Canoni e corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni culturali: prime riflessioni sul d.m. 161/2023
Il Terzo Valore [*]
di Pierpaolo Forte [**]
Sommario: 1. Impostazione. - 2. Natura delle immagini del patrimonio culturale. - 3. I dubbi sul regime giuridico delle immagini del patrimonio culturale. - 4. Una questione di valorizzazione economica. - 5. La varietà della riproduzione. - 6. Le riproduzioni come dati di conoscenza: il terzo capitale.
The Third Value
The paper takes as its starting point the decree of the Italian minister of Culture No. 161 of April 11, 2023, to carry out a quick survey of the nature of reproductions by images of cultural heritage, from which it draws arguments that seem to deny their status as "cultural goods," of the same species as what they reproduce, and proposes the hypothesis that they are documents, capable of conveying knowledge, and pertain to functions concerning public cultural heritage in order to its valorization. The digital dimension, however, makes them peculiar, diverse objects, capable of combining fruition, very free reuse, and economic fructification, if, however, one treats them for what they are, and does not confuse them with the goods of which they provide a representation.
Keywords: cultural heritage; digital assets; cultural heritage law; economic valorization of cultural heritage.
Ad onta dell'apparente marginalità dell'argomento trattato dal d.m. 161 dell'11 aprile 2023, esso ha suscitato grande attenzione, ben oltre i suoi profili tecnici. In controluce, in effetti, si staglia una questione ben più ampia del mero oggetto del decreto (rubricato "Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali"), che qui proveremo soltanto ad evocare, concentrandoci sulla questione delle riproduzioni per immagini dei beni culturali, e soprattutto del loro riuso.
Il punto è che non è in questione (soltanto) la già controversa modalità con cui è gestito il patrimonio culturale di appartenenza pubblica; né vi è implicato (solamente) l'altrettanto dibattuto regime giuridico di quella che la Costituzione chiama la "proprietà pubblica", della quale i beni culturali sono considerati in qualche modo paradigmatici. Se così fosse, non staremmo che prolungando un confronto tecnico, scientifico, politico che è in azione già da qualche decennio, e che riguarda anche la ruggine che indubbiamente sembra affliggere - come altre parti del cd. Codice Urbani del 2004 - anche la disciplina dell'"uso individuale" di tali beni [1].
A me sembra che le reazioni suscitate dalle linee guida ministeriali non sarebbero state così vivaci, e non avrebbero trovato tante amplificazioni anche all'esterno della cerchia di chierici che, in genere, dibatte quegli argomenti, se non fosse in gioco qualcosa, allo stesso tempo, di più largo e di più profondo, che nel trattamento delle immagini del patrimonio culturale, soprattutto se di appartenenza pubblica, trova soltanto l'occasione. Più che entrare nell'analisi degli argomenti che si confrontano al riguardo, io vorrei perciò, anzitutto, chiedermi di cosa stiamo parlando, giacché non mi pare fuori luogo domandarsi che tipo di oggetti si generino e si mettano in circolazione con le riproduzioni digitali dei beni culturali.
Pare poco discutibile che siamo nel bel mezzo di una immensa operazione di "digitalizzazione" del patrimonio culturale, in parte per effetto di interventi intenzionali e professionali [2], ma in altra parte frutto di iniziativa privata e personale, favorita dal fatto che ormai chiunque ha in tasca una (buona) macchina fotografica, capace non solo di acquisire, ma anche di manomettere e trasmettere immagini, per di più commentandole in vario modo. Quale che ne sia il movente, ai fini del nostro discorso è sufficiente prendere atto che è in corso un "popolamento", che traspone in digitale ed immette in rete milioni di immagini tratte da beni culturali, e più o meno ad essi pedisseque, buone per essere maneggiate da chiunque.
Ci si può chiedere, allora, se anche esse siano parte del patrimonio culturale di appartenenza pubblica: l'immagine digitale della "Nascita di Venere" di Botticelli è bene culturale quanto la meravigliosa pittura degli Uffizi che essa riproduce?
La domanda è meno oziosa di quanto possa sulle prime apparire, giacché è ben noto che la qualifica di bene culturale, e per di più l'appartenenza pubblica, implicano uno specifico regime giuridico, che - in disparte tutto il resto - giunge ad aver regole peculiari per l'"uso individuale" che alcuno intendesse farne, limitando più o meno intensamente la sua normale destinazione, quella appunto della fruizione pubblica. Ed è proprio su tale disciplina che si "appoggia" il d.m. 161/2023.
2. Natura delle immagini del patrimonio culturale
Ora, a me sembra che l'immagine digitalizzata di un bene culturale, per quanto accurata, fedele (ma quanto può esserlo davvero?) ed anche usabile in modo da offrirci apprensioni altrimenti impossibili (provate a cogliere nel piccolo quadro al Louvre, a distanza obbligatoria, fra torme di visitatori, smartphones sollevati, e uno spesso cristallo protettivo, la famigerata sfumatura degli occhi della Gioconda, che Leonardo ottenne con una geniale ditata...), sia tuttavia deludente in confronto alla percezione che la sua fruizione diretta può consentire; e questo per motivi che sappiamo più o meno da un secolo, ovvero da quando abbiamo cominciato a poter disporre della "riproducibilità tecnica" dell'arte e degli oggetti culturali in generale, e dunque a riflettervi e a studiarne gli utilizzi [3].
Non è solo questione di "brivido" mancante [4], né solo di "aura" vacillante [5], pur se queste sono già lacune non da poco della riproduzione. Il fatto è che viene messa da parte una delle caratteristiche che danno struttura ad ogni opera che sia veramente d'arte, e in generale che sia rilevante culturalmente: la sua complessità, sorprendente, singolare, maieutica, affascinante (e, a suo modo, persino distruttiva), che viene conferita per intero quando ne sia evidente l'originalità, e l'autenticità.
A maggior ragione con le possibilità offerte oggi dagli apparati digitali, in effetti, la riproduzione è divenuta facilissima, costa pochissimo, non ha bisogno di troppe intermediazioni tecniche impegnative, e può consistere in un numero incontrollato di copie; ma, appunto, di copie si tratta, e per di più oggi molto, molto, molto numerose.
Ora, la questione della scala, è noto, non è secondaria in questioni ontologiche, sia per i livelli delle analisi, sia per le dimensioni degli oggetti, dato che nessuno, che so, indosserebbe un cappello il cui diametro fosse di ... tre metri o più, e se perciò pure esistesse un oggetto del genere, dovremmo ammettere che non sarebbe un cappello; ma qui quella questione (la possibilità di un numero potenzialmente illimitato di repliche), rileva anche per il fatto che più estesa è la riproduzione, più intensamente conduce il bene riprodotto nel territorio impoverito della serialità, nel quale regna, anche questo è ben noto, il simulacro [6], la banalizzazione di ciò che è unico o raro, prezioso, trasformato in un molteplice potenzialmente infinito.
Ed infine, non mi sembra trascurabile che, come accadrebbe per due banconote identiche, e col medesimo numero di serie, di una delle due (e dunque della copia) può dirsi che sia, semplicemente, falsa.
Insomma, no, le immagini pedisseque dei beni culturali non sono beni culturali della medesima specie di quelli che riproducono, e tuttavia non si può negare che restino oggetti distinti da quello riprodotto.
Per comprovarne la consistenza, possiamo fare un piccolo giro intellettuale, e considerare le repliche di opere d’arte provenienti dall’antichità, di scuola, di bottega, di maniera, e la innumerevole quantità di oggetti artigianali o di uso comune, e dunque fisiologicamente molteplici e ripetuti, che riempiono musei e parchi archeologici; da questi campioni possiamo trarre la consapevolezza che la condizione di “copia”, o della sua leggera variante di "replica", in se’, può essere comunque foriera di un valore cognitivo, documentale, e perciò anche a questi oggetti, nonostante la loro serialità, attribuiamo in indubbio valore culturale; ma, allo stesso tempo, avvertiamo ben chiara la differenza con le loro innumerevoli ri-riproduzioni odierne, che invece trattiamo come gadget o comunque come prodotti diversi, e come tali sono vendute - non di rado presso gli stessi musei che custodiscono e mostrano gli originali - a prezzi tuttavia (e non per caso) assai inferiori al valore dei beni riprodotti.
Dunque, mentre si deve riconoscere che non siano propriamente beni culturali, non si può negare che le riproduzioni digitali possano essere comunque documenti, potenzialmente capaci di essere veicoli di una conoscenza [7].
3. I dubbi sul regime giuridico delle immagini del patrimonio culturale
Se questa ricostruzione è corretta, le conseguenze sul piano giuridico diventano davvero rilevanti; infatti, per dir così, muta il presupposto di fatto che determina il regime giuridico di beni costituiti in digitale, se vanno innanzitutto considerati propriamente e tecnicamente beni in senso giuridico, dotati come sono di una propria identità [8], ma aventi una dimensione, un valore, di conoscenza, questo connotato li pone in un territorio costituzionale ampio, quello che ci ha fatto connettere, notoriamente, gli artt. 9 e 33 della Costituzione, dove compare la questione della libertà [9]; senza indugiarvi (è questione davvero complessa), ci limiteremo ad apprendere da quel territorio un aspetto che riguarda anche le immagini digitali, le quali, contrariamente ai beni culturali materiali che riproducono, ma proprio come le conoscenze che li riguardano, non sono beni “rivali”, nel senso che sembra possibile farne fruire in contemporanea da un numero potenzialmente infinito di utenti senza per questo danneggiarli e senza ledere la analoga fruizione, anche futura, da parte di altri [10].
La rivalità è uno dei presupposti che incidono sul regime autorizzatorio, ovvero concessorio, dell'uso di un bene culturale materiale (non per caso definito dalla norma "individuale": art. 106 del d.lg. n. 42/2004), e la differenza fra i due regimi ("semplice" autorizzazione, o concessione), viene in genere spiegata (anche se non sempre giustificata) proprio nella maggiore intensità dell'individualità dell'utilizzo, cioè della sottrazione ad altri della fruizione [11].
E questo è un aspetto che mostra la limitatezza di quelle disposizioni [12], che non distinguono tra le tipologie di "usi"; mentre infatti se intendo "usare" una sala di un museo per un'occasione privata viene in rilievo non solo la possibilità di farlo, ma anche i rischi che ciò può comportare per la salvaguardia del bene, e soprattutto la sottrazione della sua fruizione ad opera di altri durante tutto il tempo in cui l'uso individuale mi venga concesso, la situazione è tutta diversa per la riproduzione mediante creazione di immagini, che, si ribadisce, una volta effettuata non impedisce ad alcun'altro di usarne.
Insomma, la disciplina vigente dell’“uso dei beni culturali” connessa alla loro riproduzione, già piuttosto incerta di suo, è pervasa dal presupposto (non esplicitato) che abbia a riguardo beni materiali, ad uso rivale ed escludibile [13], e perciò appare davvero poco precipua per quelli digitalizzati che tutto sono, fuorché tangibili e rivali.
La qual cosa incide sul modo con cui ne viene il regime giuridico, poiché l'immagine digitale viene, per dir così, liberata dal problema della rivalità, che è alla base di una delle impostazioni della gestione dei beni pubblici, la quale, perciò, depurata da quel carattere, rimane avvinta dagli altri aspetti rilevanti, ovvero la protezione autoriale, la condizione proprietaria, dominicale del bene [14], la sua tutela o la sua valorizzazione, che sono oggi notoriamente doverose per i beni pubblici, ed in particolare per quelli culturali.
4. Una questione di valorizzazione economica
La mera digitalizzazione operata su un bene culturale non costituisce, in sé, una creazione originale, tale da poter prefigurare la costituzione di un’opera creativa; lo dice oggi a chiare lettere l’art. 32-quater della legge sul diritto d'autore (l. 22 aprile 1941, n. 633), che stabilisce che le riproduzioni fedeli di opere per le quali siano scaduti i termini della protezione del diritto d’autore non sono soggette a loro volta al diritto d’autore, salvo che si tratti a sua volta di opera originale.
È interessante notare che la disposizione è stata introdotta in recepimento dell’art. 14 della direttiva (Ue) 17 aprile 2019, n. 2019/790 sul diritto d’autore [15], che si pone il problema dell'armonizzazione europea, sul presupposto che "nel settore delle arti visive, la circolazione di riproduzioni fedeli di opere di dominio pubblico favorisce l’accesso alla cultura e la sua promozione e l’accesso al patrimonio culturale", e dunque "le differenze tra le legislazioni nazionali in materia di diritto d’autore che disciplinano la protezione di tali riproduzioni causano incertezza giuridica e incidono sulla diffusione transfrontaliera delle opere delle arti visive di dominio pubblico" (considerando 53). E tuttavia il recepimento domestico [16] non ha mancato di precisare che "restano ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42", consentendo di parlare di "pseudo-copyright [...] che si comporta come un copyright anche se formalmente non è un copyright" [17].
Non potendo troppo indugiare sul tema [18], ai nostri fini è sufficiente rilevare che se discutiamo di mera riproduzione di immagini di beni in pubblico dominio, la questione autoriale non sussiste; ed allora si può considerare il secondo elemento, ed ipotizzare che un controllo sulle immagini digitali possa essere giustificato dal fatto che vi sia su di esse una "proprietà", giacché la titolarità del bene di base comporterebbe anche facoltà di governo esclusivo degli elementi immateriali di conoscenza che esso reca, dunque anche dell'immagine riprodotta.
Tuttavia, è ben noto che già in relazione ai beni culturali materiali la dottrina [19] ha da tempo fatto intendere la scarsissima rilevanza della questione “proprietaria”, e dunque la blanda utilità, anche pratica, di una disciplina differenziata della “proprietà pubblica” dell’art. 42 Cost. che si basi interamente sul possesso e sull’incommerciabilità [20], ovvero sui passaggi di proprietà, comunque avvengano [21]; l'immagine digitale, che non viene “compravenduta” per ragioni intrinseche alla sua peculiare materialità [22], dato che non ha insite possibilità di possesso materiale esclusivo e, dunque, di proprietà in senso tecnico [23], è una sorta di dimostrazione postuma di come quelli culturali siano, appunto, “beni di fruizione” [24], ma anche che in fin dei conti questa caratteristica è strumentale alla loro vera funzione finale, che ha a che fare con la distribuzione delle qualità cognitive dei beni culturali, la cui disponibilità universale è il vero scopo ultimo della disposizione dell’art. 9 Cost. [25].
Né, a ben vedere, può essere particolarmente rilevante un aspetto insito nel regime proprietario, ovvero la responsabilità della conservazione del bene nel tempo, che in ambito culturale è talmente delicato e pregnante da aver generato una disciplina ed una funzione specialistica, con il suo proprio nome gergale, la tutela; la quale tuttavia non è, o almeno non è solo, un connotato della proprietà sui beni, dato che non è a causa della titolarità che sorge la responsabilità pubblica della tutela di quelli culturali, tant'è vero che può sussistere, e consentire di agire, anche in confronto a beni di proprietà altrui.
Vista in quest'ottica, sia detto per inciso, ci si potrebbe anche chiedere se dagli artt. 106 - 110 del Codice dei beni culturali e del paesaggio sia possibile derivare il regime giuridico del prodotto digitale, o non, piuttosto, della digitalizzazione in quanto riproduzione [26], poiché afferisce alle operazioni di traduzione digitale del patrimonio culturale pubblico materiale, che, se non viene in rilievo la questione della rivalità (salvi dunque i casi in cui comunque vi sia una sottrazione più o meno intensa all'altrui fruizione, come quelli di riprese cinematografiche, o sessioni fotografiche dedicate), in talune circostanze va assentita dalla Istituzione che lo gestisce in conseguenza non della titolarità, ma per motivi di tutela, dato che alcune tecniche di riproduzione sono effettivamente pericolose per la materialità dei beni su cui agiscono (art. 107, co. 2, d.lg. 42/2004).
Dunque, se nemmeno la "questione proprietaria" è esaustiva, a giustificare poteri generali di assenso ed una gestione amministrativa dell'uso e del riuso non rischiosi dell'immagine digitale rimarrebbe solo l'argomento della valorizzazione economica; la quale utilizza le possibilità ormai assodate di rendimento dei beni culturali [27], che non ne è, però, l'unico elemento, dato che il valore più rilevante che viene messo in moto dal patrimonio culturale, quello che, va ribadito, in fin dei conti è alla base dell'art. 9 della Costituzione, è quello cognitivo, che agisce nella testa, nei pensieri, nei dubbi, nelle domande e nelle risposte di chi entra in contatto con quel patrimonio. E il regime di base di questo aspetto della valorizzazione, lo si è accennato, contempla questioni di libertà [28].
Anche questo argomento tuttavia, suppone la questione della rivalità, giacché si basa sull'assunto che chi utilizzi un bene digitalizzato di origine culturale con finalità di lucro, si approprierebbe di quell'utilità economica in via esclusiva, sottraendola ad altri (e, prima fra tutti, all'istituzione cui il bene "appartiene"); ma in confronto al bene digitale la rivalità non è dovuta alla sua naturale ontologia, ma è, a dir così, artificiale, viene cioè artatamente costituita proprio da norme che impongano di essi trattamento ad "uso individuale", introducendo un collo di bottiglia amministrativo nella loro apprensione e, soprattutto, nel loro riutilizzo: senza tali norme, chiunque potrebbe usarne, liberamente, senza problemi di appropriazione o esclusiva dovuti all'oggetto, in sé.
Non si può negare che vi possano essere comportamenti appropriativi (come quando un'impresa commerciale utilizzi pedissequamente l'immagine di un bene culturale per farne un marchio, cioè si identifichi con esso, o almeno ci provi), ma anche in questo caso, salvo che vi siano apporti creativi sufficienti da renderlo distinto, non si tratta comunque di un'esclusiva ontologica.
Ma, su questo tema, sia permesso un breve rimando, poiché proprio su di esso occorre probabilmente puntare attenzione.
5. La varietà della riproduzione
Prima di farlo, a testimonianza di quanto la condizione di rivalità sia decisiva, esaminiamo rapidamente altri oggetti digitali cultural-based, frutto di un lavoro intenzionale e organizzato, insomma prodotti che non consistono nella mera riproduzione dell'immagine. Ancora una volta, per riprova utilizziamo il confronto con il trattamento di alcune opere d'arte, stavolta di epoca contemporanea, come quelle strutturate in edizioni “multiple”, o quelle che consistono in ripetizioni [29] ed appropriazioni [30]: pur usando tutte dichiaratamente pratiche di copia (nel caso dei multipli, la riproduzione è spesso persino pedissequa), in realtà tutti gli esemplari sono trattati come opere originali; o perché ognuno di essi è dichiarato dall'autore edizione unica, e numerata, o a causa della peculiare modalità della ripetizione di un'opera altrui, o dell'utilizzo di alcuni suoi elementi, che finisce con il creare un nuovo lavoro, distinto da quello replicato, di cui riesce ad indicare un senso, un significato nel prototipo non del tutto evidente [31].
Al di là dei problemi giuridici di tipo autoriale e di politica del diritto (che hanno fatto saggiare le differenze dell'impostazione statunitense sul fair use, rispetto alla disciplina legata ad una stretta titolarità regolata in Italia [32]), resta il punto generale che il lavoro di alcuni artisti agisce usando esplicitamente opere esistenti per costituirne di nuove, percepite e trattate come autentiche ed originali.
Ciò ci consente anche di distinguere più accuratamente le operazioni afferenti ad oggetti digitali che puntano proprio sulla tecnica che fornisce originalità anche alla copia. Mi riferisco, in primo luogo, ai Non-Fungible Token (Nft), che in una delle loro versioni (ve ne sono diverse, in effetti, disparate), generano riproduzioni molto accurate di oggetti culturali, rese però uniche mediante un congegno tecnologico, che fornisce ad esse un valore di assoluta singolarità, e dunque di esclusività senza originalità, che le rende precipue.
Insomma, sul piano strutturale, si tratta di beni che sono distintamente tali non tanto per la riproduzione, quanto perché estremizzano la rivalità, eliminando intenzionalmente la naturale universalità dei beni digitali, e trovano così un aumento di valore, anche consistente, ed un mercato tutto loro, ma diverso da quello dei beni culturali che utilizzano: per quanto abbia interessato e trovato compratori disponibili a pagarlo a prezzo elevato (ma lontanissimo da quello dell'opera riprodotta), l'Nft del Tondo Doni non è il Tondo Doni, viene percepito come "balocco deluxe" [33], e la sua creazione come la sua compravendita non hanno inciso in alcun modo sull'opera di Michelangelo (se non, forse, rendendola ancora più nota di quanto già lo fosse).
Non diversamente si può ragionare in ordine ai prodotti digitali che, oltre all'immagine, rechino anche elementi cognitivi aggiuntivi riguardanti il bene riprodotto. Se prendiamo ad esempio alcuni tra i più numerosi fra essi, peraltro nati in epoca predigitale, le schede di catalogazione, si tratta di oggetti distinti, frutto di un lavoro intenzionale e organizzato (una funzione, in ambito pubblico [34]), complesso e sofisticato, e sta lì, non nell'immagine riprodotta del bene cui si riferiscono (che pure spesso recano), il loro valore, epistemico anzitutto, cognitivo, ma anche economico, oltre che la loro distinzione ontologica [35].
In entrambi gli esempi, il bene che ne usa un altro non è solo, come l'immagine, diverso da quello di base, ma è anche il risultato di un apporto che fornisce al prodotto distinta individualità, rivalità almeno sul piano dell'accessibilità, e valore (anche economico) autonomo, che ben può essere gestito e utilizzato come proprio [36]: per gli enti pubblici, perciò, si può supporre che questi prodotti, se non sono essi stessi beni culturali [37], vadano annoverati al cd. patrimonio disponibile, con tutte le conseguenze in tema di regime giuridico.
6. Le riproduzioni come dati di conoscenza: il terzo capitale
Come visto, le tipologie di oggetti digitali a base culturale sono numerose, ma hanno in comune alcuni aspetti, tra i quali spiccano l'essere beni diversi da quelli materiali cui si riferiscono, e portatori di dati e informazioni che ne fanno un veicolo di conoscenza, assimilabile ad un documento; e non si può fare a meno di notare che, in questo momento storico, gli elementi della conoscenza sono considerati determinanti per l'ormai chiara attitudine a favorire lo sviluppo sociale, culturale ed economico, poiché tanto maggiore è la qualità e quantità accessibile, tanto maggiori saranno le possibilità di servizi innovativi, che contribuiscono al benessere della società [38].
Il loro regime giuridico, soprattutto quando in appartenenza pubblica, è perciò inevitabilmente attratto da quello dei dati pubblici, ed infatti la disciplina al riguardo contempla anche quelli detenuti da musei, archivi e biblioteche.
Per quanto ve ne siano numerose declinazioni, il principio del cd. Open government data ha trovato in Europa una recente, importante revisione, con la direttiva (Ue) 2019/1024 (nota anche come ‘Direttiva Open Data’) [39]; senza entrare troppo nel dettaglio, la logica di questa impostazione è rivolta a favorire la messa a disposizione, ove possibile per via elettronica, di dati pubblici in formato aperto per agevolarne il libero utilizzo, riutilizzo e condivisione da parte di chiunque e per qualunque finalità (si v. in particolare l'art. 5 e il considerando 16 della menzionata direttiva), e tendenzialmente con fruizione e riutilizzo libero, salva la possibilità di recuperare i costi marginali sostenuti per la produzione, messa a disposizione e divulgazione dei documenti, nonché per l’“anonimizzazione” dei dati personali e la protezione di informazioni commerciali [40].
Proprio sul nostro punto la direttiva 2019/1024 ha disposto però un'importante eccezione; per un verso, l'art. 3, par. 2, prevede che "gli Stati membri provvedono affinché i documenti i cui diritti di proprietà intellettuale sono detenuti da biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, musei e archivi, e i documenti in possesso delle imprese pubbliche siano riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali, qualora il loro riutilizzo sia autorizzato, conformemente ai capi III e IV"; e poi l'articolo 6, che si apre con l'affermazione del principio generale per cui "il riutilizzo di documenti è gratuito" (salvo il recupero dei menzionati costi marginali), "in via eccezionale" stabilisce che esso non si applica "a biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, musei e archivi", e che tali soggetti possono chiedere il pagamento di un corrispettivo in denaro per la fornitura e per l'autorizzazione al riutilizzo dei documenti, che può contemplare anche "un utile ragionevole sugli investimenti"; pertanto, in questo ambito la disciplina nazionale che contempla autorizzazioni e corrispettivi non è incompatibile con quella europea vigente [41].
La giustificazione per tale impostazione, nella menzionata direttiva, è piuttosto laconica [42]; ma occorre anche notare che il suo considerando (39) assume che "i limiti massimi per i corrispettivi di cui alla presente direttiva non pregiudicano il diritto degli Stati membri di imporre costi inferiori o di non imporne affatto". Dunque, la sottoposizione della riproduzione digitale e, soprattutto, del riutilizzo lucrativo, ad assensi amministrativi, e ad un prezzo, è una opzione politica nazionale, ed afferisce ancora una volta alla questione della valorizzazione economica.
Per riprendere il discorso al riguardo che avevamo lasciato in sospeso, viene in questione un argomento ancora poco esplorato; provando ad esporlo in breve, mentre s'è visto che i prodotti digitali tratti dal patrimonio culturale costituiscono un "capitale cognitivo" i cui rendimenti sono afferenti alla conoscenza, nell'ambito del secondo capitale che viene generato a causa della riproduzione del bene culturale e del suo riuso, quello economico, ve n'è un terzo che Maurizio Ferraris definisce "capitale sintattico" [43], poiché apprendendo e mettendo in circolo immagini, e annotandole in vario modo, generiamo più o meno inconsapevolmente dati preziosissimi, in quanto racchiudono informazioni di comportamento, desiderio, bisogno, gusto, con la grandissima novità che oggi vengono invariabilmente, e tutti, registrati, e possono perciò venir raccolti, aggregati, consentendo non solo una base per una conoscenza della componente reale dell'umanità mai prima possibile, ma soprattutto l'accumulo, appunto, capitalistico, e una ricchezza economica ormai evidente, consistente e crescente, tanto che non solo le grandi piattaforme che per prime vi hanno lavorato, ma anche moltissimi operatori economici "non-web" stanno puntandovi, aggiungendo al loro core business una dorsale da "data company", come ognuno di noi può verificare dalla frequenza e, talora, dall'insistenza con cui ci viene continuamente richiesto di acquisire i nostri dati, e poter utilizzare le tracce dei nostri contatti con la "docusfera" digitale [44].
Il valore economico maggiore, reale, e certamente più facile da conseguire, degli oggetti digitali a base culturale, insomma, non sta in loro stessi, e nel loro utilizzo, che è faticoso, e costoso, da tradurre in importanti rendimenti monetari (è piuttosto arduo, per farsene pagare un - modesto - corrispettivo, inseguire, magari dopo aver citato in giudizio, e dovendo poi dare esecuzione ad una eventuale sentenza, gli incalcolabili riusi già oggi possibili delle immagini del patrimonio culturale, in tutto il globo...), ma nei dati che vengono registrati nel farlo, come dimostra, inequivocabilmente, la postura prevalente tra gli operatori economici del "Web Business", propensa a fornire gratuitamente innumerevoli ed attraenti materiali, non certo con atteggiamento benefico ("se il servizio è gratis, il prodotto sei tu", si sente ormai spesso ripetere).
Il rendimento potenziale dei dati accumulati dai contatti col patrimonio documentale digitale (non solo culturale) delle Istituzioni pubbliche, e dal suo uso [45], è insomma una vera miniera potenziale per il bilancio pubblico [46], oggi ancora trascurata nonostante sia conosciuta da tempo [47] e, perciò, rilasciata ad una appropriazione privata, e dunque in gran parte sottratta non solo a chi concorre al suo accumulo (si tratta di una ricchezza prodotta ormai quasi da tutti noi), ma ad ogni possibilità redistributiva.
Questo è un punto, a mio avviso, da rimarcare; la capacità di ottenere rendimenti economici dal patrimonio culturale pubblico non va messa in discussione, non foss'altro perché altrimenti, per una banale logica di mercato, se possibile se ne impossessano in pochi, quando invece si tratta di risorse di tutti, e bisogna provare a farne godere quanto più largamente possibile, proprio come per i rendimenti cognitivi frutto della fruizione; ma occorre anche essere nel proprio tempo, e capire come sono fatti, e funzionano, i materiali digitali, la cui struttura e le cui peculiari condizioni di utilizzo consentono oggi una eccezionale combinazione di fruizione, riuso molto libero, e fruttificazione economica, laddove invece, ragionando come se fossero della stessa natura dei beni materiali, si rischia di trattarli impropriamente, confondendo il loro riutilizzo non-rivale con quello esclusivo, e per di più inducendo, anche senza intenzione, una più o meno giustificata percezione di ingiustizia, come l'ardore delle polemiche innescate dal decreto ministeriale n. 161/2023 dimostra.
Note
[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.
[**] Pierpaolo Forte, professore ordinario di Diritto Amministrativo presso l’Università degli Studi del Sannio, Piazza Arechi II 82100 Benevento, pieforte@unisannio.it.
[1] G. Sciullo, “Pubblico dominio” e “Dominio pubblico” in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento della Direttiva (UE) 2019/790 e 2019/1024, in Aedon, 2021, 1: “se ci accosta alle disposizioni codicistiche dedicate all’Uso dei beni culturali, si avverte come la sensazione della patina del tempo".
[2] È noto che non solo è in atto il “Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale”, ma che il Pnrr, nella III sezione della Missione 1 (“Turismo e Cultura 4.0”), prevede interventi a favore del patrimonio culturale, e la Misura 1 (“Patrimonio culturale per la prossima generazione”) contempla l’Investimento 1.1, dedicato alla “Strategia digitale e piattaforme per il patrimonio culturale”.
[3] P. Valéry, La conquete de l’ubiquité (1928), in Id., Pièce sur l’art, Paris, Gallimard, XXXIV ed., 1934, pag. 105, aveva intuito che presto sarebbe stato possibile “trasportare o ricostituire in ogni luogo il sistema di sensazioni - o più esattamente, il sistema di eccitazioni - provocato in un luogo qualsiasi da un oggetto o da un evento qualsiasi”, una sorta di “ubiquità” capace di rendere le opere “fonti” o “origini” di una “distribuzione della Realtà Sensibile a domicilio”. Il saggio di Valery fu portato in esergo allo studio di W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, [1955], trad. it. Einaudi, Torino, 1998.
[4] C. Brandi, Viaggio nella Grecia Antica, Milano, Bompiani, 2007, pag. 304, parla del “brivido inequivocabile che scocca solo di fronte ad un originale”.
[5] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica cit., pag. 9 ss.
[6] J. Baudrillard, Simulacres et simulation, Paris 1981; I volti del simulacro. Realtà della finzione e finzione della realtà, (a cura di) D. Secondulfo, Verona, QuiEdit, 2007.
[7] F. Merloni, Coordinamento e governo dei dati nel pluralismo amministrativo, in, Il regime dei dati pubblici, (a cura di) B. Ponti, Rimini, Maggioli, 2008, pag. 163, rileva che “qualunque documento prodotto in formato elettronico contiene delle informazioni che possono essere isolate dal contesto del documento medesimo e assumere una vita autonoma, un valore conoscitivo in sé rilevante”. Ho dispiegato più diffusamente il tema in P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, in P.A. Persona e Amministrazione, 2019, 2, pag. 245 ss.; si v. anche L. R. Perfetti, Il bene pubblico ai tempi dell’assenza della cosa. Appunti per una possibile (contro)teoria dei beni pubblici, ivi, pag. 303 ss.; G. Tropea, Brevi riflessioni intorno al saggio di Pierpaolo Forte sui “beni culturali digitalizzati”, ivi, pag. 311 ss.; D. Donati, La digitalizzazione del patrimonio culturale. Caratteri strutturali e valore dei beni, tra disciplina amministrativa e tutela opere d’ingegno, ivi, pag. 323 ss.
[8] Che lo siano in senso economico sembra già assodato: cfr. G. Resta, Chi è proprietario delle piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, in Politica del diritto, 2009, 4, pag. 553; A. Bartolini, Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. Amm., 2019, 2, pag. 234 ss., pur rilevando che l’immagine dei beni culturali “diventa oggetto di diritti” e “crea nuovi diritti di sfruttamento economico”, definisce quelli generati per effetto della digitalizzazione “sottoprodotti”.
[9] Tra molti altri, si v. S. Labriola, Libertà di scienza e promozione della ricerca, Padova, Cedam, 1979; A. Orsi Battaglini, Libertà scientifica, libertà accademica e valori costituzionali, in Aa. Vv., Nuove dimensioni nei diritti di libertà. Scritti in onore di Paolo Barile, Padova, Cedam, 1990, pag. 105, (sul quale F. Bilancia, La libertà della scienza e della ricerca: attualità della riflessione di Andrea Orsi Battaglini, in Dir. pubbl., 2016, 3, pag. 188; G. Fontana, Art. 33, in, Commentario alla Costituzione, (a cura di) R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, Utet, 2006, pag. 679; R. Cavallo Perin, Il contributo italiano alla libertà di scienza nel sistema delle libertà costituzionali, in Dir. Amm., 2021, 3, pag. 587 ss.
[10] G. Resta, Chi è proprietario delle piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, cit., pag. 575, evidenza anzi la doppia caratteristica, quella “fisica di ‘non escludibilità’, sommata all’altro dato della ‘non rivalità nel consumo’”; si veda anche G. Caforio, L’immateriale economico dei beni culturali come oggetto di valorizzazione della proprietà industriale, in G. Morbidelli, A. Bartolini (a cura di), L’immateriale economico dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2016, pag. 151 ss.
[11] W. Cortese, Art. 107, in M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, il Mulino, 2004, pag. 423; A. Fantin, La concessione in uso dei beni culturali nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Aedon, 2010, 2; M. Brocca, La disciplina d'uso dei beni culturali, in Aedon, 2006, 2.
[12] Figlie in effetti della legge 12 giugno 1902, n. 185 (cd. “Legge Nasi”), allorché - al cospetto della nuova possibilità di fotografare - si dispose, con l'art. 19, che “la riproduzione dei monumenti e degli oggetti d’arte e di antichità di proprietà governativa sarà permessa con le norme e alle condizioni da stabilirsi nel Regolamento e verso il pagamento di un adeguato compenso” (art. 19). Cfr. in proposito il regio decreto 28 giugno 1906, n. 447 che modifica il Capo V (Delle riproduzioni di oggetti di antichità e d’arte), Sez. III (Riproduzioni fotografiche) del regolamento 17 luglio 1904, n. 431 riguardante la conservazione dei monumenti e degli oggetti d’antichità e d’arte (artt. 32-40).
[13] E per di più - sia pure in termini inespressi - immobili: basterà verificare come molti commenti dottrinari connettano pacificamente la disciplina degli artt. 106 e 107 d.lg. n. 42/2004 a quella dei precedenti artt. 54, 55 e 56, per effetto del primo comma dell’art. 57-bis, il quale si riferisce esclusivamente ai “beni immobili pubblici di interesse culturale”: cfr. A. Fantin, La concessione in uso dei beni culturali nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit.; C. Ventimiglia, Uso dei beni culturali, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, pag. 974 ss. La latente incombenza dei beni immobili negli schemi teorici del diritto è lamentata anche nelle analisi giusprivatistiche: O.T. Scozzafava, I beni e le forme giuridiche di appartenenza, Milano, Giuffrè, 1982, pag. 3 ss.
[14] “Il tipo di controllo che l'istituto museale esercita sul bene culturale non nasce ispirandosi tanto al campo del diritto d'autore quanto a quello della proprietà. Occorre sempre tenere presente che il potere del proprietario del bene museale non consiste tanto nella possibilità di escludere i terzi dal godimento del bene, quanto nell'interesse a controllare e determinare l'utilizzazione economica”: così A. Tumicelli, L'immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, 1.
[15] “Gli Stati membri provvedono a che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, a meno che il materiale risultante da tale atto di riproduzione sia originale nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore”. Commentando la disposizione, M. Modolo, La riproduzione del bene culturale pubblico tra norme di tutela, diritto d’autore e diritto al patrimonio, in Aedon, 2021, 1, aveva notato che "potrebbe anche incidere sull’art. 108 del codice di beni culturali. Se pensiamo alle 'opere delle arti visive in pubblico dominio' citate nell’art. 14, una parte importante e consistente di esse è costituita proprio da beni culturali di proprietà pubblica".
[16] Operato con l'art. 1, co. 1, lett. b), d.lg. 8 novembre 2021, n. 177.
[17] S. Aliprandi, Lo “pseudo-copyright” sui beni culturali: ecco perché è un problema tutto italiano, in Agenda digitale, 13.07.2022, www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/lo-pseudo-copyright-sui-beni-culturali-ecco-perche-e-un-problema-tutto-italiano/.
[18] La rete Mab (formata dalle associazioni Aib, Anai e Icom) con le "raccomandazioni della per il recepimento della direttiva europea sul copyright" (https://www.aib.it/attivita/mab/2020/85856-raccomandazioni-mab-recepimento-direttiva-europea-copyright/), avevano segnalato che "per una migliore armonizzazione della direttiva con le norme nazionali Aib, Anai e Icom ritengono indispensabile intervenire non solo sull’art. 87 della legge sul diritto d’autore, che definisce i diritti connessi sulle fotografie semplici di opere d’arte figurativa, ma anche sugli artt. 107 e 108 del Codice dei beni culturali, liberalizzando il riuso per qualsiasi finalità della riproduzione fedele di beni culturali pubblici non protetti da diritto d’autore. La condivisione delle immagini mediante licenze aperte ha già permesso a numerosi musei, archivi e biblioteche in tutto il mondo di porsi al servizio del pubblico in modo più inclusivo ed efficace, assicurando agli istituti culturali anche un ritorno non trascurabile in termini di visibilità e di maggiore attrattività".
[19] Tra la sterminata letteratura, si vedano, giusto ad esempio, G. Palma, Il regime giuridico della proprietà pubblica, Torino, Utet, 1983; V. Cerulli Irelli, Beni pubblici, in Dig. disc. pubbl., II, Torino, Utet, 1987, pag. 280 ss..; M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, Giuffrè, 2004, passim.; M. Dugato, Il regime dei beni pubblici: dall'appartenenza al fine, in I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, (a cura di) A. Police, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 17 ss.; G. Piperata, Formazione, traiettoria e significato attuale della proprietà pubblica in Italia, in Giustamm.it, 2015, 7.
[20] “la proprietà, pubblica o privata che sia, non può comprendere e esaurire la complessità del rapporto persona/beni. Un insieme di relazioni viene ormai affidato a logiche non proprietarie”: S. Rodotà, Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in M. R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Milano, Ombre Corte, pag. 319 ss.
[21] In G. Palma, P. Forte, I beni pubblici in appartenenza individuale, in Annuario dell'Associazione dei Professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, pag. 279 ss., si illustra il “paradosso della demanialità”: proteggere una destinazione, una strumentalità, dovuta ai caratteri oggettivi dei beni, con tecniche giuridiche soggettive, quelle della riserva, dell'appartenenza, dell'imputazione, del dominio. Il demanio come concetto “scientificamente valido” è stato messo variamente in discussione da lungo tempo: si v., ad es., M.S. Giannini, I beni pubblici Milano, Giuffré, pag. 52; V. Cerulli Irelli, Beni pubblici, voce in Dig. Disc. Pubbl, II, 1987, pag. 275.
[22] G. Ziccardi, Il diritto d’autore nell’era digitale, Milano, Il Sole24ore, 2001, pag. 10 ss., il quale sottolinea che cambia la modalità della transazione dell’opera digitale, la quale “è quasi sempre licenziata e non venduta; il che implica un trasferimento non totale ma di diritti limitati dal venditore all’acquirente, soggetti a determinate condizioni e modalità”.
[23] È da molto tempo che si è ipotizzato che i diritti di proprietà possono riguardare res corporales, le cose, mentre le altre entità non corporali possono essere oggetto di altri diritti: S. Pugliatti, Beni e cose in senso giuridico, Milano 1962, 103 s.; O. T. Scozzafava, I beni e le forme giuridiche di appartenenza, cit., 358, 460 ss.
[24] M. S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim dir. pubbl., 1976, pag. 5 ss.
[25] “Lo Stato, nel porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura, deve [...] assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali espressi da essa”: così Corte Cost., 6 marzo 1990, n. 118, corroborando gli assunti degli studi sulla disposizione costituzionale in parola: F. Merusi, Sub art. 9, in Commentario della Costituzione, (a cura di) G. Branca, Bologna Roma, 1975; Id, Significato e portata dell’art. 9 della Costituzione, in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale: scritti in onore di C. Mortati, III, Milano, Giuffrè, 1977, pag. 806; G. Rolla, Beni culturali e funzione sociale, in Le Regioni, 1987, pag. 53; M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Padova, Cedam, 1991; V. Caputi Jambrenghi, La cultura e i suoi beni giuridici, Milano, Giuffrè, 1999; G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon, 2001, 1; G. Clemente di San Luca, La elaborazione del “diritto dei beni culturali” nella giurisprudenza costituzionale, in Aedon, 2007, 1.
[26] S. De Nitto, Concessioni d'uso del patrimonio culturale, in Patrimonio culturale e soggetti privati, (a cura di) A. Moliterni, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, pag. 244 ss., postula un "mutamento dell'oggetto della disciplina" a proposito della liberalizzazione della riproduzione operata dalla legge del 2014 (che avrebbe "scorporato concettualmente l'uso fisico del bene culturale dalla sua riproduzione", sicché il bene culturale riprodotto, "una volta inserito in un sito internet, acquisisce il carattere dell'immaterialità e della virtualità"). Contra P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2020, 3, il quale, pur convenendo sul fatto che "si tratti di artefatti nuovi e autonomi rispetto all'originale [che recano] un nuovo 'uso' del valore immateriale contenuto nel (ed espresso dal) bene culturale (materiale)", ritiene tuttavia che "non è l'oggetto della disciplina che cambia, ma la 'disciplina dell'oggetto', che altrimenti opinando si rischia di perdersi in un labirintico gioco di specchi con un effetto di illusoria moltiplicazione (dell'immagine) dell'unico oggetto reale, che è e resta il bene culturale (materiale) riprodotto", e che "avventurarsi lungo questa strada ci porterebbe molto lontano, con poco costrutto sul piano della chiarificazione giuridica".
[27] Da ultimo, si vedano A. Bartolini, Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. Amm., 2019, 2, pag. 223; G. Severini, L‘immateriale economico nei beni culturali, in L‘immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli, A. Bartolini, Torino, Giappichelli, 2016, pag. 17 ss.; M. Cammelli, Immateriale economico e profilo pubblico del bene culturale, ivi, 94 ss.; G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1.
[28] Si consideri, giusto per esempio, il co. 1 dell'art. 2 del Codice dell'amministrazione digitale (d.lg. 7 marzo 2005, n. 82), il quale dispone che "lo Stato, le Regioni e le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine".
[29] È molto citato, giustamente, il notissimo esempio dell'opera LHQQQ (1919) di Marcel Duchamp, nota anche come “la Gioconda coi baffi”, ma potremmo anche riferirci al più recente lavoro di Elaine Sturtevant, una pionieristica artista che si è inoltrata in questa ricerca, anche sulla scorta di alcune linee filosofiche, dette non per caso "della differenza", la cui pratica non intendeva contraffare l’opera originale, ma generare una sua nuova riscrittura, acquisendone un valore non ancora emerso; nonostante la problematicità (anche legale) del suo lavoro, a Sturtevant è stato attribuito il Leone d’Oro alla 54a Biennale di Venezia, e le sono state dedicate mostre al Moma di New York, al Moca di Los Angeles, al Museum für Moderne Kunst di Francoforte, e poi a Parigi, Digione, Stoccolma, Zurigo, Hannover, Londra, Napoli, dove si è tenuta l'ultima concepita durante la vita dell'artista.
[30] Pratica che si è diffusa nel corso degli anni '80 del '900; tra gli artisti più noti a usarla vi è Jeff Koons, il cui lavoro è stato oggetto di notevoli conseguenze giudiziarie (famose le controversie contro Art Rogers e Andrea Blanch, i cui materiali, per la loro evidenza e paradigmaticità, sono facilmente reperibili in rete).
[31] Nel più celebre caso italiano in argomento, quello sorto intorno alla serie la serie “The Giacometti Variations”, presentate da John Baldessarri in Fondazione Prada nel 2009, il Tribunale di Milano, con ord. 13 luglio 2011, ebbe a considerarla attività di rivisitazione o rielaborazione dell’opera altrui, che costituisce un’elaborazione creativa, originale ed autonoma; in tema, si v. anche Cass. Civ., 10 marzo 1994, n. 2345; 27 ottobre 2005, n. 20925; 23 novembre 2005, n. 24594; 12 gennaio 2007, n. 581.
[32] Si v., in particolare, gli artt. 18 e 20 della legge n. 633 del 22 aprile 1941.
[33] G. Gatti, Nft: balocchi deluxe degli Uffizi, ne Il giornale dell'arte, 26 maggio 2022.
[34] Art. 17 d.lg. n. 42/2004; si tratta di una funzione molto impegnativa, ed assai strutturata sul piano tecnico, oggi chiaramente strumentale, per "il corretto ed efficace espletamento delle funzioni legate alla gestione del territorio ai fini del conseguimento di reali obiettivi di tutela ed è strumento essenziale di supporto per la gestione e la valorizzazione del patrimonio immobile e mobile nel territorio e nel museo, nonché per la promozione e realizzazione di attività di carattere didattico, divulgativo e di ricerca": così l'art. 2 dell’accordo Stato-regioni 1 febbraio 2001, su cui si v. V. M. Sessa, L'accordo Stato-regioni in materia di catalogazione dei beni culturali, in Aedon, 2001, 2. Sul valore strumentale si v. Cons. St., VI, 8 febbraio 2000, n. 678.
[35] Con altro esempio, si v. G. Sciullo, I beni, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2011, pag. 24: “le Rime del Petrarca sono un bene immateriale, in quanto indiscutibile espressione letteraria, i manoscritti delle Rime, cioè gli originali dell'opera, costituiscono bene culturale (ex art. 10, comma 4, lett. c, del codice)”.
[36] Se infatti l’art. 11 della L. 22 aprile 1941, n. 633 riconosce il diritto di autore sulle opere create e pubblicate sotto il loro nome ed a loro conto e spese alle Amministrazioni dello Stato, alle Province ed ai Comuni, come anche agli enti privati che non perseguano scopi di lucro, salvo diverso accordo con gli autori delle opere pubblicate, ed alle Accademie e agli enti pubblici culturali sulla raccolta dei loro atti e sulle loro pubblicazioni, la giurisprudenza ritiene che tale disposizione vada coordinata con l'art. 3 della legge medesima, che fa salvi i diritti degli autori delle singole opere raccolte in opere collettive, che possono contrastarne un'utilizzazione indebita, così rivendicandone la paternità, salva ogni questione attinente ai suoi rapporti con l'ente committente che non ne abbia autonomamente disposto: così Cass. civ. sez. I, sent. 4 febbraio 2016, n. 2197; ed in effetti S. Aliprandi, Vincoli alla riproduzione dei beni culturali, oltre la proprietà intellettuale, in Archeologia e CalcolatoriSupplemento, 2017, 9, pagg. 93-110 e spec. 103, nota che “in alcuni casi - anche se non sempre - tali attività di riproduzione generano dei diritti di proprietà intellettuale a favore di chi le cura: ad esempio il regista del video in cui si illustrano i quadri presenti in un museo ha un diritto d’autore sul video e il costitutore di una banca dati con le versioni digitalizzate di manoscritti storici ha un diritto sui generis”; in argomento, si vedano A.L. Tarasco, Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, Napoli, Editoriale scientifica, 2017, pag. 219 ss.; G. Finocchiaro, La valorizzazione delle opere d'arte on-line e in particolare la diffusione on-line di fotografie di opere d'arte. Profili giuridici, in Aedon, 2009, 2; A. Tumicelli, L'immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, 1.
[37] Per le schede catalografiche, ad esempio, la questione può essere opinabile; ma più in generale oggetti digitali possono essere dotati di propri elementi testimoniali: amplius in P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, cit., spec. pag. 277 ss.
[38] Così, in sintesi, la raccomandazione (Ue) 2021/1970 della Commissione europea del 10 novembre 2021; ma si possono anche considerare, con argomenti simili, la dichiarazione di Roma del 25 marzo 2017 e il Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre 2017, dove si è concordato sul fatto che l'istruzione e la cultura sono fondamentali per costruire società inclusive e coese per tutti e per sostenere la competitività europea.
[39] Quella “Open Data” ha sostituito la Direttiva sull’informazione del settore pubblico 2003/98/Ce, che era già stata modificata dalla Direttiva 2013/37/Ue, anche nota come “Direttiva Psi”; questa mutevolezza normativa è uno degli aspetti del concetto di "transizione digitale", e si inquadra nel più ampio fenomeno dell’anacronismo scientifico delle leggi, che impone una costante manutenzione degli impianti normativi in relazione alle evoluzioni delle conoscenze scientifiche e delle possibilità tecniche.
[40] Un'approfondita analisi di tali costi, dei loro presupposti, delle eccezioni e delle diverse possibilità al riguardo è condotta da M. Ricolfi, J. Drexl, M. Van Eechoud, K. Janssen, M. T. Maggiolino, F. Morando, C, Sappa, P. Torremans, P. Uhlir (e R. Iemma, M. De Vries), Open Data and Re-Use of Public Sector Information, in D. Tiscomia (a cura di) Open Data and Re-Use of Public Sector Information, XX Riv. informatica e diritto, 2011, 105, https://ssrn.com/abstract=2217405.
[41] Il recepimento domestico, avvenuto con decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 200, recante modifiche d.lg. 24 gennaio 2006, n. 36, ne ha approfittato per ribadire che "le pubbliche amministrazioni e gli organismi di diritto pubblico provvedono affinché i documenti cui esso si applica siano riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali secondo le modalità previste dal medesimo decreto, inclusi i documenti i cui diritti di proprietà intellettuale sono detenuti da biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, i musei e gli archivi, qualora il riutilizzo di questi ultimi documenti sia autorizzato in conformità alle disposizioni di cui alla Parte II, Titolo II, ((Capo I e)) Capo III, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, nonché a quelle di cui alla Parte II, Titolo VII, Capo II, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196" (art. 1, co. 2 d.lg. n. 36/2006). Su tutto ciò, si v. G. Sciullo, “Pubblico dominio” e “Dominio pubblico” in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento della Direttiva (UE) 2019/790 e 2019/1024, cit.
[42] Si v. il considerando (38): "le biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, i musei e gli archivi dovrebbero poter imporre corrispettivi superiori ai costi marginali per non ostacolare il proprio normale funzionamento".
[43] M. Ferraris, WEBFARE. A manifesto for social well-being, 2023, dattiloscritto, pag. 13 ss., che ne fa derivare un "patrimonio dell’umanità", che è " nuovo, perché sebbene gli atti e i consumi che registra risalgano all’origine della specie umana, finora non erano stati documentati e dunque trasformati in dati, cioè in capitale potenziale. Inoltre, il nuovo patrimonio è ricco, perché non ci documenta su soldi o titoli, ma su pensieri, parole e opere, antipatie e antipatie degli umani, che in ogni istante arricchiscono l’archivio da cui attinge l’intelligenza artificiale. In terzo luogo, si tratta di un patrimonio rinnovabile, giacché la proprietà dei dati ha la caratteristica della pubblicità delle idee: diversamente dai beni tangibili, i dati possono venire ceduti senza che chi li detiene debba privarsene. Infine, e soprattutto, si tratta di un patrimonio equo, cioè che viene costruito non dal fenomeno sempre problematico e contestabile del merito, bensì dall’inesauribile ed egalitaria funzione del bisogno, che è poi ciò che rende uguali tutti gli esseri umani"; già prima, in Id., Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Bari-Roma, Laterza, 2019, pag. 139, aveva sostenuto che “il capitale non è più da gran tempo quello di Marx. Infatti, in questi anni, con la rivoluzione documediale, ci siamo trovati nella condizione di capitalizzare ogni singolo atto della nostra vita, registrandolo e trasformandolo così in una possibile fonte di valore”.
[44] M. Ferraris, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, cit., XXII, nega che “il web sia una infosfera di comunicazioni invece che una docusfera che registra il mondo della vita trasformandolo in profilazione, automazione e distribuzione”.
[45] Vale ricordare che i dati cultural-based non sono esplicitamente contemplati, ad esempio, tra quelli "di elevato valore" di cui agli artt. 13 e 14, e allegato I, della direttiva n. 2019/1024, e al recente Regolamento di esecuzione (Ue) 2023/138, ma possono essere ricompresi in alcuni di essi, sotto forma di elementi di altri aggregati statistici. In ogni caso, "l'obbligo di rendere gratuitamente disponibili a norma del paragrafo 1, secondo comma, lettera a), le serie di dati di elevato valore non si applica alle biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, ai musei e agli archivi" (art. 14, par. 4, direttiva n. 2019/1024). E così, perciò, dispone anche l'art. 12-bis del menzionato d.lg. n. 36/2006.
[46] Si noti che il Considerando (14) della direttiva n. 2019/1024 rileva come la possibilità di riutilizzare i documenti detenuti da un ente pubblico conferisce un valore aggiunto non solo per i riutilizzatori, gli utenti finali e la società in generale ma "in molti casi, per lo stesso ente pubblico, grazie alla promozione della trasparenza e della responsabilizzazione e al ritorno di informazione fornito dai riutilizzatori e dagli utenti finali che permette all'ente pubblico in questione di migliorare la qualità dei dati che raccoglie e l'adempimento dei suoi compiti" (corsivo aggiunto). Il recente studio della Commissione europea The economic impact of Open Data. Opportunities for value creation in Europe (https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/1021d8a7-5782-11ea-8b81-01aa75ed71a1), del 2020, stima attorno a 200-300 miliardi di euro il valore del mercato europeo dei soli dati aperti entro il 2025.
[47] S. Giacchetti, Una nuova frontiera del diritto d’accesso: il “riutilizzo dell’informazione del settore pubblico” (Direttiva 2003/98/Ce), in Cons. Stato, 2004, II, 1249 ss.; I. D’Elia, La diffusione e il riutilizzo dei dati pubblici. Quadro normativo comunitario e nazionale: problemi e prospettive, in Informatica e diritto, 2006, 1, pag. 13 ss.; C. M. Cascione, Il riutilizzo dell’informazione nel settore pubblico, ne Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2005, 1, pag. 4.