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Canoni e corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni culturali: prime riflessioni sul d.m. 161/2023

Il d.m. 11 aprile 2023, n. 161: osservazioni e proposte [*]

di Mirco Modolo [**]

Sommario: 1. Impatto sui procedimenti di concessione. - 2. Ridimensionamento dell’autonomia degli istituti e dei luoghi della cultura. - 3. Aporie e contraddizioni. - 4. Il convitato di pietra: il Piano nazionale digitalizzazione e le “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale”. - 5. Lucro o non lucro? Il (falso) problema dell’editoria. - 6. Licenze Open Access e Codice dei beni culturali e del paesaggio. - 7. Conclusioni.

The d.m. 11 april 2023, no. 161: observations and proposals
This paper analyzes the Decree of Italian Ministry of Culture 11th April 2023, n. 161 on the determination of fees on reproductions of State’s cultural heritage and notes the main critical issues in order to propose useful corrective measures for its possible improvement.

Keywords: copyright; reproduction of cultural heritage; digital library.

1. Impatto sui procedimenti di concessione

Tra le osservazioni di carattere più generale non si può non rilevare il fatto che l’adozione del d.m. 161/2023 da parte degli istituti ministeriali comporti un notevole incremento degli oneri connessi al numero delle concessioni, dovuti al gravoso iter procedimentale sotteso al rilascio di tali provvedimenti, a fronte di ricavi il più delle volte inferiori ai costi stessi di gestione.

Ciò è particolarmente evidente in ambito archivistico, il solo nel ministero ad aver garantito, sino all’adozione del d.m. n. 161/2023, una gestione omogenea delle pratiche di riproduzione per effetto delle disposizioni contenute nelle circolari 33/2017 e 39/2017 della Direzione generale archivi: per la pubblicazioni di immagini di beni archivistici statali in sedi ‘genericamente’ scientifiche (monografie al di sotto delle 2000 copie e dei 70 euro e tutti i periodici di natura scientifica e culturale) sin dal 2017 era stata infatti prevista non solo la gratuità ma anche una significativa novità procedurale consistente nell’invio di una semplice comunicazione per e-mail dell’intenzione di pubblicare all’istituto detentore del bene in luogo della formale richiesta di rilascio di concessione accompagnata dalla marca da bollo [1]. Quest’ultima, con l’adozione del d.m. n. 161/2023, è invece tornata a essere la regola per ogni pubblicazione caratterizzata da un qualsiasi prezzo di copertina.

Ne risulta perciò aggravata l’attività amministrativa a fronte di introiti modesti - o nulli - per lo Stato, ma comunque sufficienti a rendere più difficoltosa l’attività editoriale connessa alla divulgazione della conoscenza del patrimonio culturale.

Ne esce compromesso, in questo modo, anche uno degli obiettivi sottesi al d.m. 161/2023, vale a dire quello di uniformare la disciplina delle riproduzioni di beni culturali statali: se in precedenza la quasi totalità delle pubblicazioni di riproduzioni di beni archivistici godeva della gratuità nell’ambito dell’iter semplificato appena descritto, ora invece, ognuno dei centouno archivi di Stato in caso di pubblicazioni editoriali è tenuto a rilasciare un provvedimento di concessione dietro corresponsione di un canone che può variare da istituto a istituto, restituendo un quadro macchinoso e assai meno uniforme rispetto al passato.

Se in precedenza l’utente era consapevole che per pubblicare l’immagine di un qualunque bene archivistico statale sarebbe stata sufficiente una comunicazione, ora è tenuto, in ogni caso, a richiedere una concessione versando un canone che potrà variare in base al tariffario dell’archivio di Stato di riferimento.

2. Ridimensionamento dell’autonomia degli istituti e dei luoghi della cultura.

Il tariffario, nel centralizzare la definizione delle tariffe minime ed elevandone a dismisura l’entità, rimuove qualsiasi margine di discrezionalità degli istituti irrigidendo notevolmente le regole di tariffazione connesse con la riproduzione di beni culturali e l’uso degli spazi [2]. Ne esce così ridimensionata l’autonomia gestionale e contabile di numerosi istituti statali che, pur nel quadro di criteri comuni, dovrebbero poter profittare, viceversa, di margini maggiori di flessibilità, i quali consentirebbero di impostare regolamenti di riproduzione più rispondenti alle specificità dei beni che un istituto conserva.

Il valore economico delle immagini dei beni, che si misura sulla gamma dei loro riutilizzi potenziali, non è infatti costante ma può variare da istituto a istituto, come pure tra i beni della stessa raccolta o collezione. Con le dovute eccezioni, il valore economico potenziale di immagini di opere conservate nei musei, ad esempio, è mediamente più elevato rispetto alle riproduzioni di beni archivistici o librari. Allo stesso modo, rimanendo nell’ambito delle collezioni museali, le richieste d’uso commerciale delle riproduzioni si concentrano, per numero e tipo di richieste, su una quota assai esigua di capolavori artistici che compongono un vero e proprio brand “nazionale” [3], al contrario di quanto si riscontra nella stragrande maggioranza delle opere, in rapporto alle quali lo stesso meccanismo concessorio può giungere a rappresentare un onere economico di entità persino superiore all’utile complessivo prodotto dai canoni di riproduzione [4]. Ragion per cui le rigidità imposte dal tariffario finiscono per impedire ai singoli istituti di svolgere opportune analisi costi-benefici in vista della scelta della strategia di business più oculata, che non escluda a priori l’opzione dell’Open Access (libero riuso commerciale: cfr. infra) per le ragioni appena delineate.

Quest’ultima, in particolare, porterebbe con sé un duplice e oggettivo vantaggio, che è quello di contenere la spesa pubblica nei casi appena citati e di migliorare la visibilità di opere che, diversamente, rischierebbero l’oblio, il cui principale antidoto, come è noto, è invece rappresentato dalla più ampia circolazione delle loro riproduzioni, come vuole l’art. 6 del Codice, che definisce la “valorizzazione” come l’insieme delle “attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso”.

Detto questo la definizione di un quadro di regole comuni è un obiettivo senz’altro auspicabile, anche se occorre rifuggire da tendenze centripete, ugualmente dannose giacché impediscono di gestire in modo efficace ed efficiente la multiforme varietà dei beni conservati negli istituti e nei luoghi della cultura statali.

3. Aporie e contraddizioni

Nel paragrafo “riproduzioni senza scopo di lucro” (par. A.1) dell’allegato al d.m. n. 161/2023 è previsto un rimborso per la fornitura di immagini, mentre nel paragrafo “riproduzioni a scopo di lucro” (par. A.2) dello stesso allegato, la tariffa per riproduzioni con fini commerciali è definita dal rimborso delle spese di fornitura moltiplicato per un primo coefficiente identificativo della finalità d’uso della riproduzione e per un secondo coefficiente connesso alla tiratura o al numero di riproduzioni pubblicate. L’applicazione di un siffatto sistema di calcolo produce contraddizioni e aporie che, come vedremo, ne minano la coerenza interna.

La prima: in caso di pubblicazioni “a scopo di lucro” il richiedente è chiamato a corrispondere un rimborso anche laddove non sarebbe previsto alcun onere a carico dell'amministrazione: se infatti l’utente esegue una fotografia con il proprio dispositivo di riproduzione, oppure scarica un’immagine da un sito web (anche non ministeriale) è evidente che l’istituto non sostiene alcun costo vivo nella fornitura delle immagini, cosicché non dovrebbe essere richiesto alcun tipo di rimborso.

L’ipotesi apparentemente più logica e immediata di un rimborso nullo nei fatti viene però scartata - come si riscontra nella prassi operativa - perché nell’impianto del tariffario, che assume il “rimborso spese” come primo parametro per determinare le tariffe di riproduzione, avrebbe l’effetto di azzerare il canone previsto per eventuali usi commerciali, in contrasto con quanto dispone l’art. 108 del Codice (pur con i distinguo di cui si dirà al par. 6). In tal modo la tariffa di acquisizione si combina e confonde con la tariffa d’uso dell’immagine, con effetti paradossali: per chi desidera pubblicare un’immagine, ad esempio, sarà del tutto indifferente, in termini di tariffa complessiva, il fatto che la riproduzione sia già disponibile o che debba essere richiesta ex novo al servizio di riproduzione dell’istituto che ha in consegna il bene.

In altri termini l’utente, nel pubblicare un’immagine già a sua disposizione, si trova a dover pagare per un servizio di cui non fruisce, con la conseguenza che per l’utente diventa persino antieconomico pubblicare una riproduzione già acquisita in autonomia. A parità di prezzo l’utente preferirà quindi ricorrere a un servizio di riproduzione che, inevitabilmente, dovrà fare fronte a un maggiore numero di richieste, senza peraltro significativi introiti nelle casse degli istituti, dal momento che i maggiori oneri per la fornitura di riproduzioni sono a mala pena compensati da una tariffa concepita unicamente come rimborso spese. In sintesi, dalla lettura dell’allegato emergono dubbi di legittimità dell’atto, che derivano dall’assenza di criteri equi e razionali per la determinazione delle tariffe nei casi appena esposti e in quelli che seguono.

Un’altra situazione, tutt’altro che infrequente, è quella relativa alle immagini già presenti nei server degli istituti ma, per varie ragioni, non ancora pubblicate in rete. Si tratta di riproduzioni dunque già concretamente disponibili, in quanto eseguite dagli istituti di cultura in precedenti campagne di digitalizzazione. Queste ultime possono allora essere semplicemente trasferite al richiedente dietro un rimborso che, laddove richiesto, dovrebbe essere limitato alle sole spese per la ricerca e l’invio all’utente del file digitale relativo alla riproduzione.

Per questa stessa ragione molti istituti nei loro regolamenti erano soliti differenziare nettamente la tariffa di fornitura delle immagini ex novo da quella prevista per l’invio di digitalizzazioni già disponibili. Il tariffario tace su questi casi, ma la prassi che si registra è quella di esigere comunque il rimborso “pieno” - analogamente ai casi di virtuale inesigibilità del rimborso sopra esaminati - e che quindi l’utente debba corrispondere la stessa tariffa richiesta per una ripresa fotografica eseguita ex novo dall’istituto anche se l’onere per l’amministrazione si risolve nella semplice fornitura di una digitalizzazione già disponibile.

Un altro caso studio emblematico è quello rappresentato da un utente che richiede la fornitura di un’immagine per fini di studio per poi decidere, in un secondo momento, di pubblicare la stessa immagine a scopo di lucro. Questa eventualità risulta decisamente sconveniente per l’utente, dal momento che egli sarà chiamato a corrispondere due volte il rimborso: la prima al momento della fornitura dell’immagine e la seconda volta al momento della sua pubblicazione. Viceversa, se l’utente chiedesse di pubblicare un’immagine contestualmente alla sua prima acquisizione la pagherebbe una volta soltanto. Talché una pura accidentalità configurerebbe un’ingiustificata penalizzazione per l’utente.

Infine, un effetto indiretto e probabilmente “indesiderato” del d.m. n. 161/2023 e della generalizzata onerosità che esso comporta si ravvisa nel mutato atteggiamento culturale degli istituti e dei luoghi della cultura chiamati ad applicarlo, che è dettato in larga misura dal timore di incorrere nel danno erariale, anche in assenza di riscontri diretti con le prescrizioni del d.m. n. 161/2023: alcuni istituti, che prima consentivano il libero download delle digitalizzazioni, all’indomani dell’adozione del decreto si sono infatti sentiti indotti a introdurre un sistema di e-commerce rendendo onerosa la pratica di fornitura delle immagini, sia per gli utenti, che per l’amministrazione che è chiamata ora ad assumersi l’onere di vagliare i moduli di richiesta che giungeranno dagli utenti [5]. Un incomprensibile passo indietro per l’utenza, l’amministrazione e per lo studio e la valorizzazione della collezione: a fronte - è lecito chiedersi - di quali vantaggi?

4. Il convitato di pietra: il Piano nazionale digitalizzazione e le “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale”

Acquisizione e riuso delle immagini sono due attività diverse ma intimamente legate tra loro per il semplice fatto che ottenere una riproduzione è sempre funzionale a un’utilità ricercata dall’utente, anche se si tratta di due ambiti che nella regolamentazione è conveniente considerare operativamente distinti in ragione delle contraddizioni sopra rilevate.

Contraddizioni che certamente si sarebbero potute evitare sin da principio se il tariffario avesse dato peso effettivo alla distinzione - tra acquisizione e uso - già operata dalle “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale” [6] allegate al Piano nazionale di digitalizzazione (Pnd) e adottate, alle quali il d.m. n. 161/2023 pure dichiara in premessa di ispirarsi, ma senza - nei fatti - tenerne conto. Questo documento era stato adottato nel giugno 2022 - appena dieci mesi prima del d.m. 161/2023 - dall’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale-digital Library nell’ambito delle misure previste dal Pnrr (M1C3 1.1 - Piattaforme e strategie digitali per l’accesso al patrimonio culturale) e rappresenta il precipitato di un lungo confronto avviato, per oltre un anno, da esperti nel settore sia all’interno che all’esterno dell’amministrazione [7] al fine di “delineare alcuni principi fondamentali in vista dell’emanazione di uno o più regolamenti ministeriali in materia di riproduzioni di beni culturali pubblici non protetti dal diritto d’autore”.

Tali Linee guida avrebbero perciò potuto costituire il più naturale precedente del successivo d.m. n. 161/2023, del quale infatti condividono l’intento di porre ordine nella disciplina vigente della riproduzione del bene culturale statale. Pur avendo origine come semplice strumento di soft-law (non per questo privo di qualsiasi efficacia), le Linee guida del Pnd potrebbero tuttavia acquisire natura vincolante per gli istituti statali qualora il ministero scegliesse di riconoscerle come base di riferimento per eventuali rettifiche del tariffario ministeriale.

In questa prospettiva può essere utile richiamare alcune indicazioni espresse nelle Linee guida del Pnd, che distinguono i processi di acquisizione della riproduzione, soggetti eventualmente al rimborso per le spese sostenute dall’amministrazione, dall’uso della riproduzione, subordinato eventualmente a tariffazione in relazione alla finalità lucrative connesse alla pubblicazione delle immagini [8].

In particolare, si riconoscono undici differenti modalità di acquisizione (A1-A11), tra le quali la riproduzione con mezzo proprio, la richiesta di riproduzioni ex novo, la fornitura di immagini già digitalizzate e il download dal sito web dell’istituto. Sono inoltre individuate cinque principali tipologie d’uso delle riproduzioni (U1-U5): fini di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione (U1) usi editoriali (U2), usi connessi con l’impresa culturale e l’industria creativa (U3), usi pubblicitari e commerciali (U4), licensing e vendita di immagini (U5). Nell’ambito di queste macrocategorie sono state isolate, a loro volta, diciassette attività, alcune delle quali ritenute a prevalente scopo lucrativo, da sottoporre quindi a tariffa, altre classificate come di interesse culturale, per le quali è invece prevista la gratuità in conformità con la normativa vigente [9].

Altre importanti raccomandazioni contenute nelle Linee guida del Pnd - che rischiano parimenti di cadere nel vuoto - riguardano la risoluzione minima di pubblicazione delle immagini nei siti web degli istituti che si accompagna all’invito a renderle liberamente acquisibili mediante download. L’immagine online a un livello medio-alto di risoluzione offre infatti il vantaggio all’utente di procedere in autonomia al download, gli evita di doversi rivolgere nuovamente all’istituto qualora desiderasse disporre di un’immagine a una risoluzione maggiore e, in generale, permette di migliorare la qualità media delle immagini di beni culturali che circolano in rete.

Viceversa, il ricorso alla bassa risoluzione, funzionale alla prevenzione di possibili usi non autorizzati delle immagini, finisce per sfavorire l’indagine scientifica del bene riprodotto e, più in generale, ostacola lo svolgimento di tutte quelle attività di divulgazione, per fini diversi dal lucro, che sono definite “libere” dal Codice. Occorre decidersi: se la circolazione delle immagini del patrimonio culturale nel web si ritiene oggi che sia un valore da perseguire - come traspare dalle Linee guida del Pnd - allora occorre definire regole e raccomandazioni coerenti con questa finalità: tertium non datur.

In sintesi, nell’ipotesi di una possibile revisione del tariffario, il superamento dell’attuale sistema dei coefficienti appare più che mai opportuno, anche perché consentirebbe di ridefinire i minimi tariffari all’interno della dettagliata griglia dei canali di acquisizione e d’uso delle immagini offerta dalle Linee guida del Pnd.

Ad esempio, la “Tabella 2 - Rimborso per riproduzioni senza scopo di lucro” di cui al d.m. 161/2023 è perfettamente funzionale alla definizione dei rimborsi minimi previsti per l’attività A4 (“Riproduzioni richieste da privati e prodotte ex novo dall’amministrazione”), mentre la tariffazione sull’uso delle immagini potrebbe limitarsi a riconoscere le gratuità individuate nel Pnd come base di riferimento comune a tutti gli istituti ministeriali.

La facoltà, riconosciuta a ogni istituto, di definire nel dettaglio le tariffe per ciascuna delle attività incluse nelle categorie U1-U5, consentirebbe di personalizzare una strategia di business, rendendola più rispondente alle specificità dei beni che compongono la collezione di un museo, un archivio o una biblioteca, come già s’è detto a proposito dei rischi derivanti da un’eccessiva “centralizzazione” della regolamentazione (cfr. par. 2). In definitiva, l’ipotesi di un riallineamento tra il testo dell’allegato al d.m. 161/2023 e le Linee duida del Pnd, permetterebbe di garantire la sopravvivenza sostanziale di queste ultime sanando, al tempo stesso, tutte le contraddizioni determinate dalla formale volontà del ministero di non sopprimerle.

La novità di maggiore interesse delle Linee guida del Pnd è costituita dall’introduzione del principio di gratuità per le pubblicazioni editoriali indipendentemente dalla natura del prodotto, dal prezzo di copertina e dalla tiratura (U2): “si ravvisa pertanto la necessità di delineare prassi il più possibile uniformi e semplificate per gli usi editoriali delle riproduzioni dei beni culturali, prevedendo, in linea generale, la gratuità per qualsiasi tipo di pubblicazione editoriale in forma di monografia, rivista o periodico sia in formato cartaceo che digitale. Ciò consentirebbe di agevolare in primis la divulgazione della ricerca scientifica e la valorizzazione del patrimonio culturale, come esplicitamente previsto dal Codice, ma più in generale di promuovere il sistema editoriale, già frequentemente oggetto di contributi e forme di sostegno economico da parte del governo, anche in considerazione dei limitati margini di ricavi per autori ed editori di pubblicazioni riproducenti beni culturali” [10].

5. Lucro o non lucro? Il (falso) problema dell’editoria

Si discute se l’azzeramento del canone per i prodotti editoriali - generalizzata o entro certe soglie - possa essere compatibile con la disciplina del Codice. In realtà le Linee guida del Pnd, nel raccomandare la gratuità per l’editoria, non fanno altro che ampliare ipotesi di gratuità già previste dal d.m. 8 aprile 1994 e, ancora prima, da un regolamento del 1971, come si vedrà in seguito. Per provare a chiarire questi aspetti è utile ripercorrere brevemente l’origine del testo normativo attuale [11].

Il Codice, come è noto, disciplina la riproduzione dei beni culturali pubblici agli artt. 107 e 108. La versione originaria del Codice (2004) sottoponeva qualsiasi atto di riproduzione di beni culturali pubblici a una specifica autorizzazione, la quale sarebbe stata abolita dieci anni più tardi a seguito dell’entrata in vigore del d.l. 31 maggio 2014, n. 83 “Art Bonus”. L’uso commerciale delle riproduzioni può invece soggiacere a un canone di concessione, il quale è calcolato dall’ente che ha in consegna il bene in base all’utile che deriva al richiedente (art. 108, co. 1).

Prima dell’entrata in vigore del Codice (2004) la riproduzione dei beni culturali pubblici era regolata dalla legge 30 marzo 1965, n. 340, che prevedeva un canone di concessione solo per le riprese fotografiche effettuate ex novo a scopo lucrativo all’interno degli istituti culturali (e non all’esterno, dove erano libere) quale forma d’uso esclusivo di beni demaniali [12]; al contrario non era previsto il pagamento di alcun canone per riprese fotografiche svolte a fini culturali, ma non era previsto nemmeno per l’eventuale utilizzo a scopi commerciali di immagini che risultavano già nella disponibilità del richiedente [13].

Fu solo a seguito del d.m. 8 aprile 1994 (“Tariffario per la determinazione di canoni, corrispettivi e modalità per le concessioni relative all'uso strumentale e precario dei beni in consegna al Ministero”), emanato a seguito dell’entrata in vigore della legge Ronchey (l. 4/1993) che si sarebbe imposta una nuova interpretazione della norma allora vigente, la quale ha indebitamente esteso la fattispecie concessoria all’uso delle riproduzioni, assimilando di conseguenza il canone concessorio a un vero e proprio “diritto di riproduzione” sul modello privatistico del diritto d’autore.

Quest’interpretazione si è imposta anche in seguito, nella lettura e nell’applicazione del Testo unico (1999) e del Codice (2004), mentre il tariffario ministeriale contenuto nel d.m. 8 aprile 1994 - di cui il d.m. n. 161/2023 costituisce di fatto l’aggiornamento - è rimasto a lungo - sino all’11 aprile 2023 - l’unico riferimento, benché variamente reinterpretato, per la tariffazione delle riproduzioni.

Il d.m. 8 aprile 1994 in particolare prevedeva inoltre la gratuità per tutte le monografie (indipendentemente dalla tipologia e dal genere di pubblicazione) con tiratura inferiore alle 2.000 copie e con prezzo di copertina inferiore a 150.000 lire e per qualsiasi periodico di natura genericamente “scientifica” [14]. Alla luce di questo rapido excursus storico vale la pena oggi interrogarci sull’opportunità di ripristinare la valenza originaria della concessione nell’ambito delle riproduzioni di beni culturali pubblici per ragioni di opportunità ma anche per meglio ottemperare alle prescrizioni imposte dalle normative comunitarie di cui si dirà oltre (cfr. par. 7).

È importante ricordare che la gratuità per la pubblicazione di immagini di beni culturali statali in monografie e periodici di interesse scientifico e culturale non risale al 1994, essendo stata a lungo garantita da uno specifico regolamento, il d.p.r. 2 settembre 1971, n. 1249 [15]. Alla luce del dibattito in corso giova ricordare che quel regolamento era stato emanato in applicazione della già citata legge 340/1965 a seguito di accese proteste da parte degli studiosi che - ieri come oggi - contestavano l’applicazione generalizzata di un canone di concessione su riproduzioni richieste per qualunque tipo di pubblicazione editoriale. Ciò avveniva in forza del precedente d.m. 20 febbraio 1967, il quale in effetti non operava alcuna distinzione in merito al genere di pubblicazione.

Le contestazioni furono fatte proprie persino dalla celebre commissione Franceschini che, nel 1967, era giunta a raccomandare la più ampia libertà d’uso delle immagini di beni culturali pubblici, anche al di là delle finalità prettamente scientifiche e oltre qualsiasi privativa autoriale del fotografo [16], anticipando in questo il contenuto dell’art. 14 della direttiva (Ue) 2019/790 (cfr. par. 7).

Il dato significativo, in ogni caso, è che i regolamenti ministeriali succedutisi dal 1971 al 2023 hanno ininterrottamente previsto la gratuità per pubblicazioni di interesse culturale pur nella consapevolezza che queste ultime possono costituire, com’è ovvio, anche un’attività lucrativa e quindi un legittimo utile per l’editore, come opportunamente rilevava anche la Commissione Franceschini. Se allora la pubblicazione di immagini in intere categorie di prodotti editoriali è rimasta a lungo gratuita nella prassi e nella normazione secondaria, in linea di principio che cosa impedirebbe di generalizzare un’esenzione a qualunque prodotto editoriale, come del resto prevedono espressamente le Linee guida del Pnd?

Prima ancora di dichiararci vittime di oggettive restrizioni normative occorre riconoscere che, in questo caso, entrano in gioco scelte di natura squisitamente politica. Occorre poi aggiungere che la stessa proposta del ministero della Cultura di rendere gratuite le sole pubblicazioni Anvur, che evidentemente costituiscono un lucro - anche considerevole - per l’editore [17], spezza la ferrea equivalenza tra uso commerciale e obbligatorietà del canone e apre la strada a interpretazioni meno rigide della norma, inizialmente escluse.

Del resto, l’art. 108 comma 1 si limita a indicare i criteri di massima per la determinazione del canone di concessione da parte dell’istituto che ha in consegna il bene oggetto di riproduzione, stabilendo che essi debbano essere commisurati all’entità dell’utile economico che può derivare al richiedente, ma senza per questo porre in capo all’amministrazione l’obbligo generalizzato di richiedere un canone di concessione per qualunque tipo di uso commerciale.

La ratio alla base della norma è evidentemente quella di assicurare un introito allo Stato derivante dall’applicazione di canoni sull’uso commerciale delle immagini, ma se tale ratio viene meno e si dimostra che gli oneri di gestione amministrativa sono superiori alle entrate come si può pensare di intendere e applicare in modo così rigidamente manicheista il dettato normativo? Infine, non si dimentichi che la legge 4 agosto 2017, n. 124 è intervenuta sul Codice non solo per estendere il regime di liberalizzazione ai beni archivistici e librari - in precedenza esclusi - ma anche per rimuovere il previgente limite del ‘lucro indiretto’ alla libera divulgazione di immagini di beni culturali pubblici nel dispositivo dell’art. 108, comma 3-bis.

6. Licenze Open Access e Codice dei beni culturali e del paesaggio

Le considerazioni espresse nel paragrafo precedente sono gravide di conseguenze in quanto schiudono elementi di potenziale interesse per un possibile rinnovamento delle politiche culturali degli istituti culturali pubblici. L’eventuale adozione di licenze aperte (cioè di libero riuso commerciale) da parte degli istituti culturali statali sul modello di altre esperienze internazionali di successo, di cui da tempo si discute, potrebbe così trovare piena legittimazione entro la cornice normativa del Codice (oltre che delle direttive comunitarie sopra citate) senza necessità di modifiche del testo normativo.

Una licenza aperta (Open Access) si configura infatti come un’autorizzazione preventiva - a canone azzerato - per eventuali usi commerciali, da parte di terzi, di un set predeterminato di immagini rilasciate da un istituto culturale statale. Intendiamoci, non si fa qui riferimento a una liberalizzazione tout court delle riproduzioni di beni culturali pubblici da chiunque eseguite, che violerebbe il Codice vigente, ma di precise scelte dell’autorità amministrativa proprietaria del bene.

Vale la pena ricordare a questo proposito che una delle più interessanti e riuscite esperienze di Open Access in Italia è quella intrapresa di recente dal Museo egizio di Torino, fondazione di diritto privato partecipata dal ministero della Cultura, che ha pubblicato in rete, mediante licenze di libero riuso commerciale (CC0), le opere della sua collezione, la quale è interamente di proprietà dello stesso ministero della Cultura. Il caso è emblematico e rappresenta un’ulteriore conferma alla tesi della compatibilità delle licenze aperte con il vigente Codice. Non la si potrebbe infatti smentire senza incorrere in un evidente paradosso, in base al quale un ente di diritto privato - qual è la Fondazione Museo Egizio - si troverebbe ad applicare sui beni del ministero della Cultura quelle licenze Open Access che lo stesso ministero negherebbe di fatto ai suoi stessi istituti.

A ulteriore conforto di tale tesi va posta in evidenza una netta distinzione, già opportunamente rilevata [18], tra le riproduzioni da eseguirsi ex novo (cd. riproduzione diretta), soggette come tali a concessione onerosa per eventuali usi commerciali, e l’uso di riproduzioni già disponibili (cd. riproduzione indiretta), assoggettabili al regime della semplice autorizzazione in caso di riuso commerciale: lo schema concessorio, infatti, e la necessaria onerosità che generalmente lo sottende, risulterebbe più adeguato a tutte quelle riproduzioni di beni culturali pubblici che sono da effettuare ex novo, come s’è accennato sopra, per il più elevato grado di discrezionalità che esso comporta rispetto alla semplice autorizzazione.

L’osservazione è assai pertinente, in quanto è spia dell’avvenuta trasformazione dello strumento pubblicistico della concessione amministrativa la quale, inizialmente concepita per regolare la ripresa fotografica quale forma d’uso rivale di beni demaniali, a partire dal d.m. 8 aprile 1994 si è imposta come per disciplinare l’uso di qualsiasi riproduzione commerciale di bene culturale statale.

7. Conclusioni

Da ultimo non si può fare a meno di fare menzione delle direttive comunitarie che, nonostante le scelte opinabili del legislatore nazionale, sembrano delineare un quadro di apertura tale da mettere in discussione l’impianto normativo vigente in materia di riproduzioni di beni culturali pubblici.

La direttiva (Ue) 2019/1024 sul riuso dei dati della pubblica amministrazione è stata recepita nell’ordinamento nazionale attraverso il d.lg. 200/2021 che ha modificato il d.lg. 36/2006 di recepimento della precedente direttiva Psi. Dall’esame della direttiva emerge qualche dubbio di compatibilità con il Codice relativamente al riutilizzo delle riproduzioni digitali prodotte e detenute da istituti di tutela pubblici. Il considerando 38 della direttiva, infatti, stabilisce che, qualora musei, archivi e biblioteche optassero per la tariffazione di dati e documenti in loro possesso, “il totale delle entrate provenienti dalla fornitura e dall'autorizzazione al riutilizzo dei documenti in un periodo contabile adeguato non dovrebbe superare i costi di raccolta, produzione, riproduzione, diffusione, conservazione e gestione dei diritti, maggiorati di un utile ragionevole sugli investimenti”.

Ciò contrasta con l’art. 108 del Codice che, nel disciplinare per via normativa la riproduzione del bene culturale pubblico, non pone alcun vincolo temporale o di trasparenza contabile relativamente all’imposizione di tariffe e canoni concessori sull’uso delle digitalizzazioni delle collezioni degli istituti culturali pubblici.

Alla luce del suo possibile impatto sulla normativa nazionale occorre inoltre riesaminare l’art. 14 della direttiva (Ue) 2019/790, il quale dispone che le riproduzioni fedeli di opere delle arti visive in pubblico dominio non possano essere più soggette al diritto d’autore o diritti connessi - salvo che non costituiscano esse stesse un’opera originale - al fine di favorire la massima diffusione, anche transfrontaliera, delle immagini di opere d’arte [19]. Questo principio è stato implementato nell’art. 32-quater della legge sul diritto d’autore (l. 22 aprile 1941, n. 633). La conseguenza più diretta e immediata è che le riproduzioni fedeli di opere delle arti visive non più protette da diritto d’autore a loro volta non possono essere oggetto di tutela dal punto di vista del diritto d’autore.

In altri termini, la mera riproduzione di un’opera in pubblico dominio può essere liberamente utilizzata senza possibilità che su di essa possano essere opposti diritti connessi. Questa misura è stata evidentemente concepita per impedire agli istituti culturali dell’Unione Europea di continuare a ricorrere al copyright per imporre limitazioni al riuso delle digitalizzazioni delle collezioni di musei, archivi e biblioteche. Il legislatore nazionale, tuttavia, ha preferito fare espressamente salve le restrizioni del Codice in materia di riproduzione di beni culturali pubblici, le quali sono espressione di un ambito di per sé estraneo alla disciplina del diritto d’autore.

Sino alla ricezione dell’art. 14 della direttiva (Ue) 2019/790, gli istituti culturali europei, in assenza di una normativa pubblicistica come il Codice, hanno operato con gli strumenti del diritto privato nella misura in cui hanno imposto un copyright sulle mere digitalizzazioni delle opere conservate nelle proprie collezioni - ancorché in pubblico dominio - per controllarne la circolazione.

In Italia la medesima funzione nei fatti è svolta invece dal Codice che configura, pertanto, una sorta di “pseudocopyright di Stato”, ben più incisivo dei diritti d’autore per il fatto di essere illimitato nel tempo [20]. Per le ragioni sopraesposte l’art. 108 andrebbe quindi superato alla luce dell’art. 14 della direttiva (Ue) 2019/790, come del resto è stato pubblicamente richiesto dalle associazioni rappresentative dei professionisti operanti in musei, archivi e biblioteche [21]. L’eventuale abolizione di diritti d’uso di matrice dominicale sulle riproduzioni in ogni caso non potrà impedire all’amministrazione di “vendere” riproduzioni o di richiedere tariffe a titolo di rimborso per la fornitura di riproduzioni, come ricorda il considerando 53 della stessa direttiva [22].

In conclusione un’eventuale riscrittura del tariffario dovrebbe fare vantaggiosamente tesoro delle Linee guida del Pnd per rettificare le incongruenze rilevate, riducendo in questo modo anche la propria distanza rispetto ai principi espressi nella direttiva (Ue) 2019/1024 e nella direttiva (Ue) 2019/790, le quali sembrano revocare in dubbio i diritti di esclusiva sulla riproduzione del bene culturale pubblico che sono riconosciuti alle amministrazioni in base all’interpretazione corrente dell’art. 108 del Codice.

Come obiettivo a breve termine sarebbe pertanto auspicabile riformare il decreto riallineandolo al Pnd e, in prospettiva, riformulare l’art. 108 del Codice per riportare lo strumento della concessione nel suo alveo originario liberalizzando così la divulgazione delle immagini di beni culturali pubblici in pubblico dominio e ripristinando così lo status quo ante 1994.

 

Note

[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.

In questo contributo sono raccolte alcune osservazioni, a scala sia generale che di dettaglio, sul d.m. 11 aprile 2023, n. 161 (“Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”) che derivano dalla lettura del decreto e dall’osservazione della sua concreta applicazione negli istituti ministeriali. Si tratta di un’analisi che si concentra sulla sezione “A” dell’allegato al decreto, rubricata “riproduzione di beni culturali” ed è condotta principalmente sul piano giuridico ed economico. Pur apprezzando il dichiarato obiettivo del decreto di uniformare, ai sensi dell’art. 108, co. 6 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d’ora in poi Codice), una disciplina da tempo necessitante di atti di razionalizzazione, si solleva in questa sede qualche dubbio argomentato in ordine alla legittimità e al merito di alcune disposizioni ivi contenute. È bene premettere che la riflessione è stata qui condotta astraendo da qualsiasi valutazione sull’impatto concreto del tariffario sui settori della ricerca e dell’editoria e rimane quanto possibile scevra da - pur rilevanti - considerazioni di carattere culturale già espresse in letteratura e nell’ormai copiosa rassegna stampa sull’argomento. L’intento è, in definitiva, quello di offrire un contributo concretamente utile in vista dell’eventualità, già espressamente palesata dallo stesso ministero, di introdurre correttivi sul testo del decreto per meglio aderire al principio di buon andamento dell’azione amministrativa all’esito della sperimentazione avviata dagli istituti ministeriali che lo hanno sinora recepito nei propri regolamenti. Cfr. da ultimo i contributi raccolti in Le immagini del patrimonio culturale: un'eredità condivisa?, D. Manacorda, M. Modolo (a cura di), Atti del Convegno (Firenze, 11 giugno 2022), Pisa, Pacini Editori, 2023, in Il patrimonio culturale e le sue immagini. Diritto, gestione e nuove tecnologie, (a cura di) A.L. Tarasco, R. Miccù, Napoli, Editoriale Scientifica, 2022, e in M. Modolo, La riproduzione del bene culturale pubblico tra norme di tutela, diritto d’autore e diritto al patrimonio, in Aedon, 2021, 1. “Quanto esposto non esclude, naturalmente, che dopo un periodo di osservazione, il tariffario possa essere rivisto e migliorato, anche valorizzando ulteriormente le esigenze dell’editoria strettamente scientifica e universitaria”: così riferisce, in data 7 giugno 2023 davanti alla VII Commissione della Camera dei Deputati (Cultura, scienza e istruzione), il Sottosegretario di Stato al ministero della Cultura, Onorevole Gianmarco Mazzi, nella risposta all’interrogazione parlamentare 5-00951 Manzi “Sull’applicazione di canoni e corrispettivi di concessione per la riproduzione dei beni culturali in consegna ad istituti e luoghi della cultura dello Stato (http://documenti.camera.it/leg19/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2023/06/07/leg.19.bol0123.data20230607.com07.pdf).

[**] Mirco Modolo, archeologo e archivista, mircomodolo@gmail.com. Le opinioni espresse nel presente contributo sono imputabili unicamente all’autore e non impegnano in alcun modo l’amministrazione di appartenenza.

[1] In ciò si era dato seguito a una raccomandazione del Consiglio Superiore adottata in data 16/05/2016 (https://storico.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/index.html#&panel1-1). Le soglie di gratuità coincidono con quelle già previste dal d.m. 8 aprile 1994 (cfr. infra).

[2] Gli effetti di tale irrigidimento sulla tariffazione legata all’uso degli spazi museali sono ben illustrati in M. D’Isanto, Tariffe per le concessioni degli spazi museali: facciamo chiarezza, in Artribune (25/05/2023): https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/diritto/2023/05/tariffe-concessioni-musei/.

[3] La riproduzione di una “fotografia di documentazione” può rivestire un valore documentario elevato, ma assai modesto per le potenzialità di sfruttamento commerciale che esprime, mentre è logico attendersi che la scansione di una “fotografia artistica” si presti a utilizzi più ampi e variegati che ne incrementano il valore economico. La scansione di un semplice registro di stato civile può ad esempio rivestire un valore economico decisamente inferiore rispetto alla riproduzione fotografica di un codice miniato conservato in una biblioteca; allo stesso modo una tela di un artista minore conservata in un museo avrà un valore irrisorio se paragonato all’immagine di un’opera del Caravaggio.

[4] Del medesimo avviso è anche la Corte dei Conti: “Le trasformazioni radicali che il digitale ha prodotto nella nostra società invitano dunque ad abbandonare i tradizionali paradigmi ‘proprietari’, in favore di una visione del patrimonio culturale più democratica, inclusiva e orizzontale. Le forme di ritorno economico basate sulla ‘vendita’ della singola immagine appaiono anacronistiche e largamente superate poiché, peraltro, palesemente antieconomiche. È stato dimostrato che in alcuni casi il rapporto tra costi sostenuti per la gestione del servizio di riscossione e le entrate effettive generate è a saldo negativo” (Corte dei Conti, Spese per l’informatica con particolare riguardo alla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano - 2016-20202, pag. 126, in part. n. 43). La conferma quantitativa di questa conclusione si legge nei bilanci ministeriali riportati da A.L. Tarasco, Ingegneria culturale e immagini del patrimonio culturale, in Italia e in Francia, in (a cura di) A.L. Tarasco, R. Miccù, Il patrimonio culturale e le sue immagini. Diritto, gestione e nuove tecnologie, cit., pag. 132 ss.): “Dalle sole riproduzioni di immagini i 143 musei dotati di autonomia speciale hanno incassato, sempre nel 2019, 486.100 euro, mentre la totalità dei 325 privi di autonomia speciale hanno introitato solo 41.000 euro. In sintesi, rispetto agli introiti netti di 219.400.000 euro prodotti dai musei statali italiani, i ricavi specificatamente derivanti dalle concessioni d’uso delle immagini sono stati nell’anno 2019 poco più di 527.000 euro”.

Assai significativa è anche la testimonianza di Paolo Giulierini, direttore del Museo archeologico nazionale di Napoli, che invita a ridimensionare ulteriormente i - già modestissimi - introiti riportati nei bilanci: “Ora, a ben guardare, gli incassi medi per le royalties legate all’utilizzo di immagini per editoria, merchandising, la produzione di film fa introitare mediamente al museo 25.000 euro, ben al di sotto della somma degli stipendi del personale dedicato, anche se, occorre dirlo, a carico dello Stato”. Cfr. P. Giulierini, Fotografia e Musei: una storia di quasi due secoli, in (a cura di) A.L. Tarasco, R. Miccù, Il patrimonio culturale e le sue immagini. Diritto, gestione e nuove tecnologie, cit., pag. 17. Il dato è emblematico perché se è vero per uno dei maggiori musei archeologici d’Italia e del mondo, a maggior ragione lo sarà per la maggior parte degli istituti e dei luoghi della cultura statali. Altri dati di interesse si possono leggere anche in G. Giardini, Libero riuso delle immagini, quanto ci costi?, in Il Sole 24 Ore (21/06/2021): https://www.ilsole24ore.com/art/libero-riuso-immagini-quanto-ci-costi-AE3TOdR?refresh_ce=1. Nessuno può negare che vi siano margini ulteriori di profitto con investimenti più robusti sul sistema di gestione, i quali però - va pure detto - comporteranno maggiori oneri per la finanza pubblica e un incremento delle tariffe a detrimento dell’utenza e di tutti quei progetti di innovazione fondati sul riutilizzo dell’immagine del bene culturale. L’opzione Open Access può quindi essere parte di una strategia realmente win-win per gli istituti culturali e per l’utenza.

[5] In particolare, in assenza di ulteriori atti di chiarificazione, più di qualcuno è stato tratto in inganno dalla seguente espressione presente nell’allegato al d.m. 161/2023: “I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente. L’importo del rimborso è determinato in base ad una tariffa unitaria, calcolata sulla base di quanto previsto nella seguente Tabella 2” (pag. 7), con ciò ritenendo - erroneamente - che il rimborso sia ora da corrispondere in ogni caso per espressa statuizione del decreto. In realtà l’espressione, lungi dall’esprimere il divieto generalizzato di rendere liberamente scaricabili immagini di beni culturali dai siti web degli istituti culturali statali, rappresenta semplicemente un calco dell’art. 108, co. 3 del Codice, che prevede - già dal 2004 - nulla di più che un rimborso per le spese vive di esecuzione e fornitura delle riproduzioni di beni culturali richieste dai privati all’amministrazione.

[6] Ministero della Cultura, Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital library, “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei bei culturali in ambiente digitale”, giugno 2022 (https://docs.italia.it/media/pdf/icdp-pnd-circolazione-riuso-docs/v1.0-giugno-2022/icdp-pnd-circolazione-riuso-docs.pdf).

[7] Il Piano nazionale digitalizzazione (Pnd) non solo rappresenta il frutto di un’ampia condivisione tra i diversi enti e istituti afferenti al ministero della Cultura, ma è anche stato oggetto di pubbliche consultazioni e di confronti con le associazioni, le università, gli enti locali e numerose istituzioni culturali. Tra i cinque allegati al Pnd sono state proprio le “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale” a riscuotere il maggiore grado di apprezzamento per chiarezza, utilità e interesse, come emerge dal report finale accessibile online (https://partecipa.gov.it/).

[8] Ciò è tanto più vero nella misura in cui alcuni istituti giungono spontaneamente a interpretare il rimborso per riproduzioni “senza scopo di lucro” come spese di acquisizione dell’immagine separatamente dalla tariffazione sul riuso, che fa capo alla riproduzione “a scopo di lucro”. Si tratta di una soluzione empirica basata su una lettura “razionalizzante” capace evidentemente di cogliere le contraddizioni insite nel sistema di tariffazione. In termini operativi la riproduzione a scopo di lucro “ingloberebbe” la riproduzione senza scopo di lucro: qualsiasi riproduzione “a scopo di lucro” (rimborso x coeff. 1 x coeff. 2) non sarebbe infatti mai autosufficiente ma presupporrebbe, a monte, una riproduzione “non a scopo di lucro”, la quale diventa così sinonimo di semplice acquisizione/fornitura di riproduzione. Ciò risponde alla naturale esigenza di separare acquisizione e riuso delle immagini, con lo svantaggio però di rendere ancora più gravosa la tariffazione per l’utenza, giacché, così facendo, il rimborso spese viene richiesto due volte: la prima volta per acquisire l’immagine, la seconda per riutilizzarla. È infine significativo che lo stesso d.m. 161/2023 determini letture e applicazioni così diverse tra loro.

[9] Nella consapevolezza che la distinzione tra questi ambiti risulta oggi sempre più sfuggente e ambigua.

[10] “Si tenga conto a riguardo che, con la modifica del Codice dei beni culturali operata con la legge n. 124/2017, è stato eliminato il concetto di ‘lucro indiretto’ per la libera divulgazione delle immagini, estendendo di fatto il perimetro della riutilizzabilità delle immagini in modo molto più ampio rispetto al solo fine personale o di studio. L’attività editoriale può essere inclusa nella fattispecie del ‘lucro indiretto’ per l’inscindibile compresenza nel libro dell’elemento commerciale e di quello culturale, e quindi le immagini possono essere concesse, in linea generale, senza applicazione di canoni di concessione. Inoltre è opportuno sottolineare che nella stragrande maggioranza dei casi le richieste di utilizzo per fini editoriali pervengono non dagli editori ma dagli autori dei saggi e delle ricerche, che non traggono, com’è noto, alcun profitto dalla pubblicazione. La richiesta di autorizzazione all’uso per la pubblicazione in qualunque periodico o prodotto editoriale è così sostituita da una semplice comunicazione da parte dell’utente, come già avviene in ambito archivistico e bibliotecario per le pubblicazioni al di sotto delle 2000 copie e dei 70 euro di prezzo di copertina, contenente i riferimenti della pubblicazione e l’impegno ad inviare una copia del prodotto editoriale all’istituto detentore del bene oggetto della riproduzione”. Cfr. ministero della Cultura, Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital library, Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei bei culturali in ambiente digitale, giugno 2022, pag. 22 ss.

[11] Sull’argomento cfr. M. Modolo, Il canone di concessione sulle riproduzioni di beni culturali pubblici (1892-2023): un profilo storico-critico, in D. Manacorda, M. Modolo (a cura di), Le immagini del patrimonio culturale: un'eredità condivisa?, Atti del convegno, Firenze, 11 giugno 2022, Roma, Pacini Editori, 2023, pag. 33 ss. e M. Modolo, Il riuso delle immagini dei beni culturali pubblici (1962-2022): un percorso a ostacoli, DigItalia, 2023.

[12] Art. 3: “Chiunque intenda eseguire fotografie negli Istituti statali di antichità e d'arte deve rivolgersi per il permesso al competente soprintendente o capo dell'Istituto. Nessun canone è dovuto per riprese fotografiche a scopo artistico o culturale. Per riprese fotografiche a scopo di lucro il permesso viene rilasciato dietro versamento di un canone, la cui misura è stabilita in via preventiva e generale dal ministero delle Finanze, d'intesa con il ministero della Pubblica Istruzione, per tutto il territorio nazionale”. A ben vedere la norma del ’65 è ancora più chiara ed esplicita dell’attuale formulazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (artt. 107-108): se prima del Codice del 2004 non si è mai posto il problema della compatibilità della norma primaria con regolamenti che prevedono la gratuità dell’editoria culturale, tantomeno dovremmo porcelo oggi con la normativa vigente.

[13] Il direttore del Gabinetto fotografico nazionale, Carlo Bertelli, l’8 settembre 1969, alla richiesta di una parrocchia di pubblicare una stampa fotografica del Gabinetto già a propria disposizione su cartoline da commercializzare, dopo essersi consultato con i vertici del ministero della Pubblica Istruzione, nega espressamente che vi sia un canone sull’uso delle immagini assimilabile a diritti di riproduzione: “non esiste alcuna disposizione che configuri un canone per il diritto di riproduzione delle fotografie [...] si nota una discrepanza nei regolamenti vigenti, in quanto essi stabiliscono un trattamento diverso nei confronti di privati che eseguano fotografie di opere d’arte di proprietà statale distinguendo fra finalità di studio e finalità di lucro, mentre non stabilisce alcuna distinzione nella fornitura di nostre fotografie quando esse siano richieste per motivi di studio o per finalità commerciali [...] tuttavia, anche nel caso in cui le fotografie siano eseguite da privati con finalità di lucro, le norme vigenti non toccano il diritto di riproduzione delle medesime, evidentemente supponendo che esso sia già assolto, nei confronti dello Stato (proprietario dell’opera fotografata) nel momento in cui questo concede il diritto di fotografare un’opera di sua proprietà. Successivi diritti di riproduzione spettano, evidentemente, all’autore della fotografia o a chi per lui” (Roma, Archivio Centrale dello Stato - ACS, Min. Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e belle arti, Divisione V - 1960-1975, b. 228).

[14] “VI. Edizioni e stampa e pubblicazioni. Libri con tiratura inferiore alle 2.000 copie e con prezzo di copertina inferiore a 150.000 lire e periodici di natura scientifica: esenzione dal pagamento delle tariffe per i diritti di riproduzione”.

[15] Art. 12 (Riprese fotografiche gratuite): “Agli effetti dell'esenzione dal canone, a norma dell'art. 5, secondo comma, della legge 30 marzo 1965, n. 340, hanno fine artistico o culturale le riprese fotografiche da eseguirsi: a) per essere utilizzate in conferenze o come materiale illustrativo di attività didattiche o per essere destinate a fototeche non aventi fini di lucro; b) per essere riprodotte in riviste, monografie, cataloghi e altre pubblicazioni di carattere artistico, scientifico o in genere culturale, non aventi fini di lucro; c) per essere utilizzate da enti pubblici per proprie iniziative di rilevanza culturale”.

[16] “Una distinzione tra riproduzioni eseguite a scopo artistico o culturale e riproduzioni a scopo di lucro (già adombrata nel regolamento n. 363, articolo 18, ed esplicitamente affermata con valore discriminatorio dalla legge n. 340, articolo 5) è teoricamente e praticamente un non senso, giacché ogni attività artistica e culturale, specie quando si tratti di pubblicazioni anche scientifiche, s’intreccia indissolubilmente con iniziative commerciali; spetta, se mai, allo Stato regolamentare e sorvegliare queste iniziative afferenti al patrimonio culturale della nazione (di fotografi, editori, ecc.), affinché esse non assumano caratteri di monopolio speculativo (per esempio nel senso già felicissimamente additato dal comma finale dell’articolo 18 del regolamento n. 363). Con questo non s’intende che non debba essere pagato a chi di dovere (Stato o privati) l’equo prezzo materiale delle riproduzioni. S’intende piuttosto che ogni attività di esecuzione, di diffusione, di utilizzazione e di pubblicazione di immagini di monumenti e di cose d’interesse storico e artistico dovrebbe essere affrancata da barriere speculative, da ostacoli burocratici e legali, e resa il più possibile aperta e facile, non soltanto al fine del progresso degli studi, ma anche al fine dell’elevamento della istruzione e del godimento culturale” (Per la salvezza dei beni culturali in Italia. Atti e documenti della commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, vol. I, Roma, Colombo, 1967, pag. 303 ss.).

[17] Ciò è vero sia tanto per l’editore tradizionale quanto per l’editore che pubblica in Open Access, il quale è un operatore economico a tutti gli effetti che trae comunque utili anche se non sotto forma di vendita diretta dei prodotti editoriali.

[18] “Si ritiene che la riproduzione indiretta (ossia da altro precedente supporto, anche digitale) sia più correttamente riconducibile al provvedimento autorizzatorio e non a quello concessorio, per i ridotti tassi di discrezionalità presenti [...]” (A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, Laterza 2019, pag. 66).

[19] “Alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arti visive, anche come individuate all’articolo 2, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non è soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, salvo che costituisca un’opera originale. Restano ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42” (L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 32-quater).

[20] Sul diritto di proprietà culturale sui beni in consegna allo Stato e agli altri enti pubblici come “l’equivalente demaniale” del diritto d’autore cfr. A. L. Tarasco, Il problema giuridico ed economico delle concessioni d’uso dei beni culturali, in Il diritto dell’economia, vol. 30, n. 94, 2017, pag. 747.

[21] https://www.aib.it/attivita/mab/2020/85856-raccomandazioni-mab-recepimento-direttiva-europea-copyright/.

[22] “Tutto ciò non dovrebbe impedire agli istituti di tutela del patrimonio culturale di vendere riproduzioni, come ad esempio le cartoline”.

 

 

 



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