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L’immagine del bene culturale “fra due mondi”

La digitalizzazione delle collezioni museali. Stato dell’arte e prospettive

di Margherita Croce [*]

Sommario: 1. La digitalizzazione delle collezioni museali: le immagini dei beni culturali, la documentazione scientifica, la banca dati. - 2. Il contesto: la trasformazione digitale della pubblica amministrazione. - 3. Accesso e riuso del patrimonio informativo pubblico nella normativa europea e nazionale. - 4. L’“eccezione culturale” al principio dell’open access. - 5. La disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio sulle riproduzioni di beni culturali. Profili critici. - 5.1. Il riuso per finalità non lucrative. - 5.2. Il riuso per finalità lucrative. - 6. Il regime delle riproduzioni dei beni culturali alla luce della Direttiva Copyright. - 7. Pro e contro del regime previsto per il riuso delle riproduzioni a fini di lucro: un dibattito giuridico, economico e, soprattutto, politico. - 8. Strategie e strumenti per la digitalizzazione del patrimonio culturale: tendenze all’estero e in Italia. - 8.1. Dalle raccomandazioni della Commissione europea al Piano triennale per la digitalizzazione e l’innovazione dei musei della Dg Musei. - 8.2. Gli investimenti del Pnrr. - 9. Il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale della Digital library. - 9.1. L’etichettatura per il riuso senza scopo di lucro delle immagini e il regime per gli usi commerciali e pubblicitari, le modalità di download. - 9.2. Gli sviluppi del settore del licensing. - 9.3. I principi in tema di tariffazione e la nuova previsione di gratuità per gli usi editoriali. - 10. Le linee guida ministeriali del d.m. 11 aprile 2023, n. 161. - 11. La tutela della banca dati. - 12. La gestione del patrimonio culturale digitale: l’ubiquità tecnica tra privative pubbliche e pratiche sociali (ed economiche) di appropriazione.

Digitization of museum collections: state of the art and perspectives
Starting from the experience of digitizing some museum collections, the contribution aims to reconstruct the national and european regulations on access and reuse of digital cultural heritage. Second, after tracing the academic and political debate questioning the adequacy and effectiveness of the national codictic legislation concerning the lucrative forms of use of reproductions by private entities, and the policy trends found in our country and abroad, the contents of the National plan for the digitization of cultural heritage and the attached guidelines recently adopted by the Digital library and the even more recent ministerial Guidelines for the determination of fees and charges for the concession of use and reproduction of state cultural property are critically exposed. Finally, some critical notations on the economic exploitation of reproductions, by both public and private entities, are made from the consideration of the material and mindset changes produced by the coming into existence of the digital environment and markets.

Keywords: digitization of cultural heritage; reproductions; museum collections; national and european regulations; digital environment and markets.

1. La digitalizzazione delle collezioni museali: le immagini dei beni culturali, la documentazione scientifica, la banca dati

Fattore trainante dei processi di globalizzazione della fine del secolo scorso, le tecnologie della comunicazione e dell’informazione hanno conquistato, con il nuovo millennio, un ruolo di primo piano anche nell’ambito della catalogazione, fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale. Nei contesti internazionale [1], europeo e nazionali l’attenzione sul tema è cresciuta soprattutto a partire dall’adozione, nel 2003, della Carta Unesco per la “conservazione del patrimonio culturale digitale”, la quale contiene una definizione di patrimonio culturale digitale [2] che, al di là dei rilievi critici che potrebbero muoversi [3], permette di individuarne le forme di estrinsecazione principali, vale a dire: la conversione in formato digitale di “risorse” e “informazioni” di rilievo culturale già esistenti in forma analogica e la creazione ex novo di tali risorse direttamente in formato digitale.

Questa ripartizione è utile per operare una prima delimitazione dell’ambito materiale di questo contribuito, il quale, prendendo le mosse da un progetto di ricerca che ha interessato due musei nazionali [4], ha il contenuto proposito di ricostruire il contesto normativo e le tendenze di policy entro cui si situano le attività di digitalizzazione delle collezioni museali, che consistono: nella conversione in formato digitale o nella creazione direttamente in formato digitale delle immagini dei beni culturali detenuti dai musei e della documentazione archivistica e catalografica ad essi pertinente, e nella loro messa a disposizione del pubblico attraverso la creazione di un repository digitale.

Il campo delle “problematizzazioni” è, dunque, circoscritto alle questioni che riguardano tre distinte categorie di “oggetti digitali”, la cui titolarità spetta, più o meno problematicamente [5], all’amministrazione museale.

La prima è costituita dalle “immagini dei beni culturali in consegna alle istituzioni museali”. Si tratta di “semplici fotografie” o “fotografie documentali” - ossia di riproduzioni “fedeli” di beni culturali che sono nella disponibilità delle amministrazioni - le quali, non possedendo, di per sé, un carattere creativo [6], sono escluse dall’ambito di applicazione delle normative privatistiche sui diritti d’autore e sui cosiddetti diritti connessi [7].

Questi beni culturali digitali ricadono, esclusivamente, nel campo applicativo della disciplina pubblicistica: quella dettata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio [8] (d’ora in poi anche Codice o Codice di settore) in materia di “riproduzioni” [9] (artt. 107 e ss.); disciplina attualmente investita, come si vedrà, da un ampio dibattito che ne interroga l’adeguatezza, l’efficacia e l’opportunità, soprattutto per quanto riguarda le forme e i limiti da essa previsti per l’uso lucrativo delle riproduzioni da parte di soggetti privati [10].

Estranee, per diversi motivi, alla categoria del patrimonio culturale immateriale “vero e proprio” governata dal diritto internazionale [11], le riproduzioni digitali dei beni culturali, frutto di un’attività che viene definita di “dematerializzazione di res tangibili”, sono attratte nell’ambito di applicazione della disciplina codicistica nazionale in virtù del collegamento che sempre mantengono con un singolare substrato materico. Per quanto virtuali, infatti, e quindi sotto questo profilo, immateriali, i beni culturali digitalizzati, rappresentando una proiezione verso l’esterno [12] del valore culturale intrinseco a un bene esistente nella sua materialità, partecipano di quella “unicità e irripetibilità della singola, specifica cosa che è artificium originario” [13].

Essi faticano, tuttavia, a trovare il proprio statuto nella disciplina normativa nazionale. La stessa osservazione empirica suggerisce, infatti, che i beni culturali digitalizzati possiedono qualità autonome: pur legati a delle “cose”, da queste nondimeno si distinguono costituendone, sotto alcuni profili, una “versione arricchita” [14]. Una circostanza che li rende potenzialmente assoggettabili ad un altrettanto autonomo regime giuridico. È da questa prospettiva che in dottrina - nonostante sussista una certa differenza tra chi accede a riflessioni di carattere ontologico [15] e chi, invece, preferisce ragionare di forme d’uso delle cose [16] - è condivisa l’impressione che l’attuale normativa nazionale, informata com’è a una visione “storicista” e “materiale” [17], mostri diversi limiti nel governare la complessa fenomenologia del patrimonio culturale digitale, sotto i vari profili della sua fruizione, valorizzazione, tutela e circolazione [18].

La seconda categoria di “oggetti digitali” coinvolti nelle campagne di digitalizzazione delle collezioni museali è costituita dalla documentazione scientifica - “nativamente digitale” o convertita in formato digitale - detenuta o commissionata dalle amministrazioni museali o comunque pertinente ai beni culturali che esse detengono. Si tratta dell’insieme di conoscenze sviluppate in relazione al patrimonio storico artistico materiale, nel quale rientrano, ad esempio, le relazioni di scavo, le schede di catalogo, i rilievi, le planimetrie, i rendering, etc. Rispetto a questi documenti le problematiche più frequenti riguardano la tutela dei diritti di proprietà intellettuale dei loro autori materiali o dei soggetti che ne detengono la titolarità [19], il loro riutilizzo commerciale da parte dei privati rappresentando un’ipotesi residuale.

Infine, la digitalizzazione delle collezioni museali coinvolge una terza categoria di “oggetti digitali”, i cui peculiari profili giuridici ne giustificano una trattazione separata. Il riferimento è al repository digitale, ossia alle banche dati, elaborate e costituite dalle pp.aa. o per loro conto, in cui immagini e documentazione scientifica confluiscono per essere messi a disposizione del pubblico.

Esclusi, invece, dall’ambito dell’indagine saranno gli oggetti digitali che, in quanto costituiscono un’opera autonoma e distinta rispetto al bene culturale riprodotto o da cui comunque derivano, risultano protetti in sé dalla normativa sul diritto d’autore (entro i limiti temporali dalla stessa prevista) [20]. Altrettanto esclusi saranno i beni immateriali, come ad esempio i marchi, che non riproducono fedelmente un bene culturale pubblico, ma a questo piuttosto si ispirano.

Il riferimento è ai beni disciplinati dal Codice della proprietà industriale, i quali, essendo costituiti da “elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale” [21], sono sì, immateriali, ma non qualificabili come beni culturali in sé e per sé [22]. Infine, fuori dall’ambito dell’indagine resteranno anche i nuovi “servizi digitali” potenzialmente offerti in rete da parte delle amministrazioni, come ad esempio siti web dove effettuare visite virtuali, applicazioni per smartphones, mostre tridimensionali [23], i quali saranno, però, comunque presi in considerazione come elemento di riflessione utile a ricostruire il contesto entro cui le attività di digitalizzazione si situano.

2. Il contesto: la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni

Uno studio che si prefigge non solo di ricostruire il diritto positivo applicabile alla digitalizzazione delle collezioni museali ma anche di individuarne eventuali aporie o inattualità deve necessariamente confrontarsi con il fenomeno più ampio e trasversale della trasformazione digitale delle pubbliche amministrazioni, specie per quanto riguarda le innovazioni che l’e-government [24] dispiega sulle discipline pubblicistiche relative alla proprietà (pubblica) dei beni e all’accesso e riutilizzo del patrimonio informativo pubblico e su quella privatistica del diritto d’autore.

Il trattamento giuridico dei beni culturali digitalizzati va ricostruito, infatti, all’intersezione di diversi plessi normativi, di rango europeo e nazionale, ognuno dei quali orientato alla realizzazione di finalità e interessi distinti e, in alcuni casi, potenzialmente confliggenti.

L’interprete deve farsi carico, in questo senso, di delicate operazioni di bilanciamento tra i valori e gli interessi che orbitano attorno al patrimonio culturale: le esigenze di tutela e salvaguardia della sua integrità (e, problematicamente, anche del suo decoro); la necessità di assicurarne la destinazione pubblica, ossia la fruizione universale, anche al fine di promuovere la diffusione e lo sviluppo della cultura; gli interessi di natura economica sottesi alle attività pubbliche e private finalizzate alla sua valorizzazione, e quelli sottesi alle attività private di uso. Il tutto alla luce dei cambiamenti materiali e di mentalità prodotti dal venire ad esistenza dell’ambiente e dei mercati digitali.

In quanto fenomeno pluridimensionale, la digitalizzazione incide, infatti, in profondità sull’ambiente delle pubbliche amministrazioni, richiedendo un serio adattamento e ripensamento delle loro stesse modalità organizzative e procedimentali. Non riducibile a una mera “transizione” delle attuali procedure amministrative analogiche in formato digitale, ossia all’uso di sistemi informatici e calcolatori, la “trasformazione digitale” [25] dell’amministrazione implica una riconcettualizzazione della stessa.

L’informatica ha una sua logica, che reinterpreta e trasforma tutto l’ambiente amministrativo: dalle modalità di erogazione dei servizi, all’organizzazione, agli istituti di partecipazione. La digitalizzazione, in sintesi, condiziona in modo trasversale e profondo l’azione delle pubbliche amministrazioni, imponendo radicali cambiamenti organizzativi e di mentalità all’interno degli enti e degli uffici e la reingegnerizzazione delle procedure [26].

Ma non solo: le politiche di digitalizzazione aspirano anche a rimodellare lo spazio della relazione tra pubbliche amministrazioni e amministrati in senso più aperto e controllabile. A fronte dell’ambivalenza dei processi di informatizzazione [27] - fattore di efficientamento burocratico ma anche fattore di rischio per l’attività amministrativa, l’amministrazione digitale potendo “paradossalmente, apparire più opaca, meno accessibile e meno comprensibile per il cittadino” [28] - le politiche europee informano i programmi sulla digitalizzazione ai principi della trasparenza e dell’inclusività, nel tentativo di orientarli verso l’erogazione di “servizi pubblici end-to-end senza frontiere, il più possibile personalizzati ed intuitivi, a tutti i cittadini e a tutte le imprese nell’UE” [29].

E ponendosi nella prospettiva del servizio pubblico, o, meglio, dei servizi pubblici culturali, il principio cardine della trasformazione digitale che assume rilievo determinante è quello del libero accesso e riuso dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni (open access [30]).

Per quanto, infatti, il principio organizzativo dell’interoperabilità delle banche dati risulti centrale nei processi di semplificazione e modernizzazione dell’attività amministrativa, il principio del libero accesso e riuso del patrimonio informativo pubblico è potenzialmente in grado di imprimere una più immediata “direzione di senso” alla trasformazione, in quanto agisce in modo diretto sulla configurazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini e sui circuiti diffusi dello sviluppo economico e sociale [31].

3. Accesso e riuso del patrimonio informativo pubblico nella normativa europea e nazionale

Il principio del libero accesso al patrimonio informativo pubblico è chiaramente rilevabile all’interno della normativa europea, la quale promuove “un’ampia disponibilità e il riutilizzo dell’informazione del settore pubblico a fini privati o commerciali, con vincoli minimi o in assenza di ogni vincolo di natura legale, tecnica o finanziaria” [32]. Una normativa che accoglie una nozione giuridica di “dato aperto” particolarmente ampia poiché orientata a garantire che l’utilizzazione e la condivisione dei dati detenuti dalle amministrazioni sia libera e gratuita per chiunque e per qualsiasi finalità [33].

L’Unione europea incoraggia, in particolare, gli Stati membri a unificare il trattamento giuridico del patrimonio informativo pubblico nel senso di garantire la gratuità [34] dell’accesso e del riuso dei dati e di non differenziare il regime delle attività di riuso in ragione della finalità commerciale o non commerciale che le connota.

Una scelta di politica del diritto giustificata principalmente in ragione del ruolo che la circolazione di informazioni può svolgere “nel promuovere l’impegno sociale nonché avviare e favorire lo sviluppo di nuovi servizi basati su modi innovativi di combinare tali informazioni tra loro e di usarle” [35]; ma anche in parte stimolata dalla particolare difficoltà che nell’ambiente digitale si riscontra nel distinguere utilizzi lucrativi (diretti e indiretti) e non lucrativi del patrimonio informativo [36].

Ai sensi della normativa europea resta comunque salva la possibilità per gli Stati membri di prevedere, nel diritto primario o secondario, limitazioni alla conoscibilità dei dati. Sulla base di tale previsione, le amministrazioni nazionali possono subordinare l’accesso ai dati al rilascio di una licenza che definisca le condizioni per il loro riutilizzo, a patto che queste siano obiettive, proporzionate, non discriminatorie, giustificate da un pubblico interesse e non rappresentino un ostacolo alla concorrenza [37]. Inoltre, sebbene accolga il principio della gratuità dell’accesso e del riuso, il diritto europeo non impedisce la possibilità per gli Stati membri di prevedere tariffe differenziate per l’utilizzo commerciale e non commerciale del patrimonio informativo pubblico [38].

Anche il quadro normativo nazionale [39] si è adeguato a tale impostazione, tanto nel senso di garantire la gratuità dell’accesso e del riuso del patrimonio informativo pubblico, quanto nel senso di superare la distinzione tra usi commerciali e non commerciali dei dati. Il Codice dell’amministrazione digitale informa, infatti, la pubblicazione dei dati e dei documenti detenuti dalle amministrazioni pubbliche al principio dell’open data by default, in base al quale, in assenza di diverse indicazioni, i dati pubblicati dalle amministrazioni si intendono “rilasciati come dati di tipo aperto” [40].

Come chiarito dall’art. 1, co. 1, lett. l-ter) del Codice stesso e dalle “Linee guida per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico” adottate dall’agenzia per l’Italia digitale (AgID) nel 2017 (azione 2), le pubbliche amministrazioni devono mettere a disposizione dell’utenza e della cittadinanza dati che: i) siano resi disponibili tramite licenze che ne consentano l’utilizzo da parte di chiunque, in formato disaggregato e anche per finalità commerciali (c.d. requisito giuridico); ii) siano accessibili attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in formato aperto e con i relativi metadati, in base al principio della “apertura fin dalla progettazione e per impostazione predefinita” (c.d. requisito tecnologico); iii)siano resi disponibili in forma gratuita, sebbene rientri nel perimento della gratuità anche l’ipotesi in cui l’amministrazione decida di chiedere il rimborso dei costi marginali sostenuti per la messa a disposizione dei dati [41] (c.d. requisito economico).

Resta salva, tuttavia, la possibilità per le amministrazioni di apporre limitazioni alla conoscibilità dei dati se queste sono previste da leggi e regolamenti e a condizione che risultino coerenti con la normativa europea appena sintetizzata [42].

4. L’“eccezione culturale” al principio dell’open access

Il quadro normativo europeo, e conseguentemente quello nazionale, contempla, però, una serie di eccezioni al principio dell’open access relative ai documenti - categoria in cui rientrano anche le riproduzioni di beni culturali - detenuti dalle amministrazioni preposte alla cura del patrimonio culturale, ossia le biblioteche, i musei e gli archivi [43].

Si tratta di misure derogatorie, riconducibili al più comprensivo concetto di “eccezione culturale” utilizzato, in ambito europeo, per nominare l’insieme di deroghe al diritto della concorrenza giustificate da “motivi [...] di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale” [44]. Deroghe che trovano fondamento nella stessa nozione di “bene culturale”, dal momento che tale “binomio” nega che “la giuridicità si esaurisca nel riflesso di un’utilità economica e vi sovrappone un’altra, diversa utilità e meritevolezza di protezione, quella culturale: di uso metaindividuale, di imputazione generale e di finalità metaeconomica; dunque di eccezione a quell’altra e alle istanze individualizzanti e riduttive al mercato” [45].

La normativa europea prevede, in questo senso, che “i documenti i cui diritti di proprietà intellettuale sono detenuti da biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, musei e archivi, [...] siano riutilizzabili a fini commerciali o non commerciali, qualora il loro riutilizzo sia autorizzato, conformemente ai capi III e IV” [46].

In deroga alla politica di liberalizzazione della circolazione del patrimonio informativo pubblico, gli Stati membri possono dunque mantenere in essere gli eventuali regimi autorizzatori previsti dalle legislazioni nazionali e, quindi, subordinare alcuni usi a particolari licenze che ne definiscono limiti e condizioni, purché queste rispondano a un interesse pubblico, incidano sulle attività di riuso in modo obiettivo, proporzionato, non discriminatorio e non costituiscano un ostacolo alla concorrenza.

Inoltre, il legislatore europeo fa salva la possibilità per biblioteche, archivi e musei di subordinare il riuso dei documenti da essi detenuti al pagamento di una tariffa. In questo senso, è previsto che queste amministrazioni possano richiedere un corrispettivo che non solo consenta di recuperare i costi marginali sostenuti per la messa a disposizione dei dati, ma permetta anche di ricavare un “utile ragionevole sugli investimenti” [47].

Coerentemente con questi margini di discrezionalità accordati dal diritto europeo agli Stati membri, la normativa italiana prevede un regime eccezionale per il riuso del patrimonio culturale digitale. In primo luogo, essa esclude i dati detenuti da biblioteche, archivi e musei dall’ambito di applicazione del principio di gratuità [48], consentendo alle amministrazioni di ricavare anche “utili ragionevoli” dall’applicazione di tariffe [49]. In secondo luogo, prende atto che il riutilizzo dei documenti detenuti da queste amministrazioni continua ad essere soggetto ad autorizzazione e individua [50] nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (d’ora in poi Codice o Codice di settore) la principale fonte normativa per la disciplina di tale regime.

5. La disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio sulle riproduzioni di beni culturali. Profili critici

La disciplina di dettaglio a cui le amministrazioni culturali devono conformarsi nella gestione del proprio patrimonio digitale è quindi contenuta nelle disposizioni del Codice di settore [51], le quali differenziano il regime di riuso di tale patrimonio, assumendo quale criterio discretivo la natura non lucrativa o lucrativa dell’attività del privato.

5.1. Il riuso per finalità non lucrative

Nel corso degli ultimi anni, l’uso non lucrativo delle riproduzioni del patrimonio culturale è stato liberalizzato - attraverso il decreto Art Bonus [52] e la Legge annuale per il mercato e la concorrenza del 2017 [53] - nel segno della gratuità e dell’esclusione di ogni atto autorizzatorio preventivo. Ai sensi dei commi 3 e 3-bis dell’art. 108 del Codice [54] l’esecuzione privata di riprese (foto e video) di beni culturali, l’utilizzo privato delle riproduzioni ottenute dalle amministrazioni culturali, nonché la loro divulgazione sono attività esentate da autorizzazione e dal pagamento di un corrispettivo nella misura in cui si svolgano senza scopo di lucro. Al soggetto privato che voglia utilizzare le riproduzioni per tali attività l’amministrazione può, al massimo, chiedere il rimborso dei costi marginali dalla stessa sostenuti per la messa a disposizione delle riproduzioni.

Rispetto a tale regime, una prima questione problematica riguarda la ricostruzione delle fattispecie che, in base ai commi 3 e 3-bis dell’art. 108, giustificano la libera e gratuita riutilizzabilità del patrimonio culturale digitalizzato. Le disposizioni in parola provvedono ad individuarle ne “l’uso personale, lo studio, la ricerca, la libera manifestazione del pensiero, l’espressione creativa, la valorizzazione e la promozione senza scopo di lucro della conoscenza del patrimonio culturale”, senza offrire precisazioni definitorie sugli elementi strutturali e funzionali di tali attività.

Per quanto comprensibile, la scelta del legislatore espone l’interprete al difficile compito di tracciare la linea di demarcazione tra attività lucrative e non lucrative in un contesto socio-economico mercificante ove i profili commerciali e quelli culturali di un’attività privata o di un’attività di interesse generale sono spesso inestricabili, come ben dimostrano le ipotesi di cosiddetto lucro indiretto. Si tratta di una questione attualmente molto dibattuta, e su cui si avrà modo di tornare [55], che investe soprattutto la qualificazione delle attività editoriali, ma anche di altre attività che presentano profili di lucro non prevalenti.

Un secondo profilo critico riguarda, invece, la disposizione che prevede il rimborso da parte del soggetto privato dei costi sostenuti dall’amministrazione per la messa a disposizione delle riproduzioni. Sebbene non violi il principio dell’open access - il rimborso dei costi marginali rientrando nel perimetro della gratuità disegnato dalla normativa europea [56] - tale disposizione andrebbe, infatti, interpreta in modo restrittivo nel senso di circoscrivere la richiesta di rimborso ai casi in cui i costi siano generati in via diretta dalla domanda del singolo utente, cioè nell’ipotesi in cui la richiesta del privato riguardi beni culturali ancora non digitalizzati; sulla falsariga di quanto prospettato dal Consiglio Superiore dei beni culturali con riguardo ai beni archivistici [57].

5.2. Il riuso per attività lucrative

L’utilizzo commerciale, o comunque a fini di lucro, dei beni culturali digitalizzati è soggetto, invece, ad un regime di privativa pubblica, il cui fondamento, come si vedrà, non è di pacifica ricostruzione [58]. Più precisamente, come previsto dagli artt. 107 e 108, l’esecuzione e l’utilizzo delle riproduzioni dei beni culturali per scopo di lucro sono subordinati all’ottenimento di un’autorizzazione [59] e al pagamento di un corrispettivo stabilito dall’amministrazione che ha in consegna i beni, la quale tiene conto “dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente” [60] e può maggiorarlo di un congruo utile, da determinare in relazione alle spese per investimenti sostenute nel triennio precedente [61].

Nella ricostruzione di questa fattispecie autorizzatoria si sconta una problematica mancanza di chiarezza del Codice.

Un primo profilo critico riguarda l’individuazione dell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 107, che sembra riferirsi solamente alle attività volte a realizzare la riproduzione, e non anche all’utilizzo, riutilizzo o divulgazione di una riproduzione già esistente. In questo senso muove in particolare il primo comma, là dove stabilisce che il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali “possono consentire la riproduzione [...] dei beni culturali che abbiano in consegna”; soprattutto se letto in combinazione con il successivo secondo comma che disciplina le modalità tecniche di riproduzione in ragione della loro maggiore o minore invasività sul bene culturale (materiale) originale.

La prassi e gli ausili interpretativi provenienti da fonti normative secondarie e terziarie [62] orientano nel senso di ricondurre nell’alveo dell’art. 107 anche la disciplina dell’utilizzo delle riproduzioni già esistenti. Un’operazione interpretativa fondata, ma che rischia, forse, in ultima analisi di confermare la “visione materiale” che ispira tutto il Codice e che non consente di dare autonomo rilievo allo statuto particolare dei beni culturali dematerializzati.

È evidente, infatti, che anche all’interno dell’ambito di regolazione specificamente rivolto alle riproduzioni occorrerebbe distinguere le attività volte a realizzare le immagini digitali (o altre riproduzioni) dalle attività di riutilizzo di tali immagini, consistenti fondamentalmente nella loro divulgazione e circolazione; specie considerando che le modalità e le tecniche di tutela variano in ragione dell’oggetto: cosa materiale, nella prima ipotesi, bene dematerializzato, nella seconda.

Un secondo profilo critico - strettamente legato al primo - riguarda la scelta del legislatore di disciplinare nella stessa sede tanto la “riproduzione” quanto “l’uso strumentale e precario” dei beni culturali che le amministrazioni hanno in consegna. In questo senso, la norma presenta due problematiche distinte ma connesse. In primo luogo, i profili della fattispecie concessoria dell’“uso strumentale e precario” non sono del tutto chiari: a risultare incerta è soprattutto l’autonomia di tale fattispecie rispetto a quella, più generale, dell’“uso individuale” dei beni prevista dall’art. 106. Una sovrapposizione aggravata dalla prassi interpretativa che, al di là di alcune secondarie sfumature [63], estende sostanzialmente alle ipotesi di “uso strumentale e precario” dell’art. 107 la disciplina dettata dall’art. 106, il cui elemento qualificante è la valutazione, rimessa all’amministrazione, della compatibilità tra l’uso privato e la “destinazione culturale” o il “carattere storico-artistico” del bene oggetto di concessione.

In secondo luogo, la norma di cui all’art. 107 tratta in maniera unitaria procedimenti autorizzatori e concessori che hanno ad oggetto tipologie di beni e di uso molto eterogenee. Infatti, per quanto i profili dell’uso “strumentale e precario” possano risultare sfuggenti, è tuttavia pacifico che questo comporti un’apprensione fisica ed esclusiva della “cosa-bene culturale” da parte del soggetto privato, la quale, sebbene non duratura nel tempo, implica comunque la compressione della fruizione collettiva del bene.

Una fattispecie avvicinabile, quindi, con qualche forzatura, alla realizzazione di un calco o di un’altra riproduzione [64] - attività che comporta, in effetti, una temporanea limitazione della fruizione collettiva del bene - ma che non condivide alcun presupposto applicativo con il diverso fenomeno del riutilizzo (divulgazione, circolazione etc.) delle riproduzioni, ossia di beni che la materialità non possiedono. Una confusione in parte confermata anche dall’art. 108 che, sebbene dedichi maggiore considerazione alla dimensione del riutilizzo delle riproduzioni, elenca i criteri che le amministrazioni devono seguire per la commisurazione dei canoni di concessione e dei corrispettivi in modo piuttosto disordinato e confuso [65].

Alcune di queste criticità sono note da tempo. L’assenza di parametri sufficientemente determinati e la poco razionale allocazione delle competenze decisorie che caratterizzano il procedimento di determinazione dei canoni e dei corrispettivi, variamente argomentate anche in relazione ad altre fattispecie concessorie e partenariali [66], sono, ad esempio, considerate tra i principali fattori di disomogeneità applicativa degli istituti concessori e autorizzatori dell’art. 107 [67].

Per quanto riguarda le riproduzioni dei beni culturali, però, il profilo maggiormente problematico risiede nella commentata confusione tra la disciplina delle riproduzioni e quella degli usi individuali, da cui deriva una certa difficoltà nell’individuare la latitudine delle valutazioni sottese al provvedimento autorizzatorio. In particolare, sembra legittimo chiedersi se, a fronte delle differenze sostanziali che intercorrono tra le diverse ipotesi previste dall’art. 107, il legislatore abbia comunque inteso concepire la valutazione discrezionale relativa all’autorizzazione per la realizzazione delle riproduzioni sulla falsariga di quella prevista dall’art. 106 per le concessioni d’uso, che implica, come già detto, una delicata valutazione di compatibilità tra l’uso privato e la “destinazione culturale” o il “carattere storico-artistico” del bene oggetto di concessione.

Una risposta affermativa proviene da una fonte normativa secondaria già citata [68], dove si si dispone che l’autorità valuti il rilascio dell’autorizzazione tenendo conto “della finalità della riproduzione, anche sotto il profilo della compatibilità con la dignità storico-artistica dei beni da riprodurre”. La clausola di compatibilità, si sostiene in questo senso in dottrina, è un profilo implicito della disciplina d’uso dei beni culturali [69], richiamato dall’art. 20 del Codice tra i divieti generali imposti a fini di tutela, e per questo applicabile anche quando non esplicitamente previsto dal testo della norma regolatrice del caso. Sulla condivisibilità e sugli effetti di questa posizione si avrà modo di tornare [70], dopo aver ripercorso i diversi argomenti che animano il dibattito sul regime autorizzatorio e oneroso delle riproduzioni appena ricostruito.

6. Il regime delle riproduzioni dei beni culturali alla luce della Direttiva copyright

La previsione di un regime di privativa per l’utilizzo commerciale delle riproduzioni dei beni culturali e dei dati detenuti dalle amministrazioni culturali solleva, da diverso tempo, una viva discussione, recentemente animata dal recepimento della direttiva sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale [71] che, all’art. 14, ha innovato il trattamento giuridico delle riproduzioni, escludendo l’applicabilità dei diritti di autore e dei cosiddetti diritti connessi ai materiali derivanti da riproduzioni “fedeli” di opere dell’arte visiva cadute in pubblico dominio [72].

Secondo alcuni (specie gli stakeholder del settore culturale come Wikimedia, Creative Commons e Icom), il recepimento della normativa europea avrebbe potuto costituire una preziosa opportunità per riformare il regime autorizzatorio previsto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio; ma nonostante, nel giugno 2021, la Commissione cultura della Camera dei deputati avesse adottato una risoluzione in tal senso [73] - facendo espresso riferimento anche al considerando n. 53 sull’evoluzione dei mercati - la normativa nazionale di recepimento [74] ha fatto salva la disciplina del Codice di settore. Nel modificare il testo della normativa nazionale (privatistica) sul diritto d’autore, il decreto infatti, se, per un verso, ha escluso dall’ambito oggettivo dei diritti autoriali e dei cosiddetti diritti connessi le riproduzioni “fedeli”, per altro verso, in riferimento a queste ultime, ha mantenuto “ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.

A livello nazionale si continua, dunque, a registrare uno scollamento tra la più ampia libertà di riproduzione esercitabile nei confronti di opere d’arte cadute in pubblico dominio che non siano anche beni culturali custoditi dalle amministrazioni e le disposizioni legislative e regolamentari che sottopongono, invece, a restrizioni il riutilizzo delle riproduzioni dei beni culturali, nonostante la destinazione pubblica di questi ultimi.

Questa scelta di politica legislativa, per quanto criticabile (e criticata) sotto il profilo dell’opportunità, non si pone in conflitto con il diritto europeo [75]. In primo luogo, la Direttiva sul Copyright, intervenendo nell’ambito della disciplina del diritto d’autore, non incide direttamente sul regime pubblicistico del trattamento delle riproduzioni dei beni culturali. In secondo luogo, l’esistenza di una “eccezione culturale” al principio dell’open access - prevista dalla Direttiva sull’accesso e il riuso del patrimonio informativo pubblico - legittima, come già sottolineato [76], la persistenza di regimi autorizzatori e onerosi previsti a livello nazionale.

D’altra parte, come si nota in dottrina, poiché entrambe le direttive europee operano nel senso di incoraggiare, e non di obbligare, gli Stati membri a stimolare la formazione e la più ampia circolazione di un patrimonio culturale digitalizzato, un loro “recepimento su un piano ‘sostanziale’ [...] sembra richiedere non solo o non tanto un por mano all’assetto giuridico del bene culturale quanto piuttosto una messa a disposizione di risorse finanziarie e organizzative, e soprattutto una riconsiderazione delle politiche da parte degli attori istituzionali coinvolti” [77].

7. Pro e contro del regime previsto per il riuso delle riproduzioni a fini di lucro: un dibattito giuridico, economico e, soprattutto, politico

La discussione sulla disciplina codicistica relativa all’utilizzo lucrativo delle immagini dei beni culturali possiede - come tutti gli istituti giuridici - dei connotati spiccatamente politici, nel senso che costringe (anche) il giurista ad interrogarsi sui valori e le opzioni ideologiche sottesi alle diverse ipotesi di regolamentazione. Ogni modello di organizzazione e di disciplina comporta, in ultima istanza, la composizione di un conflitto tra diversi interessi e valori, esprimendo la prevalenza (anche nel bilanciamento) di alcuni di essi.

In termini generali, il tema intercetta problematiche simili a quelle che riguardano la bigliettazione, o, meglio, la legittimità e l’opportunità di subordinare al pagamento di una tariffa l’accesso ai luoghi della cultura, soprattutto se si considera la natura “essenziale” attribuita al servizio di apertura al pubblico [78].

A un livello di maggiore approfondimento, tuttavia, risulta evidente che le questioni relative alla fruizione del patrimonio culturale si declinano in termini differenti a seconda che esse riguardino un bene culturale materiale o la sua riproduzione digitale. In riferimento al cosiddetto patrimonio culturale digitale, infatti, la problematica viene giustamente proposta nei termini del “passaggio dalla “cultura del libero accesso” alla componente materiale del patrimonio [...] alla “cultura del libero riuso” della sua componente immateriale” [79]. In ogni caso, il dibattito ruota attorno a due principali ordini di ragioni, l’uno di carattere giuridico, l’altro di carattere economico.

Dal punto di vista giuridico, l’esistenza di un regime di privativa pubblica sulla circolazione delle riproduzioni dei beni culturali solleva interrogativi radicali, relativi alla sua stessa ragione giustificativa.

In prima battuta vi sono i tentativi di legittimarlo sul terreno del peculiare diritto dominicale che andrebbe riconosciuto in capo alle amministrazioni preposte alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale. In questo senso, le amministrazioni, pur non essendo autrici delle opere e dei beni culturali che hanno in consegna, vanterebbero su di essi un diritto di proprietà (esteso anche alle riproduzioni), che, a differenza di quanto accade nell’ambito del diritto autoriale, non ha limiti temporali, applicandosi anche alle “opere cadute in regime di pubblico dominio”.

Ma se è vero che le norme pubblicistiche del Codice dei beni culturali e del paesaggio iniziano ad applicarsi una volta cessato il presupposto per l’applicabilità del diritto d’autore (come previsto dall’art. 10, co. 5 del Codice stesso) è altrettanto vero che la ratio delle due normative è del tutto differente: la seconda ponendosi “a garanzia di interessi privati (di autori ecc.)”, la prima attenendo “allo statuto della proprietà pubblica dei beni culturali” [80]. Nonostante il Codice di settore risulti ancora informato a un’ambigua dominicalità [81], l’insostenibilità della logica proprietaria nell’ambito del diritto del patrimonio culturale è, infatti, da tempo argomentata.

La migliore dottrina riconosce già dagli anni ’70 del secolo scorso che lo statuto pubblicistico dei beni culturali non deriva dal loro “appartenere”, in senso proprietario, all’amministrazione dello Stato, ma dal loro essere “beni di fruizione”, ossia destinati al godimento collettivo. Le amministrazioni pubbliche non dispongono, infatti, dei beni culturali con la “gamma delle utilizzazioni che invece ha il proprietario di beni patrimoniali comuni”, ma su di essi esercitano una serie di potestà finalizzate a garantirne la conservazione e la disponibilità verso l’utenza [82]. È lo schema tipico, di impostazione funzionalista, della tutela amministrativa [83], dove ciò che determina il regime giuridico (speciale) del bene è la destinazione e non la titolarità [84].

In seconda battuta, la legittimità dei controlli pubblicistici sulla circolazione delle riproduzioni tende, allora, a essere radicata sul terreno della funzione di tutela attribuita alle autorità preposte alla cura del patrimonio culturale. Il regime autorizzatorio sarebbe, in questo senso, fondato sull’esigenza di controllare l’originalità, l’autenticità e la “veridicità” dei dati messi in circolazione [85].

Di conseguenza, le limitazioni al libero accesso e riuso dei beni culturali dematerializzati si giustificherebbero, non in virtù dell’attribuzione alle amministrazioni culturali di un controverso diritto proprietario, ma in ragione della necessità ordinamentale di attribuire allo Stato la titolarità della funzione di produzione di certezza pubblica [86]. L’applicabilità (anche) alle riproduzioni della valutazione di compatibilità tra l’uso privato e la loro destinazione culturale ne uscirebbe, così, confermata e rafforzata.

Ma nel ricostruire la latitudine della clausola di compatibilità, il confine tra l’argomentazione proprietaria e quelle che, invece, giustificano i controlli pubblici in ragione della funzione di certezza può farsi molto sfumato. Anche a voler prescindere dalla problematizzazione che la riproduzione di un’opera d’arte comporta dello stesso concetto di “autenticità” [87], bisogna considerare, infatti, che la valutazione di compatibilità dell’uso della riproduzione con la “destinazione culturale del bene” può spingersi fino ad abbracciare un giudizio sulla “decorosità” dell’attività posta in essere dal privato [88], nonostante né l’art. 107, né il 108 (né il 106) facciano ricorso al concetto indeterminato del “decoro”, che compare, invece, in altre disposizioni del Codice di settore [89].

L’impronta paternalista [90] della tutela del “decoro” dei beni culturali rischia di dar luogo, infatti, a ipotesi ricostruttive, avanzate in dottrina e recentemente adottate in modo esplicito dalla giurisprudenza di merito, che innestando i controlli sull’uso delle riproduzioni sulla tutela di un supposto “diritto all’immagine” delle amministrazioni pubbliche [91] rinvigoriscono il paradigma proprietario traslandolo dal piano del possesso del bene materiale al piano del possesso del valore simbolico (cioè dell’aura), così incappando in una sua interpretazione ancora più divisiva [92].

La recente sentenza del tribunale di Firenze [93] è, in questo senso, esemplificativa. Il giudice di merito, infatti, attraverso una discutibile analogia, dal diritto (al nome e) all’immagine delle persone giuridiche affermatosi sul terreno civilistico della protezione dei beni di proprietà privata da utilizzi abusivi di terzi ha fatto derivare un equivalente diritto all’immagine delle amministrazioni della cultura, le quali, però, come già sottolineato, non dispongono dei beni culturali in senso proprietario, esercitando piuttosto una serie di potestà su beni a destinazione pubblica.

Ma non solo. La sentenza, che per la prima volta ha condannato un privato al risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dall’uso commerciale non autorizzato dell’immagine di un bene culturale pubblico, ha anche sostanzialmente sostenuto, e qui risiede l’aspetto divisivo, che la funzione di tutela attribuita alle amministrazioni dello Stato dovrebbe spingersi fino alla difesa della “valenza identitaria [del] patrimonio storico ed artistico”, e, segnatamente, dell’identità nazionale e del “genio italico”.

D’altra parte, per quanto fortemente criticabile e criticata, tale impostazione può contare su alcuni ancoraggi normativi, tra cui una delle prime disposizioni del Codice di settore (l’art. 1, co. 2) secondo la quale “la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio”.

Il peculiare statuto dei beni culturali digitalizzati richiede, infatti, un serio ripensamento delle disposizioni codicistiche, nella prospettiva di superare l’assimilazione del fenomeno della circolazione di riproduzioni immateriali con quello dell’utilizzo fisico di beni culturali materiali. Le norme sull’uso contenute nella sezione II del Capo del Codice dedicato alla fruizione rispondono alla necessità di regolamentare utilizzi individuali del patrimonio culturale incompatibili per definizione con la fruizione del bene da parte della collettività [94].

È l’esclusività dell’uso fisico di un bene materiale accordato ad un soggetto privato a rappresentare la ragione ultima del regime concessorio. Così come il giudizio di compatibilità investe, in questo caso, la proporzionalità del sacrificio reale imposto al godimento pubblico e la valutazione dei concreti rischi di danneggiamento dell’integrità fisica del bene. Mentre i beni virtuali, dicono gli economisti, hanno natura tendenzialmente non rivale, nel senso che il loro uso non è necessariamente riservato a uno o a pochi individui selezionati, potendo bene accadere che uno stesso oggetto digitale sia fruito o utilizzato da più agenti simultaneamente [95]. Ma non solo, “il godimento plurimo da parte dei terzi” del bene virtuale, in questo caso dell’immagine di un bene culturale, “non intacca in alcun modo le prerogative del proprietario” [96].

Sul piano delle argomentazioni di ordine economico, infatti, le privative pubbliche sul riuso delle riproduzioni vengono criticate come tentativi di “rendita monopolistica” del detentore “non giustificat[i] da alcuna considerazione in termini di fallimento di mercato” [97]. Da questa prospettiva, “l’esazione di diritti di riproduzione delle immagini del patrimonio culturale pubblico” può avere l’effetto di limitare le dinamiche del mercato, riducendo le possibilità di creazione di reddito diffuso e privilegiando, invece, “la rendita patrimoniale rispetto all’investimento produttivo” [98].

D’altro canto, la richiesta di un corrispettivo per l’utilizzo lucrativo delle immagini dei beni culturali è considerata con favore da quanti sostengono - come recentemente fatto dal ministero e dalla regione Toscana in relazione alla gestione dell’imponente Archivio fotografico Alinari [99] - che questi introiti siano necessari ad assicurare il finanziamento delle attività di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale [100]. Una posizione che, più o meno implicitamente, escludendo la possibilità di finanziare i servizi culturali solamente tramite la fiscalità generale, postula la necessità di stimolare una gestione imprenditoriale (e quindi anch’essa mercificante) del patrimonio culturale [101] da parte dell’amministrazione.

Sebbene la compatibilità, in linea di principio, tra sfruttamento economico e destinazione culturale del patrimonio storico e artistico sia stata da tempo autorevolmente argomentata - rimarcando le virtuose potenzialità di processi “circolari” in cui i ricavi riscossi da attività di “messa a reddito” dei beni culturali vengono impiegati ai fini di una migliore valorizzazione degli stessi [102] - tale prospettiva ha dato luogo anche a risultati contraddittori [103] ed è oggi criticata in considerazione delle peculiari dinamiche che connotano l’ambiente digitale [104].

Gli introiti così ricavati dalle amministrazioni non compensano, infatti, nella maggioranza dei casi, le spese che le stesse sostengono per la messa a disposizione e la divulgazione dei dati, soprattutto se tra i costi di gestione si considerano anche quelli sostenuti per la formazione e l’assunzione di personale qualificato e per l’istituzione e il funzionamento di uffici specializzati nella digitalizzazione del patrimonio culturale; ma anche i costi burocratici che derivano, in particolare, dalle difficoltà di coordinamento tra enti e uffici competenti nelle ipotesi in cui il titolare del potere autorizzatorio non coincida con il detentore dell’immagine [105].

Un problema sentito anche in riferimento alla pratica delle concessioni d’uso individuale dei beni culturali materiali (art. 106 del Codice), i cui ricavi - per diversi motivi - risultano irrisori o comunque insoddisfacenti rispetto alla reddittività auspicata [106], ma ancor più pressante con riferimento all’accesso e all’uso del patrimonio culturale digitalizzato. La stessa Corte dei conti, consapevole delle difficoltà che si riscontrano nell’ambiente digitale rispetto ai tentativi di “stabilire il discrimine tra attività lucrative e no, tra libero utilizzo per fini creativi e sfruttamento di un’immagine, tra divulgazione e manipolazione, tra un’immagine acquisita legittimamente o meno”, considera “[l]e forme di ritorno economico basate sulla ‘vendita’ della singola immagine” non solo “palesemente antieconomiche” ma anche “anacronistiche e largamente superate” [107].

Studi stranieri segnalano, infatti, come la libertà di riuso delle riproduzioni dei beni culturali possa contribuire non solo alla crescita culturale e democratica della società [108], ma anche alla promozione, in termini di visibilità e rilancio della fruizione, degli istituti pubblici che detengono i beni, con ricadute anche di ordine economico nel medio e lungo periodo [109].

8. Strategie e strumenti per la digitalizzazione del patrimonio culturale: tendenze all’estero e in Italia

All’estero è ormai molto diffusa la tendenza a consentire il libero utilizzo delle immagini dei beni culturali, al di là della considerazione delle diverse finalità che sorreggono la richiesta dei soggetti privati [110].

Solo per fare alcune esempi, la New York Library e il Met, il Getty Research Institute, i musei gestiti dallo Smithsonian Institution, la National Gallery di Washington, l’Art Institut di Chicago, il Los Angeles County Museum of Art, la Yale University Art Gallery, il Walters Art Museum di Baltimora, lo York Museums Trust, lo Statens Museum for Kunst di Copenhagen, il Rijskmuseum di Amsterdam, la British Library (“catalogue of illuminated manuscripts”), il Nationalmuseum di Stoccolma, i musei di Stato di Berlino e i musei comunali di Parigi perseguono tutti politiche di libero accesso, dirette a incoraggiare l’utenza a riutilizzare liberamente le immagini delle proprie collezioni per qualsiasi scopo, lucro compreso, e senza richieste autorizzatorie preliminari. Le immagini messe a disposizione da queste istituzioni possiedono un’alta qualità di risoluzione poiché il riuso è considerato un valore e non un sinonimo di “abuso”.

Se, d’altra parte, è vero che non tutte le istituzioni museali estere consentono un uso indiscriminato delle immagini, alcune preferendo mantenere regimi di privativa in riferimento ad usi prevalentemente commerciali [111], è altrettanto vero che in Italia, nonostante alcuni musei abbiano intrapreso la via della liberalizzazione [112], la permanenza di atteggiamenti più “cauti” da parte delle amministrazioni sembra derivare non tanto, o almeno non solo, dall’assunzione di un preciso indirizzo politico, quanto dalla complessità dei profili organizzativi e dalla scarsa chiarezza del quadro normativo di riferimento [113] che si è cercato di mettere in luce nei paragrafi precedenti.

8.1. Dalle raccomandazioni della Commissione europea al Piano triennale per la digitalizzazione e l’innovazione dei musei della Dg Musei

In questo contesto, la “digitalizzazione del patrimonio culturale” rappresenta un obiettivo prioritario delle politiche europee: uno strumento per promuovere la più ampia fruizione dei beni culturali, per mantenere e rilanciare la leadership europea sulla cultura e i contenuti creativi e per rafforzare le ricadute di tipo prettamente economico che il settore culturale è in grado di generare. I primi atti di questa stagione di investimento istituzionale sulla digitalizzazione possono essere rintracciati nella Risoluzione del Parlamento europeo del 5 maggio 2010 sul progetto “Europeana”, biblioteca digitale dell’Ue, inaugurata nel novembre 2008 [114] e nella Raccomandazione della Commissione europea del 27 ottobre 2011 (2011/711/Ue) [115]. Quest’ultima, che considerava la digitalizzazione a fini di valorizzazione e di conservazione del patrimonio culturale europeo (inteso come “materiali a stampa [...], fotografie, oggetti museali, documenti d’archivio, materiali sonori e audiovisivi, monumenti e siti archeologici”) come “uno dei principali ambiti di azione dell’Agenda digitale”, raccomandava agli Stati membri di incrementare gli investimenti in tale settore e dettava la via da seguire per affrontare gli aspetti giuridici, finanziari e organizzativi della digitalizzazione del patrimonio culturale europeo e della sua messa in rete.

A livello nazionale, è in particolare negli ultimi anni che la produzione normativa e le iniziative istituzionali in materia di digitalizzazione si sono moltiplicate. Uno degli interventi più significativi in tema di fruizione circolare, aperta e condivisa del patrimonio culturale digitalizzato è stato il “Piano triennale per la digitalizzazione e l’innovazione dei Musei”, approvato nel 2019 [116] e redatto nel quadro di quanto previsto dal “Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione di AgID [117], al quale si deve fare riferimento per quanto non previsto dal piano relativo ai musei.

Il documento in questione descrive “l’approccio, le logiche, le regole, le piattaforme ed i servizi” che verranno impiegati per consolidare l’Ecosistema digitale dei Musei italiani. Orientato a fornire un quadro di riferimento per tutte le amministrazioni statali e non statali negli ambiti tanto della tutela quanto della valorizzazione del patrimonio culturale, si propone di:

i) migliorare la capacità di gestione del patrimonio culturale delle istituzioni museali, sia per quanto riguarda la funzione di tutela (conservazione, sicurezza, catalogazione), sia per quanto riguarda la funzione di valorizzazione. Sotto il primo profilo, si pone particolare attenzione all’adozione degli standard catalografici e al buon utilizzo dei sistemi informativi già disponibili. Sotto il secondo profilo, si mira a stimolare nuovi percorsi di valorizzazione, attraverso la creazione di modelli digitali in grado di rappresentare il bene, di facilitarne l’accesso e la distribuzione;

ii) migliorare la riconoscibilità del patrimonio culturale, stimolando le capacità dei musei di proporsi ai propri interlocutori mediante innovative ed efficaci modalità di esposizione e narrazione delle opere, ma anche mediante strumenti e pratiche di commercializzazione di servizi correlati o aggiuntivi;

iii) incrementare la collaborazione tra le istituzioni museali, attraverso l’integrazione dei sistemi informativi esistenti nell’Ecosistema digitale dei Musei italiani, e stimolare forme di scambio e condivisione tra visitatori, studiosi e altri musei internazionali;

iv) attivare nuove forme di accesso e fruizione dei dati relativi al patrimonio, mediate o abilitate da soluzioni tecnologiche;

v) garantire la sicurezza, sia fisica che digitale, per tutti i musei;

vi) garantire l’inclusione nell’ecosistema sia delle strutture museali che degli stakeholder coinvolti nel Sistema museale nazionale, anche stimolando le imprese e il mondo produttivo privato ad offrire prodotti e servizi a valore aggiunto negli ambiti delineati dal presente piano.

Il focus principale è comunque posto sul “miglioramento dei servizi esposti al pubblico”. In questa direzione, oltre a individuare una serie di servizi tecnologici considerati particolarmente efficaci ad ampliare l’accessibilità e, dunque, la fruizione, dei musei, il Piano promuove l’adozione di un Catalogo dei servizi museali, che identifichi l’offerta digitale proposta dalle istituzioni dell’ecosistema digitale dei musei italiani e anche dalle piattaforme con esso integrate.

8.2. Gli investimenti del Pnrr

La centralità dell’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è venuta poi ulteriormente in evidenza nel periodo pandemico. Negli ultimi due anni, il ricorso alle tecnologie digitali è apparso una valida alternativa congiunturale per mitigare gli effetti delle forti limitazioni imposte alla fruizione in presenza dei luoghi della cultura.

Secondo una recente indagine dell’Osservatorio innovazione digitale nei beni e attività culturali della School of Management del Politecnico di Milano [118], già nell’arco del primo anno di emergenza pandemica il numero dei musei italiani che ha provveduto a digitalizzare le proprie collezioni è cresciuto del 30% (dal 40% del 2020 al 70% del maggio del 2021). Tuttavia, come emerge dalla stessa indagine, nella maggior parte dei casi si è trattato di processi di digitalizzazione frettolosi, che hanno risentito dell’assenza di una visione strategica a lungo termine, necessaria, invece, per creare archivi digitali realmente fruibili, efficienti e interattivi e non mere banche dati di difficile consultazione: solo il 24% delle istituzioni museali si è dotata, infatti, di un piano di sviluppo strategico [119].

Il periodo emergenziale ha, quindi, messo in luce la scarsa efficacia di interventi di breve respiro e la necessità per le amministrazioni pubbliche di impegnarsi nell’elaborazione di strategie di digitalizzazione che sappiano innescare quel cambiamento di “visione” della pubblica amministrazione, necessario per innovare tanto i processi interni quanto quelli rivolti all’utenza. Il più risalente approccio alla digitalizzazione incentrato sulla mera traduzione in forma nuova, ossia digitale, dei beni culturali materiali (digitization) viene affiancato, se non superato, da policies che esplorano le potenzialità tecnologiche orientandosi verso la creazione di veri e propri “ecosistemi” digitali (digitalization).

Da questa prospettiva, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) [120] dedica interamente al turismo e alla cultura la terza parte della “Missione 1” relativa alla digitalizzazione, prevedendo, nell’ambito della Misura “Patrimonio culturale per la prossima generazione”, uno stanziamento di 500 milioni di euro a fondo perduto [121] per investimenti relativi a “Strategia digitale e piattaforme per il patrimonio culturale”. La digitalizzazione del patrimonio culturale e turistico è qualificata, in particolare, come un “servizio abilitante”, volto dunque a: garantire l’accesso universale alle opere d’arte; promuovere innovative forme di fruizione e divulgazione culturale; rendere più semplice ed efficace il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione e stimolare un’“economia basata sulla circolazione della conoscenza”.

9. Il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale della Digital library

L’attuazione degli interventi previsti dal Pnrr è delegata all’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale-Digital librarydel ministero della Cultura, a cui sono attribuiti poteri di “direzione” e “coordinamento” [122]. Questo ha redatto il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale, aperto alle consultazioni pubbliche fino al 15 giugno 2022 [123].

Il piano costituisce la visione strategica a cui il ministero intende informare i processi di digitalizzazione del patrimonio culturale nel periodo 2022-2026 ed è rivolto ai musei, agli archivi, alle biblioteche, alle soprintendenze e agli altri istituti e luoghi della cultura pubblici (cap. III), ma con un’attenzione particolare verso il coinvolgimento delle persone che, tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato, concretamente custodiscono, studiano, valorizzano, reinterpretano e ripensano, secondo nuovi linguaggi, il patrimonio culturale. In altri termini, il piano è rivolto alle istituzioni, enti e luoghi della cultura, ma anche a tutti gli operatori della cultura, le imprese e i professionisti del settore.

Esso pone una griglia di principi e metodologie comuni che dovrebbe guidare l’azione delle singole istituzioni della cultura, che dovranno comunque declinare le proprie strategie di digitalizzazione in accordo con le normative nazionali e di settore vigenti. Analogamente al piano redatto dalla Dg Musei, anche in questo caso la transizione verso un “ecosistema digitale della cultura” è orientata all’obiettivo principale di “incrementare la domanda potenziale e ampliare l’accessibilità per diversi segmenti di pubblico [...] armonizzando la dimensione culturale con quella manageriale e tecnologica” (cap. II).

L’accento è posto sulla necessità di sfruttare al meglio “le opportunità che il digitale offre nel creare nuovi servizi, favorire la nascita di imprese innovative e intercettare bisogni emergenti, sia dal punto di vista dei visitatori/utenti (i.e. ridisegnando le modalità di interazione interne ed esterne) che dal punto di vista dei luoghi della cultura (i.e. ottimizzando le logiche di lavoro)” (cap. IV).

Ponendo mente alle qualità intrinseche al patrimonio culturale italiano [124], l’atto pianificatorio assume, inoltre, l’esigenza di disegnare banche dati e ambienti digitali informati a “vitalità narrativa e pluralismo interpretativo, affinché gli ‘oggetti culturali’, nei loro corrispettivi digitali, possano convivere con una pluralità di visioni e costruzioni di senso rispondenti a diversi usi sociali, a partire da una corretta ricostruzione del contesto di provenienza”.

In altri termini, se per un verso la digitalizzazione del patrimonio culturale non può limitarsi a offrire forme di fruizione meramente passiva, tipiche delle piattaforme commerciali, dovendosi piuttosto fare carico di promuovere le “capacità culturali, di apprendimento e creative degli individui, delle comunità e della collettività”; per altro verso, l’impiego delle tecnologie digitali non deve significare la rinuncia “alla propria storica tradizione di tutela”. Le opportunità del virtuale vengono messe, in questo senso, a sostegno della promozione del pluralismo culturale mentre la necessità di salvaguardare il nucleo duro di verità (o veridicità?) del patrimonio storico-artistico andrebbe, giustamente, riferito alla ricostruzione del contesto storico-geografico di provenienza del bene.

Si tratta di un cambiamento di visione rilevante, che prelude alla potenziale “disintermediazione nelle catene di produzione e distribuzione dei contenuti” e a “rinnovate forme di documentazione della cultura materiale e immateriale attraverso linguaggi nuovi o interventi creativi”. Un percorso di coinvolgimento, nella catena di produzione del valore, di soggetti esterni agli istituti culturali, che guarda anzitutto a “le imprese nazionali e internazionali del settore delle imprese culturali e creative e della filiera turistica”, e che dovrà svolgersi nel quadro di una filiera certificata (cap. VI).

Un’impostazione che conferma l’attuale più generale tendenza ad estendere il ricorso a forme di amministrazione partecipata e partenariale, e che, situandosi chiaramente in un contesto di mercato, declina, con le specialità dell’ambiente digitale, la tensione tra promozione/valorizzazione culturale del patrimonio storico-artistico e il suo sfruttamento commerciale da parte di soggetti sia pubblici sia privati.

9.1. L’etichettatura per il riuso senza scopo di lucro delle immagini, il regime per gli usi commerciali e pubblicitari e le modalità di download

Tra i tre obiettivi principali che il Piano si prefigge di realizzare [125], quello di ampliare le forme di accesso al patrimonio culturale digitale assume particolare rilievo. In questo ambito, il tema dell’accessibilità riguarda sia l’incremento della quantità di risorse digitali disponibili online, sia l’organizzazione delle stesse in modo da essere facilmente raggiunte, sia, ancora, il miglioramento della qualità dell’accesso e delle modalità di fruizione e riuso del patrimonio culturale digitale da parte della collettività. L’idea di base è la creazione di un ambiente digitale aperto, nel quale le risorse digitali siano rese liberamente disponibili, riproducibili - anche al fine di creare nuovi contenuti - e permanenti.

A questo fine, nelle campagne di digitalizzazione del proprio patrimonio, le istituzioni culturali devono agire, da un lato, sul cosiddetto requisito tecnologico, impegnandosi a pubblicare immagini con buona risoluzione, senza la sovraimpressione di filigrane invasive [126] e adottando formati standard, e, dall’altro, sul requisito giuridico, associando alle risorse digitali licenze d’uso chiare e in grado di garantire il riuso dei contenuti (cap. VI, par. 6.2.1., punto 1.2.a).

Il quadro di riferimento delle licenze [127] che la Digital Library incoraggia a adottare è fornito nelle “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale” (par. 5.1. ss.). Queste fanno riferimento alle licenze “Creative Commons”, le quali, in quanto basate “sul concetto di “some rights reserved” (alcuni diritti riservati) in opposizione alla formula tradizionale “all rights reserved” (tutti i diritti riservati)”, consentono una più flessibile modulazione delle forme di riuso delle riproduzioni.

La vera novità sotto il profilo giuridico consiste, però, nell’introduzione delle cosiddette etichette. Secondo le citate linee guida, infatti, quando si tratta - come accade per la maggior parte delle collezioni museali - di riproduzioni di opere dell’arte visiva qualificabili, ai sensi della Direttiva Copyright, quali opere cadute in regime di pubblico, le istituzioni della cultura non dovranno ricorrere all’utilizzo di licenze, proprio perché tali riproduzioni non sono oggetto di diritti d’autore e di sfruttamento economico. In questi casi l’amministrazione dovrà, invece, utilizzare delle “etichette (labelling), che non costituiscono un contratto di cessione di diritti, ma si limitano a dar conto delle condizioni e dei limiti a cui le riproduzioni di beni culturali (caduti in pubblico dominio) soggiacciano in forza della normativa pubblicistica nazionale. Più precisamente, la Digital Library invita le amministrazioni museali ad associare alle immagini dei beni culturali (sia a livello di metadati esterni che interni [128]) l’etichetta “MiC Standard (BY NC)” [129].

La pratica dell’etichettatura ha il pregio, quindi, di restituire la natura non proprietaria dello schema con cui le immagini dei beni culturali caduti in regime di pubblico dominio sono imputabili alle amministrazioni. Ma essa offre all’interprete e all’operatore giuridico anche un ulteriore vantaggio. Lasciando inalterato il regime previsto per le attività di riuso delle immagini a scopo di lucro, le quali restano soggette al rilascio del provvedimento autorizzatorio disciplinato dal Codice di settore (il cui ambito, tuttavia, come si è visto e come si vedrà [130], è oggetto di dibattito), riescono, nondimeno a restituire, più di quanto faccia la disciplina codicistica, la differenza, logica ancor prima che giuridica, tra le sfere semantiche e pratiche dei concetti di accesso e riuso.

Agendo sui diversi fronti del requisito giuridico e di quello tecnologico, le linee guida della Digital library distinguono più puntualmente concretamente le forme e modalità di pubblicazione del patrimonio culturale digitale e le forme e modalità di download del materiale pubblicato. All’interno di una strategia che incoraggia fortemente le amministrazioni a permettere il download libero dei materiali direttamente da parte dell’utenza, il rilievo giuridico che continua ad essere attribuito alla distinzione tra forme di riuso con e senza scopo di lucro impone alle amministrazioni di impedire riutilizzi lucrativi abusivi. Ragionando in termini di soluzioni tecniche percorribili, si suggerisce, allora, alle amministrazioni di prevedere due aree del sito web di interfaccia, una ad accesso libero [131] ed una ad accesso riservato. In questo senso, i musei possono prevedere che il download delle immagini sia subordinato alla registrazione [132] dell’utente sul sito web di interfaccia della banca dati: è nell’area riservata e dopo aver dichiarato l’utilizzo che intende fare del materiale che questi avrà la possibilità di scaricare l’immagine [133].

A un livello di maggior dettaglio, per evitare che il permanere di una disciplina differenziata dell’uso (lucrativo o non lucrativo) del patrimonio digitale si risolva in una compressione delle modalità di accesso (riconducibili all’ambito della fruizione universale del patrimonio culturale pubblico) [134], le linee guida in commento, non solo chiariscono che la mera consultazione delle immagini e della documentazione confluite nel database deve essere libera, ma raccomandano alle amministrazioni di evitare la messa in circolazione di immagini degradate o a bassa risoluzione [135].

Il ricorso a immagini di bassa qualità, infatti, anche se animato dall’intento di bilanciare l’istanza di controllo degli usi indiscriminati e abusivi delle riproduzioni con la necessità di garantire la fruizione e promuovere la conoscenza del patrimonio culturale, rischia di ottenere risultati regressivi potendo “compromettere addirittura la conoscenza dell’opera stessa da parte del pubblico” [136]. Nella parte del sito web ad accesso libero, allora, si potrebbe, ad esempio, ricorrere all’adozione di visori ad alta risoluzione che, però, non consentono il download (cd. piramidalizzazione [137]).

9.2. Gli sviluppi del settore del licensing

Più complessa - e impossibile da affrontare in questa sede - è, invece, l’ipotesi in cui le amministrazioni decidano di informare il proprio modello gestionale allo sviluppo del licensing. Si tratta di un settore in evoluzione in cui, accanto alla vendita di immagini digitali ad altissima risoluzione, si sta sviluppando un “mercato di oggetti digitali e di copie uniche digitali certificate”. Le linee guida della Digital Library si limitano, sul punto, a sottolineare il “potenziale economico” di uno strumento che è, a tutti gli effetti, una forma di “messa a reddito” del patrimonio culturale digitale, sottolineando però l’inadeguatezza che l’attuale quadro normativo e contabile mostra nel governare tali processi [138].

9.3. I principi in tema di tariffazione e la nuova previsione di gratuità per gli usi editoriali.

Come è noto, e come è stato più volte ricordato, l’utilizzo commerciale delle riproduzioni dei beni culturali da parte dei privati, oltre ad essere soggetto a regime autorizzatorio, è anche subordinato al pagamento di un corrispettivo. E in tema di corrispettivi (e canoni di concessione) previsti in relazione alle forme d’uso individuale dei beni culturali la dottrina ha da tempo sottolineato la vetustà del regolamento nazionale attualmente in vigore [139], a fronte della quale l’amministrazione statale “nella prassi operativa, non solo non applica quei canoni ma pratica condizioni economiche assolutamente eterogenee; la massima parte degli uffici opera in modo autonomo e in senso nettamente diverso dagli suoi omologhi” [140].

Le linee guida della Digital Library si pongono, infatti, innanzitutto l’obiettivo di uniformare la prassi delle istituzioni culturali; e se dal punto di vista della determinazione quantitativa dei corrispettivi non apportano sostanziali novità, lasciando ai direttori dei musei autonomi e ai direttori regionali ampia discrezionalità, esse elencano, tuttavia una serie di “modelli” per la determinazione delle tariffe, mettendone in luce vantaggi e svantaggi [141].

Tra questi, convincente appare il modello del “dual licensing”, in base al quale una stessa riproduzione può essere fornita, a risoluzione medio-alta, tramite etichettatura che ne consente l’utilizzo per soli scopi non commerciali e, ad alta o altissima risoluzione, tramite autorizzazione che impone il pagamento di una tariffa. Utile appare anche il modello delle donazioni e crowfunding nel quale, anche all’utente che acceda a richiesta gratuite è permesso di contribuire in modo volontario ai processi di digitalizzazione. Infine, nel caso in cui la riproduzione sia richiesta ai fini dello sviluppo di un servizio che genera introiti, l’amministrazione, secondo il modello dell’equity sui servizi, può riservarsi di trattenere una percentuale degli utili.

Le linee guida in commento, improntate, però, come sono a una strategia che incoraggia la cultura del riutilizzo diffuso [142], contengono un’importante previsione innovativa sugli usi editoriali, che potrebbe aprire la strada a nuove interpretazioni dell’art. 108 del Codice, nella direzione di una maggiore liberalizzazione del riutilizzo delle immagini. Nella parte dedicata alle tipologie di uso, esse prevedono, infatti, un’“eccezione” al regime oneroso in riferimento all’ipotesi in cui l’immagine sia richiesta per “qualsiasi tipo di pubblicazione editoriale in forma di monografia, rivista o periodico sia in formato cartaceo che digitale” [143].

L’intenzione è di superare il limite quantitativo posto dal regolamento del 1994, che fissa il tetto della gratuità alle tirature inferiori alle 2000 copie e ai 70 euro come prezzo di copertina. Venendo meno l’autorizzazione, la richiesta di riproduzioni per usi editoriali è così semplificata nella forma di una “semplice comunicazione” contenente i riferimenti della pubblicazione e l’impegno ad inviare una copia del prodotto editoriale all’istituto detentore del bene oggetto della riproduzione. L’immagine viene “concessa” mediante la già citata etichettatura “MiC standard (By NC)” e le amministrazioni che eventualmente vogliano derogare a tale innovativa previsione, potranno farlo solo “per prodotti editoriali venduti a un prezzo di copertina superiore a 70 euro”, ma soprattutto con provvedimento motivato.

L’eccezione troverebbe fondamento normativo nella liberalizzazione operata con la legge annuale sulla concorrenza del 2017 che ha “eliminato il concetto di ‘lucro indiretto’ per la libera divulgazione delle immagini”, entro il cui perimetro rientrerebbe anche l’attività editoriale a causa della “inscindibile compresenza nel libro dell’elemento commerciale e di quello culturale”. Si tratta di una prospettiva che, mentre attribuisce priorità alla massima divulgazione della ricerca scientifica e della conoscenza in generale, tiene conto anche: delle condizioni in cui versa il “sistema editoriale frequentemente oggetto di contributi e forme di sostegno economico da parte del governo”, dei “limitati margini di ricavi per autori ed editori di pubblicazioni”, e del fatto che “nella stragrande maggioranza dei casi le richieste di utilizzo per fini editoriali pervengono non dagli editori ma dagli autori dei saggi e delle ricerche, che non traggono, com’è noto, alcun profitto dalla pubblicazione”.

10. Le linee guida ministeriali del d.m. 11 aprile 2023, n. 161

A poco meno di un anno dall’adozione delle linee guida della Digital library, il ministro della Cultura ha adottato, in attuazione dell’art. 108, co. 6 del Codice di settore, proprie linee guida che definiscono gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi di concessione per l’uso di spazi e la riproduzione dei beni culturali, ribadendo l’applicabilità a queste ultime della clausola di compatibilità prevista dall’art. 20 dello stesso codice, e lasciando gli istituti e i luoghi di cultura dello Stato “liberi”, “in considerazione delle specificità e delle peculiarità dei beni” che hanno in consegna, di prevedere solamente canoni e corrispettivi superiori rispetto a quanto contenuto nelle linee guida stesse.

Si tratta di un intervento ampiamente contestato da molte realtà del settore culturale ed anche dal mondo accademico [144]. Il tariffario presenta, infatti, numerose criticità. In primo luogo, prevede un sistema di calcolo molto complicato, che rischia di appesantire i costi burocratici della gestione del servizio da parte dei musei (specie delle realtà più piccole e con poco personale). In secondo luogo, con riguardo all’utilizzo di riproduzioni senza scopo di lucro, sembra aver reso obbligatorio il principio del rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione, prevedendo, tra l’altro, coefficienti di calcolo poco razionali [145]. In terzo luogo, le linee guida appaiono anacronistiche per la scarsa considerazione accordata all’“ampia gamma di ipotesi in cui il fine commerciale [dell’attività di riuso della riproduzione] è solo indiretto” [146].

Sotto quest’ultimo profilo, particolarmente controverse sono le previsioni indirizzate alle attività editoriali. In contraddizione con le linee guida della Digital Library e con le notazioni svolte dal giudice contabile prima commentate, il decreto riconduce qualsiasi attività editoriale nell’alveo delle attività lucrative, prevedendo una tariffa maggiorata rispetto al solo rimborso delle spese per pubblicazioni con tiratura superiore alle trecento copie e con prezzo di copertina superiore ai 50 euro; così addirittura inasprendo i criteri del tariffario del 1994, già ampiamente criticato. Un’impostazione decisamente restrittiva, che si è tentato, forse, di attenuare attraverso la distinzione tra “editoria scientifica”, soggetta al rimborso dei costi moltiplicato per un coefficiente pari a 1, e “non scientifica”, a cui si applica, invece, un coefficiente pari a 7. Senza considerare, tuttavia, che nell’ambiente digitale sono proprio tali sottili distinzioni a risultati impraticabili [147].

D’altra parte, quando le linee guida ministeriali prendono, effettivamente, in considerazione le innovazioni del digitale, le previsioni appaiono, in parte, ragionevolmente inapplicabili (come accade nel caso delle tariffe imposte per la pubblicazione degli e-book, che costringerebbero un autore a stimare il numero dei download attesi e poi a monitorare perennemente il numero dei download effettivi per coprire l’eventuale differenza), in parte poco aggiornate (per la mancata considerazione, ad esempio, della modalità “print on demand”).

11. La tutela della banca dati

Come anticipato in apertura, una campagna di digitalizzazione delle collezioni museali coinvolge anche la creazione di una banca dati, o repository, dove confluiscono, ai fini sia della loro conservazione che della loro fruizione, tanto le immagini dei beni culturali quanto la documentazione scientifica ad essi pertinenti. Si è accennato, inoltre, che la banca dati, a differenza delle immagini dei beni culturali, ricade nell’ambito di applicazione della normativa sul diritto d’autore.

Più precisamente, il database può essere tutelato: come opera dell’ingegno frutto di un’attività intellettuale, nel caso in cui soddisfi il requisito del carattere creativo; oppure come bene privo del carattere della creatività, ma prodotto grazie ai rilevanti investimenti in termini finanziari, di tempo o di lavoro [148]. In questa seconda ipotesi, il costitutore della banca dati - che nel caso in esame è l’amministrazione che ha ne ha commissionato l’elaborazione [149] - ha il diritto, per quindici anni, di “vietare le operazioni di estrazione ovvero di reimpiego della totalità o di una parte sostanziale” del contenuto della banca dati stessa [150] (c.d. diritto sui generis).

Il museo che proceda alla digitalizzazione delle proprie collezioni può, dunque, tutelare l’investimento effettuato in termini di risorse economiche e di ricerca [151] vietando utilizzi massivi dei dati che sono stati dall’amministrazione raccolti e organizzati in modo sistematico e agevole per la consultazione. Fermo restando, naturalmente, l’obbligo di rispettare, quando sussistono [152], i diritti d’autore relativi alle fotografie e al software utilizzato per l’impostazione o il funzionamento della banca di dati.

Il quadro ora descritto non è alterato dalla recente normativa europea, prima commentata, in tema di copyright.

La Direttiva 2019/790, infatti, lascia impregiudicata la tutela “sui generis” delle banche dati possedute dalle amministrazioni culturali, prevedendo una deroga dei limiti posti all’estrazione di testo e dati solamente in favore di (altri) organismi di ricerca e istituti di tutela del patrimonio culturale che ne necessitino per scopi di ricerca scientifica [153]. Al di là di tale previsione, la direttiva si limita a disporre che il “diritto sui generis” accordato agli enti pubblici non deve essere esercitato “al fine di impedire il riutilizzo di documenti o di limitare il riutilizzo oltre i limiti stabiliti dalla presente direttiva” [154]. L’intento è di contenere il più possibile l’”interferenza” [155] che la tutela autoriale del database può esercitare sulla libera circolazione del patrimonio informativo pubblico, ma la disposizione non sembra destinata a produrre particolari effetti dal momento che le operazioni vietate dal “diritto sui generis” si connotano per un tratto massivo solitamente assente nelle richieste di riuso individuale del patrimonio culturale digitale.

12. La gestione del patrimonio culturale digitale: l’ubiquità tecnica tra privative pubbliche e pratiche sociali (ed economiche) di appropriazione

Il nuovo “continente” digitale offre inedite possibilità di gestione del patrimonio culturale tanto sul versante della sua tutela/conservazione, quanto su quelli (dell’ampliamento e accrescimento) della sua fruizione e del suo sfruttamento economico. Versanti distinti ma, ovviamente, connessi.

Se la mera fruizione delle riproduzioni digitali è da considerarsi, infatti, sempre libera e gratuita, la principale problematica sottesa alla gestione del patrimonio culturale digitale riguarda le sue forme d’uso; o, meglio, le forme d’uso privato, che, in quanto tali, entrano in tensione con le due funzioni pubbliche della tutela e della valorizzazione. Di fronte alle forme d’uso individuale, infatti, allo Stato-apparato è attribuito, per un verso, il dovere di garantire che l’attività privata non arrechi pregiudizio al bene e, per altro verso, un margine di valutazione discrezionale entro il quale la singola autorità è chiamata a comporre, di volta in volta, il rapporto “tra ‘missione culturale e ‘dimensione economica’ [d]elle politiche di valorizzazione del patrimonio” [156].

In questo senso, si è già accennato all’opportunità di intraprendere una riforma del diritto nazionale (necessaria anche se, come sempre, non sufficiente), soprattutto al fine di distinguere in modo più rigoroso le ipotesi di uso individuale fisico, e quindi esclusivo ancorché precario o comunque limitato nel tempo, di un bene culturale materiale (artt. 107 e 106), dalle diverse ipotesi di utilizzo non rivale delle riproduzioni e degli altri beni culturali dematerializzati (artt. 107 e 108).

Anche a voler mantenere una disciplina differenziata per le attività di riuso delle riproduzioni svolte con finalità lucrativa, il Codice di settore dovrebbe essere in grado di corrispondere alla realtà dei beni dematerializzati, almeno sotto il profilo del rilievo autonomo da attribuire al loro statuto immateriale e alla logica dinamica della circolazione del loro valore immateriale [157] che oggi risulta, invece, recessiva a fronte del carattere ablatorio e reale che caratterizza i mezzi di tutela previsti dall’ordinamento.

In altre parole, la legislazione vigente non riesce a restituire l’autonomia pratica e concettuale di un ambito d’uso particolare dei beni culturali, costituito, appunto, dalla circolazione delle immagini e di altri oggetti digitali nello spazio virtuale. Si è ancora lontani, insomma, dal dare corpo a quella, da più parti auspicata, evoluzione in senso pluralistico dello statuto dei beni culturali [158] che, tenendo in considerazione le innegabili differenze che intercorrono tra i beni culturali materiali, i beni culturali “dematerializzati” e i beni culturali immateriali, sviluppi una disciplina complessa e differenziale - che ha già trovato articolazione nell’ambito dell’International Law of Cultural Heritage, dove la nozione di Cultural Heritage è più ampia di quella riconosciuta nel nostro diritto nazionale [159] -, all’interno della quale l’“ubiquità” [160] delle riproduzioni possa trovare “un proprio spazio” di disciplina.

Tanto più che nell’ambiente e nei mercati virtuali il tradizionale funzionamento delle catene di produzione, circolazione e distribuzione dei contenuti si confronta con la capacità delle piattaforme e dei portali digitali di agire nel senso di una loro disintermediazione. Se già l’avvento della società di massa ha avuto, tra gli altri, l’effetto di ridurre lo spazio precedentemente occupato dalla mediazione gerarchica - degli enti (anche ecclesiastici), dei corpi intermedi o di quelle che oggi chiamiamo “comunità epistemiche” - nella ricezione collettiva dell’arte, l’ambiente virtuale determina anche la moltiplicazione delle fattispecie d’uso del patrimonio che si risolvono in forme di “lucro indiretto”, le quali, come si è detto, costituiscono, per certi versi, una testa di ponte verso una più ampia liberalizzazione delle attività private di riuso commerciale del valore immateriale del patrimonio culturale.

Certo, la disintermediazione delle catene di produzione, circolazione e distribuzione dei contenuti, se offre molte occasioni di democratizzazione della cultura, presenta anche pericoli, analogamente a quanto accade nell’ambito dell’informazione, dove l’istanza pluralista della moltiplicazione delle fonti si realizza oggi nella forma di un progressivo abbassamento dei canoni e degli standard metodologici utilizzati per verificare le notizie [161]. D’altra parte, una certa dose di disordine è impossibile da comprimere: come ha insegnato la teoria dell’informazione, la tendenza entropica di un messaggio è direttamente proporzionale alla quantità di informazione che fornisce [162].

Il profilo cognitivo assunto dal modo di produzione economico contemporaneo non può, allora, sfuggire a momenti più o meno caotici, rispetto ai quali, però, nessuna imposizione per decreto o comunque unilaterale può risultare utile, dovendo piuttosto orientare verso investimenti a medio e lungo e termine che agiscano sulla cornice culturale dello sviluppo sociale ed economico. In questo contesto appare, ad esempio, opportuno chiedersi se in riferimento al valore immateriale dei beni culturali l’esercizio di una valutazione di compatibilità che si spinga fino al giudizio sul “decoro” delle attività private non rischi, venendo a mancare il parametro della materialità, di risolversi in una pratica autoritaria di interpretazione, ossia censoria.

Da questa prospettiva, vista la posta simbolica [163] in campo, sembra necessario insistere sull’impossibilità di ricondurre la privativa pubblica sulle riproduzioni a una visione proprietaria dei rapporti tra Stato e patrimonio culturale, tanto più considerando gli effetti potenzialmente depressivi, o comunque livellanti, della creatività individuale e conformativi dello sviluppo culturale collettivo che l’idea di una “cultura di Stato” può dispiegare [164]. Vale la pena insistere, cioè, sul fatto che una privativa pubblica sullo sfruttamento economico dei beni culturali digitali potrebbe trovare giustificazione solamente sul piano del contributo che essa riesce effettivamente ad apportare allo sviluppo dello Stato-comunità. Un contributo, che dovrebbe assumere come unità di misura i bisogni e le aspirazioni della collettività, ad esempio nei termini di una maggiore accessibilità alla cultura, misurabile solo in concreto.

Come sempre accade, infatti, è a valle della normazione, nel rapporto dialettico tra funzioni e organizzazione, nella dimensione della prassi (amministrativa), che la sostanza dei processi di innovazione (o conservazione) prende progressivamente forma. Una dimensione in cui la flessibilità operativa si rivela, nella maggioranza dei casi, imprescindibile.

Il recentissimo piano strategico sulla digitalizzazione adottato a livello ministeriale rappresenta, in questo senso, un utile punto di riferimento per le singole istituzioni della cultura, la cui autonomia, però, non deve essere compromessa [165]. In linea con quella che si considera la ratio ispiratrice dello “strumento linee guida”, l’amministrazione centrale, elaborando un prospetto delle diverse opzioni gestionali attualmente conosciute e praticate e corredandolo di un’analisi in termini di costi-benefici, tenta di sfruttare l’utilità del pensare per schemi astratti, propria dell’analisi statistica, senza compromettere gli aspetti più intuitivi dell’amministrazione attiva, ossia senza mortificare la capacità, che le amministrazioni dovrebbero possedere, di interpretare i “modelli” a partire dalla singolarità delle circostanze e, quindi, di articolare soluzioni in concreto variabili.

Rimettere al singolo museo la scelta del modello gestionale da adottare consente, infatti, di valutare, a partire dalle effettive condizioni in cui l’istituzione versa, se una politica di piena liberalizzazione potrebbe apportare significativi vantaggi in termini di riconoscibilità e visibilità del patrimonio che ha in consegna o se, viceversa, le proprie esigenze gestionali sarebbero meglio servite dalle risorse economiche aggiuntive che deriverebbero dai corrispettivi per l’uso commerciale delle riproduzioni. Da questo punto di vista, il recente tariffario ministeriale, oltre a segnare un deciso passo indietro rispetto alla liberalizzazione all’accesso e al riuso del patrimonio pubblico, rischia di chiudere spazi di sperimentazione potenzialmente virtuosi.

Tenendo sempre a mente che se si ricostruisce il dibattito sulle modalità di “sfruttamento economico” dei beni culturali dematerializzati nei termini di una contrapposizione tra quanti sostengono le istanze “proprietarie” dello Stato (che limitano la libera circolazione dei materiali digitali “in una logica di gestione efficiente ed efficace dell’istituzione museale, nella sua autonomia economico-finanziaria” [166]) e quanti, invece, sostengono le istanze democratiche (che promuovono la più ampia libertà di riuso come fattore di educazione e formazione, fondante nella società della conoscenza), si rischia di dimenticare che il rischio di mercificazione del patrimonio culturale si presenta tanto nel caso in cui sia lo Stato a “mettere a reddito” i beni culturali, tanto nell’ipotesi in cui a trarne profitto siano invece gli operatori privati del settore.

Il contemporaneo lancio della campagna pubblica “Open to meraviglia”, che a fini turistici altera l’immagine della Venere di Botticelli rendendola una “influencer”, e la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali inflitta a una rivista privata, che per fini commerciali aveva alterato l’immagine del David di Michelangelo rendendolo un modello, ne costituisce un esempio vivido e attuale [167].

Occorre infatti considerare che nel gioco di interdipendenze che sussiste tra economia e cultura, la funzione sociale dell’arte si trasforma, inevitabilmente, in conseguenza del suo stesso modo di circolare [168]. Come emerge dalla complessa narrazione di un bel romanzo di formazione di qualche anno fa [169], se è vero che la cura del patrimonio culturale vive, in ogni luogo e in ogni tempo, tanto nella dimensione delle tecniche impiegate per la sua conservazione, quanto in quella delle pratiche, vecchie e nuove, per la sua continua (ri)appropriazione [170], è altrettanto vero che, “a mondo invariato” vi è un’essenza mercantile della circolazione tale per cui la mediazione del profitto si impone quale forma comune delle relazioni sociali.

Come queste tecniche e queste pratiche si mescoleranno, e quindi quale funzione l’arte assumerà, oltre l’interregno in cui viviamo, non sarà una riforma del settore dei beni culturali a determinarlo: ma dipenderà dalla trama di interdipendenze politiche economiche, sociali ed ambientali (cioè ecologiche) nella quale la tecnologia digitale si sviluppa.

 

Note

[*] Margherita Croce, assegnista di ricerca in Diritto amministrativo presso l’IMT Scuola Alti Studi di Lucca, Piazza S. Francesco n. 19, 55100 Lucca (LU), marghe.croce@gmail.com.

[1] L’importanza della digitalizzazione del patrimonio culturale è stata ampiamente sottolineata dalla Convenzione di Faro (Convention on the Value of Cultural Heritage for Society), adottata nel 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, ma ratificata dal nostro Paese solo con la legge 1° ottobre 2020, n. 133. La Convenzione impegna gli Stati firmatari a “sviluppare l’utilizzo delle tecnologie digitali per migliorare l’accesso al patrimonio culturale e ai benefici che derivano da esso”, favorendo, tra le altre cose: l’elaborazione e l’utilizzo di “standard di compatibilità internazionali per lo studio, la conservazione, la valorizzazione e la protezione del patrimonio culturale” e l’abbattimento degli “ostacoli che limitino l’accesso alle informazioni sul patrimonio culturale, specialmente a fini educativi, proteggendo nel contempo i diritti di proprietà intellettuale” (art. 14). Molte sono poi le pubblicazioni dell’Unesco dedicate alle politiche di digitalizzazione e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale (ad esempio, Steering AI and Advanced ICTs for Knowledge Societies A Rights, Openness, Access, and Multi-stakeholder Perspective, Parigi, 2019, disponibile online). La stessa istituzione aveva avviato nel 2005 il progetto della World Digital Library, un archivio digitale liberamente accessibile, dove grazie alla collaborazione di biblioteche nazionali e organizzazioni culturali di diversi Paesi sono confluite numerose opere. L’archivio è stato ora trasferito sul sito della Library of congress che ne ha assunto la gestione.

[2] L’art. 1 della Carta così recita: “Il patrimonio digitale si compone di risorse uniche nei campi della conoscenza e dell’espressione umana, siano esse di ordine culturale, educativo, scientifico, amministrativo o che contengano informazioni tecniche, giuridiche, mediche o di altra sorta, create digitalmente o convertite in forma digitale a partire dalle risorse analogiche esistente. Quando delle risorse sono di ‘origine digitale’, ciò significa che esse esistono unicamente sotto la loro forma digitale iniziale. I documenti digitali comprendono, nell’ampio spettro dei formati elettronici in continua evoluzione, testi, banche dati, immagini fisse o animate, documenti sonori e grafici, software e pagine web”.

[3] Alcune perplessità sorgono in particolare in riferimento alla scelta di attrarre all’interno della nozione di patrimonio culturale anche le risorse di “ordine [...] scientifico, amministrativo o che contengano informazioni tecniche, giuridiche, mediche”. Come messo in luce dalla dottrina, l’eccessiva dilatazione dell’ambito semantico della nozione di “cultura” corre, infatti, il rischio di “perderne il baricentro” e di “dissolvere la gestione della cultura nella gestione di tutt’intera la vita sociale”, G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, in Aedon, 2014, 1, par. 1, che ricorda i moniti di Bruno Cavallo e Tommaso Alibrandi elaborati nel solco delle osservazioni di Tullio De Mauro sui rapporti tra storia e cultura. La tendenza espansiva delle trasformazioni che investono il concetto di “patrimonio culturale”, d’altra parte, muove anche nella direzione dell’attrarre, al suo interno, “quelle attività economiche, vere e proprie produzioni industriali riferibili in vario modo alla c.d. industria creativa”, M. Cammelli, G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, in Aedon, 2022, 1.

[4] I musei di Palazzo Mansi e Villa Guinigi, entrambi a Lucca, interessati dal progetto di ricerca di cui supra all’asterisco in apertura.

[5] Il problema della titolarità riguarda soprattutto la prima categoria di oggetti digitali, rappresentata dalle immagini (riproduzioni) dei beni culturali detenuti dalle pp.aa. Sul punto si tornerà in diverse occasioni. Per quanto riguarda, invece, la documentazione scientifica digitalizzata e la banca dati, la questione è diversa e meno controversa. Entrambi gli “oggetti digitali” ricadono, infatti, nell’ambito di applicazione della normativa sul diritto d’autore, legge 16 luglio 1941, n. 633, il cui art. 11 dispone che l’amministrazione è titolare dei diritti di sfruttamento del dato quando lo abbia creato direttamente oppure ne abbia commissionato la creazione ad un altro soggetto (“Alle amministrazioni dello stato, alle provincie ed ai comuni spetta il diritto di autore sulle opere create e pubblicate sotto il loro nome ed a loro conto e spese”).

[6] Per un esempio, a contrario, di riproduzione creativa si rimanda infra alla nota 20.

[7] Come previsto del recente art. 14 della Direttiva 2019/790 del 17 aprile 2019, in materia di diritto d’autore nel mercato unico digitale (c.d. Direttiva copyright), sulla cui portata innovativa si rinvia infra par. 4.

[8] Contenuto, come è noto, nel d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42.

[9] L’attività di riproduzione andrebbe in questo contesto intesa, come suggerito da A. Tumicelli, L’immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, par. 1, come “moltiplicazione in copie diretta o indiretta, temporanea o permanente, in tutto o in parte dell’opera, in qualunque modo o forma”.

[10] Da questo punto di vista, è bene premettere fin da subito che le considerazioni de iure condendo che seguiranno (spec. infra par. 5) sulla possibilità teorica di costruire, e l’opportunità politica di giustificare, un eventuale regime giuridico autonomo per i beni culturali digitali (distinto rispetto a quello che regola la tutela, la valorizzazione e la circolazione del patrimonio storico e artistico materiale) si situeranno nel solco delle riflessioni sul valore immateriale dei beni culturali piuttosto che nell’ambito segnato dagli studi sul patrimonio culturale immateriale. Il punto di avvio di tali riflessioni è sicuramente costituito dal saggio di M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 5 ss., nel quale, sulla scia dei lavori della Commissione Franceschini, la nozione giuridica “aperta” e “liminale” (pag. 8) di bene culturale viene individuata nel suo essere “testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Passaggio che rende possibile distinguere, all’interno del concetto di bene culturale, la cosa materiale, che costituisce un bene patrimoniale oggetto di diritti reali, dal suo valore immateriale, ossia dall’interesse culturale che la cosa esprime e che rende quel bene un “bene di fruizione”, in quanto tale oggetto di potestà del potere pubblico (pag. 24 e 30 s.). Così come consente, in secondo luogo, di osservare i molteplici modi in cui il bene culturale può inerire alla cosa (pag. 26) e gli altrettanto molteplici modi in cui può articolarsi la corrispondenza (“non univoca”) tra valore commerciale e valore culturale della cosa (pag. 27).

[11] Le riproduzioni dei beni culturali possiedono caratteristiche diverse da quelle dei beni culturali immateriali “veri e propri”; e se diverse sono le caratteristiche diversa è la disciplina giuridica (sui rischi di improprie analogie tra beni digitali e patrimonio immateriale: G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1. Il patrimonio culturale immateriale - composto tra le altre cose dai giochi, i canti, le feste, le danze, le fiabe, i costumi etc. - oltre a poter del tutto prescindere dall’esistenza di un substrato materico, si connota per i caratteri dell’indistruttibilità e della riproducibilità (M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pag. 33 ss.) e ricade, perciò, nell’ambito di applicazione delle Convenzioni Unesco (Convenzione sulla promozione e protezione del patrimonio immateriale e alla Convenzione per la protezione e la promozione delle diversità culturali, firmate a Parigi, rispettivamente, nel 2003 e nel 2005), restando tendenzialmente escluso da quello della disciplina nazionale (ai sensi dell’art. 7-bis del Codice di settore, infatti, le “espressioni di identità collettiva contemplate dalle Convenzioni Unesco” sono disciplinate (anche) dal Codice stesso solo “qualora siano rappresentate da testimonianze materiali”). Come si dice meglio nel testo, i beni culturali digitalizzati, invece, un qualche collegamento con un singolare substrato materico lo mantengono sempre e per questo sono disciplinati dal Codice di settore.

[12] Per la distinzione tra immaterialità intrinseca ed estrinseca si rimanda a G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit.

[13] G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3.

[14] P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, in P.A. Persona e Amministrazione, 2019, 2, pag. 252.

[15] P. Forte, ibidem, pag. 253.

[16] P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2020, 3, secondo il quale “è errato pensare che le riproduzioni digitali caricate in internet costituiscano nuovi, autonomi ‘beni culturali immateriali’. Caso mai si tratta di nuovo ‘uso’ del valore immateriale contenuto nel (ed espresso dal) bene culturale (materiale). [...] in realtà non è l’‘oggetto’ della disciplina che cambia, ma la ‘disciplina’ dell’oggetto (la disciplina di un suo nuovo uso possibile, effettuato attraverso un mezzo innovativo, che si affianca a quelli tradizionali). [...] le riproduzioni in digitale del bene culturale sono copie digitali del bene culturale reale (che è necessariamente una res corporalis)”.

[17] S. Cassese, Il futuro della disciplina dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2012, 7, pag. 781 ss.

[18] Limiti posti particolarmente in luce da quegli studi sulla globalizzazione, ove l’accento cade sulla dimensione “spaziale”, cioè non territoriale, delle due “forze” motrici della tecnologia e dell’economia. Per un approfondimento nel settore culturale: L. Casini (a cura di), La globalizzazione dei beni culturali, Bologna, il Mulino, 2010 e spec. C. Vitale, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, ibidem, pag. 176.

[19] La documentazione in questione, in quanto connotata da originalità, assume spesso natura di pubblicazione scientifica (si prendano ad esempio le schede di catalogo quali modelli che raccolgono in modo organizzato le informazioni descrittive, tecniche, geografiche e documentali sui beni) ed è comunque sempre protetta dalla disciplina privatistica sul diritto d’autore (v. supra nota 5). A riguardo è necessario, però, precisare che l’autore materiale della documentazione non sempre risulta titolare dei diritti al suo sfruttamento. Anzi, nella maggioranza casi, poiché tali ricerche sono commissionate e finanziate dalle amministrazioni, ad assumere la titolarità dei diritti autoriali sono queste ultime, ferma restando la necessità di pubblicare i nominativi degli autori materiali. Nello stesso solco, nelle ipotesi in cui un’istituzione museale abbia interesse ad utilizzare prodotti di ricerca connessi alle proprie collezioni da ragioni storiche, artistiche o scientifiche, ma elaborati all’esterno del proprio ambito di competenza o pubblicati su riviste scientifiche (italiane o straniere) si renderà sempre necessario richiedere l’autorizzazione alla pubblicazione alla persona fisica o giuridica titolare dei diritti d’autore; a meno che non si opti per la soluzione, praticata in ambito scientifico soprattutto in riferimento ai rendering, di rielaborare in modo autonomo il prodotto di ricerca citando il modello base da cui è tratto. Nell’ipotesi in cui, invece, si vogliano utilizzare disegni ed altre immagini possedute da istituzioni museali pubbliche europee, ricorre il principio della Nazione di origine, nel senso che in ogni luogo avvenga l’uso resta disciplinato dal diritto dello Stato in cui ha sede l’istituto titolare del documento. Ad esempio, se l’immagine o il prodotto digitale ad alto contenuto informativo proviene da un Paese che non prevede alcuna eccezione al libero riuso del patrimonio informativo pubblico, il loro utilizzo deve essere considerato libero.

[20] Per un esempio concreto si può consultare la sentenza Cass., sez. VI, 23 aprile 2013, n. 9757, nella quale la creazione di un cranio derivato da un modello inserito nel calcare della grotta di Altamura è stata qualificata come opera creativa, tutelata dal diritto di autore, e non come riproduzione illecita di bene culturale.

[21] L’art. 19, co. 3 del d.lg. 10 febbraio 2005, n. 30 stabilisce che “le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possono ottenere registrazioni di marchio, anche avanti ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del relativo territorio”.

[22] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit., par. 5.

[23] Servizi che ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 117 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, con la conseguenza di “partecipare [...] della onerosità/corrispettività propria dei servizi di accoglienza al pubblico”. Così P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, cit. Sul punto si rimanda anche a M.F. Cataldo, Preservare la memoria culturale: il ruolo della tecnologia, in Aedon, 2020, 2.

[24] Per un quadro internazionale sul punto si rimanda alla consultazione dell’ultimo sondaggio della Nazioni Unite: The United Nations E-Government Survey 2022: the future of Digital Government, New York, 2022, disponibile online.

[25] Nella varietà e nella mobilità delle definizioni attualmente utilizzate, la “trasformazione digitale” (digitalization) dell’amministrazione consta almeno di tre dimensioni e andrebbe dunque intesa come: conversione in formato digitale dei materiali analogici detenuti dalle amministrazioni (digitalization); creazione ex novo di dati, documenti, narrazioni, esperienze e contesti culturali digitali; produzione di risorse digitali interconnesse e ricercabili con differenti domini e linguaggi.

[26] Sulle “due caratteristiche nuove” dello Stato digitale e per una panoramica generale sulla “torsione” impressa dalla transizione digitale agli istituti fondamentali del diritto amministrativo L. Torchia, Lo Stato digitale. Una introduzione, Bologna, il Mulino, 2023.

[27] Definiti dalla Commissione Europea come “l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione [Ict] nelle pubbliche amministrazioni, coniugato a modifiche organizzative e all’acquisizione di nuove competenze al fine di migliorare i servizi pubblici ed i processi democratici e di rafforzare il sostegno alle politiche pubbliche”, Comunicazione della Commissione Europea, Il ruolo dell’e-government per il futuro dell’Europa, COM(2003) 567 def., Bruxelles, 26 settembre 2003.

[28] L. Torchia, Lo Stato digitale. Una introduzione, cit., pag. 99.

[29] Comunicazione della Commissione europea, Piano d’azione dell’UE per l’eGovernment 2016-2020. Accelerare la trasformazione digitale della pubblica amministrazione, Com(2016)/179 final, Bruxelles, 19 aprile 2016.

[30] L’Open Access si afferma come movimento ufficiale, con una sua definizione e una programmazione di tattiche e strategie di azione, a partire dal 2001 con la Conferenza di Budapest, organizzata dall’Open Society Institute (Osi), seguita nel 2002 dalla Budapest Open Access Initiative (Boai), che ne segna l’atto di nascita ufficiale.

[31] Su tali profili si v. da ultimo i considerando nn. 45), 46), 47), 51) e 52) del Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio 2021/694/Ue del 29 aprile 2021, che istituisce il programma Europa digitale 2021-2027, ove, tra l’altro, si pone esplicitamente l’accento sulla necessità che l’Unione “incoraggi il riuso del patrimonio informativo pubblico” (considerando 45).

[32] Considerando n. 16 della direttiva 2019/1024/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio sull’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, del 20 giugno 2019 (rifusione delle Direttiva 2003/98/CE e la Direttiva 2013/37/Ue).

[33] Art. 3, par. 1 della Direttiva (Ue) 2019/1024. Per una definizione di dato aperto si rimanda anche all’Open Data Manual della Open Knowledge Foundation, secondo cui: “Un dato è aperto se chiunque è libero di usarlo, riusarlo e ridistribuirlo - soggetto, eventualmente, al requisito di attribuzione e/o condividere allo stesso modo”.

[34] Art. 6 della direttiva (Ue) 2019/1024: “Il riutilizzo di documenti è gratuito. Tuttavia, può essere autorizzato il recupero dei costi marginali sostenuti per la riproduzione, messa a disposizione e divulgazione dei documenti, nonché per l’anonimizzazione di dati personali o per le misure adottate per proteggere le informazioni commerciali a carattere riservato”.

[35] Così ancora il considerando n. 16 della direttiva 2019/1024/Ue.

[36] Per questo profilo si rinvia infra par. 5, spec. nota 106.

[37] Artt. 8 e 11 della direttiva 2019/1024/Ue. Sul punto si esprime anche il considerando n. 44 della stessa direttiva: “Il riutilizzo dei documenti non dovrebbe essere soggetto a condizioni. Tuttavia, in alcuni casi giustificati da un obiettivo di pubblico interesse, può essere rilasciata una licenza che impone al suo titolare condizioni di riutilizzo riguardanti questioni quali la responsabilità, la protezione dei dati di carattere personale, l’uso corretto dei documenti, la garanzia di non alterazione e la citazione della fonte. Se gli enti pubblici autorizzano su licenza il riutilizzo di documenti, le relative condizioni dovrebbero essere oggettive, proporzionate e non discriminatorie”.

[38] Così il considerando n. 46 della direttiva 2019/1024/Ue.

[39] La normativa di riferimento è contenuta, principalmente, nel codice dell’amministrazione digitale (d.lg. 7 marzo 2005, n. 82) e nel d.lg. 24 gennaio 2006, n. 36, attuazione della normativa europea sull’apertura dei dati e il riutilizzo dell’informazione del settore pubblico. Il d.lg. 24 gennaio 2006, n. 36 ha, infatti, da prima attuato la direttiva 2003/98/Ce e, quando quest’ultima è stata rifusa, insieme alla direttiva 2013/37/Ue, nella Direttiva (Ue) 2019/1024, il decreto legislativo in questione è stato modificato, in alcune parti anche sostanzialmente, dal d.lg. 8 novembre 2021, n. 200.

[40] Art. 52, co. 2 del d.lg. n. 82/2005. Cfr. art. 5, co. 2 della direttiva 2019/1024/Ue.

[41] Ivi comprese le spese sostenute per la anonimizzazione dei dati personali o la protezione di informazioni a carattere riservato.

[42] Art. 50 del d.lg. n. 82/2005 e art. 8 del d.lg. n. 36/2006.

[43] Sulle ragioni a sostegno di questa declinazione di “eccezione culturale” si esprime il considerando n. 38 della direttiva 2019/1024/Ue. Cfr. con il considerando n. 36.

[44] L’eccezione culturale è fatta risalire all’art. 36 del Tfue. La portata della nozione è più chiaramente sviluppata nell’ambito del settore del cinema e dell’audiovisivo e in riferimento all’“industria culturale”, ove rileva in riferimento alla deroga della disciplina degli aiuti di Stato e per una più flessibile applicazione delle norme sulla libera circolazione. Sul punto si rimanda a G. Bosi, L’impresa culturale, Bologna, 2017, pag. 117, G. Famiglietti, Art. 7, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, 2018, pag. 48 ss. e A. Averardi, Gli ausili pubblici al settore cinematografico tra eccezione culturale e regole di mercato, in Munus, 2019, 1, pag. 259 ss.

[45] G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, cit. Sul punto anche A. Tumicelli, L’immagine del bene culturale, cit., par. 1.

[46] Art. 3, par. 2 della direttiva 2019/1024/Ue. Le disposizioni dei capi citati si riferiscono alle condizioni di utilizzo dei dati e ai principi di non discriminazione ed equità delle transazioni.

[47] Art. 6, par. 5 della direttiva 2019/1024/Ue. La stessa direttiva definisce l’“utile ragionevole” come “una percentuale della tariffa complessiva, in aggiunta a quella necessaria per recuperare i costi ammissibili, non superiore a cinque punti percentuali oltre il tasso di interesse fisso della BCE” (art. 2, n. 16). Sul punto si veda anche il considerando n. 38: “Le biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, i musei e gli archivi dovrebbero poter imporre corrispettivi superiori ai costi marginali per non ostacolare il proprio normale funzionamento. Nel caso di detti enti pubblici il totale delle entrate provenienti dalla fornitura e dall’autorizzazione al riutilizzo dei documenti in un periodo contabile adeguato non dovrebbe superare i costi di raccolta, produzione, riproduzione, diffusione, conservazione e gestione dei diritti, maggiorati di un utile ragionevole sugli investimenti. Ove applicabile, dovrebbero essere compresi nel costo ammissibile anche i costi di anonimizzazione di dati personali o informazioni commerciali a carattere riservato. Per le biblioteche, comprese le biblioteche universitarie, i musei e gli archivi, tenendo conto delle loro peculiarità, nel calcolare l’utile ragionevole sugli investimenti possono essere presi in considerazione i prezzi praticati dal settore privato per il riutilizzo di documenti identici o simili”.

[48] Art. 7, co. 3, lett. a) del d.lg. n. 36/2006.

[49] Art. 7, co. 3-bis del d.lg. n. 36/2006. In base al co. 8 dello stesso art. gli introiti delle tariffe “sono versati all’entrata del bilancio dello Stato, per essere riassegnati”, come previsto dal d.p.r. 10 novembre 1999, n. 469, allo stato di previsione delle amministrazioni interessate.

[50] Art. 1, co. 2 del d.lg. n. 36/2006.

[51] Le disposizioni rilevanti, da questo punto di vista, sono: l’art. 107 sull’uso strumentale e precario e sulla riproduzione di beni culturali e l’art. 108 sui canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione e cauzione, e, per profili solo in parte pertinenti, l’art. 109 sul catalogo di immagini fotografiche e di riprese di beni culturali. Altre norme del Codice (tra cui l’art. 106 sull’uso individuale di beni culturali e l’art. 120 sulle sponsorizzazioni) hanno rilievo, come si vedrà, per profili di interpretazione sistematica.

[52] D.l. 31 maggio 2014, n. 83, Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo, conv. legge 29 luglio 2014, n. 106, che, con la modifica del comma 3 dell’art. 108 del Codice di settore, ha esteso la libertà e gratuità delle riproduzioni per finalità di valorizzazione del patrimonio culturale, prima prevista solo per i soggetti pubblici, anche ai soggetti privati; e ha aggiunto il comma 3-bis introducendo il principio della libera e gratuita riproduzione per i “beni culturali diversi dai beni bibliografici e archivistici”.

[53] L. 4 agosto 2017, n. 124, che ha modificato il comma 3-bis dell’art. 108 estendendo principio della libera e gratuita riproduzione ai beni archivistici non sottoposti a restrizioni di consultabilità in base alle disposizioni del codice stesso.

[54] Nel testo attualmente vigente, il terzo comma dell’art. 108, co. 3 dispone che: “Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro”. Mentre, ai sensi del novellato art. 108, co. 3-bis: “Sono in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale: 1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del presente titolo, attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né, all’interno degli istituti della cultura, l’uso di stativi o treppiedi; 2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro”.

[55] Si v. in particolare i par. 9.3 e 10, ove sono illustrate le diverse prospettive interpretative accolte dalle linee guida adottate dalla Digital Library e da quelle, successive, del ministero della cultura.

[56] Come espressamente stabilito sia dalla direttiva (Ue) 2019/1024 che dal Codice dell’amministrazione digitale.

[57] Mozione del 16 maggio 2016 nella parte in cui suggerisce: la “cessione gratuita delle digitalizzazioni già eseguite dall’istituto (da intendersi anche come incentivo per rendere disponibili in rete le immagini)”). In questo senso già il Regolamento della direzione regionale Toscana e il tariffario allegato, disponibile online sul sito dell’ex polo museale della Toscana.

[58] Infra par. 7.

[59] Accedendo alla classica differenziazione tra autorizzazione e concessione, il provvedimento relativo all’utilizzo privato delle riproduzioni dei beni culturali appare riconducibile al primo istituto, in quanto non trasferisce in capo al soggetto attività o risorse riservate all’amministrazione pubblica. La fruizione del patrimonio culturale è, infatti, un diritto preesistente del soggetto privato, limitato, però, in funzione dell’interesse pubblico alla sua conservazione. Il provvedimento, essendo finalizzato a rimuovere tali limitazioni si configura, allora, come autorizzazione. A sostegno di tale ricostruzione può notarsi, d’altra parte, che, in base all’art. 108, la tariffa prevista per l’uso delle riproduzioni è qualificata come “corrispettivo” e non come canone di concessione. Di provvedimento concessorio, parla, invece, Trib. Firenze, ord. 25 ottobre 2017, r.g. n. 13758/2017 che ha accolto il ricorso della Galleria dell’Accademia contro un’agenzia di viaggio che aveva utilizzato l’immagine del David per i propri mezzi pubblicitari (dépliant e sito web).

[60] Art. 108, cc. 1 e 6 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

[61] Mibact, Piano Triennale per la digitalizzazione e l’innovazione dei musei, 2019, pag. 31.

[62] In particolare, il d.m. 20 aprile 2005, di natura regolamentare, recante “Indirizzi, criteri e modalità per la riproduzione di beni culturali ai sensi dell’art. 107 del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42” (che tra l’altro ha giustificato la riformulazione “per sopravvenienza” del comma 2 dell’art. 107, al fine di ammettere, in via generale, le attività di riproduzione che non comportano contatto con l’originale) nella misura in cui fa riferimento alla “finalità della riproduzione” e prescrive che la richiesta di riproduzione contenga anche “l’indicazione degli scopi, dei tipi di utilizzazione e delle destinazioni delle copie che si intendono ottenere”. Anche il Tariffario per la determinazione di canoni, corrispettivi e modalità per le concessioni relative all'uso strumentale e precario dei beni in consegna al Ministero, contenuto nel d.m. 8 aprile del 1994, dopo aver richiamato “le esigenze di tutela” non solo “dell’integrità fisica” ma anche di quella “culturale” dei beni culturali, specifica che la concessione può avere ad oggetto “la facoltà di riproduzione e l’uso di tali beni e del materiale [...] relativo ai medesimi”. Ancor più precisa nell’individuare le diverse forme di uso delle riproduzioni è poi la Circolare n. 21 del 17 giugno 2005, adottata dalla Direzione generale per gli Archivi del Mibact al fine di ampliare il novero delle fattispecie di utilizzo non contemplate dal tariffario del 1994 in quanto relative a tecnologie di riproduzione digitale sopravvenute (s v. in particolare le tariffe riferite all’“accesso ad informazioni e documenti contenuti in banche dati-immagini consultabili on line”).

[63] Secondo la dottrina, individuando l’elemento differenziale tra le due ipotesi nella più stabile durata dei rapporti concessori instaurati ai sensi dell’art. 106 si potrebbe sostenere, a contrario, che la breve durata dei rapporti instaurati ai sensi dell’art. 107 consente alle amministrazioni di concedere il bene anche per usi diversi da quelli reputati ammissibili nel primo caso. In particolare, le concessioni d’uso strumentale e precario consentirebbero alla p.a. di dare prevalenza, nelle proprie ponderazioni discrezionali, alla messa a reddito del bene culturale piuttosto che alla sua valorizzazione culturale.

[64] Si dovrebbe infatti sostenere che l’uso strumentale e precario sia un’attività tanto limitata nel tempo e nello spazio da essere paragonabile, quanto a svolgimento ed effetti, alla realizzazione di un calco o di altra riproduzione.

[65] Art. 108, co. 1: “I canoni di concessione ed i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto: a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d’uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell’uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente”.

[66] M. Croce, S. de Nitto, I partenariati per la valorizzazione del patrimonio dismesso, in disuso o scarsamente fruito, in Patrimonio culturale e soggetti privati. Criticità e prospettive del rapporto pubblico-privato, (a cura di) A. Moliterni, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, pag. 203 ss.

[67] A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, Roma-Bari, Laterza, 2019, pag. 62 ss.

[68] Art. 3, Autorizzazione per la riproduzione, del d.m. 20 aprile 2005.

[69] In questo senso L. Mercati, Commento dell'art. 107, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le nuove leggi civili commentate, (a cura di) G. Trotta, 2005, 1436; M. Brocca, La disciplina d'uso dei beni culturali, in Aedon, 2006, 2.

[70] Infra par. 7.

[71] Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019, (Ue) 2019/790.

[72] Per un’approfondita disamina della portata innovativa della norma si rimanda a M. Arisi, Riproduzioni di opere d’arte visive in pubblico dominio: l’articolo 14 della Direttiva (EU) 2019/790 e la trasposizione in Italia, in Aedon, 2021, 1.

[73] La risoluzione, oltre ad invitare il Governo “a sostenere un programma di digitalizzazione e a valutare le possibili modalità di divulgazione delle riproduzioni digitali del patrimonio culturale” tramite l’utilizzo di licenze CC share alike (sulle varie tipologie di licenza si rimanda infra al par. 9.1.), auspicava “la costituzione di un gruppo di lavoro, aperto alla partecipazione di esperti in materia e delle associazioni più rappresentative delle professioni dei beni culturali e dei principali stakeholder, allo scopo di proporre una riformulazione [...] degli articoli 107 e 108 del [...] codice dei beni culturali e del paesaggio, che risulti conforme alle disposizioni di cui all’art. 14 della direttiva europea 2019/790/EU”. Gruppo di lavoro a cui attribuire anche “il compito di valutare l’impatto culturale ed economico sotteso all’eventuale applicazione del libero riuso delle immagini del patrimonio culturale e di fornire supporto informativo agli istituti centrali e periferici del Ministero della cultura”. La prospettiva favorevole al libero riuso delle riproduzioni era stata, tra l’altro, già tratteggiata nel parere approvato dalla VII Commissione della Camera dei deputati il 29 settembre 2020 sullo schema di relazione relativa alla fissazione di priorità nell’utilizzo del Recovery Fund.

[74] Art. 1, co. 1, lett. b), del d.lg. 8 novembre 2021, n. 177 che ha modificato l’art. 32-quater della legge n. 633/1941.

[75] La notazione è formulata in particolare da G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’ in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019, in Aedon, 2021, 1, par. 6.

[76] Supra par. 2.1.

[77] G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’ in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019, cit., par. 6, corsivi aggiunti.

[78] Ad opera, come è noto, del d.l. 20 settembre 2015, n. 146 che ha modificato la legge 12 giugno 1990, n. 146 sulla regolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero al fine di garantire i diritti della persona costituzionalmente tutelati.

[79] D. Manacorda, L’immagine del bene culturale pubblico tra lucro e decoro: una questione di libertà, in Aedon, 2021, 1, par. 2.

[80] G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’ in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019, cit. Sul punto efficace anche la sintesi di M.C. Pangallozzi, La fruizione del patrimonio culturale nell’era digitale: quale evoluzione per il “museo immaginario”?, in Aedon, 2020, 2, par. 3.1.

[81] Come nota un civilista, al primo (e forse per questo particolarmente utile) approccio al Codice di settore, A. Gentili, Quale modello per i beni culturali, in Patrimonio culturale profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) E. Battelli et al, Roma, RomaTre Press, 2017, pag. 228, questa normativa sembra aspirare alla configurazione di un “modello unitario e dominicale”, anche se, scontrandosi con l’“oggettiva diversità” dei beni culturali e con la natura dei problemi da governare, si risolve, in realtà, in una “casistica abbastanza minuziosa, e piuttosto disorganica”.

[82] M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pag. 32.

[83] Per la presenza di questo schema di imputazione “senza soggetto” nel diritto antico: R. Orestano, Il “problema delle persone giuridiche” in diritto romano, I, Torino, Giappichelli, 1968.

[84] Secondo A. Gentili, Quale modello per i beni culturali, cit., pag. 231 e 236, portata alle sue conseguenze, tale impostazione dovrebbe indurre a (ri)pensare la “proprietà pubblica” dei beni culturali nei termini di una “mera intestazione”. Ciò consentirebbe di portare alla luce le inefficienze del modello dominicale (che consente di limitare la proprietà dei soggetti privati, soprattutto dal punto di vista della circolazione, ma non consente di disciplinare le modalità della fruizione e della valorizzazione, che vengono delegate alla prassi e all’effettività), invece di porsi “falsi problemi” relativi alla appartenenza, che distraggono l’attenzione verso complicate duplicazioni tipologiche della proprietà (privata, pubblica, comune) (pag. 229, ove si richiamano in senso critico anche alcuni approcci ai “beni comuni” in generale).

[85] In questo senso L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3, e P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, cit.

[86] Quanto alla nozione di certezza pubblica si fa riferimento alla sistematizzazione operata da A. Benedetti, Certezza pubblica e certezze private. Poteri pubblici e certificazioni di mercato, Milano, Giuffrè, 2010.

[87] Il riferimento è al discorso di W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-39), Roma, Donzelli editore, 2012, pag. 106 secondo il quale, nella misura in cui “nella produzione artistica” della società di massa e della tecnica “viene meno il metro dell’autenticità” la funzione sociale dell’arte perde la sua “fondazione sul rituale” per radicarsi “su di un’altra prassi: vale a dire, la sua fondazione sulla politica”.

[88] Un caso, divenuto paradigmatico, è quello dell’utilizzo dell’immagine del David di Michelangelo da parte di una società di produzione di armi americana, la Illinois Arma Lite. Su questo si confrontino le diverse posizioni di D. Manacorda, L’immagine del bene culturale pubblico tra lucro e decoro: una questione di libertà, cit., par. 3 e L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, cit. e Id., “Noli me tangere”: i beni culturali tra materialità e immaterialità, in, Aedon, 2014, 1.

[89] L’art. 45, dedicato alle “Prescrizioni di tutela indiretta” dei beni culturali immobili; l’art. 49 che vieta o sottopone ad autorizzazione l’affissione di manifesti e cartelli pubblicitari “sugli edifici e nelle aree tutelati come beni culturali”; l’art. 52 che vieta o sottopone a condizioni particolari l’esercizio del commercio in relazione a complessi monumentali e altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti; l’art. 96 che prevede l’espropriazione “per fini strumentali” di edifici ed aree quando ciò sia necessario per isolare o restaurare beni culturali immobili, assicurarne la luce o la prospettiva, garantirne o accrescerne il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso; l’art. 120 che prescrive agli interventi di sponsorizzazione di svolgersi in “forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare”.

[90] Se è vero che posizioni come quella sostenuta da P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, cit., pag. 293 ss. - il quale, se ben si intende, giustifica l’argomento del “decoro” in relazione ad utilizzi delle immagini di tipo lucrativo, mentre ne sottolinea il pericolo censorio in riferimento agli usi non lucrativi che appartengono “all’area della creazione, della libera espressione, dell’arte” - possono sembrare equilibrate, è altrettanto vero, che “i paventati rischi di potenziale danno al decoro e alla reputazione del patrimonio potrebbero coinvolgere anche fotografie modificate e diffuse attraverso canali non commerciali”, di modo che “dietro la diffidenza verso il libero riuso si cela [...] un atteggiamento ‘paternalistico’ da parte dei musei fondato sull’assunto (assai poco democratico), che l’istituzione museale debba essere l’unico garante di una visione corretta del passato, e quindi l’unico soggetto abilitato a sindacare sugli usi corretti o scorretti delle immagini del nostro patrimonio”, M. Modolo, Verso una democrazia della cultura: libero accesso e libera condivisione dei dati, in Arch. calc. suppl., 2017, 9, pag. 124.

[91] Per questa ipotesi, fondata sul fatto che la tutela dell’immagine delle persone giuridiche, che mancano di una propria fisicità, “si incentra sui beni che le caratterizzano facenti parte del loro patrimonio”, si rimanda a A. Tumicelli, L’immagine del bene culturale, cit., par. 2.

[92] Sottolinea la “deriva divisiva” a cui può dar luogo l’appropriazione (ancorché pubblica) del valore simbolico del patrimonio culturale G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, cit.

[93] Trib. Firenze, II sez. civ, 20 aprile 2023.

[94] S. Fantini, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, in Aedon, 2014, 1. Sul punto anche A. Bartolini, L’immaterialità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1, che sottolinea l’inapplicabilità delle misure sanzionatorie e conformative previste dal Codice, le quali hanno come presupposto l’esistenza di una res materiale.

[95] Cfr. A. Bartolini, L’immaterialità dei beni culturali, cit.

[96] G. Resta, Il regime giuridico dell'immagine dei beni, in Il Libro dell'anno del Diritto, Treccani, 2016, disponibile online sul sito della Treccani.

[97] G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, in Politica del diritto, 2009, 4, pag. 575 e 594. Sul tema si esprime anche G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, cit., che ricorda l’insegnamento degli industrialisti secondo cui la privativa è “arma a doppio taglio” che può risolversi in un “freno allo sviluppo generale”.

[98] D. Manacorda, L’immagine del bene culturale pubblico tra lucro e decoro: una questione di libertà, cit. par. 1.

[99] A seguito della liquidazione volontaria della società privata Fratelli Alinari, Idea, l’Archivio è stato di recente acquistato dalla regione Toscana, mediante una fondazione di partecipazione denominata Fondazione Alinari per la fotografia (Faf). Le scelte di gestione adottate dalla Faf non hanno incontrato il sostegno unanime degli operatori del settore culturale, in quanto incentrate sull’adozione di un modello manageriale di licensing oneroso per i riutilizzi commerciali del materiale d’archivio. Ma non solo. Anche il contenuto dell’accordo-quadro stipulato il 16 dicembre 2020 tra la Faf e la Dg Musei ha sollevato diverse perplessità, sia perché prevede la pubblicazione on line delle riproduzioni solo in bassa risoluzione “non superiore a 480 x 480 pixel e con marchiatura digitale visibile e invisibile e con espresso divieto di riproduzione”, sia perché le fotografie del fondo saranno gravate da un doppio regime tariffario connesso ai diritti statali e regionali. Per questa lettura critica si possono consultare gli scritti disponibili online sul sito www.creativecommons.it.

[100] In questo senso A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., pag. 60 ss., secondo il quale la potenziale redditività del mercato delle autorizzazioni all’uso delle riproduzioni è mortificato dalla “sottovalutazione e svalutazione” dell’istituto.

[101] Il diritto europeo riconduce solo implicitamente musei, biblioteche e archivi ai “casi eccezionali” di enti pubblici che sono “obbligati” (anche solo in via di prassi) a “generare proventi per coprire una parte sostanziale dei costi” (considerando n. 36 e 38 e art. 6 della Direttiva 2019/1024/Ue), ma l’impostazione imprenditoriale dei servizi pubblici (anche culturali) trova sostegno nell’impianto ideologico del New public management che ha segnato gli ultimi decenni.

[102] Il riferimento principale resta S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giornale di diritto amministrativo, 1998, 7, pag. 673, secondo il quale la valorizzazione, intesa in senso economico, deve essere concepita “non nel senso che l’attività culturale diventi funzionale alla gestione economica e alla produzione di reddito, bensì nel senso che la produzione di reddito da parte dei beni culturali consente maggiori entrate: e che maggiori entrate possono assicurare migliore tutela e fruizione più ampia dei beni culturali”.

[103] Le limitazioni alla libera circolazione delle riproduzioni dei beni culturali sono state in passato motivate dai “vincoli di bilancio” che “hanno spinto molti Stati a perseguire politiche ‘aggressive’ di valorizzazione del proprio patrimonio mobiliare e immobiliare, spesso sfociate in un’incontrollata privatizzazione di tali cespiti”, G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, cit., pag. 597.

[104] In questo senso, M. Cammelli, Immateriale economicoe profilo pubblico del bene culturale, in L’immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli, A. Bartolini, Torino, Giappichelli, 2018, 102, invita a riflettere sulla “dubbia efficacia” degli strumenti autorizzatori e concessori utilizzati “per assicurare alla finanza pubblica risorse aggiuntive” perché essi risultano “in controtendenza rispetto alle tendenze prevalenti, dalla libertà/gratuità della rete web alla recente vicenda della bigliettazione (e dell’incremento di afflusso con la gratuità festiva) nei musei statali”. Sugli “aspetti contraddittori” della distinzione lucro/non lucro ne “l’era di internet e del digitale” anche D. Manacorda, L’immagine del bene culturale pubblico tra lucro e decoro: una questione di libertà, cit., par. 1.

[105] Come sottolinea A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., pag. 65.

[106] Secondo i dati riportati da A.L. Tarasco, op. ult. cit., 57: “il quadro dei ricavi da concessioni d’uso è decisamente marginale nella serie di voci che compongono i ricavi complessivi derivanti dalle gestioni (pubbliche) degli istituti e dei luoghi della cultura statali”. Dalle concessioni d’uso gli istituti ricavano, infatti, una cifra pari circa al 3% della totalità dei ricavi, il 90% dei quali restando ancora rappresentato dai proventi della bigliettazione.

[107] Corte dei conti, deliberazione 12 ottobre 2020, n. 50, 126.

[108] Uno dei benefici più importanti dell’open access è la democratizzazione della fruizione del patrimonio culturale che si “traduce in un aumento e una diversificazione dei pubblici, sia a livello nazionale sia internazionale”, A. Fontana, Patrimonio digitale: il modello Open Access, disponibile online sul sito www.agenziacult.it.

[109] Tra i vantaggi delle politiche open access si registra anche “la riduzione dei tempi e costi di gestione”, dovuta allo sfoltimento degli oneri burocratici (il cosiddetto red tap nella terminologia americana), come ad esempio le conversazioni via e-mail con il personale. Sul punto ancora A. Fontana, Patrimonio digitale: il modello Open Access, cit.

[110] Per un dettagliato prospetto delle esperienze museali a livello mondiale si rimanda al sondaggio eseguito e sempre aggiornato del progetto OpenGlam (galleries, archives & museums), un movimento creato nel 2010 dalla Open Knowledge Foundation (Okfn) e che consiste in una rete di istituzioni culturali che supportano l’accesso aperto e il riutilizzo libero delle collezioni. A livello globale, già 1203 istituzioni del patrimonio culturale hanno aderito al movimento. Tra queste, le istituzioni che hanno reso disponibile in tutto o in parte le loro raccolte online in open access sono in numero prevalente i musei, che rappresentano il 36% del totale, seguiti dalle biblioteche, con il 27%, mentre le gallerie sono quelle meno favorevoli e raggiungono il 3% delle istituzioni coinvolte. Utile anche la consultazione del progetto francese “Gallica”, che ospita attualmente oltre 6 milioni di opere, ed è l’istituzione nazionale che più contribuisce a “Europeana”.

[111] Il Louvre, ad esempio, subordina l’utilizzo commerciale delle riproduzioni al rilascio di un’autorizzazione da parte del museo o della Réunion Nationale des Musées. Per approfondimenti: www.photo.rmn.fr/Agence/Presentation. Anche il British Museum (www.britishmuseum.org/terms-use/copyright-and-permissions#re-use-of-images) e il Natural History Museum (www.nhm.ac.uk/about-us/website-terms-conditions.html) inglesi distinguono tra usi commerciali e non commerciali, riservandosi alcuni diritti di privativa nei confronti dei primi.

[112] Oltre al famoso caso della politica di piena liberalizzazione adottata dal museo egizio di Torino (che consente il libero utilizzo delle immagini dei propri reperti digitalizzati (circa 3300) sotto licenza Creative Commons 2.0), il quale tuttavia si qualifica come fondazione di diritto privato, un esempio particolarmente virtuoso è il progetto digitale Brera Plus+ lanciato dalla Pinacoteca di Brera, il cui statuto pubblico è indiscutibile. La pinacoteca offre attualmente un catalogo digitale delle opere in alta risoluzione (consentendo anche zoom sui dettagli e sulle pennellate), diversi approfondimenti testuali, visuali e musicali collegati alle opere e anche contenuti multimediali, documentari e reportage speciali, concerti e première che sono collaterali alla Pinacoteca (www.pinacotecabrera.org/collezioni/opere-on-line/).

[113] In questo senso M. Modolo, Verso una democrazia della cultura: libero accesso e libera condivisione dei dati, cit., pagg. 111-134.

[114] Istituita dalla Commissione europea il 1° giugno 2005 nell’ambito dell’iniziativa “i2010” (IP/05/643) e collegata ai programmi “eContentplus programme” e “ICT-Policy Support Programme”, avviati a partire da febbraio 2014.

[115] Tra le principali linee di azione previste dalla Raccomandazione della Commissione europea del 27 ottobre 2011 (2011/711/Ue) appare utile ricordare le seguenti: i) fissare obiettivi quantitativi per la digitalizzazione dei materiali culturali e promuovere al contempo una visione di insieme dei processi di digitalizzazione; ii) incoraggiare il ricorso a partenariati pubblico-privato; iii) avvalersi dei fondi strutturali messi a disposizione dalla stessa Ue; iv) promuovere non solo l’accessibilità ma anche il riutilizzo dei materiali digitalizzati di pubblico dominio, sia a fini commerciali che non commerciali; v) adottare misure volte a limitare l’uso di filigrane intrusive o di altri dispositivi visivi di protezione suscettibili di ridurre l’usabilità dei materiali digitalizzati di pubblico dominio; vi) creare un quadro giuridico di riferimento chiaro e su larga scala, specie per quanto concerne le licenze di uso.

[116] Con decreto del Direttore generale Musei del 19 luglio 2019, n. 892.

[117] Oggi disponibile sul sito dell’AgID nell’aggiornamento 2022-2023.

[118] Dall’indagine si apprende anche che, ad oggi, il 95% dei musei ha un sito web (una crescita superiore al 10% rispetto al 2020) e l’83% un account ufficiale sui social network (rispetto al 76% del 2020).

[119] Cfr. anche con Corte conti, deliberazione n. 50/2020, pag. 86 ss.

[120] Presentato dal Governo alla Commissione europea ad aprile del 2021 e approvato a luglio dello stesso anno con Decisione di esecuzione del Consiglio dell’Unione europea.

[121] L’intero investimento si suddivide in 12 progetti. Lo stanziamento dei fondi è articolato secondo una tempistica ben definita: 11,2 milioni di euro nel 2021, 59,0 milioni di euro nel 2022, 124,3 milioni di euro nel 2023, 146,8 milioni di euro nel 2024, 99,2 milioni di euro nel 2025 e 59,5 milioni di euro nel 2026. Per approfondimenti sul punto si rimanda a P. Clarizia, Piattaforme e strategie digitali per l’accesso al patrimonio culturale, in Lo Stato digitale nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, (a cura di) V. Bontempi, Roma, RomaTrePress, 2022, pag. 209 ss.

[122] La Digital library del ministero della Cultura è posta al centro della governance dei processi di digitalizzazione del patrimonio culturale. È un ufficio ministeriale di livello dirigenziale generale - al cui vertice è posto un dirigente di prima fascia - dotato di autonomia scientifica finanziaria, organizzativa e contabile (artt. 33, co. 2, lett. a), n. 3 e 35 del nuovo Regolamento di organizzazione del Ministero della Cultura contenuto nel d.p.c.m. n. 169/2019). Per una ricostruzione dei profili organizzativi e dei poteri del nuovo ufficio P.S. Maglione, L’“innovazione” nel nuovo regolamento di organizzazione del Mibact (d.p.c.m. n. 169/2019): spunti ricostruttivi sulla Digital Library, in Aedon, 2021, 1.

[123] Gli esiti delle consultazioni sono consultabili online sul sito www.partecipa.gov.it.

[124] Specialmente la sua natura “diffusa”, la sua “capillarità”, l’antica tradizione catalografica espressa e custodita dalle istituzioni, le forti radici storico-culturali e, quindi, la riconoscibilità internazionale dei prodotti creativi.

[125] Gli altri due obiettivi del Piano sono i seguenti. Uno riguarda la “trasformazione digitale” delle amministrazioni preposte alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale, le quali dovranno non solo adottare singole tecnologie con specifiche finalità operative, ma trasformare i propri processi interni per assimilare i cambiamenti tecnologici e sfruttarne tutte le potenzialità (cap. VI, par. 6.2.2, punto 1.2.b). Tale obiettivo è articolato, a livello operativo, dalle “Linee guida per la digitalizzazione del patrimonio culturale” (par. 3.1) e dalle “Linee guida per la classificazione di prodotti e servizi digitali, processi e modelli di gestione” (par. 3.4). L’altro obiettivo è l’abilitazione di ecosistemi digitali interdipendenti. L’attenzione, in questo senso, è posta sulla necessità di sviluppare un progetto condiviso tra tutte le istituzioni pubbliche operanti nel settore della cultura, così come già accaduto nell’ambito del sistema biblioteconomico. Senza rinunciare alla propria autonomia di gestione del patrimonio digitale, le istituzioni dovranno impegnarsi nell’abbattere le barriere informative fra i database di settore e contribuire alla creazione di un ambiente condiviso mettendo a disposizione le proprie risorse specialistiche e il proprio know-how.

[126] Così le Linee guida, n. 3, 5.4., in cui si dispone anche che la risoluzione sia “compresa tra 2500 e 3500 pixel sul lato lungo in maniera tale da risultare idonea a garantire non solo attività di studio e ricerca ma anche livelli minimi di riutilizzo e di diffusione delle immagini stesse per le finalità consentite dalla normativa vigente”.

[127] La licenza può essere definita come un contratto tramite il quale il titolare dei diritti di riproduzione (il licenziante) seleziona preventivamente quali di diritti riservare a sé e quali, eventualmente, cedere in godimento a terzi (i licenziatari).

[128] Per indicazioni tecniche più dettagliate si veda la linea guida 5.4.

[129] Sulla falsa riga dell’etichetta “NoC-OKLR: No Copyright-Other Known Legal Restrictions” che, nell’elenco stilato dal consorzio RightsStatements.org (standard setter di livello internazionale), risulta l’unica compatibile con il diritto nazionale.

[130] Infra par. 9.3 e 10.

[131] Nell’area ad accesso libero si devono, pubblicare, oltre alle riproduzioni e alla documentazione digitalizzata, anche il regolamento e il tariffario dei corrispettivi di riproduzione, i costi per il rimborso delle spese di produzione di nuovi file digitali non presenti nel database; le tipologie di soggetti per le quali sono ammesse riduzioni rispetto al costo dei corrispettivi di riproduzione e dei rimborsi spese, per scopi di studio, ricerca o, comunque, istituzionali.

[132] Sotto un diverso angolo visuale, la registrazione dell’utenza potrebbe rispondere anche ai bisogni dell’amministrazione, in quanto consente una conoscenza più approfondita del pubblico dei fruitori in rete, utile ad indirizzare meglio le politiche di valorizzazione promosse dagli istituti.

[133] Così le Linea guida n. 3, 3.1.8., A8. La registrazione sul sito o nella banca dati dovrà essere semplice e rapida e l’istituto dovrà assicurare la riservatezza dei dati dell’utenza. Nell’area riservata gli utenti potrebbero trovare la modulistica da compilare per le richieste e potrebbero usufruire di un sistema di archiviazione e gestione delle stesse. Le richieste di riuso potrebbero essere inviate direttamente tramite il portale, collegando questo ultimo all’indirizzo email dell’ufficio preposto al rilascio dell’assenso. Il termine per la conclusione del procedimento è di 20 gg, e può essere raddoppiato in caso di richieste complesse, secondo quanto disposto dall’art. 4 della Direttiva 2019/1024/Ue.

[134] Nel senso di ricondurre l’attività di consultazione nell’ambito della fruizione, piuttosto che in quello della valorizzazione: P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, cit.

[135] Così le Linee guida n. 3, 3.1.8., A8.

[136] Come già notava A. Tumicelli, L’immagine del bene culturale, cit., par. 5.

[137] Il principio tecnico su cui si basa questo particolare processo di visualizzazione è quello di scomposizione l’immagine totale in decine, centinaia e in alcuni casi migliaia di singole immagini, ognuna rappresentante una piccola porzione dell’immagine, come se fossero tessere (tiles), di un mosaico che vengono visualizzate sul dispositivo dell’utente in base alla richiesta effettuata dall’utilizzatore remoto. L’immagine complessiva non è quindi disponibile sul server, dove sono invece archiviate, in una struttura logica definita “piramidale”, le tessere del mosaico che compongono l’immagine. Questo tipo di visualizzazione non prevede la possibilità di download dell’immagine, in quanto quella che viene visualizzata è la ricomposizione, effettuata in tempo reale, della porzione dell’immagine richiamata dall’utente.

[138] Linee guida n. 3, 3.2., U5: “Poiché si tratta di un tema emergente, per il quale esistono ad oggi pochi precedenti nel settore del patrimonio culturale pubblico, è stato istituito presso il MiC un gruppo di lavoro in vista dell’emanazione di specifiche linee guida in merito agli NFT e alla cripto-arte. Tali linee guida, una volta mature, saranno inserite tra gli strumenti tecnici del PND”.

[139] D.m. 8 aprile 1994 recante “Tariffario per la determinazione di canoni, corrispettivi e modalità di concessione relative all’uso strumentale e precario dei beni in consegna al Ministero”.

[140] A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., pag. 70 a cui si rimanda anche per l’esemplificazione delle tariffe praticate (spec. pag. 78 ss.).

[141] L’elenco è ripreso da quello contenuto nel Mibact, Piano Triennale per la digitalizzazione e l’innovazione dei musei, 2019, che a sua volta richiama le Linee guida per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico adottate dall’AgID nel 2014.

[142] In materia di tariffazione, le linee guida pongono una serie di principi orientati alla massima liberalizzazione dell’utilizzo delle riproduzioni. Secondo la Digital Library, infatti, “la definizione dei corrispettivi non può avere valore esclusivamente amministrativo-contabile, in quanto [...] complesse procedure autorizzatorie e alti corrispettivi potrebbero [...] avere l’effetto di limitare, scoraggiare, o peggio discriminare, l’accesso al patrimonio culturale”, senza apportare un reale beneficio all’“economicità dell’azione amministrativa: poiché in molti casi il costo amministrativo per la gestione del servizio supera di gran lunga le entrate derivanti dai corrispettivi”. Mentre, “la promozione del riuso delle risorse digitali, semplificando le procedure connesse, rappresenta una componente rilevante su cui fondare la reputazione, la credibilità e l’attrattività in rete di un’istituzione, fattori essenziale per assicurare, sul lungo termine, il reperimento di risorse economiche”.

[143] Digital Library, Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale, 3.2., U2.

[144] Il dibattito si è svolto su molti quotidiani e riviste, a cominciare dall’appello firmato da diverse istituzioni e operatori della cultura, consultabile al sito https://www.aib.it/wp-content/uploads/2023/05/Osservazioni-sul-DM-11-aprile-2023-n.-161.pdf e dalla lettera aperta dell’Associazione italiana per la promozione della scienza aperta. Tra i vari commenti si v.: D. Manacorda, L’avevano detto e l’hanno fatto. «Le immagini si devono pagare!», in Il giornale dell’arte, 4 maggio 2023; P. Liverani, Le foto dei beni culturali a pagamento anche per i ricercatori, in Roars, 9 maggio 2023; M. Brando, Il (caro) prezzo da pagare per le immagini dei beni culturali, in Atlante Treccani, 15 maggio 2023, con replica di A.L. Tarasco e controreplica; A. Beltrami, Il diritto all'immagine nell'arte e i rischi di una censura culturale, su Avvenire, 23 maggio 2023, con replica di A.L. Tarasco e controreplica; Creative Commons, Osservazioni sull’impatto negativo del d.m. 11 aprile 2023, n. 161 sulla ricerca e sulla circolazione delle immagini del patrimonio culturale italiano, 13 giugno 2023.

[145] In questo senso convince l’obiezione sollevata da P. Liverani, Le foto dei beni culturali a pagamento anche per i ricercatori, cit., a proposito della maggiore onerosità prevista per le riproduzioni digitali a colori.

[146] Creative Commons, Osservazioni sull’impatto negativo del d.m. 11 aprile 2023, n. 161 sulla ricerca e sulla circolazione delle immagini del patrimonio culturale italiano. cit.

[147] Come nota anche il giudice contabile nella già citata deliberazione n. 50/2020: “nel complesso mondo digitale delle piattaforme social che vedono circolare migliaia di immagini di beni culturali ogni giorno e dove la condivisione è un elemento imprescindibile, è spesso difficile stabilire il discrimine tra attività lucrative e no, tra libero utilizzo per fini creativi e sfruttamento di un’immagine, tra divulgazione e manipolazione”.

[148] Art. 7, par, 1, della Direttiva 96/9/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 marzo 1996, relativa alla tutela giuridica delle banche di dati. Sul punto G.D. Finocchiaro, La valorizzazione delle opere d’arte on line e in particolare la diffusione on line di fotografie di opere d’arte. Profili giuridici, in Aedon, 2020, 3, a cui si rimanda per una più ampia puntuale disamina della normativa e della giurisprudenza europea (C-203/02 del 9 novembre 2004, British Horseracing Board Ltd and Others v. William Hill Organization Ltd) che ha chiarito la portata delle nozioni di “investimento rilevante”, “estrazione”, “reimpiego” e “parte sostanziale”.

[149] In base all’art. 11 della legge n. 633/1941. Si v. supra nota 4.

[150] Art. 102-bis, cc. 3 e 6 della legge n. 633/1941.

[151] La tutelabilità della banca dati che non soddisfi i requisiti dell’originalità intende, infatti, “salvaguardare i costitutori di banche di dati dall’indebita appropriazione dei risultati dell’investimento finanziario e professionale effettuato per ottenere e raccogliere il contenuto proteggendo la totalità o parti sostanziali della banca di dati da taluni atti commessi dall'utente o da un concorrente”, considerando n. 39 della direttiva 96/9/CE.

[152] Poiché le immagini dei beni culturali che confluiscono nel database sono riproduzioni fedeli, prive di carattere creativo, nella maggior parte dei casi il profilo della tutela dei diritti d’autore del fotografo non sussisterà.

[153] Art. 3, par 1: “Gli Stati membri dispongono un’eccezione ai diritti di cui all’articolo 5, lettera a), e all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 96/9/CE, all’articolo 2 della direttiva 2001/29/CE, e all’articolo 15, paragrafo 1, della presente direttiva per le riproduzioni e le estrazioni effettuate da organismi di ricerca e istituti di tutela del patrimonio culturale ai fini dell’estrazione, per scopi di ricerca scientifica, di testo e di dati da opere o altri materiali cui essi hanno legalmente accesso”.

[154] Art. 1, par. 6.

[155] L’espressione è presa da G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’ in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019, cit.

[156] Su cui A. Moliterni, Pubblico e privato nella disciplina del patrimonio culturale: l’assetto del sistema, i problemi, le sfide, in Patrimonio culturale e soggetti privati. Criticità e prospettive del rapporto pubblico-privato, cit., spec. pag. 60 ss. al quale si rimanda anche per i riferimenti bibliografici.

[157] Logica che fonda e innerva le normative europee e nazionali sul patrimonio informativo pubblico, ma che nel Codice di settore - al di là delle norme che lo stesso dedica alla “circolazione in ambito nazionale e internazionale” (Parte II, Titolo I, Capi IV e V) che qui non rilevano - risulta solo abbozzata nel corpo dell’art. 108 (nella parte in cui disciplina “la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite”).

[158] A. Bartolini, L’immaterialità dei beni culturali, cit., che consegna tale percorso evolutivo ai professori di diritto, ai giudici e al legislatore.

[159] Su questo aspetto si consiglia la consultazione di F. Francioni, A.F. Vrdoljak (a cura di), The Oxford Handbook of International Cultural Heritage Law, Oxford, Oxford University Press, 2020.

[160] L’ubiquità è qui richiamata nel senso proposto da P. Valery, La conquista dell’ubiquità, 1928 prima, e da W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-39), cit., poi. L’ubiquità, dunque, come qualità propria delle riproduzioni che incide sulla “trasmissione” dell’arte nell’età dell’avanzamento della tecnica e della società di massa.

[161] Sul rapporto tra democrazia e verità o, se si preferisce, sulla funzione “aleturgica” del potere di governo si esprime recentemente L. Casini, Lo stato (im)mortale. I pubblici poteri tra globalizzazione ed era digitale, Milano, Mondadori, 2022, pag. 81 ss.

[162] Per lo sviluppo di queste riflessioni: R. Arnheim, Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine, Torino, Einaudi, 1974.

[163] Insiste su questo aspetto G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, cit. sottolineando inoltre il rischio che le privative pubbliche comportano nel senso di tracciare potenzialmente nuove “enclosures”, contraddicendo le premesse e le potenzialità della digitalizzazione e fraintendendo il rapporto che intercorre tra il patrimonio culturale e lo Stato.

[164] Carmelo Bene, Uno contro tutti, in Maurizio Costanzo Show, 28 giugno 1994 ricordava la battaglia condotta insieme a Eduardo de Filippo e Dario Fo per la chiusura del ministero del Turismo e dello Spettacolo, accusato di incentivare la “mediocrità”, accostando il ruolo delle politiche di sostegno alla cultura a quello svolto dalla stampa, che “informa i fatti e non sui fatti”.

[165] Anche perché, sebbene l’autonomia possa esporre i singoli istituti della cultura all’incontenibile pressione esercitata dai giganti oligopolisti dei mercati virtuali, il problema non sarebbe risolto comprimendola, la soluzione collocandosi, piuttosto, sul piano delle scelte politiche e strategiche, come nota P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, cit., par. 1.

[166] P. Carpentieri, op. ult. cit., pag. 266.

[167] Per la campagna del ministero del Turismo: https://www.italia.it/it/open-to-meraviglia. Per la questione del David, si v. invece supra nota 93.

[168] Si pensi all’incidenza della riproducibilità tecnica nel passaggio dalla funzione cultuale a quella espositiva, su cui W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-39), cit., spec. 108.

[169] D. Tartt, The Goldfinch, New York Boston London, Little, Brown Book Group Limited, 2013 (edito in Italia nel 2013 da Rizzoli con il titolo Il Cardellino). Nel romanzo, il percorso del giovane protagonista è intrecciato a doppio filo alle vicissitudini di un dipinto fiammingo, salvato da un antico incendio, conservato/esposto in un’istituzione, molto lontana dal suo luogo di origine, e due volte rubato, la prima “senza scopo di lucro”, la seconda per alimentare diversi giri d’affari del mercato nero internazionale. La trama si intesse sul telaio della circolazione dell’opera d’arte. Ad ogni passaggio di casa, di luogo, di mano, l’opera d’arte circola, ma allo stesso tempo si dematerializza. Sottratto al Metropolitan Museum da un bambino sull’onda del “bing bang”, del “caso fortuito” che sconvolge la sua giovanissima vita, il dipinto del Cardellino sarà nascosto alla vista e al godimento di tutti - compreso Theodore, il protagonista, che da un certo punto in poi, schiacciato dal senso di colpa, non riuscirà più a tirarlo fuori da sotto il letto - fino a quando, sostituito da una (altra) immagine, non sapremo più dire dove si trova. Al posto del dipinto potremo, a questo punto, seguire solo il denaro che (illecitamente) fa a sua volta circolare e che “non rappresenta altro che l’energia delle cose [...] la traccia che la fortuna si lascia dietro il suo passaggio”. Il vero motore di ogni rivolgimento del plot è costituito, però, dall’esperienza estetica. È il piacere del “qui e ora” di quella visita al museo con cui il romanzo si apre, “la delizia del rapimento”, il momento in cui si impara a partecipare del privilegio che consiste nel saper “amare ciò che la Morte non tocca”. Quel privilegio che i costituenti intesero “democratizzare” attribuendo alla Repubblica il compito promozionale di contribuire allo sviluppo pluralistico della cultura (artt. 9 e 32 Cost.). L’educazione al bello e l’esercizio del gusto sono motivi carsici del romanzo: a ogni emersione l’inclinazione alla cura, intesa come conservazione, del patrimonio culturale viene problematizzata e matura. Se l’amico/mentore gli insegnerà che la “[p]rima regola del restauro” consiste nel “[m]ai fare ciò che non puoi disfare”, Theodore imparerà anche che, fuori da un laboratorio, l’esperienza è, inevitabilmente, molto più contraddittoria: quanto labili sono i confini tra godimento e possesso, proprietà e furto, riproduzione falsificazione e riuso?

[170] Oltre la finzione letteraria, la convivenza tra tecniche e pratiche rimanda al passaggio dal concetto di “conservazione” a quello di “salvaguardia” del patrimonio culturale, messo in luce da F.E. Grisostolo, La salvaguardia del patrimonio culturale immateriale: recenti tendenze in area europea, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2018, 3, pag. 723 ss. spec. pag. 725 ss. Nel contesto internazionale, infatti, dalla rottura degli angusti stampi proprietari propri della tradizione euro-nordamericana - all’interno dei quali i beni culturali erano stati modellati quasi interamente sul loro valore di scambio (cultural property) - è emersa finalmente la dimensione soggettiva e relazionale del patrimonio culturale (cultural heritage). Riconoscendo il fatto genealogico che lega popolazioni territorio e ambiente, è stato possibile riconoscere che nelle dinamiche di trasmissione intergenerazionale la “custodianship” riguarda anche le diverse forme d’uso di un patrimonio culturale che viene “costantemente ricreato dalla comunità” (Convenzione di Parigi del 2003).

 

 

 



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