 prevede che “in attuazione dell’articolo 115 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”, il ministero e gli enti territoriali minori possono attivare “forme speciali di partenariato” “dirette alla prestazione di attività di valorizzazione di beni culturali immobili di appartenenza pubblica” con enti del Terzo settore individuati “attraverso le procedure semplificate di cui all’art. 151, comma 3, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50”.
[2] Merita anticipare che l’altra disposizione del Codice del Terzo settore (l’art. 71, comma 3, d.lg. 3 luglio 2017, n. 117) che pur rinvia alla disciplina semplificata prevista dall’art. 151, comma 3, Ccp per l’individuazione dei partner privati cui le P.A. possono affidare in concessione un bene culturale, non pare ascrivibile al modello del PSPP (se non appunto per quanto attiene alle procedure di individuazione del partener), perché presenta la struttura e i caratteri dei PPP ordinari. Sulle differenze tra i due modelli e sui caratteri che sembrano propri del PSPP si tornerà di seguito (v. §§ 3. 3.1.)
[3] Le due disposizioni erano perfettamente sovrapponibili per quanto riguarda le procedure da utilizzare per la scelta del contraente e il tipo di beni culturali (solo immobili) coinvolti. Si distinguevano parzialmente sul piano soggettivo - perché l’art. 151, comma 3, Ccp non conteneva alcuna limitazione mentre l’art. 89, comma 17, poteva applicarsi solo ai rapporti tra P.A. e Enti del Terzo settore - e sul piano oggettivo - perché l’art. 151, comma 3, Ccp poteva utilizzarsi anche per la realizzazione di attività rientranti nella tutela dei beni culturali (recupero, restauro, manutenzione), mentre l’art. 89, comma 17, Cts menzionava soltanto le attività di valorizzazione. Come vedremo (§ 2.2), a seguito della nuova formulazione le differenze riguardano anche il tipo di beni culturali che può formare oggetto del partenariato.
[4] Su cui si veda, tra gli altri, G. Severini, Il patrimonio culturale e il concorso dei privati alla sua valorizzazione, in Riv. giur. edilizia, 2015, 6, pag. 322 ss.; A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione e profili di specialità, in Aedon, 2017, 1; S. Antoniazzi, Contratti pubblici e beni culturali: specialità della disciplina e obiettivi di tutela, di conservazione e valorizzazione, in Scritti in onore di Eugenio Picozza, Editoriale scientifica, 2019, pag. 35 ss.
[5] Pare utile riportare il contenuto dell’art. 151, comma 3, d.lg. n. 50/2016: “Per assicurare la fruizione del patrimonio culturale della Nazione e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla tutela, lo Stato, le regioni e gli enti territoriali possono, con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, attivare forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici e con soggetti privati, dirette a consentire il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l’apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato analoghe o ulteriori rispetto a quelle previste dal comma 1. Resta fermo quanto previsto ai sensi dell’articolo 106, comma 2-bis, del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.
[6] L’art. 19 prevedeva la pubblicazione, per almeno trenta giorni, sul sito internet dell’amministrazione di un apposito avviso con il quale si rendeva nota la ricerca di un partner privato per specifici interventi, ovvero si comunicava l’avvenuto ricevimento di una proposta di partenariato, indicando sinteticamente il contenuto del contratto proposto. Trascorso il periodo di pubblicazione dell’avviso, il contratto poteva essere liberamente negoziato, purché nel rispetto dei principi di imparzialità e di parità di trattamento fra gli operatori, fermo restando il rispetto dell’articolo 80 Ccp in ordine ai requisiti generali per contrarre con la pubblica amministrazione. Sul punto, tra i molti, v. G. Fidone, Il ruolo dei privati nella valorizzazione dei beni culturali: dalle sponsorizzazioni alle forme di gestione, in Aedon, 2012, 1-2; P. Rossi, Partenariato pubblico-privato e valorizzazione economica dei beni culturali nella riforma del codice degli appalti, in Federalismi.it, 2018, 2, pagg. 1-23; G.D. Comporti, Sponsorizzazione ed erogazioni liberali, in Aedon, 2015, 2.
[7] MiBACT-Ufficio Legislativo, Circolare 9 giugno 2016, n. 17461, pag. 11.
[8] Ibidem, pag. 12.
[9] Per l’analisi di alcune esperienze si veda G. Sciullo, Patrimonio culturale e PSPP secondo il Codice dei contratti, in Il capitale culturale, Supplementi, 2022, 12, pagg. 79-92 (spec. pag. 82); A. Moliterni, Pubblico e privato nella disciplina del patrimonio culturale: l’assetto del sistema, i problemi, le sfide, in Id. (a cura di), Patrimonio culturale e soggetti privati, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, pag. 48; M. Croce, S. de Nitto, I partenariati per la valorizzazione del patrimonio dismesso, in disuso o scarsamente fruito, in Patrimonio culturale e soggetti privati, op. ult. cit., pag. 191.
[10] Per un’analisi delle diverse ipotesi si veda G. Sciullo, Il partenariato pubblico-privato in tema di patrimonio culturale dopo il Codice dei contratti, in Aedon, 2021, 3, pag. 156, da cui sono tratte anche le citazioni contenute nel testo.
[11] Sul PPP ‘ordinario’ nel settore culturale v., tra gli altri, G. De Giorgi Cezzi, Pubblico e privato per la gestione e la valorizzazione dei beni culturali (Lo statuto dei beni culturali), in Nuove auton., 2003, 1-2, pag. 89 ss.; G. Sciullo, Novità sul partenariato pubblico-privato nella valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2009, 2; G. Fidone, Il ruolo dei privati nella valorizzazione dei beni culturali: dalle sponsorizzazioni alle forme di gestione, cit.; C. Napolitano, Il partenariato pubblico-privato nel diritto dei beni culturali: vedute per una sua funzione sociale, in Dirittifondamentali.it., 2019, 2, pagg. 1-28. In prospettiva comparata v. M. Pignatti, I modelli di partenariato Pubblico-Privato nella gestione e valorizzazione dei beni culturali come strumento per la creazione di ecosistemi innovativi e di sviluppo economico e sociale, in DPCE on line, 2022, 1, pagg. 91-119.
[12] Sui caratteri del partenariato pubblico-privato previsto dal Codice dei contratti pubblici nella sua evoluzione si veda, tra i molti, M.P. Chiti (a cura di), Il partenariato pubblico privato, Editoriale Scientifica, 2009; R. Dipace, Il partenariato pubblico privato nel diritto amministrativo in trasformazione, in Il diritto amministrativo in trasformazione. Per approfondire, (a cura di) N. Longobardi, Torino, 2016, pag. 27 ss.; G.F. Cartei, Rischio e disciplina negoziale nei contratti di concessione e di partenariato pubblico-privato, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 2, pag. 599 ss.
[13] G. Sciullo, Patrimonio culturale e PSPP secondo il Codice dei contratti, cit., pag. 85.
[14] Questa è la concezione che sembra sottendere l’analisi di M. De Paolis, Speciali forme di partenariato pubblico-privato a favore della cultura, in Azienditalia, 2022, 8-9, pagg. 1458-1462 che riconduce alle speciali forme di partenariato di cui all’art. 151, comma 3, d.lg. n. 50/2016 una pluralità di istituti diversi: contratti di sponsorizzazione, protocolli di intesa tra amministrazioni e fondazioni bancarie, concessioni e contratti di global service.
[15] Cfr. la circolare della DG Musei del MiBACT 8 novembre 2019, n. 45, Note esplicative e modelli operativi per la realizzazione di forme speciali di partenariato pubblico-privato nei beni culturali ex art. 151, comma 3 del Codice dei contratti pubblici.
[16] Cfr. M. Cammelli, Cooperazione, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Bologna, Il Mulino, 2020, pag. 308; F. Carpentieri Appalti nel settore dei beni culturali (e archeologia preventiva), in Urb. app., 2016, 8-9, pagg. 1014-1027 (spec. pag. 1026); M. Croce, S. de Nitto, I partenariati per la valorizzazione del patrimonio dismesso, in disuso o scarsamente fruito, cit., pag. 189; cfr. anche MiBACT-Ufficio Legislativo, Circolare 9 giugno 2016, n. 17461, par. 11.
[17] G. Sciullo, Patrimonio culturale e PSPP secondo il Codice dei contratti, cit., pag. 85.
[18] In particolare, l’art. 134, comma 2, d.lg. n. 36/2023 prevede che: “Per assicurare la fruizione del patrimonio culturale della Nazione e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla sua tutela o alla sua valorizzazione, lo Stato, le regioni e gli enti territoriali possono, con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, attivare forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici e con soggetti privati, dirette a consentire il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l’apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali, attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato analoghe o ulteriori rispetto a quelle previste dall’articolo 8”.
[19] Su cui, tra gli altri, v. G. Clemente di San Luca, L. de Fusco, Il principio di autonomia contrattuale nel nuovo Codice dei contratti pubblici, in Federalismi.it, 2023, 21, pagg. 15-40.
[20] In questi termini v. G. Manfredi, I beni culturali nel terzo codice dei contratti pubblici: continuità, discontinuità, delegificazione, in Aedon, 2023, 2, pag. 100 ss. (spec. pag. 106).
[21] M. D’Isanto, Il partenariato speciale pubblico-privato nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Aedon, 2023, 2, pag. 111 ss.
[22] Si veda M. D’Isanto, op. ult. cit., pag. 115: “Per i contratti gratuiti per i quali è prevista opportunità di guadagno economico, categoria all’interno della quale sono tendenzialmente riconducibili i partenariati speciali, la selezione dei partner dovrà avvenire nel rispetto dei principi di concorrenza, di imparzialità, di non discriminazione, di pubblicità, di trasparenza e di proporzionalità. In questa prospettiva viene dunque sancita definitivamente l’estraneità dell’istituto al corpo normativo dei partenariati ordinari e alla disciplina dei contratti pubblici chiamata a regolare gli appalti e le concessioni. (...). Coerentemente con l’estromissione del partenariato speciale dal Codice dei contratti pubblici (...), il procedimento amministrativo seguirà la disciplina contenuta nella legge 241/1990 (...)”.
[23] Già nella circolare dell’Ufficio legislativo dell’allora Mibact, del 9 giugno 2016, prima ricordata si distingueva il partenariato speciale da quello disciplinato agli artt. 180 ss. del d.lg. n. 50/2016. Negli stessi termini, in dottrina, v. G. Sciullo, Il partenariato pubblico-privato in tema di patrimonio culturale dopo il Codice dei contratti, cit., pag. 156; G. Mari, Concessione di valorizzazione e finanza di progetto: il difficile equilibrio tra conservazione, valorizzazione culturale e valorizzazione economica, in Aedon, 2019, 2, pagg. 1-21 (spec. pag. 13); C. Napolitano, Il partenariato pubblico-privato nel diritto dei beni culturali: vedute per una sua funzione sociale, cit., pagg. 1-28.
[24] G. Sciullo, Patrimonio culturale e PSPP secondo il Codice dei contratti, cit., pag. 91; M. Croce, S. de Nitto, I partenariati per la valorizzazione del patrimonio dismesso, in disuso o scarsamente fruito, cit., pag. 196.
[25] M. D’Isanto, Il partenariato speciale pubblico-privato nel nuovo codice dei contratti pubblici, cit., pag. 114.
[26] Secondo F. Galgano, Diritto privato, Padova, Cedam, 2019, pag. 66 nei contratti con comunione di scopo “le prestazioni di ciascuna delle parti sono dirette al conseguimento di uno scopo comune” e si differenziano dai contratti di scambio nei quali “le parti perseguono scopi contrapposti (lo scopo del compratore è l’acquisto della cosa, quello del venditore è il conseguimento del prezzo)”; in termini analoghi si veda V. Roppo, Il contratto, 2a ed., in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica, e P. Zatti, Milano, 2011, pagg. 418-419. Come noto, si tratta di una categoria ricavata “per differenza” dalla categoria dei contratti di scambio che costruisce il modello paradigmatico nel sistema del codice civile. In questi termini si veda A. Fici, I presupposti negoziali dell’amministrazione condivisa: profili di diritto privato, in I rapporti tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2020, (a cura di) A. Fici, L. Gallo, F. Giglioni, Quaderni TerJus, 2020 pag. 79, il quale osserva che la categoria dei contratti con comunione di scopo è stata elaborata dalla dottrina civilistica “per contrapposizione a quella dei contratti a prestazioni corrispettive (ovvero sinallagmatici o di scambio): in questi ultimi la prestazione di una parte è scambiata con la prestazione dell’altra, sicché ciascuna prestazione trova causa e giustificazione nell’altra, con la quale si trova in rapporto di reciprocità ed interdipendenza; nei primi, invece, la prestazione di una parte non è effettuata per ottenere in cambio quella dell’altra, ma tutte le prestazioni lo sono per conseguire, attraverso lo svolgimento di una successiva attività di varia natura, uno scopo comune alle parti”.
[27] In particolare alla co-progettazione di cui all’art. 55 Cts.
[28] L’art. 18 d.lg. 23 dicembre 2022, n. 201 condiziona il ricorso ai partenariati tra P.A. ed ETS alla “sussistenza delle circostanze che, nel caso concreto, determinano la natura effettivamente collaborativa del rapporto” nonché al fatto che le risorse pubbliche da mettere a disposizione degli enti del Terzo settore non risultino “complessivamente considerate, superiori al rimborso dei costi, variabili, fissi e durevoli previsti ai fini dell’esecuzione del rapporto di partenariato”.
[29] Il nuovo art. 6 Ccp qualifica i partenariati di amministrazione condivisa come “modelli organizzativi privi di rapporti sinallagmatici e fondati sulla condivisione della funzione amministrativa con gli enti del Terzo settore” escludendoli dall’applicazione delle procedure ad evidenza pubblica, fermo restando il rispetto delle regole di parità di trattamento, trasparenza e del principio del risultato. Per l’interpretazione della clausola dell’art. 6 che impone l’assenza di rapporti sinallagmatici secondo un significato analogo a quello sostenuto in questa sede sia consentito rinviare a N. Vettori, I partenariati di amministrazione condivisa per l’attuazione dei principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale, in I principi del nuovo codice dei contratti pubblici, (a cura di) F. Fracchia, R. Ursi, R. Dipace, in corso di pubblicazione per i tipi della Editoriale Scientifica.
[30] Sulle categorie della gratuità e della liberalità, e sulle relative differenze, si veda R. Sacco, C. De Nova, Il contratto, IV edizione, Vicenza, 2016, pagg. 1437-1441.
[31] Secondo R. Sacco, C. De Nova, Il contratto, IV edizione, Vicenza, 2016, pag. 1436 (che richiamano A. Pino, Il contratto con prestazioni corrispettive, Padova, 1963, pag. 145): “la corrispettività delle prestazioni sta a significare che ognuna delle parti si sottomette al proprio sacrificio solo a condizione che l’altra parte si sottometta a sua volta al suo proprio sacrificio che, ulteriormente, il sacrificio di una delle parti soddisfi un bisogno della controparte preesistente al contratto (una semplice obbligazione restitutoria, infatti, non avrebbe tale carattere)”. Secondo F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, pag. 787 nei contratti con prestazioni corrispettive l’una prestazione è “in funzione” di quella della controparte; secondo F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1948, pag. 234, tra le prestazioni “si stabilisce (...) uno speciale nesso logico, che è la corrispettività e che consiste nella interdipendenza fra esse, per cui, ciascuna parte non è tenuta alla propria prestazione, senza che sia dovuta la prestazione dell’altra”.
[32] Nella Relazione illustrativa e relazione tecnica agli articoli e agli allegati allegata allo schema di decreto legislativo recante codice dei contratti pubblici, con riferimento all’art. 13 si legge: “Il comma 2 individua i contratti cui le norme del codice non devono applicarsi: contratti esclusi a norma delle direttive comunitarie; contratti attivi e contratti a titolo gratuito anche se offrono opportunità di guadagno, sottolineando così la corrispettività delle prestazioni quale connotato essenziale dei contratti pubblici disciplinati dal Codice” (corsivi aggiunti).
[33] Per l’attuazione dell’art. 151, comma 3, d.lg. n. 50/2016 erano state elaborate specifiche linee-guida operative: cfr. MiBACT-DG Musei, Circolare 8 novembre 2019, n. 45, par. 1, Note esplicative e modelli operativi per la realizzazione di forme speciali di partenariato pubblico-privato nei beni culturali ex art. 151, comma 3, del Codice dei contratti pubblici.
[34] Il riferimento è alla tesi sostenuta nel parere del Consiglio di Stato, Comm. Spec., 26 luglio 2018, n. 2052 e seguita dalla giurisprudenza successiva (Tar Toscana, 1° giugno 2020, n. 666; Tar Toscana, sez. III, 4 ottobre 2021, n. 1260; Cons. Stato, sez. V., 7 gennaio 2021, n. 208). Con un’impropria interpretazione della categoria della gratuità si era affermato che potesse considerarsi non economico, dunque “fuori dal mercato” e sottratto alla disciplina degli appalti, soltanto il servizio gestito in perdita, sul presupposto per cui “solo la sicura esclusione di ogni possibile ripianamento con risorse pubbliche del costo dei fattori produttivi utilizzati dall’ente e con l’assenza di alcuna forma di incremento patrimoniale anche se finalizzato al servizio stesso, sarebbero in grado di dimostrare l’oggettiva assenza dell’economicità del rapporto”. In questa prospettiva si equiparava a un corrispettivo anche il mero rimborso delle spese effettivamente sostenute e dei costi sopportati per erogare le prestazioni. Sul punto v., tra gli altri, D. Caldirola, Il Terzo settore nello Stato sociale in trasformazione, Napoli, Editoriale scientifica, 2021, pagg. 186-195.
[35] Secondo il citato parere del Consiglio di Stato, Comm. Spec., 26 luglio 2018, n. 2052: “La disciplina recata dal Codice dei contratti pubblici prevale in ogni caso sulle difformi previsioni del Codice del Terzo settore, ove queste non possano in alcun modo essere interpretate in conformità al diritto euro-unitario: troverà, in tali casi, applicazione il meccanismo della disapplicazione normativa, costituente un dovere sia per il Giudice sia per le Amministrazioni”.
[36] Cfr. Corte cost. 131 del 2020 punto n. 2.1. del Considerato in diritto. I corsivi riportati nel testo sono aggiunti.
[37] Si tratta di principi elaborati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di affidamento dei servizi sociali. Tra le pronunce più rilevanti cfr. Corte giust. CE, 25 ottobre 2001, C-475/99 Ambulanz Glöckner; Corte giust. CE 29 novembre 2007, C-119/06 Commissione/Italia-Regione Toscana; Corte giust. CE 18 dicembre 2007, C-532/03 Commissione/Irlanda; Corte giust. CE 29 aprile 2010, C-160/08, Commissione/Repubblica Federale di Germania; Corte giust. CE 10 marzo 2011, C-274/09 Privater Rettungsdienst; Corte giust. UE, 11 dicembre 2014, C-113/13 ASL n. 5 (Spezzino); Corte. giust. Ue, 28 gennaio 2016, C 50/14 Consorzio Artigiano Servizio Taxi e Autonoleggio, CASTA); Corte giust. UE, 7 luglio 2022, C-213/21 e C-214/21, Emergenza Italy cooperativa sociale. Sull’evoluzione giurisprudenziale e normativa nel settore delle procedure di affidamento dei servizi sociali si veda, tra i molti, G.F. Cartei, Servizi sociali e regole di concorrenza, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 3-4, pag. 627 ss.; A. Moliterni, Solidarietà e concorrenza nella disciplina dei servizi sociali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 1, pag. 89 ss.; E. Caruso, L’evoluzione dei servizi sociali alla persona nell’ordinamento interno ed europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2017, 5, pag. 1115 ss.; A. Albanese, I servizi sociali nel codice dei contratti pubblici e nel codice del terzo settore: dal conflitto alla complementarietà, in Munus, 2019, 1, pag. 139 ss.; Id. La collaborazione fra enti pubblici e terzo settore nell’ambito dei servizi sociali: bilanci e prospettive, in Istituzioni del Federalismo, 2022, 3, pag. 635 ss.
[38] In questi termini v. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 14 luglio 2022, Asociación Estatal de Entidades de Servicios de Atención a Domicilio (ASADE), C-436/20), punto n. 67, su cui v. S. Pellizzari, Forme di collaborazione tra enti pubblici e Terzo settore: la Corte di giustizia valorizza la discrezionalità degli Stati membri per un miglior bilanciamento tra solidarietà, efficienza e concorrenza, in Ist. del Fed., 2022, 2, pag. 1021 ss. Si veda, altresì, Corte Giust. CE 12 luglio 2001, causa C-399/98, Ordine degli Architetti e a., laddove è stato osservato come “il carattere oneroso del contratto si riferisca alla controprestazione erogata dalla pubblica autorità interessata a motivo della realizzazione delle opere che costituiscono oggetto del contratto di cui all’art. 1, lett. a), della direttiva e che sono destinate ad entrare nella disponibilità della detta autorità”; sulla stessa linea v. Corte Giust. CE, 18 gennaio 2007, causa C-220/05, Auroux e.a., ove si afferma che l’“onerosità di un contratto si riferisce alla controprestazione erogata all’imprenditore a motivo della realizzazione delle opere previste dall’amministrazione aggiudicatrice”; e Corte Giust. UE, 29 novembre 2007, causa C-119/06, ove si afferma che “il carattere oneroso di un contratto si riferisce alla controprestazione erogata dall’autorità pubblica interessata a motivo dell’esecuzione delle prestazioni dei servizi che costituiscono oggetto del contratto e delle quali tale autorità sarà la beneficiaria”.
[39] Tali principi, elaborati dalla Corte di Giustizia dell’UE, hanno portato il legislatore italiano a definire il regime dei rimborsi delle convenzioni tra P.A. e ETS ex artt. 56, 57 Cts. Sul punto si veda A. Albanese, La collaborazione fra enti pubblici e terzo settore nell’ambito dei servizi sociali: bilanci e prospettive, cit., pag. 643.
[40] Sul PPP nel nuovo codice dei contratti pubblici si veda G.F. Cartei, La disciplina del partenariato pubblico-privato e il contratto di concessione, in Commentario al nuovo Codice dei contratti pubblici, (a cura di) G.F. Cartei, D. Iaria, Napoli, Editoriale Scientifica, 2023, pagg. 895-914; A. Botto, S. Castovinci Zenna, Il partenariato pubblico-privato, in Il nuovo codice dei contratti pubblici, (a cura di) R. Chieppa, M. Santise, H. Simonetti, R. Tuccillo, La tribuna, 2023, pagg. 291-327. Sul modello del PPP previsto nel primo e secondo codice dei contratti pubblici v., tra i molti, M.P. Chiti (a cura di), Il partenariato pubblico-privato: concessioni, finanza di progetto, società miste, fondazioni, Napoli, 2009; C. Contessa, PPPC: modello generale, in Trattato sui contratti pubblici, Tomo V, (diretto da) M.A. Sandulli, R. De Nictolis, 2019; F. Di Cristina, Il partenariato pubblico-privato quale “archetipo generale”, in Giorn. dir. amm., 2016, 4, pag. 482 ss.
[41] In questo senso vanno anche le indicazioni operative contenute ne Il Quaderno ANCI per l’attuazione dei partenariati fra enti locali ed enti del Terzo Settore ove si sottolinea la necessaria continuità tra la co-progettazione e le speciali forme di partenariato nel settore culturale.
[42] V. G. Sciullo, Patrimonio culturale e PSPP secondo il Codice dei contratti, cit., pag. 90.
[43] Sarà, dunque, necessario individuare gli eventuali elementi del contratto e i rimedi da azionare qualora venga meno l’accordo tra le parti, che siano coerenti con la natura collaborativa del rapporto. Non si ignora che non è un’operazione semplice, dato che la categoria dei contratti con comunione di scopo (salvo che non siano contratti associativi costitutivi di una persona giuridica, caso nel quale si applicherà la disciplina propria della figura istituita) riceve solo saltuaria considerazione nel codice civile (es. art. 1420 c.c.). Pertanto, per la qualificazione dell’assetto negoziale e l’individuazione della disciplina applicabile, seguendo il metodo tipologico (su cui v. R. Sacco, C. De Nova, Il contratto, IV edizione, Vicenza, 2016, pagg. 1401-1432), si dovrà innanzitutto procedere in negativo, escludendo le norme incompatibili (i.e. quelle esplicitamente riferite o riferibili ai contratti di scambio) e poi operare un raffronto con lo schema tipo (o parti dello schema tipo) dei contratti associativi; fermo restando, naturalmente, che la qualificazione operata dalle parti è soggetta al controllo giudiziale. Si tratta di una prospettiva tutta da esplorare, su cui non è possibile impegnarsi in questa sede, ma che pare decisiva per l’effettiva realizzabilità di questo modello di partenariati.
[44] Sul ruolo del privato non profit nel settore v., tra gli altri, G. Clemente di San Luca, Volontariato, non-profit e beni culturali, in Federalismi.it., 2017, 10, pagg. 1-58.
[45] Fermo restando il rinvio, contenuto nell’art. 12 Ccp, alla legge 7 agosto 1990, n. 241 per l’integrazione della disciplina delle procedure di affidamento, rimane la questione della qualificazione dell’attività che l’amministrazione compie per stipulare il contratto, in termini pubblicistici (i.e. di esercizio di potere amministrativo funzionalizzato) ovvero di attività non autoritativa di diritto privato, con le implicazioni che ne derivano in termini di regime giuridico e di sindacato giurisdizionale. Sulla questione, di recente e da prospettive diverse v. A. Moliterni, Amministrazione consensuale e diritto privato, Napoli, Jovene, 2016, pag. 371 ss.; E. Guarnieri, Funzionalizzazione e unitarietà della vicenda contrattuale negli appalti pubblici, Bologna University Press, 2022, pagg. 185-233.
[46] Cfr. l’art. 111 d.lg. n. 42/2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio: “Le attività di valorizzazione dei beni culturali consistono nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all’esercizio delle funzioni e al perseguimento delle finalità indicate all’articolo 6. A tali attività possono concorrere, cooperare o partecipare soggetti privati”.
[47] Cfr. l’art. 6 d.lg. n. 42/2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio. In dottrina, tra gli altri, G. Pastori, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia: situazione in atto e tendenze, in Aedon, 2004, 3; G. Severini, Il patrimonio culturale e il concorso dei privati alla sua valorizzazione, in Riv. giur. edilizia, 2015, 6, pag. 322 ss.; L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, pag. 685; Id., Valorizzazione e gestione, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pagg. 195-247.
[48] G. Piperata, La valorizzazione economica dei beni culturali: il caso dei musei e delle collezioni, relazione al Convegno La valorisation économique des biens culturels locaux en France et en Italie Tolosa, 21 novembre 2014, in Aedon, sezione “Atti di convegno”; M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, in Aedon, 2018, 3, pagg. 1-10; P. Rossi, Partenariato pubblico-privato e valorizzazione economica dei beni culturali nella riforma del codice degli appalti, cit., pagg. 1-4; L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 3, pagg. 657-663.
[49] A partire dalla riforma adottata con DPCM 29 agosto 2014, n. 171. Per la disciplina vigente cfr. il DPCM 2 dicembre 2019, n. 169 Regolamento di organizzazione del Ministero della cultura, degli uffici di diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance.
[50] Introdotti dalla Legge Ronchey, d.l. 14 novembre 1992, n. 433, conv. in legge 14 gennaio 1993, n. 4 e oggi disciplinati dall’art. 117 d.lg. n. 42/2004, su cui, di recente, v. C. Vitale, I servizi per il pubblico a venticinque anni dalla legge Ronchey, in Gior. dir. amm., 2018, 3, pagg. 344-358.
[51] Cfr. l’art. 106 d.lg. n. 42/2004.
[52] V. G. Severini, Il patrimonio culturale e il concorso dei privati alla sua valorizzazione, cit., pag. 322 ss.
[53] Di cui però vi sono stati esempi: si pensi ai casi in cui l’esigenza di generare reddito ha spinto direttori di musei o sindaci a destinare i beni culturali ad iniziative commerciali o ad usi privati temporanei per finalità ludico-ricreative. Si pensi ancora all’uso di statue o monumenti pubblici (ad esempio, il David o i Bronzi di Riace) per la sponsorizzazione di prodotti commerciali come capi di abbigliamento o addirittura armi. Su queste tendenze si veda le considerazioni critiche di T. Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane, Roma, Minimum fax, 2013; Id., Privati del patrimonio, Roma-Bari, Einaudi, 2015.
[54] Questa prospettiva emerge in M.C. Cavallaro, I beni culturali: tra tutela e valorizzazione economica, cit.; G. Mari, Concessione di valorizzazione e finanza di progetto: il difficile equilibrio tra conservazione, valorizzazione culturale e valorizzazione economica, cit.
[55] Sul teme si veda G.P. Barbetta, M. Cammelli e S. Della Torre (a cura di), Distretti culturali: dalla teoria alla pratica, Bologna, Il Mulino, 2013.
[56] Cfr. l’art. 7 d.lg. 42/2004 e il d.m. n. 112 del 18 marzo 2022 con cui sono state ripartite le risorse dell’investimento 2.1 “Attrattività dei Borghi” compreso nel PNRR-M1C3, Misura 2 “Rigenerazione di piccoli siti culturali, patrimonio culturale, religioso e rurale” (https://pnrr.cultura.gov.it/misura-2-rigenerazione-di-piccoli-siti-culturali-patrimonio-culturale-religioso-e-rurale/2-1-attrattivita-dei-borghi/).
[57] Il riferimento è alla Convenzione UNESCO di Parigi del 1972 per la protezione del patrimonio mondiale e alla Convenzione del Consiglio d’Europa del 2005 sul valore dell’eredità culturale per la società (nota come Convenzione di Faro), ratificata con legge 1 ottobre 2020, n. 133, che incoraggia iniziative volontarie della società civile quale “comunità di eredità”, vale a dire “insieme di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale e, che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future” (art. 2, lett. b) e sottolinea come l’utilizzo del patrimonio culturale possa essere fattore di sviluppo economico di una comunità, favorendo occupazione, industria creativa, turismo culturale etc.
[58] In questi termini v. G. Manfredi, Rigenerazione urbana e beni culturali, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributi al diritto delle città, (a cura di) F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, Il Mulino, 2017, pag. 268; S. Cavaliere, La valorizzazione/gestione del patrimonio culturale in funzione dello sviluppo economico: l’esperienza degli strumenti collaborativi, in Amministrazioneincammino.it, 2020.
[59] Su cui v. S. Gardini, La valorizzazione integrata dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2016, 2, pag. 403 ss.
[60] Cfr. l’art. 1, comma 2-bis, legge 7 agosto 1990, n. 241.