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Sulla riproduzione dei beni culturali

Il d.m. 21 marzo 2024, n. 108 del ministero della Cultura: un passo avanti, un passo indietro

di Girolamo Calculli [*]

Sommario: 1. La concessione d’uso dei beni culturali: un ponte tra la demanialità e la mise en valeur del bene culturale. - 2. Il dato normativo: gli artt. 106, 107 e 108 del Codice dei beni culturali. La concessione d’uso. - 2.1. La riproduzione: seconda categoria autonoma di concessione. - 2.2. Cenni sulla recente giurisprudenza in tema di riproduzioni: applicazione transfrontaliera del Codice e autonomia del diritto all’immagine. - 2.3. La problematica determinazione del canone concessorio e del corrispettivo. - 3. Il decreto ministeriale 11 aprile 2023, n. 161 del ministero della Cultura. - 3.1. Le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”. - 4. Il nuovo decreto ministeriale 21 marzo 2024, n. 108 del ministero della Cultura. - 4.1. Sezione A - Riproduzione di beni culturali - 4.2. Sezione B - Uso degli spazi - 4.3. Sezione C - Ipotesi particolari - 5. Ipotesi di bilancio e prospettive de jure condendo. - 6. Conclusioni: nuove modalità di tutela e valorizzazione del materiale e dell’immateriale culturale.

Ministerial Decree No. 108 of 21 March 2024 of the Ministry of Culture: one step forward, one step back
The article analyzes the Italian law regarding the concession and the reproduction of public cultural heritage. Moving from the traditional theory of cultural goods, the author highlights the possibility of reconciling the economic valorization of the Italian cultural heritage with the traditional functions of protection and “classic” valorization of cultural assets. The search for a balancing between these functions has seen improvements in the Decree of Italian Ministry of Culture 11th April 2023, n. 161/2023, which has been significantly emended by the recent Decree of Italian Ministry of 21st March 2024, n. 108, thoroughly analyzed in the present work. The last Decree moved an important step forward the liberalization (at least, for the use intended for cultural reasons) of the images of cultural goods entrusted to state cultural institutes, but perhaps it made a mistake in removing the previous determination of minimum amounts of fees for the concession of use. The article analyzes both the advantages and the downsides of the recent ministerial legislation, proposing perspective corrective measures for the future.

Keywords: concession of use of Italian cultural heritage; reproduction of images of cultural goods; economic valorization; concession fees.

1. La concessione d’uso dei beni culturali: un ponte tra la demanialità e la mise en valeur del bene culturale

All’interno di una gerarchia di interessi, riconoscibile nel quadro normativo di riferimento, convivono senza antinomia ma in una complessa relazione dinamica la tutela che deve assicurarsi al bene culturale (protezione, fruizione pubblica) e il valore della redditività economica.

Esclusa ogni tolleranza per impieghi anomali dei beni culturali, anche l’interesse finanziario risponde ad interesse generale: l’adeguata remuneratività è a sua volta garanzia delle risorse destinate alla conservazione del patrimonio e alla sua trasmissione alle generazioni future. La messa in valore del bene culturale, oggetto del presente scritto, impegna un lungo processo e il decreto del ministero della Cultura 21 marzo 2024, n. 108, recante modifiche al precedente decreto 11 aprile 2023, n. 161 dello stesso ministero, raffina gli strumenti di produzione della redditività. Se il d.m. n. 161/2023 introduceva un tariffario che assicurava uniformità al patrimonio culturale in consegna al ministero (e di fatto utile stimolo per ogni ente pubblico non statale concedente), ponendo un primo passo per la progressiva valorizzazione del bene culturale-immagine, la recente modifica si occupa di meglio bilanciare il pur legittimo obiettivo di redditività con una maggiore liberalizzazione delle immagini del nostro patrimonio.

Allo stesso tempo la nuova fonte del 2024 considerevolmente (e forse eccessivamente) semplifica la disciplina in tema di concessione d’uso, laddove elimina la pregressa determinazione accentrata dei canoni e ne ricolloca la misura nuovamente tra i poteri-doveri dei singoli luoghi e istituti della cultura statali.

Tradizionale concessione d’uso del bene-spazio e riproduzione del bene-immagine convivono nella recente decretazione, sia del 2023 quanto del 2024, in una impostazione dualistica, riconoscibile anche nell’architettura redazionale dei decreti. Le recenti fonti cercano di offrire virtuose soluzioni, ma sollevano anche interrogativi.

Per introdurre alla successiva analisi contestualizzata delle innovazioni e degli spunti critici offerti dai recenti atti ministeriali, si antepongono brevi riferimenti agli istituti presupposti che confluiscono nella regolamentazione del decreto, alle loro definizioni e classificazioni nella letteratura pubblicistica, alla disciplina presente nelle fonti primarie [1] e anche ai contributi che rivengono da prassi sviluppate e da problematiche sollevate nel recente passato, solo raramente indagate dalla giurisprudenza.

L’analisi non può che prendere avvio dall’istituto della concessione, di radici antichissime, ma che deve alla sua flessibilità e capacità di adattamento alla funzione la persistente attualità.

Con la concessione si realizza una scissione tra la titolarità e il godimento del bene pubblico. La pubblicità caratterizza “un insieme assai eterogeneo di beni tradizionalmente appartenenti alla pubblica amministrazione e utilizzati direttamente dalla collettività oppure dai soggetti pubblici e privati titolari di funzioni e di servizi pubblici, quali strumenti essenziali per lo svolgimento di questi” [2]. I beni pubblici hanno quindi una funzione, una destinazione d’uso, volta al soddisfacimento di interessi generali della comunità.

Nel settore dei beni culturali in esame, elemento distintivo riposa nel valore culturale annesso al bene. Il bene culturale è portatore “di un valore tipico”, ossia “l’essere testimonianza materiale avente valore di civiltà (...) appunto quello che può ora dirsi il valore culturale” [3]. Dal preminente valore culturale, sempre nella classica ricostruzione gianniniana, derivano le fondamentali caratteristiche: la pubblicità e la immaterialità.

Il bene culturale è bene inerentemente pubblico, non in virtù dell’identità del proprietario, ma in virtù del suo essere bene di fruizione. Il compito principale dell’amministrazione è infatti, in uno al garantire la tradizionale funzione di tutela, di protezione, rispettarne la “fruibilità”, ossia “l’obbligo di permettere la fruizione” [4]. La destinazione del bene culturale a finalità di promozione di sviluppo del singolo e della società giustifica la sua appartenenza al patrimonio pubblico, indipendentemente dalla materiale disponibilità del bene da parte di soggetti privati.

Seconda fondamentale caratteristica è rappresentata dalla immaterialità: il bene culturale ha come supporto una res, nella quale tuttavia non si identifica o, meglio, non si riduce.

Massimo Severo Giannini ha dimostrato come i “beni culturali siano sempre immateriali e siano di molte specie, ma come gli ordinamenti positivi si occupino solo di alcune, di quelle cioè per le quali si pongono ragioni pratiche di tutela pubblica (...) È chiaro che il giorno in cui si ponessero, per volgersi di eventi delle nostre società, problemi di tutela pubblica di altre specie di beni culturali oltre quelle per le quali già vi è una normazione apposita, occorrerebbe provvedere”. A distanza di quarant’anni, attenta dottrina ha notato che “il giorno a cui Giannini si riferiva è arrivato” [5].

Nuove sfide obbligano il giurista a riconsiderare l’immaterialità del bene culturale, produttiva di vantaggi (l’espansione della fruizione oltre i luoghi di cultura fisici, la remuneratività), se ben disciplinata dal legislatore, quanto di potenziali problemi (quale, tra tutti, l’alterabilità diffusa dell’immagine identitaria del valore culturale) se ignorata [6]. Fanno irruzione nuove tecnologie, la possibilità di riprodurre opere in maniera pressoché identica all’originale, l’evoluzione delle modalità di fruizione, la maggiore domanda di uso commerciale del valore incorporato nei beni culturali. Si è in presenza di “altra” fenomenologia, ora oggetto di maggiore attenzione (anche nel recente d.m. n. 108/2024 che riconosce al bene culturale/immagine pari dignità e autonoma considerazione anche classificatoria), di interesse giuridico e di risvolti concreti.

È personale opinione che tra i vantaggi dell’immaterialità possa annoverarsi lo sviluppo sostenibile della remuneratività. Già convivono fruizione in presenza e a distanza del bene culturale: la prima con la mobilità fisica dell’utente nello spazio, la seconda con la diffusione del bene/immagine in un ambito anche di maggiori dimensioni spazio-temporali. I margini di potenziale evoluzione sono evidenti, ove si consideri l’anacronistica assorbente e quasi esclusiva consistenza dei ricavi da bigliettazione presso i diversi istituti e luoghi di cultura statali (con incidenza acclarata pari al 90% nel 2017 [7]) e la si confronti con le relative scarne entrate da concessione d’uso di spazi e da riproduzione di immagini.

Esplorate la pubblicità e immaterialità, raramente è stato posto l'accento sulla “insopprimibile economicità” [8] del bene culturale. Per questa non si intende, ovviamente, il valore della res (che valore ha la carta ultracentenaria su cui sono state scritte le Rime del Petrarca?), ma il valore economico insito nella componente immateriale del bene. L’immaterialità del bene/valore, al tempo stesso, non deve convertirsi in disinteresse quanto ai concreti problemi e costi della gestione del bene/res. Da un punto di vista sistematico, il patrimonio culturale pubblico è stato “spiritualizzato” [9]: conferendogli caratteristiche quasi extracorporee, ci si è dimenticati che tutelare (e valorizzare) un patrimonio culturale tanto vasto come quello italiano comporta costi enormi.

Nel quadro compatibile delle funzioni amministrative classiche inerenti al patrimonio culturale, non è senza significato l’emersione della “valorizzazione economica” del bene, da tenere ben distinta dalla “classica” funzione di valorizzazione, definita dall’art. 6 del Codice.

Valorizzazione classica e valorizzazione economica hanno certamente in comune l’osservanza dell’insopprimibile valore della tutela del bene culturale. Il dato normativo è fermo nel creare una gerarchia tra tutela e valorizzazione, limitando la seconda con l’affermazione dell’inderogabilità delle norme sulla tutela ex art. 1, comma 6 [10].

Se già la valorizzazione classica deve essere “attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze” (art. 6, comma 2 del Codice), ancor più la gemella “economica” deve perseguirsi anteponendo ulteriori cautele. In termini, anche nel silenzio del Codice, si riconosce alla recente decretazione una sensibilità alla valutazione di compatibilità della destinazione d’uso del bene culturale anche per la concessione precaria e temporanea.

Non è improbabile che una esasperata valorizzazione economica possa degenerare in pregiudizio quanto al valore della promozione della conoscenza dei beni culturali, trasformandosi in barriera - anche discriminatoria e non democratica - alla loro accessibilità.

Una lettura in termini di antagonismo dei valori è superabile ove si impieghino nell’applicazione accorte garanzie, quali anche il recente d.m. 108/2024 cerca di rafforzare.

In una prospettiva di compatibilità, si è realisticamente prospettata giusta dimensione della valorizzazione economica del bene, ossia “non nel senso che l’attività culturale diventi funzionale alla gestione economica e alla produzione di reddito, bensì nel senso che la produzione di reddito da parte dei beni culturali consente maggiori entrate; e che maggiori entrate possono assicurare miglior tutela e fruizione più ampia dei beni culturali” [11]. Analisi qui condivisa, aliena dall’utopia di extraprofitti di esasperato stampo aziendalistico (per beni e valori dei quali va comunque assicurata al pubblico la sostenibile fruizione, per l’assolvimento di compiti rappresentativi di valori costituzionali), e con realismo ricondotta a fonte di reinvestimento. Inoltre, spesso iniziative di valorizzazione “economica” non solo sono compatibili, ma anche perseguono la funzione di valorizzazione “classica”: si pensi a un concerto in un museo, che assicuri - oltre all’utilità di un canone - anche la maggiore attrattività di un bene, spesso in orari in cui altrimenti questo non sarebbe visitabile.

Strategie tese alla redditività possono diversificarsi. Il guadagno si può ottenere sia attraverso un risparmio di spesa (ad esempio, una migliore organizzazione attraverso l’esternalizzazione di servizi aggiuntivi di un museo [12]) sia grazie a una maggiore entrata (ottenuta con l’apertura al mercato e con l’utilizzo di sponsorizzazioni e/o concessioni [13]).

Alcuni di questi strumenti possono limitare la fruizione pubblica, in discordanza con la valorizzazione stricto sensu (seppur per periodi di tempo limitati) o ingenerare un rischio per la tutela del bene. Per le dette ragioni, queste opzioni vanno ben ponderate nell’ambito della discrezionalità amministrativa, quale può assicurare bilanciamento di valori e non risultare aprioristicamente chiusa a tali possibilità. Come attenta dottrina ha fatto notare, la “valorizzazione, anche economica, del patrimonio culturale è un'attività che si affianca alla tutela e non può essere vista in maniera riduttiva o peggio negativa rispetto ad essa” [14].

Un corretto incremento della valorizzazione economica coinvolge anche l’assetto organizzativo della pubblica amministrazione.

Il recente d.m. 13 gennaio 2023, n. 8 del ministero della Cultura enuncia in termini di obiettivi generali (priorità “politiche”) la remuneratività del patrimonio culturale. Successive circolari del Direttore Generale d’ordine del ministro (ad esempio in data 17 febbraio 2023, n. 35; in data 18 luglio 2023, n. 158) diffondono l’atto di indirizzo come elemento informativo necessario nei procedimenti di incarichi di funzione dirigenziale, confermando che il buon esito nel raggiungimento dell’obiettivo dell’adeguata remuneratività esige un rapporto sinergico tra politica e amministrazione.

Risulta necessario coordinare l’obiettivo con la condizione giuridica dei beni culturali, soprattutto di quanti di essi appartenenti alla categoria demaniale.

I beni del demanio, ai sensi dell’art. 823 del codice civile, sono “inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”. La regola della inalienabilità, ove costretta anche in riserva esclusivamente pubblica dell’impiego dei beni, potrebbe degenerare in gestioni diseconomiche. L’equilibrio riposa nella conciliazione dell’inalienabilità del demanio culturale con una gestione produttiva e al tempo stesso rispettosa delle caratteristiche del bene culturale.

Il Codice non è sordo a tali necessità e prevede già strumenti di valorizzazione dell’immateriale economico: l’organizzazione di mostre (art. 48), la gestione di servizi per il pubblico (art. 117), il contratto di sponsorizzazione (art. 120). Il presente scritto si prefigge di evidenziare le potenzialità di redditività, del patrimonio culturale, con l’impiego di istituti previsti dal Codice, normati dagli artt. 106 e 107, con avvio dell’analisi dalla concessione d’uso ex art. 106. Si ritiene infatti che la concessione sia lo strumento maggiormente in grado sia di conservare la titolarità del bene culturale in capo all’ente pubblico sia di favorire la redditività del patrimonio culturale, attribuendo il godimento del bene a un soggetto terzo e qui si espongono le ragioni del giudizio.

La concessione rappresenta strumento che, a differenza di altri istituti, garantisce stabilità nella relazione. È istituto di ampio ambito oggettivo, con estensione a beni (demaniali, indisponibili) che non tollerano relazioni paritetiche e istituti di esclusiva conformazione contrattuale.

È un contenitore in grado di conciliare, nella gestione, fini protezionistici, di tutela, di valorizzazione. I poteri pubblicistici del soggetto concedente (di più o meno intensa o attenuata autoritatività) assicurano maggiori potenzialità di controllo e di sollecito intervento in ipotesi di abusi del concessionario. I caratteri di atipicità dell’istituto concessorio possono facilitare l’ingresso di previsioni finalizzate anche alla tutela dell’utente finale del bene culturale, nei temi (delicati) della redditività e della sostenibilità di accesso del pubblico al bene. È quindi un istituto attento anche alla dimensione trilaterale degli interessi coinvolti. Una cornice di grande attualità, complessa, e anche non insensibile alle regole comunitarie di formazione della concessione e di selezione del partner.

Il tema ha acquistato rinnovato interesse in seguito all’emanazione del d.m. 161/2023, giunto a quasi trent’anni dal precedente (desueto) tariffario. Detto interesse è vivificato dal sopraggiunto recente d.m. 108/2024, che ha - a sua volta - modificato in maniera significativa la disciplina del d.m. 161/2023, di fatto sostituendola pressoché integralmente.

Alla luce di tali modifiche, seguono sintetici riferimenti agli istituti della concessione d’uso e della riproduzione dei beni culturali: la dignità e attualità di entrambi gli istituti è riconoscibile - in prospettiva economica e giuridica - nella recentissima opera di decretazione, nella quale sono riconoscibili chiari segni di una evoluzione dicotomica dei detti strumenti.

2. Il dato normativo: gli artt. 106, 107 e 108 del Codice dei beni culturali. La concessione d’uso

Ferme la tutela e la fruizione pubblica, il Codice prevede che alcuni soggetti siano ammessi uti singuli all’uso individuale dei beni culturali, per mezzo di specifici provvedimenti concessori. La disciplina codicistica in tema di concessione d'uso è posta dagli artt. 106, significativamente rubricato “Uso individuale di beni culturali”, 107, “Uso strumentale e precario e riproduzione di beni culturali”, 108, “Canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione”.

Quanto ad ambito oggettivo di applicazione, le fattispecie previste dagli artt. 106 e 107 si possono riferire a tutto il patrimonio culturale italiano, mobile e immobile. Si pensi alla concessione di spazi per eventi privati, come per le riprese di un film, per lo svolgimento di un concerto o finanche per ricevimenti privati. La differenza fondamentale fra le due fattispecie normate dagli artt. 106 e 107 si può riconoscere nella natura strumentale e precaria dell’uso disposto dall’art. 107, quanto comporta una limitazione temporale della durata della concessione stessa.

Sempre con riferimento all’oggetto, l’art. 107 non si limita a concedere spazi, ma disciplina anche la “riproduzione” dei beni culturali. Tale riproduzione è - normalmente, anche se vi sono significative eccezioni - vietata, ma può essere permessa dietro corresponsione di un corrispettivo. Il modello utilizzato è lo stesso della concessione d’uso per gli spazi, ma le peculiarità di tale istituto lo rendono molto differente: la riproduzione interessa e tutela l’“immagine” del bene culturale in una sua proiezione incorporea che si stacca dalla res per fini che, al contrario della concessione del bene-spazio, possono essere perseguiti senza la materiale disposizione del bene stesso.

Quanto all’ambito soggettivo di applicazione, l’art. 106, comma 1 predetermina i soggetti del rapporto: da un lato, vi sono “lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali”, che hanno in consegna i beni e assumono il ruolo di enti concedenti, dall’altro i “singoli richiedenti”, ossia i concessionari, soggetti fruitori che hanno interesse a ottenerne l’uso.

Con il d.lg. 24 marzo 2006, n. 156 si è parzialmente innovato l’ambito soggettivo dell’art. 106, sostituendo al “ministero” la parola “Stato”, allo scopo di “ricomprendere nella disciplina delle concessioni d'uso (...) anche quelle concernenti i beni culturali che si trovino nella disponibilità di amministrazioni statali diverse da quella dei beni e attività culturali” [15]. Non era prima possibile per tali amministrazioni statali concedere in uso i beni in propria disponibilità [16]. L’estensione soggettiva è accompagnata da due cautele: per i beni non in affidamento al ministero la concessione d’uso ex art. 106 è subordinata alla preventiva autorizzazione ministeriale e il ministero deve controllare che il conferimento garantisca conservazione e fruizione pubblica del bene e la compatibilità della destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del bene. Inoltre, il ministero può inserire nell’autorizzazione prescrizioni vincolanti “per la migliore conservazione del bene” (art. 106, comma 2-bis).

Quanto alla estensione nel tempo, nella laconicità del dato normativo, non vi è riferimento alla durata del rapporto concessorio. Lo strumento concessorio amplia la sfera giuridica del soggetto concessionario. L’estensione temporale - soprattutto nelle durevoli concessioni d’uso ex art. 106 - può comportare distorsioni del mercato e l’ordinamento tende a porre condizioni puntuali anche quanto a proroghe e rinnovi.

All’art. 107 è coessenziale una durata ben differente. La fattispecie disciplinata dall’art. 107 - con l’“uso strumentale e precario” - non prevede neanche l’obbligo di garantire nel suo breve svolgersi la fruizione pubblica e comporta una compressione anche totale di questa.

È tuttavia prevista per durate di tempo molto brevi, come per riprese cinematografiche o eventi privati. A contrario si deve dedurre che l’art. 106 disciplini rapporti concessori di più consistente durata. L’Ufficio legislativo del Mibact con la nota n. 13014 del 16 giugno 2009 ha circoscritto l’applicazione dell’art. 106 ad ipotesi in cui la concessione in uso richiesta “non rappresenti una cesura temporale significativa nella persistenza della titolarità dei poteri dominicali in capo all’amministrazione consegnataria”. Per fattispecie provvedimentali di lunga durata, la suddetta nota del Mibact prospetta quale necessaria l’applicazione dell’art. 57-bis del Codice.

Ulteriore elemento di interesse trae origine dal vincolo, posto espressamente dal precetto di cui all’art. 106, della compatibilità tra l’uso propostosi dal richiedente e la vocazione culturale del bene a concedersi. I beni possono essere concessi solamente per “finalità compatibili con la loro destinazione culturale” (art. 106, comma 1). La c.d. “clausola di compatibilità” ha ruolo rilevante e la valutazione sfavorevole comporta una risposta negativa alla richiesta di uso.

Difetta predeterminazione delle “finalità compatibili” e la discrezionalità della pubblica amministrazione è estesa. In realtà, limiti alla discrezionalità hanno esistenza e vanno ricercati tanto in previsioni normative quanto nella prassi, ma al di fuori dell’art. 106.

Infatti, anche l’art. 20 del Codice, rubricato “Interventi vietati”, impone che i beni culturali non vengano “adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”, riprendendo (e ampliando) l’articolato normativo di cui all’art. 106. Guardando ad altre disposizioni di tutela dell’uso dei beni culturali, l’art. 518-duodecies del Codice penale sanziona, inter alia, chi “destina beni culturali a un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico ovvero pregiudizievole per la loro conservazione o integrità”.

La norma, pur estranea al diritto amministrativo, è utile al giurista al fine di poter meglio comprendere in cosa si possa ravvisare l’“uso incompatibile del bene”: nella casistica giudiziaria, è stato riconosciuto come incompatibile l’uso “che ne impedisce o limita la fruizione, oppure ne modifica l’immagine, o che comunque si pone in contrasto rispetto ai valori culturali espressi dallo stesso (ad esempio assumendo il bene in modo distorto e deviante rispetto al suo pregio, come simbolo di tipo commerciale)” [17].

L’articolato normativo dell’art. 107 elide la clausola di compatibilità. Arrestandosi alla lettera della norma, l’amministrazione concedente non sarebbe vincolata a valutare l’uso propostosi dal richiedente e la sua compatibilità con la destinazione culturale del bene culturale. Addirittura, nulla essendo previsto sul punto, non vi è alcuna garanzia che venga mantenuta la fruizione pubblica del bene, potendo questa essere compressa anche in maniera assoluta per la durata del (sia pur breve) uso individuale.

Il dato testuale va però inserito all’interno di un sistema normativo più ampio e la formulazione dell’art. 20 non pare legittimare discriminazione. Sarebbe illogico sottrarre, quale unica eccezione, l’uso di cui all’art. 107 a un coessenziale profilo di tutela - il rispetto del carattere storico o artistico del bene - che riceve protezione finanche penale. Per questo motivo, deve ritenersi presente anche nel modulo di cui all’art. 107, seppur non esplicitata nella sua formulazione, l’occorrenza della clausola di compatibilità [18].

2.1. La riproduzione: seconda categoria autonoma di concessione

Nella riproduzione vive una ulteriore condizione di immaterialità del bene culturale, che trova nuova forma in quella che è sostanzialmente nuova copia, nuova sintesi del valore insito nel bene originario [19]. A diverse forme e condizioni corrisponde differente regime normativo: mentre nella concessione d’uso-spazio, l’utilizzo individuale da parte di un soggetto richiedente comporta - tendenzialmente - l’esclusione di qualunque altro soggetto, la riproduzione del bene culturale-immagine “amplia” la fruizione pubblica.

Il bene culturale, una volta riprodotto, si dematerializza con crescita della capacità di circolazione e diffusione. Il core della tematica delle riproduzioni risiede in questo ineluttabile dualismo: esse rappresentano tanto possibilità di maggiore fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale italiano, quanto di lesione dei suoi beni. In una prospettiva economica oltre che giuridica, il pregiudizio al patrimonio derivante dalla riproduzione si può realizzare anche attraverso un utilizzo commerciale dell’immagine del bene a titolo gratuito. Anche l’abuso della gratuità è un disvalore: occorre ridurre i casi di concessione a titolo gratuito degli spazi e delle immagini relative ai beni culturali” [20].

Quanto all’oggetto dell’art. 107, in difetto di sua esplicitazione all’interno del Codice, è condivisibile la definizione di riproduzione presente nella legge sul diritto di autore come “moltiplicazione in copie diretta o indiretta, temporanea o permanente, in tutto o in parte dell'opera, in qualunque modo o forma” [21].

È esclusa dall’ambito di applicazione della normativa l’attività creatrice di carattere intellettuale che operi al fine di realizzare un lavoro sostanzialmente diverso e distinto dal bene riprodotto. La distinzione tra il bene culturale e il risultato di attività creatrice è quanto mai labile e non suscettibile di definizioni precostituite, dovendo il giudice caso per caso tracciare il confine. Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto attività creatrice l’attività di elaborazione di un cranio tratto dal modello inserito nel calcare della grotta [22].

In presenza di mera attività documentaria del bene culturale (una fotografia ad alta risoluzione di un ritratto di donna ove l’autore escluda qualunque altro elemento dalla composizione) si è all’interno del campo applicativo dell’art. 107: ne consegue che l’ente concedente ha diritto all’esazione del corrispettivo. In caso contrario, si è in presenza di una rielaborazione creativa [23] (si pensi a riproduzione fotografica dell’omonimo ritratto nel quale l’autore incolla, con collage, due baffi sul sorriso della dama), soggetta a diritto d’autore: come tale, il corrispettivo dovuto sarà versato in favore dell’autore-fotografo e non all’amministrazione.

In linea generale, per il Codice il regime della riproduzione è costruito sotto lo schema di “divieto salvo concessione/autorizzazione” (argomentando da art. 107, comma 2, primo periodo), mentre sono libere le attività di cui all’art. 108, comma 3-bis, nn. 1 e 2 se svolte senza scopo di lucro per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale.

La ricorrenza di finalità non commerciale risulta fondamentale ai fini dell’inquadramento della riproduzione nell’ambito delle fattispecie disciplinate dall’art. 108, commi 3 e 3-bis. L’impegno del privato al fine di ottenere il provvedimento autorizzatorio in questi due casi appare diversificato: per le riproduzioni ex art. 108, comma 3 (c.d. riproduzioni “gratuite”) il privato deve richiedere il rilascio della autorizzazione all’uso dell’immagine, per la quale non è però dovuto alcun corrispettivo (salvo il rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente). Nel caso in cui si rientri nelle riproduzioni ex art. 108, comma 3-bis non solo non è dovuto alcun corrispettivo, ma il privato può procedere alla riproduzione senza alcuna autorizzazione [24].

Al contrario, nel caso in cui la riproduzione sia richiesta per finalità commerciali il soggetto richiedente è tenuto sia alla richiesta di riproduzione dell’immagine sia al versamento del corrispettivo [25]. Si ampliano inoltre i confini della discrezionalità della pubblica amministrazione: questa è chiamata a tutelare il decoro dell’immagine da un utilizzo commerciale che ne possa snaturare il significato, recando un vulnus al suo valore immateriale. Tale valutazione di compatibilità è talmente importante che la giurisprudenza ritiene che “non è sufficiente per la legittima riproduzione del bene culturale il pagamento (ancorché ex post) di un corrispettivo, poiché elemento imprescindibile dell’utilizzo lecito dell’immagine è il consenso reso dall’Amministrazione, all’esito della valutazione discrezionale circa la compatibilità dell’uso richiesto (...) con la destinazione culturale ed il carattere storico-artistico del bene” [26].

La giurisprudenza ha peraltro posto, in tempi recenti, numerosi punti di riflessione sulla riproduzione dei beni culturali, cui è necessario dedicare separata analisi.

2.2. Cenni sulla recente giurisprudenza in tema di riproduzioni: applicazione transfrontaliera del Codice e autonomia del diritto all’immagine

La disciplina posta dall’art. 107 attraversa ora un periodo di nuovi studi anche in virtù dei recenti contenziosi civili sulla tutela dell’immagine del bene culturale da uso commerciale illecito.

Fino a pochi anni fa, sia per la minore diffusione di tecnologie poi affermatesi sia per un radicato disinteresse al profilo reddituale del patrimonio culturale italiano, non erano presenti pronunce. Il rinnovato interesse al tema della riproduzione, il “riscatto dell’immateriale” possono costituire occasione di implementazione del controllo nell’attività amministrativa e del sindacato del giudice nel contenzioso.

In via di sintesi, l'evoluzione interpretativa intervenuta per contributi giurisprudenziali offre diversi temi di interesse, tanto processuali quanto sostanziali.

Quanto a profili processuali, sembra ormai pacifica l’instaurazione della controversia presso il foro del luogo in cui si è verificato il danno, id est la sede dell’amministrazione consegnataria del bene e quindi, in ultima analisi, nel luogo in cui si ritrova il bene [27]. La legittimazione attiva e passiva in giudizio sorge in capo al ministero della Cultura [28].

Più problematica risulta la questione della giurisdizione in controversie nelle quali operatori internazionali rivestano il ruolo di parte resistente. La società tedesca Ravensburger, che ha utilizzato l'immagine dell'“Uomo Vitruviano” [29] al fine di riprodurre oggetti di merchandising, non ha né richiesto l'autorizzazione né versato il dovuto corrispettivo. Il ministero ha adito l’autorità giudiziaria e quest’ultima ha sottolineato che il “Codice italiano rappresenta un unicum a livello europeo” perché con lo stesso “il Legislatore ha inteso tutelare al meglio un interesse ritenuto essenziale per lo Stato italiano”, Stato “famoso in tutto il mondo soprattutto per il suo immenso patrimonio storico-artistico e culturale, valore costituzionale riconosciuto all’art. 9 Cost”.

Per questo motivo, il rispetto delle disposizioni codicistiche - ivi compreso l’art. 108, “avente dunque carattere imperativo similmente alle altre disposizioni” - diviene cruciale per la salvaguardia dell’interesse pubblico, “tanto sociale quanto economico” [30].

La società convenuta ha proposto ricorso innanzi al Tribunale di Stoccarda e quest’ultimo, in tempi molto recenti, ha negato la doverosità dell’autorizzazione e del corrispettivo: il principio di territorialità osta, secondo la ricostruzione dei giudici tedeschi, all'applicazione di una legge italiana al di fuori dei confini del nostro Stato. Il ministero ha già affermato di voler ricorrere contro questa decisione, ma il risultato della quaestio - di rilevanti conseguenze pratiche - è per ora imprevedibile.

La principale novità sostanziale riguarda invece l’affermazione di un autonomo diritto all'immagine del bene culturale: “l’ordinamento ha configurato in relazione al bene culturale un pieno ed effettivo diritto all’immagine”. Del resto, nella prassi giuridica [31], è stata già pacificamente affermata - e per beni privati non qualificati da particolare rilievo per la collettività (seppur noti e ammirati dal punto di vista commerciale) - l’esistenza di un’autonomia del “diritto all’immagine”.

Può ritenersi lo stesso diritto anche acquisito con riferimento al bene culturale, all’interno di un “processo di emersione delle res materiali quali espressione di profili giuridici immateriali autonomamente rilevanti e suscettibili di tutela” [32].

La giurisprudenza si è in tempi recenti spinta oltre, chiarendo che il bene culturale “al pari del diritto all’immagine della persona, positivizzato all’art. 10 c.c”. ha un proprio diritto all’immagine, che ha fondamento normativo in “espressa previsione legislativa negli artt. 107 e 108 del d.lg. n. 42/2004”, peraltro riconosciute come “norme di diretta applicazione dell’art. 9 della Costituzione” [33].

Viene così finalmente affermata in sede di contenzioso l’autonomia del diritto all’immagine del bene culturale, avente fondamento legislativo proprio negli artt. 107 e 108 del Codice. La primaria rilevanza di tali articoli, che pure sono in vigore da quasi 20 anni, trova finalmente compimento all’interno di una tutela giurisdizionale evoluta.

2.3. La problematica determinazione del canone concessorio e del corrispettivo

In un approccio pratico, quantitativo e statistico le concessioni d’uso sono molto frequenti nella prassi: nel 2017, oltre un istituto museale su cinque (il 21,8%, di cui il 40% statale) ha dato in locazione i propri spazi per eventi o manifestazioni private [34]. Sempre in riferimento all’anno 2017, in media oltre il 90% dei ricavi dei diversi istituti e luoghi di cultura statali proviene dalla vendita dei biglietti di ingresso, mentre dai canoni concessori riviene una percentuale ammontante a circa il 3%. Il volume complessivo dei ricavi da concessioni di beni culturali-spazi e riproduzione di beni culturali-immagini nel 2017 ammonta a soli 4,4 milioni [35]. In un paese che vanta un patrimonio cultuale vasto e unico al mondo, lo scostamento tra potenzialità dell’istituto e attuale utilizzazione è ravvisabile ictu oculi.

Sul tema della scarsa remuneratività e non voluta inefficienza, principale fattore è sicuramente ravvisabile nella eterogeneità dei canoni concessori.

L’abrogato art. 115 del Testo Unico (d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490) conferiva al ministero la competenza nella fissazione con decreto degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l’uso e la riproduzione di beni culturali. Importi minimi erano già decretati dal d.m. 8 aprile 1994, sostanzialmente ora in desuetudine data l’estrema esiguità degli importi previsti e la sua quasi totale disapplicazione da parte delle amministrazioni.

Il Codice innova profondamente e prescrive che la fissazione degli importi minimi intervenga con provvedimento dell’amministrazione concedente (art. 108, comma 6). È intervenuto un profondo decentramento delle competenze, coerente con le finalità che hanno ispirato tanto il Codice quanto l’azione legislativa degli ultimi trent’anni. Si avvicina così il centro decisionale il più possibile alla collettività presso la quale il provvedimento spiegherà i suoi effetti, al tempo stesso responsabilizzando gli attori pubblici prossimi anche al bene in consegna e allo spazio che lo ospita, all’oggetto della decisione e alla conoscenza dei suoi puntuali presupposti.

Nell’opzione sono riconoscibili risvolti positivi: si evita così una determinazione aprioristica a livello centrale, che ignori i singoli pregi dei beni nonché i contesti in cui si spiegano le necessità di tutela e di valorizzazione degli stessi, apprezzabili dall’amministrazione concedente.

Non si possono però negare le conseguenze negative. Anche l’applicazione della novella del Codice ha sofferto ad oggi carenza di coordinamento e non volute condizioni di inefficienza nell’amministrazione periferica in tema di determinazione del canone. Inoltre, nella prassi, si sono moltiplicate ingiustificate esenzioni dal versamento del canone per molti concessionari di spazi culturali. Da tanto ha tratto anche origine la necessità dei recenti interventi ministeriali.

Non sono mancati rilievi innanzi al giudice amministrativo in tema di illegittimità della concessione d’uso di bene culturale affidata senza adeguata procedura pubblica [36].

In tema di concessioni d’uso, anche nell’esercizio della giustizia contabile, l’assenza di un tariffario per le concessioni d’uso ha creato numerosi problemi. Molte amministrazioni concedenti non si sono neanche dotate (nei vent’anni di vigenza del Codice) di un autonomo tariffario per i propri beni in consegna. Le difficoltà applicative e i vuoti di disciplina possono riconoscersi nella vicenda che ha interessato Roma Capitale per la concessione a titolo pressoché gratuito dell’area del Circo Massimo [37]. La procura richiedeva l’affermazione della responsabilità erariale per avere concesso a un prezzo del tutto irrisorio - euro 7.934 - l’area del Circo Massimo per un concerto della bandRolling Stones”, evento dal quale complessivamente si stimano conseguite entrate per un totale di 25 milioni di euro.

Il requirente lamentava la mancata applicazione degli artt. 106 ss. del Codice, disapprovando l’applicazione, invece intervenuta, della disciplina in tema di occupazione di suolo pubblico, nonché l’aver richiesto il canone per il solo giorno del concerto e non anche per undici giorni precedenti e due successivi, occorsi per l’allestimento e per lo smantellamento.

La pronuncia respinge, anche in secondo grado, l’ipotesi di responsabilità erariale prefigurata.

Ciononostante, la sentenza evidenzia il “rilievo, in specie, dell’art. 108, comma 6, statuente che i canoni di concessione per l’uso strumentale e precario dei Beni Culturali, siano determinati sulla base di importi minimi stabiliti (previamente) dall’amministrazione concedente”. Il giudice d’appello osservava che, alla data dei fatti, “non esisteva un provvedimento a carattere generale varato dal Consiglio Comunale e regolante la tariffazione di eventi nelle aree” in esame. Perciò “risultava legittimo, anche se stridente con il comune buon senso, il ricorso alla regolamentazione in materia di occupazione del suolo pubblico, unica disciplina alla quale, in quel momento, poter fare oggettivo riferimento”.

L’assenza di un regolamento preventivo ha quindi comunque suscitato un significativo giudizio di disvalore della Corte dei Conti: “non poteva negarsi, nei fatti, la gestione del tutto diseconomica per il Comune dell’evento autorizzato”.

Anche la determinazione del corrispettivo d’uso per le riproduzioni ha originato interesse problematico. La giurisprudenza civile ha avuto modo di affermare che nel caso in cui il direttore dell’istituto non abbia stabilito un tariffario in applicazione dell’art. 108, comma 6 del Codice o comunque non abbia prodotto in giudizio atti per quantificare correttamente l’entità del danno derivante dal mancato versamento della somma dovuta, sia da applicare la disciplina nazionale vigente in tema di importi minimi dei corrispettivi d’uso [38]. Ne deriverebbe - oggi - l’applicazione diretta del d.m. n. 108/2024, che prefigge corrispettivi minimi direttamente riferibili a beni culturali statali.

Peraltro, non il solo giudice dovrebbe preoccuparsi del controllo sull’immateriale. Attenta dottrina ha fatto notare il necessitato “intervento legislativo de iure condendo che chiarisca i contorni del diritto all’immagine sia nei suoi aspetti funzionali che economici” [39]. La tutela giurisdizionale può sicuramente adottare, come ha dimostrato la recente giurisprudenza, provvedimenti inibitori dell’uso illegittimo dell’immagine del bene con conseguente rimozione delle immagini, nonché ordinare la condanna al risarcimento del danno subito dall’amministrazione. Tale tutela è però rimessa unicamente alla buona volontà della singola amministrazione, che è tenuta ad attivarsi in sede contenziosa mediante il ministero di appartenenza per la tutela del bene posto in sua custodia. La naturale durata di un processo - anche nell’ipotesi di una pronta tutela cautelare - all’interno di un XXI secolo in cui le immagini varcano continenti in pochi secondi potrebbe vanificare la rimozione delle stesse dal world wide web.

Problematico risulta anche il numero non quantificabile di ipotesi abusive di uso dell’immagine dei beni culturali statali, numero che comporterebbe (comporterà?) un’elefantiasi di contenziosi.

Ragionevole pare implementare poteri di controllo della amministrazione, con “differenti ed ulteriori strumenti di public enforcement del bene culturale” - ispirati, ad esempio, a quanto previsto dal regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica dell’Agcom, che “all’art. 8 contempla, a tutela del diritto d’autore, provvedimenti inibitori, quali la rimozione selettiva delle opere digitali” [40].

3. Il decreto ministeriale 11 aprile 2023, n. 161 del ministero della Cultura

Attesa l’assoluta eterogeneità dei canoni applicati dalle singole amministrazioni, con inadeguata remuneratività in una cornice normativa permissiva di episodi di non voluta inefficienza - tanto in tema di uso quanto di riproduzione di beni culturali - a circa trent’anni dall’anteriore tariffario del 1994, il ministero della Cultura ha deciso di avocare a sé la determinazione degli importi minimi.

L’operazione è intervenuta con emanazione del d.m. 161/2023 (“Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”), che pone il coordinamento tra le nuove linee guida e le previgenti disposizioni anche normative. Si sottolinea e anticipa che la portata precettiva del d.m. 161/2023 è ora fortemente limitata dalla sopravvenienza del d.m. 108/2024: quest’ultima fonte ha sostituito l’allegato del previgente decreto, ma conservando la precettività dello stesso precedente decreto.

Per la descritta ragione e per la comprensione del percorso, si procede ad analisi del d.m. 161/2023 (tuttora vigente) e a rapida sintesi del suo (abrogato) allegato, preparatorie a più agevole comparazione con riferimento alle apportate innovazioni del secondo decreto che attualmente regola - in virtù del suo allegato sostitutivo - la materia.

L’allegato al decreto del 2023 si occupava di definire materialmente le tariffe applicabili. In seguito all’indicazione così centralizzata, le amministrazioni statali potevano (rectius: dovevano, salvo i casi di esenzioni) a loro volta commisurare canoni e corrispettivi per i soggetti richiedenti l’uso o la riproduzione di beni culturali.

Il d.m. 161/2023 conta solamente 4 articoli: le concrete modalità attuative di determinazione del canone erano infatti poste - con alto dettaglio e tecnicismo - nell’allegato, cui il d.m. rinviava (art. 1, comma 1). Dall’analisi degli articoli e del preambolo che compongono il decreto sorgono interessanti spunti di riflessione.

Quanto al preambolo, dichiarato e apprezzabile risulta l’obiettivo - sottolineato a chiare lettere - di “valorizzazione economica”, quale va perseguita nel settore dei beni culturali, già in forza degli artt. 9, 81 e 97 Cost. [41]. Si deve rammentare che anche “i diritti culturali sono diritti che costano” e vanno quindi “subordinati al pareggio di bilancio e riequilibrio della pubblica finanza”, id est “vero principio supremo e totem della contemporaneità costituzionale” [42].

Non è chiaro, quanto al suo ambito oggettivo, se il decreto intenda normare solo le concessioni disciplinate dall’art. 107 del Codice (concessioni d’uso di spazi strumentale e precario nonché riproduzione di bene-immagine) o anche le concessioni d’uso di spazi (di maggiore durata) che hanno loro regolamentazione nell’art. 106. Il preambolo menziona gli artt. 107 e 108 del Codice e non cita l’art. 106. Tuttavia, l’art. 4, comma 1, del decreto rinvia all’intera sezione “Uso dei beni culturali” del Codice, che si apre con l’art. 106. Può avere legittimazione il dubbio che il decreto si proponga di regolare anche le concessioni d’uso derivanti dall’applicazione dall’art. 106 [43]?

L’interrogativo - ad opinione di chi scrive - ha risposta negativa. Nella lettura sistematica e complessiva, l’Allegato del 2023 conteneva tariffe - per le concessioni d’uso degli spazi - “al giorno” o “ad evento”, le quali hanno maggiore compatibilità con l’uso “strumentale e precario” di cui all’art. 107. Inoltre, stante la maggiore durata temporale della concessione ex art. 106 - che può persistere per mesi e comunque per consistente arco temporale - sarebbe totalmente irragionevole, nonché affetta da lesione del canone, anche unionale, di proporzionalità, l’applicazione di una tariffa giornaliera che condurrebbe ad importo esuberante e scoraggerebbe la stessa domanda. L’attuale eliminazione delle metriche “al giorno” e “ad evento” nel nuovo allegato non mina la prospettata interpretazione: il d.m. 108/2024, nel disciplinare nella sezione B l’uso degli spazi, pare riferirsi solamente a concessioni afferenti a eventi di breve durata.

Quanto ai beni e alle amministrazioni destinatarie del decreto, quest’ultimo si prefigge (per gli effetti dell’art. 108, comma 6) la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi di concessione per l’uso di spazi e la riproduzione dei beni culturali, ma limitatamente ai beni in consegna ad istituti e luoghi della cultura dello Stato. L’ambito di applicazione è limitato e non si riferisce a tutti gli istituti e luoghi di cultura italiani, ma ne rappresenta il 9,64% del totale [44]. Anche il d.m. 8/2023 riconosce “il patrimonio culturale della Nazione, capillarmente diffuso sul territorio (...) ma solo per un decimo in consegna al ministero della Cultura”. Correttamente il d.m. 161/2023 limita il proprio campo soggettivo di applicazione e vede preclusa la possibilità di poter vincolare con fonte ministeriale la discrezionalità di enti esterni al ministero stesso [45].

Il decreto del 2023 in esame prescrive che “la concessione per l’uso e la riproduzione dei beni culturali è comunque subordinata alla previa verifica di compatibilità della destinazione d’uso della riproduzione con il carattere storico-artistico dei medesimi beni culturali, ai sensi dell’articolo 20 del Codice dei beni culturali” (art. 2, comma 2). Quanto può avere apparenza di previsione pleonastica, ove si consideri che l’art. 20 del Codice già stabilisce che nessun bene culturale può essere “adibito ad usi non compatibili” con il suo carattere storico o artistico.

In realtà la verifica di compatibilità è disposta dal Codice, nella sua base testuale, unicamente per l’“uso individuale” di cui all’art. 106, mentre la disciplina dell’art. 107 (il cui “uso strumentale e precario” pare essere l’unico che il d.m. n. 161/2023 intenda regolare) non prevede alcuna valutazione di compatibilità tra l’uso che il soggetto richiedente si prefigga del bene e il suo carattere storico-artistico. Quanto, invece, l’art. 2, comma 2 del d.m. sembra prescrivere, con carattere additivo. Si è già sostenuto di non potersi escludere, nel sistema di tutela, la valutazione di compatibilità anche per la concessione d’uso precaria e temporanea di cui all’art. 107.

Si ritiene quindi l’art. 2, comma 2 del d.m. ulteriore conferma sistematica della necessaria valutazione di compatibilità, anche per i casi in cui il dettato normativo non la disciplini nel luogo di riferimento del Codice. La descritta interpretazione può trovare sostegno anche nell’intensità della tutela apprestata dalla recente sentenza Consiglio di Stato, Ad. Plen., sent. 13 febbraio 2023, n. 5 che ha valorizzato - quale base legale - l’art. 20 del Codice e la prescrizione di uso compatibile con il carattere storico o artistico del bene culturale.

Sembra corretto escludere attenuazione o discriminazione della tutela per valori immateriali. La citata sentenza Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 5/2023, pur nella diversa fattispecie, rimarca il collegamento tra la res e l'espressione culturale identitaria stabilito dalla disciplina vigente: gli strumenti di tutela non possono essere circoscritti entro i tradizionali limiti della conservazione della res, propri delle manifestazioni culturali “meramente materiali”. Nelle motivazioni, l’Adunanza Plenaria qualifica le manifestazioni culturali immateriali, destinate per loro natura ad essere costantemente ricreate e condivise quali necessarie ancor più di strumenti di tutela funzionali “a garantire non soltanto l'integrità fisica della res, ma anche la continuità dell'espressione culturale di cui la cosa costituisce ‘testimonianza vivente’”.

La tutela della componente immateriale non è meno intensa. Il bene culturale è assimilato ad un “messaggio” [46], che, come un vero e proprio documento, si è in grado di perpetuare per le generazioni future.

Nel trasferire l’attenzione alla dimensione di doppia immaterialità quale contraddistingue la riproduzione, tale principio assume pregnante portata.

Nella dimensione immateriale e nelle forme digitali della riproduzione la trasmissione non ha solo una portata di lungo periodo, ma il pregio di una immediata accessibilità, che deve essere scevra da usi incompatibili e da “messaggi” fuorvianti. Nella riproduzione di beni culturali la clausola di compatibilità deve assicurare tutela intensa quanto quella destinata alla componente materiale del bene. Il “decoro” del bene culturale diviene “concetto giuridico indeterminato di grande interesse e rilievo” [47].

Nell’opinione di chi scrive, la questione sul “decoro” è quanto mai politica, quale tutela di valori di civiltà, di trasmissione della conoscenza, che il diritto fa propri e dota di protezione giuridica. L’Italia prescrive la descritta valutazione per impedire forme di riproduzione che svalutino il bene, snaturando l'identità culturale del quale è espressivo. La valutazione di compatibilità risponde al fine di assicurare anche una tutela del decoro, nonché “di garantire la truth, l’autenticità, delle opere e del valore culturale da esse trasmesso” [48].

Ciononostante, diverse voci [49] si sono alzate contro la “protezione del decoro” apprestata dal nuovo d.m., giungendo a tacciare il testo di “incostituzionalità”. In realtà, sembra aderente a sistema ritenere (e accettare) che “secondo il Codice la riproduzione di un bene culturale in consegna al ministero richieda un atto di consenso da parte dello stesso ministero” e che tale tutela rappresenti solamente un’“applicazione del principio di natura generale dell’art. 20”. Inoltre, la previsione dell’art. 2, comma 2, riferendosi solamente alla “‘concessione per (...) la riproduzione’ esclude che essa si applichi quando la riproduzione sia attività non sottoposta a concessione, ma ‘libera’, ossia nelle ipotesi di cui all’art. 108, comma 3-bis, n. 1, del Codice” [50].

Tale controllo sul decoro, al contrario di quanto sostenuto dai detrattori del d.m., risulta in linea con la normativa di rango primario, di cui è mera applicazione e non anche illegittima estensione. Allo stesso tempo, la portata di tale controllo risulta significativamente ridotta dal momento che non va ora applicata a tutte le pubblicazioni c.d. open access - fattispecie di riproduzione “libera” aggiunta dal d.m. 108/2024.

Transitando ai contenuti prescrittivi del d.m. 161/2023, ogni istituto e luogo della culturale statale è tenuto a definire i propri canoni e corrispettivi attraverso elenchi adottati in conformità dell’allegato (art. 3, comma 1). Tali elenchi, tenendo conto delle “specificità e delle peculiarità dei beni in consegna” possono comunque contenere “disposizioni integrative” e prevedere “canoni e corrispettivi superiori” rispetto a quelli previsti nell’allegato (art. 3, comma 2). Si deve quindi ritenere che le amministrazioni statali abbiano la facoltà di derogare unicamente in melius.

Gli elenchi sono poi implementati dai detti istituti e luoghi di cultura statali mediante adozione di un apposito tariffario. In mancanza di quest’ultimo - memore che molte amministrazioni statali già non si erano dotate del tariffario imposto dall’art. 108, comma 6 del Codice - opportunamente il decreto afferma la diretta applicabilità dei canoni e dei corrispettivi contenuti nell’allegato (art. 3, comma 3), ai quali conferisce funzione eterointegrativa.

Sorgeva in tal modo dal d.m. 161/2023 più intensa capacità di rimproverare e di calcolare il danno erariale derivante dalla mancata o incorretta determinazione dei canoni, anche in ipotesi di assente assolvimento dell’onere da parte dell’autorità concedente. Ugualmente, non risulta più applicato l’antiquato tariffario del 1994 in sede di quantificazione del danno materiale cagionato da un utilizzo illecito dell’immagine del bene culturale, con tutte le positive conseguenze in tema di corretta difesa degli interessi erariali.

In conclusione, il decreto del 2023 è iniziativa necessitata, di elevata qualità giuridica, ispirata da condivisibili obiettivi, ma che legittimava interrogativi problematici.

3.1. Le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”

La concreta indicazione degli importi minimi era - prima dell’intervento del d.m. n. 108/2024 - svolta dall’allegato al d.m. 161/2023, che anche graficamente riconosceva l’impostazione “dualistica” degli oggetti con la regolazione del “bene-spazio” per la concessione d’uso e del “bene-immagine” per la riproduzione.

Le linee guida correttamente modulavano l’importo del canone in virtù della finalità che muove la richiesta d’uso (lucrativa/non lucrativa) e della durata della concessione (la metrica per gli spazi e il singolo giorno).

In coerenza con l’art. 108, comma 1 del Codice le attività più propriamente lucrative necessitavano del pagamento di un importo più alto.

La “Sezione A - riproduzione di beni culturali” concerneva le “ipotesi di riproduzioni di beni culturali, nonché i casi di riuso delle medesime copie e/o riproduzioni, anche in formato di dati”.

All’interno del preambolo, era tradito, dalla presenza di un breve excursus, il superamento delle Linee guida del 2022 della c.d. “Digital Library”, di eccessiva liberalizzazione in tema costi di acquisizione, circolazione e riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale.

Le dette Linee guida del 2022, aventi mera valenza di soft law, qualificavano l’immagine non solo disponibile in rete, ma anche scaricabile (con o senza preventiva registrazione al sito) e rendevano impossibile il controllo preventivo dell’uso.

Le digressioni sulle anteriori fonti condotta nel preambolo è quindi rivelatrice dell’intento di porre freno ad eccessive liberalizzazioni e gratuità.

Critica risultava la previsione del tariffario quanto alla onerosità della riproduzione per il settore della “editoria culturale”. Il tariffario modificava enormemente il precedente assetto del tariffario del 1994, che disponeva maggiori ipotesi di gratuità [51].

Le Linee guida della Digital Library del 2022 invece avevano previsto (rectius: incoraggiato, data la non cogenza delle stesse) la gratuità della pubblicazione di immagini di beni statali in qualsiasi prodotto editoriale, a prescindere dalla tiratura, dal prezzo di copertina e dalla tipologia del prodotto editoriale.

La modifica dell’impianto previgente ha originato durissime critiche al decreto da parte degli operatori del settore. Il comunicato congiunto [52] diffuso e avente ad oggetto il d.m. 161/2023 evidenzia alcune criticità della nuova linea ministeriale sui corrispettivi della riproduzione calata nel contesto italiano, ivi comprese condizioni di svantaggio rispetto ad autori e ricercatori tedeschi o francesi o di area anglosassone, in Stati beneficiari anche di maggiori finanziamenti alla ricerca.

Si tratta di ragioni non dissimili da quelle invece già poste a sostegno dalla Digital Library, allorché si paventava anche il rischio di una editoria votata a ricercare immagini di opere d’arte dai siti web di istituti culturali stranieri, minorando la divulgazione della ricerca scientifica e la valorizzazione del patrimonio culturale italiani. Tali rilievi non sono da sottovalutare. La questione è stata ora risolta dall’intervenuto d.m. 108/2024, nei termini di cui si dirà nel prosieguo.

Il tariffario si occupava nel seguito di disciplinare le “serigrafie digitali destinate al mercato” (Sezione A.2.1.), categoria all’interno della quale si disciplina anche l’ipotesi di concessione di immagine al fine di creazione di una copia o serigrafia digitale “prodotta in serie limitata e certificate, in altissima definizione (...) destinate alla realizzazione di Non-Fungible Token (NFT)”. In tal caso, il corrispettivo era individuato con impiego di un coefficiente altissimo (anche nel minimo), che fortemente scoraggiava l’iniziativa economica di soggetti che vogliano realizzare NFT di immagini del patrimonio culturale statale. Si pensi che nel celebre caso della vendita del DAW® (forma di riproduzione di cui preme sottolinearsi la differenza ontologica da un “semplice” NFT) [53] raffigurante il “Tondo Doni” il corrispettivo versato dall’impresa alle Gallerie degli Uffizi è pari al 50% dei ricavi della vendita al netto dei costi di produzione, che già - secondo gli Uffizi - era cifra adeguatamente alta.

Un avvio della disciplina economica nazionale in tema di NFT raffiguranti beni culturali statali, pacificamente inquadrabile all’interno dell’art. 107 del Codice, era da salutare con favore.

Il clamore mediatico suscitato, con toni immeritati e allarmistici, dal “Tondo Doni” [54] può integrare una delle (sommerse) ragioni dell’elevato coefficiente adottato nel d.m. 161/2023 [55].

La seconda parte delle linee guida transitava alla disciplina della concessione d’uso degli spazi “a scopo individuale o privato presenti nell’ambito delle strutture in consegna agli istituti concedenti” (Sezione B).

Si prevedeva un vero e proprio tariffario: le tariffe erano determinate (nel minimo e nel massimo) per classi dimensionali. Le “tariffe base” venivano poi moltiplicate per coefficienti in ragione della finalità (tendenzialmente, lucrativa o non lucrativa) che muoveva la richiesta. I coefficienti erano tanto più alti quanto più era ravvisabile una destinazione commerciale dello spazio e l’ipotesi di un ritorno economico per il concessionario.

In ultimo, le Linee guida prevedevano alcune fattispecie speciali (Sezione C), di “applicazione di decurtazioni o sconti”.

4. Il nuovo decreto ministeriale 21 marzo 2024, n. 108 del ministero della Cultura

La nuova fonte ministeriale (“Modifiche al decreto del Ministro della cultura 11 aprile 2023, rep. n. 161, recante ‘Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali’”) apporta significative innovazioni nella disciplina tanto della concessione d’uso, quanto della riproduzione.

Nominalmente, il d.m. 108/2024 non dispone di sostituire il precedente decreto, del quale però corregge parte finale della rubrica (da “...agli istituti e luoghi della cultura statali” a “... agli istituti e luoghi del ministero della Cultura”) e sostituisce l’intero allegato. Con l’avvicendamento di un nuovo allegato nei fatti stravolge il precedente assetto normativo.

È personale opinione che opportune correzioni dovessero apportarsi al precedente d.m. 161/2023. Lo stesso avviso, espresso anche dalle surrichiamate associazioni di studiosi, ricorre in analisi della Corte dei Conti. Quest’ultima ha sottolineato la contrapposizione esistente tra il Piano Nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale e “l’adozione del recente Decreto Ministeriale (D.M. 161 dell’11.4.2023) con il quale è stato sostanzialmente introdotto un vero e proprio ‘tariffario’ nel campo del riuso e della riproduzione di immagini; così incidendo su temi centrali connessi allo studio ed alla valorizzazione del patrimonio culturale nazionale, nonché ad una più ampia circolazione delle conoscenze” [56]. I motivi così rappresentati sono di condivisibile sostegno di alcune necessarie innovazioni.

Alcune acquisizioni positive del d.m. 161/2023 sono state però (ingiustamente) rimosse e anche alcune aperture migliorative intervenute potrebbero ricevere maggiori precisazioni.

Transitando all’analisi del nuovo d.m., questo conta solo 3 articoli, con i quali dispone la predetta sostituzione della rubrica e dell’allegato (art. 1), la pubblicazione dei provvedimenti di concessione sul sito del ministero (art. 2) e legittima il potere dell’organo di vertice [57] del ministero di adottare “direttive specifiche di maggior dettaglio” e di monitorare l’applicazione delle Linee Guida, “anche in vista di una possibile revisione delle stesse” (art. 3).

Le novità di maggiore interesse ricorrono nel “nuovo” allegato.

4.1. Sezione A - Riproduzione di beni culturali

L’allegato ripropone la struttura del “vecchio” d.m. 161/2023: una premessa, la divisione in due sezioni (“Sezione A - riproduzione dei beni” e “Sezione B - Uso degli spazi”) con la previsione di alcune ipotesi particolari per la riduzione o l’azzeramento del canone/corrispettivo (“Sezione C - Ipotesi particolari”). Nella premessa si citano gli atti (con valenza imperativa e di soft law, nazionali ed europei) di cui le linee guida sono applicazione. Come già il d.m. 161/2023, anche il d.m. 108/2024 espone di concessione d’uso e di riproduzione quali “due diverse tipologie di concessione”. È così confermata e rafforzata l’autonomia concettuale della riproduzione quale figura autonoma, elevata dal rango di sottocategoria della concessione d’uso dove il Codice tuttora pare relegarla.

In tema di riproduzione, la Sezione A è diversamente formulata rispetto all’antecedente allegato.

Nel d.m. n. 161/2023, l’unico discrimen in tema di riproduzione opponeva quelle a scopo di lucro e quelle senza scopo di lucro.

L'impianto del nuovo decreto è differente: viene introdotta ulteriore classificazione, distinguendo riproduzioni eseguite da privati in autonomia e riproduzioni richieste all’Amministrazione.

Per le prime sono richiamate le fattispecie “libere” ex art. 108, comma 3-bis. Al di fuori di queste è però richiesta l’autorizzazione dell’autorità che ha in consegna il bene. In ogni caso, se per effettuare le riproduzioni è necessario l’uso degli spazi, si espande la necessità di un provvedimento di concessione d’uso con relativo versamento di canone.

Per le riproduzioni richieste dall'amministrazione l'allegato ricorda che la direttiva europea 2019/1024 pone un generale principio di gratuità per il riuso dei dati in possesso di pubbliche amministrazioni, con la possibilità di prevedere il pagamento di una tariffa limitata al recupero dei soli costi marginali. Sulla scia del precedente d.m. 161/2023, la nuova fonte riafferma l'eccezione posta dall'art. 7, comma tre, lettera a) della direttiva per i contenuti prodotti e resi disponibili da biblioteche, musei, archivi [58].

Il nuovo decreto - in un'ottica di maggiore liberalizzazione delle immagini del patrimonio culturale - specifica quali sono i casi gratuiti. Di fronte alle proteste sollevate dalla onerosità delle riproduzioni ospitate in pubblicazioni di carattere scientifico, l’allora capo dell'ufficio legislativo aveva già correttamente anticipato che sarebbe stata chiarita e affermata in successivo atto la gratuità delle riproduzioni “necessarie alle riviste scientifiche di cui all’elenco Anvur e per le tesi accademiche” [59].

Tale chiarimento è giunto con il nuovo d.m. 108/2024, che non si limita alle dette due ipotesi e amplia notevolmente la casistica in cui le riproduzioni di beni culturali sono da considerarsi gratuite.

Così divengono gratuite - inter alia - anche le riproduzioni per i volumi ai quali venga riconosciuto dall'ente concedente un carattere scientifico e accademico e le riproduzioni dei beni culturali eseguite autonomamente da chiunque effettuate a scopo non lucrativo e non destinate alla vendita. Inoltre, se la pubblicazione è liberamente accessibile da chiunque e priva di prezzo di copertina (c.d. open access), la riproduzione richiesta rientra ora nelle riproduzioni “libere” ex art. 108, comma 3-bis, per le quali non è necessario alcun provvedimento autorizzatorio.

Lo scarso grado di dettaglio del precedente d.m. - che pure perseguiva il lodevole obiettivo di limitare casi di eccessiva gratuità - pregiudicava fortemente altri rilevanti interessi: si pensi alla compressione del diritto di cronaca, con effetti limitativi della riproduzione su quotidiani, o ancora alla ricaduta negativa - quanto alla valorizzazione del bene culturale - prodotta dall’impedimento di fatto della pubblicazione di beni culturali su piccoli giornali privi di fine di lucro. Ciò ha comportato diverse condizioni di incertezza e di disorientamento; le stesse amministrazioni non sapevano se dover richiedere o meno il corrispettivo o il “solo” rimborso, comunque spesso troppo alto per molte pubblicazioni culturali [60]. Questa enumerazione è quindi da salutare con favore.

Di particolare interesse risulta la previsione di gratuità di cui al n. 8.

Nel precedente d.m., se anche nella diversa sezione dedicata alla concessione di spazio ad uso individuale, la previsione della vendita di un biglietto distingueva lo spettacolo o concerto con fine lucrativo dallo spettacolo o concerto con finalità non lucrativa. Senza dilungarsi in tecnicismi, la presenza di un biglietto caratterizzava l'evento quale a scopo di lucro con effetto incrementale del canone dovuto all'istituto concedente.

Nel nuovo d.m., pur nell’articolazione dedicata alla riproduzione e non all'uso degli spazi, ricorre l’avvertenza in forza della quale la presenza di un biglietto “non è di per sé sufficiente a caratterizzare un'iniziativa di valorizzazione come a fine di lucro, ma va valutato l’insieme delle circostanze in cui si realizza l'iniziativa stessa”. È una indagine virtuosa che in tal modo rifugge da valutazioni aprioristiche e che valorizza un più complesso apprezzamento discrezionale dell’amministrazione.

Il d.m. n. 108/2024 in seguito specifica che i richiedenti (anche per le riproduzioni “gratuite”) sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione per eseguire le riproduzioni. Questo rimborso spese però riguarda solamente i “costi vivi in rapporto alla richiesta di riproduzione” ovvero “i costi sostenuti per la riproduzione ex novo e per la fornitura”. Per le foto già disponibili online non si prevede nessun rimborso e lo stesso si dispone per le riproduzioni realizzate dai privati che rispettino quanto previsto dall'art. 108, comma 3-bis, n. 1.

Il rimborso è determinato in base ad una tabella con 5 macro-prodotti, il cui incrocio con 3 voci porta a calcolare in maniera univoca la somma dovuta.

Nel caso in cui le riproduzioni di beni culturali e il riuso delle relative copie immagini siano effettuati al di fuori dei casi di gratuità sopra detti, si applicano le disposizioni della sezione A.2.2. Per giungere alla determinazione del dovuto corrispettivo, si assume come valore base il rimborso moltiplicandolo prima per un coefficiente differenziato in funzione dell'uso/destinazione delle riproduzioni e poi per un coefficiente relativo alla quantità delle riproduzioni da effettuarsi o, alternativamente in ragione della tipologia di riproduzione, relativo alla tiratura.

La nuova formulazione del d.m. in materia di rimborso appare di interesse ove pone la gratuità come regola, normando successivamente i casi esterni alle ipotesi di riproduzione gratuita o libera. Nel testo precedente la differenza correva tra riproduzioni a scopo di lucro e riproduzioni senza scopo di lucro, mentre ora questa distinzione, così come la stessa categoria concettuale del “lucro”, pare conservare minore e non esclusivo rilievo. Trattasi di un cambiamento di prospettive consono all’impostazione del codice.

Quanto alle tariffe per le riproduzioni la tabella sulle destinazioni ospita modifiche e nuove categorie rispetto al precedente d.m. L’innovazione di maggiore interesse riguarda l'uso promozionale pubblicitario (associazione tra immagini e marchio). Il nuovo decreto adotta diversi coefficienti che sono da considerarsi minimi e da moltiplicare tra loro. Il corrispettivo così lievita sensibilmente, dal momento che il valore base va sì moltiplicato per 10 (coefficiente previsto anche dal precedente d.m. 161/2023), ma anche per altro coefficiente collegato alla provenienza soggettiva dalla campagna pubblicitaria (da multinazionali) e/o attraverso gli strumenti attraverso cui questa si diffonde (web, quotidiani o spazi pubblici, spot televisivi).

La definizione di “multinazionale” genera interrogativi e criticità.

È condivisibile che una realtà che operi in più nazioni debba versare un corrispettivo maggiore per due ordini di ragioni. La prima alimentata dalla presupposizione in forza della quale società - non “strettamente italiana” bensì operante in altri ordinamenti - abbia un minor “collegamento identitario” col bene riproducendo e che quindi questo giustifichi un corrispettivo più alto. Trattasi di ratio su cui si può dibattere, più o meno persuasiva in ragione di concezioni anche diverse quanto al c.d. “modello proprietario” del bene culturale o all’importanza universale della cultura.

La seconda ragione è invece di ordine più pratico: banalmente, le multinazionali hanno un fatturato tendenzialmente maggiore di società operanti all’interno del solo territorio nazionale.

Non esiste però in ambito giuridico una definizione univoca di multinazionale. Se la multinazionale è “impresa che opera in più Stati, nei quali possiede centri di produzione o di distribuzione (sussidiarie o succursali), ma il cui nucleo di direzione strategica (casa madre) rimane nel Paese di origine” [61], potrebbe essere riconosciuta come multinazionale anche un'impresa tutto sommato di dimensioni ridotte che operi in provincia prossima ad altri Stati, ma che abbia alcuni impianti anche oltre il confine italiano. Sfuggirebbe invece all’incremento del corrispettivo un’impresa operante all’interno dei confini nazionali, ma che produca un fatturato paragonabile a quello di una “multinazionale”.

Se obiettivo del decreto del 2024 è chiarire e rimuovere la indeterminatezza di determinate fattispecie presenti nell’antecedente, l’espressione “multinazionale” permane indefinita, passibile di revisione e potrebbe essere sostituita, ad esempio, con “società operante in più stati con fatturato superiore a...”.

Non è inoltre da sottacere quanto possa rilevare il principio di sovranità degli Stati. Non è difficile immaginare che una società operante fuori dall'Italia possa contestare l'applicazione di una legge italiana nello stato di appartenenza. A ben vedere, è ciò che già sta accadendo nella vicenda “Ravensburger” sopra analizzata, i cui sviluppi meritano la massima attenzione.

Nella “sezione A.2.2.1 - serigrafie digitali destinate al mercato” del nuovo decreto viene abbandonata la predeterminazione della tariffa massima (presente nel d.m. 161/2023), quale era peraltro incoerente con il disposto dell’art. 108, comma 6, contemplante la predeterminazione solo di tariffe minime.

La novità maggiormente degna di attenzione è ravvisabile nell'assenza del paragrafo dedicato ai non fungible token (NFT). Potrebbe così registrarsi prima facie un passo indietro rispetto al precedente d.m., che invece disciplinava (anche se nella vigenza di un apparente divieto ministeriale di vendita di NFT raffiguranti beni culturali statali) la vendita di questi strumenti. In realtà il nuovo decreto ministeriale tratta di “serigrafie digitali in altissima definizione di beni culturali in consegna agli istituti, destinati alla commercializzazione, realizzate su supporto fisico, autenticate e/o numerate in serie destinate alla commercializzazione in mercati determinati”.

La fonte sembra descrivere il DAW®... non disciplinare più gli NFT? Sarebbe più corretto affermare che si tratta ora di “non solo” NFT: il DAW® del “Tondo Doni”, pur avendo un supporto fisico, autenticato e numerato in serie, basa comunque parte della sua tecnologia sugli NFT. Pare quindi che anche se si sia eliminato il nome, forse è ancora possibile vendere degli NFT se si accompagnano a un supporto fisico, un hardware, nonché a un'autenticazione e/o a una numerazione. Risulta incerta la risoluzione dell'annosa questione sulla vendita degli NFT dei beni culturali statali, ambito nel quale l’Italia si muove (colpevolmente) tardi. Le vendite di questi beni e il relativo valore sono notevolmente diminuiti: dal 2021 al 2022, il fatturato degli NFT è passato da 1,9 miliardi a 205 milioni di euro e le unità di NFT vendute ogni giorno da 225mila a 119mila [62]. Si è entrati nell’epoca del “crypto-winter”, nella quale le criptovalute e i prodotti commercializzati in blockchain vivono un periodo di crisi - dai più ottimisti ritenuto ciclico in arrivo della prossima “crypto-spring” - mentre il relativo mercato crolla.

4.2. Sezione B - Uso degli spazi

La disciplina dell’uso degli spazi - affidata alla “Sezione B” - è stata radicalmente stravolta.

Ogni luogo e istituto della cultura statale ha riguadagnato il potere (e dovere) di essere l’unica autorità che può determinare i canoni per le concessioni d’uso dei beni in propria consegna. Ciò produce un ritorno al sistema previgente al d.m. 161/2023. È confermata la previsione del pagamento di somme aggiuntive al canone, quali le somme da destinare al personale del Mic per lo svolgimento delle prestazioni, da corrispondere anche nel caso di concessione a titolo gratuito. Tra queste somme aggiuntive sono annoverate anche le spese finalizzate a garantire la tutela del patrimonio culturale, le spese connesse alla cauzione ex art. 108, comma 4 e i servizi accessori, che sono a carico del concessionario.

L’impianto è stato notevolmente semplificato, con la suddivisione dell’uso degli spazi per finalità istituzionali, uso individuale ed eventi musicali e di spettacolo.

L'uso degli spazi per finalità istituzionali riceve disciplina più permissiva di quella del passato, che prescriveva necessario che l'evento rientrasse pienamente nelle finalità istituzionali del ministero o, in alternativa, che il progetto fosse definito “unitamente ad uno o più organi del ministero”.

La prima condizione è stata meglio specificata (non riguarda le finalità istituzionali, ma ha riguardo alla organizzazione in partnership con il ministero o con un ente da esso vigilato), mentre la seconda è rimasta pressoché immodificata. A queste si aggiunge una terza ipotesi: non è dovuto alcun canone se l’evento è “organizzato nell'ambito di collaborazioni istituzionali con enti pubblici e privati per finalità di valorizzazione del patrimonio culturale”. Si assiste quindi a una forte estensione dei casi di gratuità, contrariamente a quanto prevedeva il d.m. n. 161/2023 e, prima di questo, il d.m. n. 8/2023.

Per quanto riguarda l’uso individuale, l’ente concedente deve calibrare la tariffa con riferimento a una serie di criteri largamente coincidenti con quelli previsti dal d.m. 161/2023 (quantificazione in metri quadri, individuazione del livello di pregio, finalità della richiesta di concessione...). Questi criteri non hanno più valenza cogente, imposta attraverso il previgente sistema dei “coefficienti”, ma solamente valore indicativo. In verità, interviene una radicale innovazione quanto all’esercizio della discrezionalità consentita nel compito estimativo del canone, anteriormente compressa nell’impianto del d.m. n. 163/2023 [63].

Per l’ultima tipologia di uso, previsto per “eventi musicali e di spettacolo”, all’autorità che ha in consegna il bene è consentito valutare una riduzione o azzeramento del canone, previo “attento” esame della natura dell’evento.

Gli eventi musicali e di spettacolo rappresentano uno dei motivi principali posti a base della richiesta per spazi di cultura. La previsione è virtuosa perché permette un connubio tra diverse arti all'interno di spazi che - di per sé - già sono arte.

La differenza rispetto al regime precedente è ravvisabile ictu oculi: prima per spettacoli o concerti non solo era sempre dovuto un canone, ma era anche di sensibile consistenza. Il coefficiente di stima era già elevato per spettacoli e concerti privi della previsione di vendita di biglietto e diventava più oneroso nella diversa ipotesi di vendita di biglietti. Nei fatti, per associazioni, cittadini, realtà culturali era divenuto impossibile organizzare concerti (anche senza biglietto) in luoghi e istituti della cultura, salvo potersi beneficiare dei casi di esenzione dal pagamento per collaborazione con il ministero.

La previsione a ragione rimuove questo ostacolo, ma occorrerà monitorare la concreta applicazione della disposizione per evitare casi di “svendita” del nostro patrimonio [64].

Per questo motivo, giusta si ritiene l’imposizione della necessarietà del parere dell’organo amministrativo di vertice del ministero per riduzioni consistenti del canone e per il suo azzeramento.

4.3. Sezione C - Ipotesi particolari

In alcuni casi particolari, normati dalla sezione C, si valuta una riduzione o anche un azzeramento del canone o del corrispettivo.

Vengono rimosse varie ipotesi speciali prima presenti nel d.m. n. 161/2023, quali le ipotesi di lunga permanenza o di allestimento e disallestimento spazi, che prevedevano una riduzione del canone nel caso in cui fossero necessari più giorni di concessione.

Si può ritenere che la ratio di tale rimozione riposi nella circostanza che ora difetta una predeterminazione ministeriale e rientra nella discrezionalità dell'amministrazione concedente disporre un canone ridotto in tale evenienza.

Non può sottacersi che nella “residuale” Sezione C, dedicata nominalmente ad “ipotesi particolari”, il d.m. n. 108/2024 sembra declinare nell’incipit quella che appare invece l’universale buona regola: nella determinazione del canone l’autorità concedente “dovrà” valutare “caso per caso”, l’uso a cui è destinata la richiesta “in rapporto alle opportunità di promozione culturale del bene”, al “rischio per la sua conservazione”, alla “sottrazione alla pubblica fruizione”.

La regola generale, che riafferma anche la gerarchia e la compatibilità dei valori da tutelare nell’uso individuale, non è così espressa nel precedente d.m. n. 161/2023, né letteralmente né univocamente. All’evidenza la formulazione consegue al recuperato ritorno alla determinazione periferica del canone e l’imperativo - di fatto - responsabilizza maggiormente l’amministrazione nell’esercizio della valutazione, estesa a tante variabili senza il soccorso della precostituzione del vincolo quantitativo del minimo.

Sorprende, tuttavia, che una esortazione di simile centralità (ovvero la regola generale) sia confinata nell’ultima pagina dell’allegato, nella Sezione “ipotesi particolari”, quale contenuto apparentemente intruso.

5. Ipotesi di bilancio e prospettive de jure condendo

In linea generale, il d.m. 161/2023 è testo condivisibile nelle finalità e apprezzabile nel profilo qualitativo, cui va riconosciuto il pregio - dopo circa trent’anni di silenzio - di normare a livello centralizzato una disciplina anteriormente confusa, soggetta a molteplici interpretazioni e disfunzioni. Il decreto ha coordinato le modalità di determinazione del canone concessorio e del corrispettivo per la riproduzione d’uso, finalmente dando attuazione all’art. 108, comma 6 del Codice a quasi vent’anni dalla sua entrata in vigore. La fonte ha colto la modernità e potenziale redditività delle riproduzioni, della dimensione immateriale, quanto attenta dottrina nel lontano 1952 rimproverava non interiorizzato nella teorica dei beni pubblici [65].

Il successivo d.m. 108/2024 corregge molte delle imperfezioni del precedente testo, reagendo alla insorta problematica dell’afflittività del costo delle riproduzioni, di contraria direzione alla culturalità degli impieghi, all’accessibilità del costo per finalità scientifiche, educative, alla sostenibilità per la piccola editoria. Tutto ciò può ritenersi in parte superato dalla carica innovativa del nuovo articolato.

Permangono spazi per ulteriori interventi correttivi e di chiarificazione.

In primo luogo, può meglio esprimersi l’estraneità della disciplina dei due decreti ministeriali alla categoria della concessione d’uso di cui all’art. 106, per evitare la confusione che può originarsi da generici e aspecifici rinvii normativi.

In secondo luogo, si è già adombrato come risulti opportuno procedere alla correzione della formulazione testuale dell’art. 2, comma 2 del d.m. 161/2023, nella parte in cui riserva la “verifica di compatibilità” solo alla “riproduzione”, in contraria direzione dell’art. 20 del Codice.

In terzo luogo, quanto alla consueta clausola di invarianza finanziaria presente nell’art. 4 del d.m. 161/2023, sarebbe stato preferibile - attesa anche la complessità e la novità della materia - contemplare oneri di formazione del personale o anche - ma qui si rientra in un ambito di politica legislativa - destinare risorse al reclutamento di ulteriori dipendenti altamente qualificati in ambito giuridico ed economico, anche a mezzo del nuovo d.m. n. 108/2024.

Quanto ad ipotesi correttive del nuovo allegato, in ordine alla Sezione A, ivi ricorre la previsione (giusta) di più numerose ipotesi di gratuità nel campo delle riproduzioni, con una casistica che fornisce maggiore certezza tanto ai soggetti richiedenti quanto agli istituti della cultura. Le ipotesi di gratuità potrebbero talvolta risultare eccessive e in talune potrebbero pacificamente confondersi finalità commerciali. La concreta applicazione amministrativa delle gratuità andrà verificata, ma non può contestarsi che le indicazioni offerte nel decreto possano offrire coordinate utili per le amministrazioni, esposte a complesse sindacabili valutazioni.

Critico appare l’impiego del termine “multinazionale”, che andrebbe sostituito con lemma più tecnico, eventualmente calibrando il coefficiente in relazione al fatturato della società richiedente l’uso dell’immagine a fini pubblicitari. Sulle “multinazionali”, del resto, si gioca anche in un campo con più attori e legislatori, provenienti da Stati diversi... la “vicenda Ravensburger” testimonia della complessità del tema, quanto renderà necessario monitorarne gli sviluppi.

In ultimo, sulle riproduzioni, finalmente il d.m. 108/2024 pare affermare lecita la vendita di serigrafie digitali in altissima definizione sul modello del DAW®. Non si comprende però perché ancora escludere la vendita di NFT (in seguito ai divieti di vendita risalenti all’autunno 2021 e alla primavera del 2022) raffiguranti beni del patrimonio culturale statale.

Questo divieto ha una dimensione tutta italiana. Nella vicina Austria, l’Österreichische Galerie Belvedere di Vienna per la giornata di San Valentino del 2022 ha messo in vendita - in NFT - 10.000 particolari del “Bacio” di Gustav Klimt. [66] L’operazione è stata un successo: con la vendita di 2.429 delle tessere offerte, il museo ha ricavato - dalla sola operazione di vendita di prodotti assolutamente immateriali! - 4,35 milioni di euro. Si tratta di quasi 10 volte la somma ottenuta da tutti i musei statali - sia autonomi sia non - a titolo di corrispettivo per riproduzione di beni culturali per l’anno 2017 [67].

Inoltre, le posizioni più critiche si possono superare ove si pensi che l’NFT di un bene culturale - banalmente - non è il bene culturale.

In particolare, dal momento che “il bene che ne usa un altro non è solo, come l'immagine, diverso da quello di base, ma è anche il risultato di un apporto che fornisce al prodotto distinta individualità” e autonomo valore economico, è possibile affermare che per gli enti pubblici “questi prodotti, se non sono essi stessi beni culturali, vadano annoverati al c.d. patrimonio disponibile, con tutte le conseguenze in tema di regime giuridico” [68] - prima fra tutte la possibilità di liberamente disporre di tale nuovo e diverso bene giuridico.

Sarebbe quindi necessario che il ministero revochi il divieto. Dal 24 gennaio 2023 sono stati previsti incontri tra esperti presso il ministero della Cultura volti alla “definizione di un quadro normativo in materia di diritto d’autore che includa anche le nuove tecnologie” - inter alia - in tema di NFT e Metaverso [69]. Allo stato attuale non pare però che gli incontri siano confluiti in produzione normativa e in espresso superamento del divieto. Il d.m. 8/2023 rende espressioni “politiche” di carattere permissivo quando riconosce che “in ordine alle diverse forme di riproduzione e riuso (...) delle immagini (...), anche laddove si preveda l'utilizzo delle moderne tecnologie (NFT, blockchain etc.), occorrerà adottare un tariffario unico ministeriale, volto a determinare il corrispettivo da esigere”. Quanto poi è stato realizzato nel successivo d.m. 161/2023 e ora (probabilmente?) revocato dal d.m. n. 108/2024.

Allo stesso tempo, in lavori parlamentari intervenuti in Senato, la proposta di modifica n. 36.7 al d.d.l. n. 2598 ha candidato l’inserimento nell’art. 108 del Codice di disciplina economica dei corrispettivi anche per le riproduzioni digitali tridimensionali di beni culturali e per la concessione dei relativi non fungible token (NFT) intesi come identificativi digitali crittografici univoci a tutela dell'autenticità della riproduzione digitale. La proposta dichiarava fermi l'inalienabilità della proprietà dell'immagine digitale e il divieto di concedere a terzi licenze esclusive di sfruttamento commerciale. La questione rimane aperta.

Quanto all’uso degli spazi, l’eliminazione del sistema del d.m. 161/2023 espone il nuovo testo a critiche.

Giova ricordare che nei 20 anni di vigenza del Codice molte amministrazioni non si sono mai dotate di un tariffario, quanto invece l’art. 108, comma 6 impone. Se quindi - in seguito alla scelta posta in essere con il d.m. 161/2023 - era direttamente applicabile una tariffa minima, stabilita a livello nazionale derogabile unicamente in melius, l’attuale quadro è diverso e affidato ad autoresponsabilità degli istituti concedenti non circoscritta nel minimo.

Si potrebbe obiettare che la nuova regolamentazione potrebbe rendere disponibili anche spazi meno allettanti, prima - per l’eccessivo canone riveniente dal tariffario del 2023 - destinati a permanere fuori mercato. In realtà si sarebbe potuto risolvere il problema degli spazi meno attrattivi tenendo conto della specificità del caso. La scelta operata rischia di consegnare aree di patrimonio culturale al rischio di un regime di inefficienza.

Ulteriore criticità deriva nell’insorgenza di contenzioso: in assenza di tariffario, la giurisprudenza ha ritenuto che la parte che non abbia allegato criteri per la determinazione del danno da mancato versamento di canone/corrispettivo possa comunque vedersi assegnata la somma derivante dall’atto ministeriale che fissi gli importi minimi [70]. In via analogica, si può affermare che la medesima soluzione può operare per quantificare la responsabilità erariale del funzionario che con dolo o colpa grave abbia fornito l’uso o la riproduzione del bene senza richiedere adeguato canone o corrispettivo. Ora difetta - per l’uso degli spazi - qualsiasi predeterminazione dei minimi a livello centrale, a meno che non si voglia ricorrere al tariffario del 1994, nonché ad un convertitore lira-euro.

Da una parte, profili di carattere positivo possono riconoscersi nel mantenere il centro decisionale dell’importo del canone quanto più vicino al bene concedendo. D’altra parte, viene fortemente sacrificato il tema della redditività. Ipotesi di sottovalutazione della singola amministrazione concedente potrebbero non rilevare quale fonte autosufficiente di responsabilità erariale - o, quantomeno, di imputabilità di gestioni diseconomiche - in assenza dell'adozione del tariffario [71].

La previsione centralizzata di importi minimi era - nella fisiologica dinamica di stima da parte delle amministrazioni concedenti - perfettamente coerente con l’impianto normativo di livello primario. Essa incoraggiava l’applicazione dell’art. 108, comma 6, senza porsi in contrasto con la norma, dotandola sapientemente di forza espansiva. Si spera che in future revisioni dell’articolato il ministero - che quanto alla “Sezione A” ha sicuramente compiuto un passo in avanti - per la “Sezione B” possa muovere un passo indietro, trovando una soluzione mediana tra le imperfezioni del d.m. 161/2023 e il radicale decentramento nella competenza delle tariffe.

In ultimo, in relazione alle tariffe previste dalle linee guida, sembra necessaria una previsione che indicizzi i canoni in modo tale da sterilizzare l’inflazione monetaria ed evitare dispendiose revisioni annuali del tariffario.

In relazione all’art. 107, risulta infine auspicabile una più netta divisione delle fattispecie normate dallo stesso articolo del Codice. L’uso strumentale e precario ha ad oggetto il bene-spazio, la riproduzione il bene-immagine, rispettivamente bene materiale e bene immateriale (o, meglio, di maggiore immaterialità). Nel 2004 il codificatore ha inteso disciplinare in unico luogo entrambi i fenomeni nella non diffusa percezione e coscienza dell’autonoma rilevanza dell’immagine del bene culturale. Oggi la riproduzione non è da intendersi “sottospecie” della concessione d’uso strumentale e precario. L’immagine potrebbe necessitare ormai di autonoma disposizione nel Codice.

Paradossalmente nella decretazione v’è prova e consapevolezza delle peculiari divergenze tra i due istituti, mentre il dato normativo continua, confusamente, a regolamentare la riproduzione sulla falsariga della concessione d’uso, nel medesimo contenitore (art. 107), nonostante siano “due diverse tipologie di concessioni”.

Modifiche agli artt. 106 ss. potrebbero introdursi anche “in modo non necessariamente da orientare una scelta netta verso la gratuità o, viceversa, la redditività dell’uso del patrimonio, ma quantomeno da chiarire meglio le condizioni in presenza delle quali è giusto che l’amministrazione culturale pretenda dei ricavi e, soprattutto per le dinamiche di riproduzione delle immagini dei beni culturali, fornisca un quadro giuridico più adeguato per governare fenomeni sempre più esposti al progresso delle nuove tecnologie” [72].

Con l’occasione si potrebbe esplicitare apertis verbis che l’obbligo di valutazione di compatibilità attiene anche alla riproduzione dei beni culturali.

6. Conclusioni: nuove modalità di tutela e valorizzazione del materiale e dell’immateriale culturale

In conclusione, nuove sensibilità dovranno svilupparsi anche per la forza espansiva dell’immaterialità: nella dimensione immateriale e non corporea della sua immagine il bene culturale è passibile di una maggiore circolazione, che raggiunge con grande facilità enormi mercati e fuoriesce dal chiuso dei musei. La recente sentenza Cons. Stato, Ad. Plen. n. 5/2023 ribadisce che, nella dimensione non corporea, il bene culturale è assimilato ad un “messaggio”, che, come un vero e proprio documento, si è in grado di perpetuare. Con una breve digressione, si potrebbe anche riconoscere nel mondo della cultura (come dell’ambiente) il valore della sostenibilità, ovvero la capacità di conservare e trasmettere valori e beni vulnerabili alle generazioni future.

La redditività dei beni culturali immateriali apre quindi nuove prospettive, anche economiche, ma l’Adunanza Plenaria non smette di ricordare che occorre pur sempre vigilare su una corretta e non fuorviante trasmissione dell’immagine, rispettosa dell’identità del bene. Il tema della remuneratività economica non deve pregiudicare il valore del bene culturale, notoriamente vulnerabile, né eliminare il primario ruolo pubblico di tutela del patrimonio culturale, anche del meno redditizio. Separare l'immagine dalla res moltiplica le potenzialità di circolazione e di ritorno economico, ma occorre sempre preservare il decoro e l'identità del bene culturale anche nella sua trasmissione.

Nel descritto percorso si innesta il d.m. n. 108/2024 e opera, per i beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali ivi disciplinati, un tentativo di rafforzare la redditività del patrimonio, valorizzando - specialmente in tema di riproduzioni - il ruolo di promozione della cultura che queste possono assumere in un XXI secolo in cui la tecnologia erode rapidamente le distanze. La fonte conferma il riconoscimento e l’autonomia di nuove ed evolutive forme di impiego del bene culturale e della sua immagine. L’atto ministeriale avversa sempre la diseconomicità, gli abusi nell’impiego del patrimonio, pur con la descritta regressione nella valorizzazione economica a mezzo della concessione.

In alcuni luoghi esaminati il decreto in realtà trascende il fine della valorizzazione “economica”, invade e colma gli spazi della tutela del bene anche laddove il Codice sembra disattento. In ciò l’atto ministeriale riconduce il sistema ad unità e sembra anche eccedere il mero ruolo della decretazione. È una iniezione di ottimismo sotto il profilo economico, nonché per la diffusione delle immagini del nostro patrimonio.

Il bilanciamento degli interessi, il saper coniugare la valorizzazione economica e la circolazione con le cautele storiche dell’istituto concessorio (finalizzate alla prioritaria conservazione del bene culturale, alla inalterabilità dello stesso e della sua immagine, alla fruizione, anche con impiego della componente autoritativa dell’istituto) sono condizioni che possono condurre ad un gioco a somma positiva. Conclusivamente i due attori, concedente e concessionario, realizzano, pur nella gerarchia riconoscibile nel sistema, virtuosamente sia l’interesse generale sia l’interesse particolare. Valorizzazione culturale ed economica sono compatibili e collegate, seppur non coincidenti, e lo strumento concessorio sembra il vitale contenitore dei valori fondamentali in gioco.

 

Note

[*] Girolamo Calculli, dottore magistrale in Giurisprudenza presso l’Università LUISS “Guido Carli”, Facoltà di Giurisprudenza, Via Parenzo 11, 00198 Roma, girolamocalculli@hotmail.it.

[1] Principalmente con riferimento al d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, breviter Codice dei beni culturali e del paesaggio, detto “Codice” nel prosieguo.

[2] M. Renna, Beni pubblici, in Dizionario di diritto pubblico, I, (a cura di) S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, pag. 714.

[3] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 23.

[4] Ivi, pag. 32.

[5] L. Casini, “Todo es peregrino y raro...”: Massimo Severo Giannini e i beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 3, pag. 996.

[6] Il Codice, almeno nella sua versione originaria, sembra privilegiare una concezione reale del bene culturale. Così non è sul piano internazionale e comparato, per il quale v. A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, in Foro amm. CdS, 2008, 7-8, pag. 2261 ss. Per una rassegna di soluzioni di tutela del patrimonio immateriale in contesti anche extra-europei, v. Il patrimonio culturale intangibile nelle sue diverse dimensioni, (a cura di) L. Zagato, Milano, Giuffrè, 2012.

[7] Fonte: A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, Bari, Laterza, 2019, pagg. 57-60.

[8] L’espressione è ripresa da G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3.

[9] Quanto ricorre nell’analisi di A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., 8.

[10] L’articolo è espressione di un principio generale, ribadito successivamente in tema di funzione di fruizione nell’art. 2, comma 4 e in tema di valorizzazione nell’art. 6, comma 2.

[11] S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, pag. 673.

[12] Sulle virtù e sulle problematicità di tale strumento, si v. F. Pileggi, L’esternalizzazione ai privati delle attività di valorizzazione e dei servizi per il pubblico negli istituti e luoghi di cultura, in Patrimonio culturale e soggetti privati. Criticità e prospettive del rapporto pubblico-privato, (a cura di) A. Moliterni, Napoli, Editoriale scientifica, 2019, pag. 130.

[13] In tema di concessioni, il Codice sapientemente divide le concessioni d’uso per attività di valorizzazione (art. 115, comma 8) dalle concessioni d’uso individuale (art. 106 ss.). Si può in questa dicotomia scorgere anche una conoscenza, da parte del legislatore, della differenza tra valorizzazione “classica” ed economica. Sulla prima tipologia di concessione, v. G. Mari, Concessione di valorizzazione e finanza di progetto: il difficile equilibrio tra conservazione, valorizzazione culturale e valorizzazione economica, in Aedon, 2019, 2, pag. 148 ss.

[14] G. Piperata, Cultura, sviluppo economico e... di come addomesticare gli scoiattoli, in Aedon, 2018, 3.

[15] M. Brocca, La disciplina d’uso dei beni culturali, in Aedon, 2006, 2.

[16] Per un approfondimento sulla novella del 2006, v. C. Ventimiglia, Art. 106, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 20193, pagg. 983-984.

[17] G. Mari, Art. 170, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., pag. 1482.

[18] In tal senso, pare essere concorde la dottrina: cfr. I. Forgione, La discrezionalità nella concessione in uso dei beni culturali, in Il patrimonio culturale e le sue immagini. Diritto, gestione e nuove tecnologie, (a cura di) A.L. Tarasco e R. Miccù, Napoli, Editoriale Scientifica, 2022, pag. 94; C. Ventimiglia, Art. 107, cit., pagg. 988-990.

[19] Su un piano filosofico prima che giuridico, sul tema della riproduzione fondamentale risulta il celebre saggio di W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1935. L’A. fa notare che “in linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile” e anche che “riproduzioni venivano realizzate dagli allievi per esercitarsi nell’arte”. La differenza fondamentale tra l’arte riprodotta e l’originale è genetica: “anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova”.

[20] Il proposito ricorre in d.m. n. 8/2023, articolazione 3.3 “Valorizzazione economica del patrimonio culturale e concessione a terzi”.

[21] Art. 13, comma 1, d.lg. 22 aprile 1941, n. 633. V. A. Tumicelli, L’immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, 1.

[22] Cass. Civ., VI, sent. 23 aprile 2013, n. 9757.

[23] Si v. considerando 17 della Direttiva CEE, 29 ottobre 1998, n. 93, che, in relazione all’atto creativo dell’autore, richiede che sia “riconoscibile l’impronta della personalità di quest’ultimo” ai fini di applicazione della disciplina del diritto d’autore.

[24] Sull’“assenza di lucro come stella polare per l’utilizzo libero dell’immagine del bene”, v. K. Kurcani, La riproduzione dei beni culturali: la tutela del bene alla prova della liberalizzazione della sua immagine, in Aedon, 2023, 2, pag. 149.

[25] Sul tema, v. C. Ventimiglia, Art. 108, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., pag. 993 ss.

[26] Trib. Firenze, ord. 11 aprile 2022, n. 1910.

[27] Trib. Firenze, ord. 1910/2022.

[28] Trib. Firenze, sent. 21 aprile 2023, n. 1207.

[29] Sul tema, si v. R. Caso, Il David, l’Uomo Vitruviano, e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio, in Foro. it., 2023, I, pag. 2283 ss.

[30] Trib. Venezia, ord. 17 novembre 2022, n. 5317.

[31] Si v. Cass. Civ., III sez., sent. 4 giugno 2008, n. 12929, che stabilisce che la lesione del diritto all’immagine cagiona un danno non patrimoniale risarcibile. Tale danno deve essere risarcito anche se riguarda una persona giuridica e non una persona fisica. Ex multis, si v. Cass. Civ., I sez., sent. 27 aprile 2016, n. 8397; Cass. Civ., I sez., sent. 16 novembre 2015, n. 2340, Cass. Civ., I sez, sent. 11 agosto 2009, n. 18128.

[32] Trib. Firenze, ord. 1910/2022.

[33] Trib. Firenze, sent. 1207/2023. Per una posizione critica dell’autonoma sussistenza del “diritto all’immagine del bene”, v. A. Mondini, Il giusto risarcimento del danno spettante al Ministero della Cultura per l’uso illecito dell’immagine del David di Michelangelo. Notazioni, in parte critiche, a Tribunale di Firenze 20 aprile 2023, in Giustizia Insieme, 27 giugno 2023.

[34] Fonte: dato statistico fornito dalla Direzione Generale Bilancio del Mibact, via S. De Nitto, Concessioni d’uso del patrimonio culturale, in Patrimonio culturale e soggetti privati, cit., pag. 231.

[35] Fonte: A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., pagg. 57-60.

[36] Tar Toscana, sez. III, sent. 14 maggio 2013, n. 1437, successivamente confermata da Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 7 gennaio 2020, n. 110.

[37] Sul tema, si veda Corte dei Conti, sez. III centr. appello, 9 marzo 2017, n. 117.

[38] Così come logicamente disposto in Trib. Palermo, ord. 21 settembre 2017, n. 4901, sia pure nel diverso caso di un bene culturale di titolarità privata, ove venivano applicati gli antiquati parametri posti dal decreto ministeriale 8 aprile 1994.

[39] A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo, in Aedon, 2023, 2, pag. 143.

[40] S. Fantini, Strumenti amministrativistici di tutela e valorizzazione dell’immateriale economico, in L’immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli e A. Bartolini, Torino, Giappichelli, 2018, pag. 118.

[41] Sul valore anche costituzionale della ricerca della redditività del patrimonio culturale pubblico, si v. A.L. Tarasco, La redditività del patrimonio culturale: risorsa o pregiudizio?, in Urb. app., 2008, 2, pag. 137 ss.; A.L. Tarasco, Diritto e gestione, cit., pagg. 8-13; A.L. Tarasco., Sostenibilità del debito pubblico e gestione del patrimonio culturale (prima e dopo il Coronavirus), in Cura e tutela dei beni culturali, (a cura di) G.M. Esposito e F. Fasolino, Milano, Cedam, 2020, pag. 299 ss.

[42] M. Fiorillo, Fra stato e mercato: spunti in tema di costituzione economica, costituzione culturale e cittadinanza, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2018, 2, pag. 10.

[43] Il rilievo è tutt’altro che teorico, posto che il decreto impone l’adeguamento delle eventuali convenzioni o accordi già stipulati con soggetti terzi, ove prevedano canoni o corrispettivi inferiori (art. 3, comma 5).

[44] Fonte: ISTAT, Indagine sui musei e le istituzioni similari, anno 2022.

[45] Ciò non comporta che il d.m. 161/2023 non possa - seppur indirettamente - influenzare l’attività di musei non statali. Sul tema, si v. F. Rossi, Una riflessione sull’impatto del d.m. 161 del 2023 sui musei italiani non statali, in Aedon, 2023, 2, pag. 241 ss.

[46] In termini anche Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. 4 settembre 2020, n. 5357.

[47] L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3.

[48] L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, pag. 662.

[49] Ex multis, v. D. Manacorda, Un decreto inopportuno: appunti di un archeologo, in Aedon, 2023, 2, pag. 225 ss.

[50] G. Sciullo, Il d.m. 161 del 2023: un’analisi giuridica, in Aedon, 2023, 2, pag. 248.

[51] Sul tema, si v. M. Modolo, Il d.m. 11 aprile 2023, n. 161: osservazioni e proposte, in Aedon, 2023, 2, pag. 233.

[52] Il comunicato è stato siglato da numerose associazioni, operanti in campi dell’archivistica, delle biblioteche, dei servizi museali, dell’archeologia, della ricerca universitaria dottorale, della Storia dell’Arte.

[53] Un DAW® (ossia un “Digital ArtWork”, creazione della società “Cinello”) è cosa ben diversa da un “semplice” NFT. Trattasi infatti di multiplo digitale di opera d’arte che integra, differentemente dalla semplice tecnologia blockchain, elementi fisici. Nel caso del “Tondo Doni”, vi era una cornice realizzata a mano, un televisore e un hardware per conservare i dati, nonché un certificato tradizionale firmato e timbrato. A questo si affiancava la certificazione a mezzo di NFT. Sul tema, si v. l’intervento di E.D. Schmidt nell’ambito dell’audizione sull’uso dei certificati digitali di unicità (Non Fungible Token - NFT) svoltasi alla Camera dei deputati il 30 giugno 2022.

[54] Si rinvia a G. Foschini, “Tesori svenduti”, il Mibac frena sugli Nft dell’arte, su La Repubblica, 25 maggio 2022.

[55] Diversi autori evidenziano invece le prospettive positive, tanto per i musei quanto per i privati, che deriverebbero da una normativa permissiva di realizzazione di NFT raffiguranti beni culturali statali. Ex multis, v. G. Finocchiaro, Alcune riflessioni oltre il decreto n. 161 dell’11 aprile 2023, in Aedon, 2023, 2, pp. 214 ss.; E.D. Schmidt, Prospettive per la valorizzazione di riproduzioni digitali di beni artistici, in Il patrimonio culturale e le sue immagini. Diritto, gestione e nuove tecnologie, cit., pag. 235 ss.

[56] Cfr. C. Conti, delib. 20 ottobre 2023, n. 76/2023/G.

[57] La dubbia identificazione dell’“organo di vertice” ha già ricevuto critiche in dottrina: P. Liverani, Riproduzioni dei beni culturali statali: il nuovo Decreto Ministeriale 108/2024, in JLIS.it (online), 13 aprile 2024.

[58] Sul tema si v. G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’ in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019/1024, in Aedon, 2021, 1, pag. 16 ss.

[59] A.L. Tarasco, A chi è rivolto il tariffario per le immagini? in La Repubblica, 15 maggio 2023.

[60] Si veda il caso pratico del seriale online “Studi Veronesi” in A. Brugnoli, Il d.m. 11 aprile 2023, n. 161 e il suo impatto sulla ricerca e sull’editoria: brevi note a margine di un caso studio di pubblicazione in Open Access, in Aedon, 2023, 2, pag. 209 ss.

[61] S. Labory e U. Rizzo, Multinazionale, impresa, in Dizionario di Economia e Finanza Treccani (online), 2012.

[62] A. Fiz, Il mercato degli NFT si è già inceppato, in Il giornale dell’arte (online), 10 agosto 2022.

[63] Il precedente allegato del 2023 circoscriveva l’esercizio della determinazione del canone e dei relativi ambiti di discrezionalità ricorrendo ad una fitta “elencazione” e “valorizzazione” economica di variabili (dimensioni metriche dei beni e corrispondenti tariffe, relative classi di pregio, suddivisioni interne alle finalità lucrative/non lucrative...) associate a coefficienti. L’incrocio dei dati avrebbe dovuto generare un risultato, anche così precostituito nel minimo. Una tecnica redazionale che impegnava ben sei pagine dell’allegato, dedicate all’uso degli spazi.

Il nuovo allegato del 2024 affida, in meno di due pagine, la commisurazione del canone a categorie concettuali aperte (ad esempio, per l’uso individuale, quantificazione dei metri quadrati, individuazione del livello di pregio, finalità della richiesta, natura dell’evento, stagionalità...), richiamate narrativamente, ma astenendosi dalla “valorizzazione” delle stesse, perché non accompagnate da sub-classificazioni, da tabelle, da tariffe per classi dimensionali, da coefficienti.

[64] Per una ipotesi di disapprovazione della gratuità, si rinvia alla pronuncia Corte dei conti, III sez. centr. appello, sent. 19 ottobre 2018, n. 376.

[65] M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Roma, Soc. Il Foro, 1952, pag. 351.

[66] Si v. l’autorevole scritto di E.D. Schmidt., Prospettive per la valorizzazione di riproduzioni digitali, in Il patrimonio culturale e le sue immagini. Diritto, gestione e nuove tecnologie, cit., pag. 243.

[67] In particolare, per l’anno 2017 tale somma ammonta a soli euro 497.023,19. Fonte: A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., pag. 58.

[68] P. Forte, Il Terzo Valore, in Aedon, 2023, 2, pag. 219.

[69] Comunicato n. 12/2023, Ufficio Stampa e Comunicazione MiC.

[70] Quanto affermato nella cit. Trib. Palermo, ord. 4901/2017.

[71] Si veda la citata vicenda “Rolling Stones”, conclusasi con la cit. C. Conti, Sez. III Centr. Appello, sent. 117/2017.

[72] G. Piperata, I beni del patrimonio culturale tra canoni e corrispettivi, in Aedon, 2023, 2, pag. 257.

 

 

 



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