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Canoni e corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni culturali: prime riflessioni sul d.m. 161/2023

Il d.m. 11 aprile 2023, n. 161 e il suo impatto sulla ricerca e sull’editoria: brevi note a margine di un caso studio di pubblicazione in Open Access [*]

di Andrea Brugnoli [**]

Sommario: 1. Premessa. - 2. Primo problema: come si collocano le pubblicazioni Open Access nel tariffario? - 3. Un caso concreto di studio: Studi Veronesi. - 4. Difesa del decoro o censura anticostituzionale? - 5. Criteri uniformi o caos generalizzato? - 6. Il tariffario come limite all’attuazione del dettato costituzionale. - 7. Conclusione: le aspettative di un cittadino.

DM April 11, 2023, No. 161 and its impact on research and publishing: brief notes on a case study of Open Access publishing
The recent ministerial decree of 11 April 2023, n. 161 places very stringent constraints on the publication of images of State cultural heritage. The application of the attached price list effectively considers any publication including Open Access to the payment of fees and the opening of a concession procedure which until now was resolved with a simple communication to the conservatory institutes. Starting from a concrete case, we illustrate the obstacles that the decree poses to the study and research on cultural heritage and the costs that this entails for researchers and for the public administration itself.

Keywords: reproduction of cultural heritage; open access; ministerial decree 11 april 2023, n. 161.

1. Premessa

Il recente decreto ministeriale 11 aprile 2023, n. 161, di cui si discute in questa sede, ha suscitato le reazioni delle più importanti associazioni di professionisti dei beni culturali, delle società degli storici e delle consulte universitarie che si sono appellati al ministro per sollecitarne sostanziali modifiche o perlomeno per suggerire di attivare un confronto, in un’ottica di quella democrazia partecipata che era stata la via maestra nell’elaborazione e pubblicazione del piano nazionale di digitalizzazione [1]. Appare infatti evidente dalle argomentazioni portate da questi appelli come il decreto abbia preso in considerazione un solo punto di vista, che è quello di una presupposta redditività delle immagini dei beni culturali. Tutto si gioca attorno a questo assioma, che appare invece un teorema la cui dimostrazione dovrebbe spettare ai suoi sostenitori, dal momento che sono semmai proprio i massimi organi di controllo contabile dello Stato ad aver sottolineato l’antieconomicità di questo approccio [2]. Per non parlare degli stessi istituti museali statali chiamati ad applicare il decreto, i quali risultano in molti casi essi stessi critici nei confronti del decreto per l’aumento delle tariffe che si traduce in rinunce alla pubblicazione di immagini da parte dell’utenza e soprattutto per la farraginosità delle procedure amministrative connesse al rilascio delle concessioni in luogo delle gratuità prima vigenti [3].

Il tariffario allegato al decreto ha subito posto diversi problemi di interpretazione che qui si intendono mettere in evidenza, prendendo in esame innanzitutto il caso dell’editoria Open Access. È da questa particolare (ma penso fondamentale) visuale che si intenderebbe proporre una riflessione, partendo da casi concreti di interpretazione del decreto e del tariffario da parte di istituti di conservazione di beni culturali statali e da loro preventivi forniti per la pubblicazione in sedi con queste caratteristiche.

2. Primo problema: come si collocano le pubblicazioni open access nel tariffario?

Prima questione teorica e pratica al tempo stesso: come considerare una pubblicazione on line, quali sono ormai la maggior parte delle riviste e collane? Come si considera la versione on line e un parallelo servizio di print on demand o la tiratura in stampa digitale di un numero circoscritto di copie? Come si concilia il tutto con le licenze creative commons previste dall’open access, che prevedono il libero riutilizzo di quanto pubblicato da parte di terzi? Queste alcune delle prime e più generali domande, perché altre concrete e pratiche si pongono poi a chi si trova di fronte alla necessità di pubblicare immagini di beni culturali a corredo di studi scientifici o di divulgazione, promozione e valorizzazione di quel patrimonio culturale che la Convenzione di Faro assegnerebbe in primo luogo alle comunità locali.

Un inciso: è bene precisare che “Open Access” non necessariamente esclude modelli basati sul lucro. I principali editori scientifici prevedono modelli di business basati su APC che aumentano considerevolmente nel caso di articoli pubblicati in open access in riviste “ibride” [4]. Sono questi costi che risultano a carico o dell’autore o, nel caso dei cosiddetti “contratti trasformativi”, delle biblioteche universitarie [5]. Inoltre, un prodotto per essere definito in open access secondo la Dichiarazione di Berlino - adottata dalle università italiane con la Dichiarazione di Messina e ripresa negli statuti e codici etici della quasi totalità delle Università italiane [6] - deve essere distribuito in licenza CC BY, ovvero aperta anche al riuso commerciale [7]. Per cui, se si volesse ammettere, come pure s’è detto, l’ipotesi di considerare l’editoria open access come condizione per la gratuità, si dovrebbe riconoscere la stessa condizione anche agli altri editori tradizionali che operano anch’essi per trarre legittimo lucro dalle loro pubblicazioni.

Come si colloca, per entrare nello specifico di quanto vorremmo esporre in questa sede, una pubblicazione seriale in Diamond Open Access [8] (quindi senza scopo di lucro nel più ampio senso del termine, dal momento che non sono chiesti agli autori contributi per Apc, Article Processing Charge, che nelle riviste di editori commerciali raggiungono invece cifre di centinaia se non migliaia di euro), senza pubblicità - perché anche questo è incomprensibilmente considerato come “lucro”, quando è solitamente solo un modo per coprire parte delle spese sostenute [9] - e che preveda anche una limitata tiratura a stampa (50/100 copie: quanto serve per assicurare il deposito legale anche di una versione cartacea e dare la possibilità di accesso a lettori che non hanno confidenza o pratica con gli strumenti informatici) distribuita da un editore, con prezzo di copertina assai contenuto (sotto i 50 euro) [10]?

3. Un caso concreto di studio: Studi Veronesi

Quello però che si vorrebbe proporre in questa sede è appunto questo caso di studio concreto, che deriva dall’esperienza di un seriale on line dedicato alla storia del territorio veronese (Studi Veronesi), che, con l’appoggio di un’associazione culturale (Centro di Documentazione per la Storia della Valpolicella) è stata ideata e viene pubblicata da alcuni anni senza alcun contributo privato o pubblico, basata esclusivamente sul lavoro gratuito - ma assai qualificato - di un gruppi di volontari. La collana ha avuto un notevole riscontro anche nella valutazione scientifica, dal momento che è stata accettata in Doaj (Directory of Open Access Journal) [11], in Erih Plus [12] e recentemente anche in Scopus, la più importante banca dati mondiale per la ricerca scientifica, in ragione dei rigorosi criteri con cui è realizzata. Studi Veronesi non è presente negli elenchi Anvur, in quanto è una collana e non una rivista, ma anche perché i promotori non sono interessati ai meccanismi premiali interni al mondo universitario, nell’opinione che l’orizzonte della ricerca rappresenti un ambito ben più ampio di quello rappresentato dal mondo universitario.

È importante specificare questo punto, perché è stata ventilata l’idea di rendere gratuita la pubblicazione di immagini di beni culturali dello Stato per le sole riviste presenti negli elenchi Anvur [13]. Questa ipotesi anzitutto smentisce l’interessata interpretazione dell’art. 108 del codice dei beni culturali che considera insuperabile la rigida dicotomia tra lucro (soggetto a concessione) e non lucro (gratuito), ma soprattutto discrimina tutte le pubblicazioni non strettamente accademiche ma che pure rappresentano importanti forme di valorizzazione “dal basso” - ma non per questo di basso livello - dei beni culturali. Perché la pubblicazione di un docente in rivista accademica di fascia A - in riviste che potrebbero rappresentare comunque un vero e proprio lucro per l’editore - dovrebbe essere gratuita e non invece la pubblicazione di un opuscolo diffuso da un’associazione locale a una cifra che può semmai rappresentare un rimborso per le spese di stampa eventualmente sostenute? E che dire poi delle pubblicazioni di interesse turistico che valorizzano il territorio attraverso le immagini: perché dovrebbero pagare più di un docente universitario che magari pubblica su una rivista basata su uno dei modelli economici sopra esposti?

È evidente che, in questo modo, verrebbe discriminata la ricerca in aperta violazione dei principi costituzionali. Se la ricerca è libera per tutti (artt. 9 e 33 Costituzione), il tariffario dovrebbe rendere gratuita l’editoria in generale, al più quella - genericamente - di interesse culturale, senza rigide classificazioni che comporterebbero, nei fatti, discriminazioni soggettive. Analogamente, cioè a quanto si verificava in precedenza. Il tariffario in questo senso dovrebbe quindi puntare, se non a migliorare, quantomeno a non peggiorare lo status quo precedente.

Si è avuta precisa conferma di questi timori nella risposta ricevuta dall’Archivio di Stato di Venezia a fronte di una richiesta di chiarimento, dovendo pubblicare una mappa storica conservata da questo ente, a necessario corredo di un contributo che la analizzava sotto diversi aspetti [14].

In sintesi - per quanto possibile - la procedura burocratica che si profila è questa. Se la domanda di pubblicazione non proviene da un ente pubblico o da onlus riconosciuta, qual è il caso di Studi Veronesi, si dovrà applicare una marca da bollo da 16 euro sia per la domanda sia per il decreto di concessione (16+16 euro, dunque) [15]. La pratica va comunque avviata, con risposta da parte dell’amministrazione entro 30 giorni. Il che comporta un notevole aggravio burocratico per l’amministrazione (già sanzionato, come ricordato, da un’inascoltata Corte dei conti) [16] e si dovrà attendere appunto la risposta dell’amministrazione: per chi ha un minimo di pratica editoriale, sa bene come questi tempi possano creare difficoltà notevoli per una pubblicazione, soprattutto se si devono gestire su più fronti.

A questo punto si applica una prima tariffa, quella per ottenere il file, se questo è già posseduto dall’amministrazione. Nel caso di immagini a colori ad alta risoluzione (per una pubblicazione on line, che esce solitamente in formato A4 non è possibile fare altrimenti, anche se dove stia il limite tra bassa e alta definizione non è specificato) sono 12 euro [17]. È facile immaginare che questa somma sia da pagare anche se si è già in possesso del file, eventualmente ottenuto a pagamento precedentemente, dal momento che esiste sul sito dell’Archivio un modulo apposito in cui l’utente si impegna a non diffondere immagini ottenute per ragioni di studio (cosa che solitamente si fa in prima battuta) [18].

A questo punto si deve calcolare la tariffa per la pubblicazione. Trattandosi di pubblicazione on line e a stampa al di sotto delle 300 copie, si dovrà per ciascuna immagine pagare la tariffa con coefficiente 1 per ciascuna di queste forme di distribuzione. Si devono dunque aggiungere 12 euro per la pubblicazione nella versione on line e 12 euro per quella a stampa [19].

In totale, per un’immagine si devono pagare 32 euro di marche da bollo e 36 per ottenere e pubblicare il file, per un totale di 68 euro (risparmio l’indicazione del rimborso in francobolli per l’invio tramite raccomandata del decreto di concessione, evidentemente non essendo possibile inviarlo se non per mail, perlomeno tramite pec, nonostante quanto previsto dal Codice dell’amministrazione digitale). Il tutto potrebbe essere moltiplicato per ciascuna immagine, dal momento che queste possono provenire da diversi archivi, musei o altri enti statali. È ovvio che una cifra del genere è insostenibile per qualsiasi iniziativa no-profit, senza tenere conto dell’aggravio di tempo per attivare la pratica concessoria e attenderne la risposta. È appena il caso di fare notare che, prima del d.m. 11 aprile 2023, n. 161 i costi di pubblicazione erano limitati al rimborso delle spese di fornitura dell’immagine da parte dell’istituto conservatore - pari a zero, dunque, se la foto era realizzata con mezzi propri –, in quanto la pubblicazione rientrava entro i limiti già definiti dal d.m. 8 aprile 1994 riprese dalle circolari della direzione generale archivi (nn. 33 e 39 del 2017) e soggetta a semplice “comunicazione” all’ente detentore del bene che permetteva di evitare la trafila burocratica che oggi invece viene estesa a qualunque pubblicazione editoriale.

Nella corrispondenza intercorsa con l’Archivio di Stato di Venezia si fa cenno anche alla pubblicazione di immagini già acquisite dagli utenti con il proprio mezzo di riproduzione digitale. Evidentemente si tratta di una soluzione elaborata, in modo creativo, dall’Istituto visto che il tariffario tace su questo punto e non risultano circolari applicative su questo aspetto. In questo caso, cito, “non si fa riferimento al valore delle immagini digitali a colori in alta definizione (12 euro) o delle scansioni professionali (16 o 30 euro) ma al valore più basso previsto dal tariffario, ossia le scansioni in bassa (1 euro entro il formato A3, 2 euro oltre il formato A3)”. Da dove venga questa equiparazione tra scansioni e immagini realizzate con mezzi propri non saprei dire...: ma anche questo è indice della poca chiarezza del decreto e di come abbia innescato da parte degli archivi probabilmente non tanto desiderio di aumentare gli introiti quanto di non incorrere nel rischio di essere chiamati a rispondere di un danno all’erario. Senza contare che la previsione di una somma a titolo di rimborso per una spesa mai sostenuta dall’amministrazione sembra essere, per usare un eufemismo, ai limiti di quanto possa essere considerato legittimo.

Perlomeno non è stata presa in considerazione la possibilità di applicare la fattispecie dell’“e-book” indicata nel tariffario - invero poco chiara: non darei per scontato che qualcuno faccia rientrare una monografia miscellanea on line, quale è il nostro caso, in questa categoria –, nel qual caso si sarebbe dovuto valutare il numero dei download di ciascun contributo, aggiornando i pagamenti su questa base, equiparati alla tiratura: il che supera il limite del grottesco. In questo caso, i parametri potrebbero essere triplicati per soli 2.000 download, con un costo in questo caso per ciascuna immagine di 16+16 (marche da bollo) +12 (fornitura del file)+12*3 (coefficiente e-book)+12 (stampa sotto le 300 copie) = 92 euro, ma con l’onere aggiunto delle comunicazioni e dei pagamenti ulteriori nel caso di download effettuati oltre questi numeri, che per iniziative on line ad accesso aperto sono all’ordine del giorno.

Questo per una immagine, proveniente da un istituto: il tutto andrebbe ovviamente moltiplicato per ciascuna immagine e/o per ciascun istituto di conservazione: si può facilmente immaginare cosa possa significare tutto questo per una pubblicazione di storia dell’arte o di archeologia, dove le immagini sono parte necessaria di qualsiasi studio: normalmente qualche decina per un breve saggio o articolo; centinaia per una monografia. Ma, in ogni caso, le immagini sono necessarie ancor più in tutte le pubblicazioni in cui si vuol tradurre una ricerca anche sul piano della divulgazione, rendendo accessibile la conoscenza dei beni culturali a più ampio raggio.

4. Difesa del decoro o censura anticostituzionale?

Infine, non è indifferente che, in base all’art. 2 del d.m. 161, l’utilizzo dell’immagine sarà valutato nella sua conformità al decoro del bene culturale, con una forzata interpretazione dell’art. 20 del codice dei beni culturali (che riguarda interventi sul bene, non sulla sua immagine), in spregio alla libertà di espressione e ricerca sancita dalla Costituzione. Per intanto viene richiesto, probabilmente in una ripresa dell’applicazione del d.m. 8 aprile del 1994, di inviare copia delle bozze per ottenere il placet dell’istituto [20]: questo significa che si potrebbe rimanere fermi per altri 30 giorni (il canonico limite per le risposte della pubblica amministrazione). Al di là del profilo costituzionale all’art. 2 del d.m. n. 161, chiunque abbia mai seguito la redazione di una pubblicazione sa come le ultime bozze cadano a brevissima distanza dalla scadenza ultima per la stampa, diventando un vincolo ingestibile.

Ma chi ci assicura che qualche solerte funzionario non metta un veto alla pubblicazione in base a un non definibile “decoro”? Per esempio, impedisca l’utilizzo di immagini di soggetti sacri per illustrare aspetti della vita quotidiana nel tempo, ritenendole non rispettose della dignitas del bene culturale? Si potranno ancora mettere i baffi a una Gioconda? Non si capisce, a questo proposito, quale differenza possa esserci tra un reimpiego dell’immagine di un bene culturale per finalità di espressione artistica - che qualcuno vorrebbe invece ammessa - da quello che si potrebbe fare per l’ambito dello studio e ricerca, pur essi liberi secondo la Costituzione assieme alla manifestazione del pensiero.

5. Criteri uniformi o caos generalizzato?

Questo è il caso di una risposta: ma al dire il vero non direttamente si sono raccolte risposte da altri enti di diverso e ancor più confuso tenore. L’Archivio di Stato di Venezia interpreta il tariffario considerando l’acquisizione dell’immagine come “riproduzione senza scopo di lucro” soggiacente perciò a rimborso, al quale è eventualmente da aggiungere un canone di concessione in base al calcolo previsto per le “riproduzioni a scopo di lucro”. Ne deriva che qualsiasi riproduzione a scopo di lucro includa in sé una riproduzione senza scopo di lucro. Altri istituti ministeriali, invece, ritengono che il calcolo della tariffa per riproduzioni a scopo di lucro già di per sé implichi un rimborso per l’acquisizione delle immagini e che quindi quest’ultimo non possa essere esatto due volte. Le difformità a livello interpretativo sono il segno evidente dalla scarsa chiarezza del tariffario, cui le Direzioni generali non hanno inteso fare fronte con circolari applicative nell’attesa - o meglio: forse nella speranza - che il decreto fosse ritirato o completamente riscritto. Tutto questo illustra come la tanto vantata necessità, a cui il decreto intendeva far fronte, di creare un modello uniforme a livello nazionale non sia in alcun modo risolta, anzi.

6. Il tariffario come limite all’attuazione del dettato costituzionale

A fronte del nuovo tariffario qual è stato quindi il risultato? Il Comitato di redazione di Studi Veronesi ritiene che finché non verrà revisionato il tariffario non verrà pubblicata alcuna immagine di beni culturali statali. Se un contributo dovesse contenere necessariamente immagini di beni culturali dello Stato, si rinvierà il testo all’autore, spiegandogli l’indisponibilità a sostenere questi oneri e quindi a pubblicare il suo contributo, a meno che non intenda sobbarcarsi tutti gli oneri, comunicandoci la documentazione di ogni passaggio effettuato nei tempi utili per la pubblicazione. Le risposte, com’è facile immaginare, sono state per ora perlopiù negative.

Il Comitato di redazione di Studi Veronesi limiterà il suo lavoro, svolto finora gratuitamente per la promozione, valorizzazione e divulgazione del patrimonio culturale, ma il danno è soprattutto per lo Stato e per i cittadini che dovrebbero essere invece considerati, a norma di Costituzione, i primi e veri detentori dei diritti sui beni culturali. Non è più così, evidentemente. Sarebbe però allora corretto modificare, coerentemente, anche la Costituzione. All’estensore del tariffario dovrebbe essere noto (e sicuramente lo era a chi a redatto il piano nazionale di digitalizzazione, Pnd) che le immagini non sono un orpello, ma sono parte integrate della ricerca se non complemento necessario della stessa. Di conseguenza, o si riscrive il tariffario allineandolo al Pnd (che non si capisce a questo punto ora che ruolo abbia) oppure occorre riscrivere, coerentemente, i principi costituzionali contraddetti dal d.m. n. 161/2023, perché la ricerca in questo modo non può dirsi libera, ma controllata dallo Stato, e non è nemmeno più promossa, come vorrebbe un art. 9 che non ha più senso di esistere nella sua formulazione attuale. E, come se non bastasse, al danno si aggiunge un’amara beffa, se si considera che nel Pnd, emanato un anno fa dallo stesso ministero della cultura, si prevedeva, in un quadro chiaro e lineare, la gratuità per la pubblicazione di immagini di beni culturali su qualunque prodotto editoriale, con una lungimiranza che ora appare distante anni luce rispetto alla logica dei coefficienti che innerva il tariffario attuale e che la necessaria revisione del tariffario dovrebbe poter superare.

7. Conclusione: le aspettative di un cittadino

In sintesi, appare evidente che con l’attuale decreto:

- si deprimono le iniziative di promozione e valorizzazione dei beni culturali attuate dai cittadini e in generale si comprime il diritto ai beni culturali sancito dalla Convenzione di Faro, che invece figura nelle omologhe Linee Guida del Pnd in incipit quale criterio ispiratore;

- si vanifica il notevole sforzo, anche economico e organizzativo, compiuto dallo stesso ministero per disciplinare in modo razionale e uniforme la riproduzione di beni culturali pubblici nell’ambito del Pnd, per proporre invece un testo ricco di errori e contraddizioni che si sarebbero invece potuti evitare mantenendo struttura e contenuti essenziali delle Linee Guida dello stesso Pnd nel decreto ministeriale in questione: perché, dunque, dover ricominciare da zero quando il lavoro era già stato definito in ogni dettaglio?

- si limitano gli spazi di studio: la maggior parte dei beni - non parliamo infatti di poche opere di grande impatto mediatico, ma di migliaia di km di documenti d’archivio e di risorse bibliografiche, nonché di un numero incalcolabile di opere d’arte e di reperti archeologici perlopiù conservati in magazzini - rischiano di non essere oggetto di studio e ancor più probabilmente le loro immagini cesseranno di circolare (non sarà direttamente anticostituzionale, ma di certo non va nella direzione di un’attuazione della Costituzione);

- per una pubblicazione di immagini di beni dello Stato si paga sempre e comunque: di fatto non esiste una pubblicazione che non sia considerata senza fine di lucro, anche per quanto riguarda il cosiddetto Diamond open access;

- si paga, ma i costi maggiori sono quelli burocratici per la gestione delle pratiche di concessione, il cui costo per la pubblica amministrazione è superiore agli introiti (lo dice la Corte dei Conti) ed è un costo diretto anche per il cittadino, costretto oltre che a pagare in solido a impegnare il suo tempo nel seguire queste pratiche e attenderne i tempi di gestione.

Cosa si può aspettare a questo punto un cittadino, attento e coinvolto nella valorizzazione del patrimonio culturale, che intende esercitare un diritto/dovere al bene culturale, secondo la convenzione di Faro e la nostra Costituzione, in attesa che questo decreto venga se non ritirato, quando meno corretto nei suoi più evidenti errori?

- Innanzitutto, che non si confondano i piani: il decreto vale per enti dipendenti dal ministero e non si applica a nessuno dei beni culturali di proprietà o in consegna di qualsiasi altro ente pubblico, compresi tutti gli enti locali che possono continuare a riferirsi direttamente agli artt. 107 e 108 del codice, che attribuisce loro il potere di fissare i canoni minimi;

- che questi enti siano consapevoli che non c’è un limite minimo per il canone, che quindi può essere azzerato: ce lo dice anche la tanto ricordata direttiva europea sugli open data, che se è vero che da un lato esclude dall’applicazione le riproduzioni di beni di musei, archivi e biblioteche, d’altro canto il Considerando 39 assume che «i limiti massimi per i corrispettivi di cui alla presente direttiva non pregiudicano il diritto degli Stati membri di imporre costi inferiori o di non imporne affatto»;

- che questi enti tengano presente come la Corte dei Conti abbia sottolineato l’antieconomicità della gestione di tariffe di concessione: di conseguenza sono semmai gli enti che applicano tariffe a dover dimostrare di non aver determinato un danno all’erario nella loro eventuale applicazione, considerando tutte le spese, comprese quelle del personale addetto;

- infine, last but not least, che il mondo universitario respinga come “patto scelere” la proposta di gratuità per la pubblicazione di immagini di beni culturali dello Stato riservata alle riviste classificate ANVUR e non accetti questa soluzione “corporativa” ma si pronunci apertamente con un richiamo ai valori costituzionali di libertà di ricerca e di espressione e di promozione della cultura e della ricerca.

In conclusione: un atto ministeriale di simile portata non dovrebbe prescindere anzitutto dal lavoro che è stato già portato avanti dal ministero nell’ambito del Pnd e non può nemmeno sottovalutare l’impatto che rischia di provocare sui progetti di ricerca e sull’editoria nazionale e locale. Spero con questo mio “particolare” intervento di aver reso concreto cosa può significare la sua applicazione nella veste attuale.

 

Note

[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.

[**] Andrea Brugnoli, direttore editoriale di Studi Veronesi, Via Vaio, 25, 37022 Fumane, info@veronastoria.it.

[1] Istituto Centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Dipartimento della Funzione Pubblica, Consultazione sul Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale, https://open.gov.it/consultazione-piano-nazionale-digitalizzazione.

[2] Corte dei Conti, Delibera n. 50/2022/G, https://www.corteconti.it/HOME/Documenti/DettaglioDocumenti?Id=2565b05e-1426-4258-9965-54c764788b2d. Da parte dei fautori e sostenitori del decreto è stato poi portato a esempio della validità del modello il mercato delle riproduzioni realizzate tramite Nft (Non Fungible Token: si veda per esempio lo spazio dedicato in occasione della presentazione di A.L. Tarasco - R. Miccù, Il patrimonio culturale e le sue immagini. Diritto, gestione e nuove tecnologie, Napoli 2022, svoltasi al Museo archeologico nazionale di Napoli il 12 dicembre 2022, https://www.youtube.com/watch?v=yMaamhdP1TI), il cui crollo è da tempo evidente: un report di Dappgambl illustra come circa il 95% delle collezioni di Nft presenti nel mercato oggi non avrebbe alcun valore e che il 79% di tutte le collezioni di Nft è rimasto invenduto: Dead NFTs: the evolving landscape of the NFT market, https://dappgambl.com/nfts/dead-nfts/.

[3] Le dichiarazioni degli istituti statali sono riportate in G. Giardini, M. Pirrelli, Musei. Nuove tariffe spazi e immagini: i grandi fanno cassa, i piccoli soffrono, in Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2023.

[4] S. Pinfield, J. Salter, P.A. Bath, The ‘total cost of publication’ in a hybrid open-access environment: Institutional approaches to funding journal article-processing charges in combination with subscriptions, «Journal of the Association for Information Science and Technology», 67 (2016), 7. pagg. 1751-1766.

[5] P. Galimberti, Contratti trasformativi, cosa sono e a che punto siamo in Italia, https://open-science.it/article?rpk=206329&prs_sel=p_funder&tpc_sel=t_openscience. In quest’ultimo caso, a fronte di un numero definito di articoli pubblicabili in open access da parte di appartenenti alle istituzioni universitarie aderenti, vengono applicati aggravi significativi sugli abbonamenti.

[6] Crui, Open Access, https://www.crui.it/open-access.html.

[7] Dichiarazione di Berlino per l’accesso aperto alla letteratura scientifica.

[8] G. Peruginelli e S. Faro, Il modello Diamond Open Access per la comunicazione scientifica accademica: contesto e iniziative in corso, in Riv. it. inf. e dir., 2023, 1, pagg. 93-102.

[9] Circolare della Direzione Generale Archivi n. 39/2017. La procedura semplificata per la pubblicazione di immagini è prevista solo per pubblicazioni non a fine di lucro, così specificate: “nel caso di pubblicazioni on line, pubblicazioni che perseguano finalità scientifiche o pedagogiche, non beneficino di inserzioni pubblicitarie o commerciali e non siano soggette ad accesso a pagamento”.

[10] Se anche il ministero valutasse di rendere gratuite le pubblicazioni on line ad accesso aperto, va detto che tali pubblicazioni prevedono spesso la commercializzazione della versione cartacea in modalità “print on demand”, che non configura un modello di lucro, ma un meccanismo di semplice recupero delle spese sostenute. Il prezzo di copertina, è bene precisarlo, in questi casi è solitamente volto al mero recupero delle spese e a garantire un’accessibilità a chi non utilizza strumenti informatici e una conservazione anche in formato cartaceo attraverso il deposito legale, con cui si garantisce la disponibilità a titolo gratuito della pubblicazione nelle biblioteche nazionali e locali di conservazione.

[11] https://doaj.org/toc/2532-0173.

[12] https://kanalregister.hkdir.no/publiseringskanaler/erihplus/periodical/info.action?id=504328.

[13] Lettera di Antonio Tarasco, capo dell’ufficio legislativo del ministero della Cultura a «Repubblica» del 15 maggio 2023: “In ogni caso, per evitare ogni possibile speculazione nei prossimi giorni chiariremo con un successivo atto che nulla è dovuto per le riproduzioni necessarie alle riviste scientifiche di cui all’elenco Anvur e per le tesi accademiche”; si veda al proposito anche l’interrogazione a risposta in Commissione cultura della Camera dei Deputati, presentata da Irene Manzi (n. 5-00807, 8 maggio 2023, seduta n. 99) https://aic.camera.it/aic/scheda.html?numero=5/00807&ramo=CAMERA&leg=19.

[14] Mail del Servizio di fotoriproduzione dell’Archivio di Stato di Venezia del 18 agosto 2023.

[15] https://www.archiviodistatovenezia.it/it/servizi-al-pubblico/servizio-di-fotoriproduzione.html?view=article&id=34:pubblicazione-di-immagini-di-documenti&catid=17:servizio-di-fotoriproduzione.

[16] Delibera n. 50/2022/G: “Le forme di ritorno economico basate sulla “vendita” della singola immagine appaiono anacronistiche e largamente superate poiché, peraltro, palesemente antieconomiche”, pag. 126.

[17] Ministero della Cultura, Direzione Generale Archivi. Archivio di Stato di Venezia, Importi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali, https://www.archiviodistatovenezia.it/images/Modulistica/7_tariffario_semplificato.pdf: sezione A1.

[18] https://www.archiviodistatovenezia.it/images/Modulistica/6_c_dichiarazione.pdf.

[19] Ivi, sezione A2.

[20] https://www.archiviodistatovenezia.it/images/Modulistica/9_richiesta_pubblicazione.pdf.

 

 

 



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