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La fruizione dei beni culturali: i nuovi diritti

La riproduzione dell’immagine del bene culturale. Il punto [*]

di Girolamo Sciullo [**]

Sommario: 1. Premessa. - 2. Precisazione di taluni concetti: immagine, riproduzione dell’immagine, immagine riprodotta. - 3. La riproduzione dell’immagine negli artt. 107-108 del Codice. - 4. La scopo di lucro nei d.m. 161/2023 e 108/2024. - 5. La tutela civilistica dell’immagine del bene culturale. - 6. La tutela amministrativa. - 7. Le “zone grigie” e le “carenze”.

Il contributo riflette sulla riproduzione dell’immagine dei beni culturali considerando le alla luce delle previsioni di cui agli articoli 107-108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio e dei decreti ministeriali 161/2023 e 108/2024 che ne hanno dato attuazione. Il lavoro si sofferma poi sulla tutela civile dell’immagine alla luce delle sentenze dei giudici italiani e tedeschi del 2022-24 ed approfondisce temi che sono stati trattati solo sporadicamente, come la tutela amministrativa dell’immagine, così come le “zone d’ombra” e le “carenze” della disciplina vigente.

Parole chiave: linee guida; riproduzione dell’immagine del patrimonio culturale; tutela civile e amministrativa dell’immagine; “aree grigie” e “carenze” dell’attuale disciplina.

The reproduction of the image of cultural heritage. The point
The paper takes stock of the reproduction of the image of cultural heritage considering the provisions of articles 107-108 of the Cultural Heritage and Landscape Code, and of the ministerial decrees 161/2023 and 108/2024 that implemented them. It the discusses the civil protection of the image in the light of the rulings of the Italian and German judges in 2022-24. It then addresses issues that have only been sporadically analyzed, such as the administrative protection of the image and the “grey areas” and “shortcomings” of the current discipline.

Keywords: guidelines; reproduction of the image of cultural heritage; civil and administrative protection of the image; “grey areas” and “shortcomings” of the current discipline.

1. Premessa

Per effetto di alcuni eventi intervenuti nel corso del 2023 e della prima metà del 2024 - quali in particolare l’adozione del d.m. 161/2023, modificato dal d.m. 108/2024, e l’emanazione di significative pronunce del giudice civile - si è riacceso un faro di attenzione sulla disciplina che in base al “Codice Urbani” (nel seguito Codice) e alla sua attuazione governa la riproduzione dell’immagine del bene culturale. Ne è testimonianza una serie di contributi di sicuro interesse provenienti da giuristi (non solo amministrativisti), da cultori di altre discipline e da operatori dei settori coinvolti, contributi che hanno scandagliato molteplici aspetti coinvolti in tale disciplina [1].

Obiettivo del presente scritto è quello di fornire, sia pure per punti sommari, un quadro complessivo del tema, il suo attuale “stato dell’arte” alla luce delle recenti novità. A tal fine dopo alcune indicazioni di carattere generale, verranno considerati i tratti significativi che risultano dalla vigente normativa, come pure quelli ancora mancanti (ovvero i “vuoti” per riprendere un’incisiva espressione [2]), per concludere accennando alle possibili prospettive dell’assetto regolatorio.

2. Precisazione di taluni concetti: immagine, riproduzione dell’immagine, immagine riprodotta

Preliminarmente pare opportuno precisare la nozione di taluni termini che verranno utilizzati nel prosieguo. Sulla scia della nozione in uso corrente [3] e di quella proposta dal giudice civile [4] può anzitutto intendersi per immagine sia la forma esteriore, in quanto percepita dalla vista, di persone o di oggetti corporei, sia la forma degli stessi impressa su un supporto materiale analogico (ad esempio una pellicola fotografica o filmica), oppure digitale (file contenente una sequenza di valori binari presente su una memoria informatica come hard disk, flash drive, server). Così intesa, l’immagine quando riferita ad un bene culturale (ai sensi del Codice) trova posto agevolmente all’interno della teorica proposta al riguardo dal Giannini: l’immagine costituisce il ‘veicolo’ che consente la percezione del valore storico-artistico del bene culturale, attenendo così all’elemento immateriale inscindibilmente connesso a quello materiale (la res) che lo esprime.

Per riproduzione può assumersi la nozione espressa dall’art. 13 della legge 22 aprile 1941, n. 633 (legge sul diritto d’autore) a proposito di un’opera dell’ingegno, ossia la sua “moltiplicazione in copie (...) in qualunque modo o forma”. Allorché si prenda in considerazione un bene culturale, come suggerisce il contenuto degli artt. 107 e 108 del Codice, occorre però operare un distinguo.

La riproduzione può investire il supporto materiale del bene culturale (tipicamente traendo calchi dagli originali di sculture o di opere a rilievo in genere) oppure investire l’immagine del bene. In particolare, con la riproduzione analogica (fotografica o filmica) o digitale la copia riguarda del bene culturale non la res, ma la sua immagine. È a questo tipo di riproduzione (si ripete dell’immagine) che intendeva riferirsi il Benjamin con l’espressione “epoca della riproducibilità tecnica” dell’opera d’arte [5], essendo, come è noto, la riproduzione del bene/res ampiamente praticata nel passato [6]. Quello da sottolineare è che, nel processo di riproduzione dell’immagine si effettua una copia della stessa e il suo trasferimento su un supporto fisico, distinto da quello originario. Pertanto, nella riproduzione “tecnica” (ormai prevalente) si dà luogo ad un nuovo corpus mechanicum o quantomeno fisico [7] (ad es. una pellicola fotografica o un file memorizzato su una memoria informatica) che supporta un nuovo corpus mysticum (l’immagine copiata) [8].

Per l’immagine riprodotta si pone il problema della sua configurazione giuridica, in particolare se essa costituisca un bene immateriale e specificamente se si tratti di un bene culturale autonomo rispetto a quello di origine. Alla luce dei dati dell’ordinamento (cfr. art. 120 del Codice e art. 10 c.c.) non pare dubbio che essa costituisca ormai un’entità distinta dalla res riprodotta, ossia un bene giuridico, suscettibile di formare oggetto di diritti e di godere di specifica garanzia [9].

Sembra però doversi escludere la sua riconduzione alla categoria dei beni immateriali. Per l’immagine riprodotta si ravvisa un rapporto di compenetrazione, e non di mera esternazione (come si riscontra a proposito dei beni immateriali) [10], rispetto al nuovo supporto materiale che la esprime, rapporto non diverso da quello intercorrente fra l’immagine e la res nel bene culturale di origine [11].

Il termine “dematerializzazione” al riguardo significativamente proposto [12] rappresenta una formula linguistica senz’altro felice e pregnante per indicare che a seguito della riproduzione ‘tecnica’ (analogica e soprattutto digitale) l’immagine si distacca dal supporto materiale originario, con una illimitata possibilità di essere ulteriormente riprodotta, a tutto vantaggio della valorizzazione tanto culturale quanto economica (e perfino della tutela, in chiave di restauro [13] o di conservazione della memoria, del bene culturale danneggiato o andato distrutto). Il termine non abbraccia perciò nella sua interezza il fenomeno della riproduzione appena illustrato [14]. Del resto, che l’immagine riprodotta non costituisca un bene immateriale lo si arguisce dallo stesso Codice, che all’art. 10, comma 4, lett. e), in presenza di certe condizioni, considera idonei ad essere qualificati come beni culturali “le fotografie, con i relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere”. Previsione questa che, qualora fosse ritenuta alludere a beni immateriali, si porrebbe in contrasto con la concezione di bene culturale seguita dal Codice.

È da escludere altresì che l’immagine riprodotta, insieme al supporto che la esprime, sia senz’altro qualificabile come bene culturale. Le condizioni a tal fine richieste dalla disposizione or ora menzionata sono costituite dai caratteri “di rarità e di pregio”. Quest’ultimo richiama il “carattere creativo” richiesto come requisito perché “le opere fotografiche e quelle espresse con procedimento analogo a quello della fotografia” ricevano tutela autoriale ex art. 2, n. 7, della legge n. 633/1941. Come è stato osservato, la natura meramente riproduttiva propria di una ‘copia’ impedisce di ravvisare la presenza del “carattere creativo” [15] e quindi del “pregio”. Il che non esclude che, quando nella riproduzione dell’immagine del bene culturale siano stati inseriti dal riproduttore elementi di sensibilità e di gusto personali - o in generale elementi che trascendono la mera “copia” - possa ravvisarsi il carattere “creativo” e perciò il “pregio”. Solo allora, e sempre che fornita di rarità, l’immagine riprodotta (insieme al suo substrato materiale) risulta idonea ad essere considerata come opera d’arte contemporanea e in una prospettiva temporale qualificata come autonomo bene culturale [16].

3. La riproduzione dell’immagine negli artt. 107-108 del Codice

La riproduzione dei beni culturali è disciplinata nel Codice agli artt. 107-108 all’interno della Sezione seconda (Uso dei beni culturali) del Capo I (Fruizione dei beni culturali) del Titolo II, Parte seconda. La collocazione lascia intendere che il Codice considera la riproduzione come una forma di uso [17], genus questo che si articola nell’“uso individuale” (art. 106) e nell’“uso strumentale e precario” (art. 107), diversi in relazione fondamentalmente alla durata (breve nel secondo caso, più lunga nel primo) [18]. Anche la riproduzione, come risulta dall’art. 107, comma 2, e dall’art. 108, conosce un’articolazione, potendo concernere il bene o solo la sua immagine.

Nella disciplina del Codice i temi di base della riproduzione dell’immagine sono costituti da: a) atto di consenso/libertà, b) onerosità/gratuità, c) c.d. clausola di compatibilità. Consideriamoli distintamente.

a) Se l’assetto originario previsto dal Codice, mutuato dall’art. 5 della legge 30 marzo 1965, n. 340, prevedeva che la riproduzione fosse soggetta ad un previo atto di consenso dell’autorità [19], sarebbe erroneo ritenere che in quello attuale la situazione permanga in termini di principio. La liberalizzazione operata per effetto dell’inserimento del comma 3-bis nell’art. 108 [20] ha segnato una chiara distinzione di regime non riconducibile allo schema “eccezione alla regola”: la liberalizzazione investe le attività indicate dal comma 3-bis dell’art. 108 in relazione: i) all’oggetto (tutti i beni culturali esclusi quelli “archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità”); ii) tipo (riproduzione “per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale” e divulgazione “delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite”); iii) modalità (riproduzione “attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né, all’interno degli istituti della cultura, l’uso di stativi o treppiedi”, e divulgazione delle immagini “con qualsiasi mezzo (...), in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro”); iv) connotazione finalistica (“senza scopo di lucro”).

La menzione autonoma da parte del comma 3-bis di questo ultimo elemento è in grado di suscitare perplessità, potendosi ritenere che i tipi di attività indicati siano provvisti ex se di tale connotazione (si pensi ad es. a quella condotta per motivi di studio). Tuttavia, può richiamarsi al riguardo l’osservazione di Max Weber secondo la quale “ogni tipo di agire può essere orientato economicamente, anche per esempio quello dell’artista” [21]. Il che fa superare ogni dubbio sulla ragionevolezza della previsione normativa.

Si può quindi affermare che la liberalizzazione investe ormai la riproduzione/riuso della pressoché totalità dei beni culturali (pur con alcune limitazioni attinenti alle modalità di realizzazione) allorché sia strumentale allo svolgimento di attività connotate da una finalità non lucrativa e che a sua volta tale finalità definisce (in generale) l’ambito della libertà del privato rispetto a quello del previo controllo dell’autorità in ordine alla riproduzione del bene culturale in custodia allo Stato o agli altri enti territoriali.

b) Ai sensi del comma 3 sempre dell’art. 108, ancora l’assenza o la presenza dello scopo di lucro costituisce il fattore da cui dipende l’esenzione dal o la sottoposizione al canone previsto per l’atto di consenso dell’amministrazione [22]. Stante la sovrapponibilità sostanziale fra il comma 3 e l’alinea del comma 3-bis (a dispetto di talune diversità lessicali), si può affermare che i casi di esenzione dal canone coincidano con quelli di liberalizzazione, fatta eccezione per le ipotesi in cui la riproduzione deve svolgersi con le modalità escluse dal n. 1 e quindi richiede l’atto di consenso senza però comportare il versamento del canone [23].

In conclusione, l’assenza dello scopo di lucro esenta la riproduzione sia dal consenso dell’amministrazione (salvo eccezioni) sia dal pagamento del canone, e all’opposto la sua presenza sottopone la riproduzione tanto all’uno che all’altro [24].

Il ruolo chiave assunto nell’economia dell’art. 108 dalla presenza o dall’assenza dello scopo di lucro spinge a tratteggiare la caratterizzazione giuridica dello scopo lucrativo. Si tratta di un concetto giuridico indeterminato, che parrebbe rientrare fra i “concetti normativi o di valore”, in considerazione dei molteplici interessi, anche di rilievo costituzionale, che possono venire in rilievo per definirlo tenuto conto della natura delle attività menzionate nei commi 3 e 3-bis (studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero ecc.). La sua precisazione è rimessa ai momenti attuativi dell’art. 108, in primo luogo, parrebbe, relativi alla fissazione degli importi minimi dei canoni ex comma 6 dell’art. 108, operazione questa che suppone preliminarmente la individuazione dei casi in cui questi sono esigibili, e cioè la riproduzione sia soggetta ad atto di consenso dell’Amministrazione, in sostanza dei casi in cui si ritiene presente appunto lo scopo di lucro.

c) Un profilo dell’assetto normativo concernente la riproduzione dell’immagine di recente riproposto dall’art. 2, comma 2, del d.m. 161/2023 (lasciato indenne dal d.m. 10/2024) è costituito dalla c.d. clausola di compatibilità stabilita dall’art. 106, comma 1, del Codice, secondo cui i beni culturali possono essere concessi in uso “individuale” dagli enti territoriali solo per “finalità compatibili con la loro destinazione culturale”. La norma non è ripresa dagli artt. 107 e 108, ma è da ritenersi applicabile anche agli usi che essi disciplinano. E questo per motivi sia logici che giuridici. L’uso “strumentale e precario” e la “riproduzione” di cui all’art. 107 sono pur sempre una forma di ‘uso dei beni culturali’ (come depone la loro disciplina all’interno della Sezione) e sarebbe inspiegabile sul piano logico che per essi l’utilizzo da parte del privato possa ‘confliggere’ con il carattere storico-artistico del bene di riferimento. Ancor prima, e soprattutto, occorre tener conto del principio di carattere generale espresso dall’art. 20, comma 1, del Codice, che esclude che “i beni culturali [siano] adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico” [25].

Peraltro, la previsione dell’art. 2, comma 2, del Decreto, che richiama l’applicazione della clausola di compatibilità [26], richiede però di essere precisata nella sua portata reale. Anzitutto il riferimento alla (sola) “concessione per (...) la riproduzione” esclude che essa si applichi quando la riproduzione sia attività non sottoposta a concessione, ma “libera”, ossia nelle ipotesi di cui all’art. 108, comma 3-bis, n. 1, del Codice. Questo peraltro in via preveniva, è da pensare infatti che in via successiva, dopo cioè l’effettivo uso della riproduzione, l’amministrazione consegnataria possa effettuare una valutazione di incompatibilità e promuovere in sede giudiziaria la inibizione dell’ulteriore utilizzo [27].

In secondo luogo, per la riproduzione senza scopo di lucro ma sottoposta ex art. 108, comma 3 e 3-bis, n. 1, ad atto di consenso (perché richiesta all’amministrazione o perché da eseguirsi dall’interessato con contatto fisico o con esposizione del bene a sorgenti luminose ecc.), la valutazione di compatibilità, nel primo caso (riproduzione richiesta) si risolve nella mera presa d’atto della dichiarazione del richiedente circa un uso senza scopo di lucro ricadente fra quelli previsti dall’art. 108, comma 3, mentre, nel secondo (riproduzione da eseguirsi dall’interessato con “modalità particolari”, cfr. art. 108, comma 3-bis, n. 1), deve intendersi riferita solo alle modalità con cui la riproduzione verrà effettuata. E ciò proprio in base alla precisazione sopra indicata, secondo la quale, ai sensi dell’art. 108, comma 3-bis, n. 1, è libera in linea di principio la riproduzione per finalità di studio ecc. svolta senza scopo di lucro.

Infine, nell’ipotesi viceversa di riproduzione a scopo di lucro, la valutazione affidata all’amministrazione non va condotta in termini di compatibilità fra riproduzione di un bene culturale e scopo lucrativo, - compatibilità che il Codice nel richiedere un canone chiaramente ammette in termini generali (art. 108, comma 2) - ma in relazione al modo in cui l’immagine riprodotta del bene culturale verrà utilizzata o ‘piegata’ a fini di lucro. In altre parole, la verifica di compatibilità si risolve nella valutazione della circostanza se l’uso della riproduzione secondo le modalità o forme in cui è destinato nel caso specifico a estrinsecarsi è in grado o meno di ledere il significato, il valore storico artistico presente nel bene culturale interessato.

4. La scopo di lucro nei d.m. 161/2023 e 108/2024

Di recente a dare attuazione all’art. 108, comma 6 sono intervenuti il d.m. 161/2023 e il d.m. 108/2024, che l’ha modificato, in particolare sostituendo l’Allegato recante le Linee guida per la determinazione dei canoni e dei corrispettivi per l’uso dei beni culturali in consegna agli istituti e luoghi della cultura del MiC. In questa sede ci si limiterà a considerare come nei due decreti è stata declinata la distinzione fra scopo di lucro e quello non di lucro.

Il d.m. n. 161, nell’intento di fornire un quadro di chiarimento preliminare, distingueva le riproduzioni “a scopo lucrativo o per finalità non commerciali” da quelle “a scopo lucrativo o per finalità commerciali”, intendendo per le prime le riproduzioni aventi le finalità menzionate dall’art. 108, commi 3 e 3-bis alinea (uso personale, motivi di studio ecc.), e per le seconde quelle “da destinare alla vendita sul mercato o per la promozione della propria immagine, del nome, del marchio, del prodotto o attività” [28].

Il chiarimento consisteva pertanto nel considerare ex se le riproduzioni per le finalità previste nei commi 3 e 3-bis (“uso personale ecc.”) come riproduzioni a scopo non lucrativo, “forzando” la lettera delle due disposizioni in cui lo scopo di lucro, come notato, rappresenta un dato ulteriore, una condizione, perché le finalità previste (ripetiamo, “uso personale” ecc.) comportino per la riproduzione, a seconda casi, la non soggezione ad atto di consenso dell’autorità (comma 3-bis) o solo la non soggezione a canone (comma 3). Andava comunque osservato che la scelta di fornire due definizioni “in positivo” invece di far desumere ‘in negativo’ l’una dall’altra (ad es. sono da considerarsi riproduzioni a scopo lucrativo tutte le riproduzioni diverse da quelle indicate come a scopo non lucrativo) si esponeva al rischio di generare margini di incertezza applicativa nei casi dubbi (ad es. nella riproduzione in vista di una pubblicazione destinata “a vendita sul mercato”, ma con prezzo fissato a sola o prevalente copertura dei costi trattandosi di promozione culturale o comunicazione scientifica).

Peraltro, tale chiarimento preliminare non trovava seguito nella disciplina dettata nel paragrafo “A.1 Riproduzioni senza scopo di lucro”, che richiamava pedissequamente le formulazioni presenti nei commi 3 e 3-bis [29].

Differente è l’approccio seguito dal d.m. n. 108. Manca un’indicazione di premessa sulla riproduzione. L’obiettivo di attuare l’art. 108 viene perseguito, anzitutto, facendo ‘evaporare’ (in linea di massima) il requisito dell’assenza dello scopo di lucro, non richiedendolo ai fini della non soggezione della riproduzione a canone o della sua libertà. Infatti, nel par “A.2.1 - Rimborso per le riproduzioni” relativamente alle riproduzioni “libere” di cui all’art. 108, comma 3-bis, n. 1, è omesso ogni riferimento all’assenza dello scopo di lucro [30], dall’altro per quelle ‘senza canone’ di cui all’art. 108, comma 3, in via generale si richiede sì l’assenza dello scopo di lucro, ma al contempo “si specifica che sono gratuite” otto ipotesi di riproduzione, per due delle quali peraltro è richiesta l’assenza dello scopo di lucro, implicitamente dandola per ammessa ex se o comunque non esigendola nelle altre.

In secondo luogo, nel successivo paragrafo (“A.2.2 - Tariffe per le riproduzioni”) si prevede che il richiedente è tenuto al pagamento di un corrispettivo (variamente articolato a seconda delle ipotesi) allorché le riproduzioni e/o il riuso siano effettuati “al di fuori dei casi dei cui al paragrafo precedente”. Sembrerebbe quindi che nelle nuove Linee guida l’area delle riproduzioni considerate senza scopo di lucro (e perciò disposte come “gratuite”) definiscano ‘in negativo’ quella delle riproduzioni a scopo di lucro (e quindi assoggettate a “corrispettivo”) e si evitino in sede applicativa incertezze di classificazione. Sennonché, come si è indicato, nel paragrafo A.2.1, per le riproduzioni ‘esenti da canone’ la casistica di gratuità (anche a volerla considerare come esaustiva dell’intera categoria delle riproduzioni di cui al comma 3 dell’art. 108), annovera fattispecie in cui l’assenza dello scopo di lucro permane come requisito da accertarsi di volta in volta.

Pertanto, neppure le Nuove Linee guida sciolgono in termini soddisfacenti tutti i nodi della distinzione fra riproduzioni a scopo di lucro e quelle a scopo non di lucro che ostacolano un’agevole applicazione dell’art. 108.

In realtà, e prendendo spunto da esperienze di altri Paesi [31], per pervenire a tale risultato le linee guida avrebbero potuto (e potrebbero in futuro):

a) elencare una casistica di riproduzioni/riusi individuata (secondo un criterio di ragionevolezza) “senza scopo di lucro”, da considerarsi esente da canone e libere ai sensi dei commi 3 e 3-bis dell’art. 108 (fatte salve le eccezioni di cui al n. 1 del comma 3-bis);

b) assegnare a tale casistica una valenza esaustiva, quantomeno in termini di principio;

c) conseguentemente qualificare come lucrativo ogni altro tipo di riproduzione/riuso, e perciò soggetto, a seconda delle ipotesi, ad atto di consenso dell’autorità e/o a canone.

5. La tutela civilistica dell’immagine del bene culturale

Nel recente passato il giudice civile è intervenuto in più occasioni [32], anche se non per la prima volta [33], sul tema dell’immagine del bene culturale con pronunce che hanno suscitato una vasta eco mediatica e aperto un ampio dibattito fra gli addetti ai lavori. Non sono mancate valutazioni decisamente critiche [34], alle quali non ritengo di poter aderire, ancorché taluni aspetti delle pronunce richiedono un qualche approfondimento.

Punto di avvio (e caposaldo) dell’orientamento espresso prevalentemente dalle pronunce [35] è l’affermazione dell’esistenza di un “diritto all’immagine” con riferimento al bene culturale, che emergerebbe dagli artt. 107 e 108 del Codice in diretta attuazione dell’art. 9 Cost., la cui ratio delineerebbe una stretta correlazione fra la tutela del bene culturale e la protezione della sua immagine. Gli aspetti che configurerebbero il “diritto all’immagine” sarebbero dati da un divieto di riproduzione/divulgazione per fini di lucro dell’immagine del bene culturale senza il previo consenso da parte dell’amministrazione che l’ha in consegna [36] e prim’ancora dall’attribuzione in capo a tale amministrazione del potere/dovere di valutare, sulla base di un giudizio tecnico-discrezionale, la compatibilità della riproduzione/riuso con il carattere culturale (a seconda delle formulazioni, storico-artistico, identitario ecc.) insito nel bene (e veicolato dall’immagine) [37]. Diritto, quindi, non solo o non tanto con valenza patrimoniale (possibilità di acquisire un corrispettivo per la riproduzione/riuso) quanto essenzialmente di carattere ideale (valutazione di compatibilità fra la riproduzione/riuso e il carattere culturale).

Si tratta di un approccio persuasivo anzitutto perché si basa su uno stretto parallelismo fra lesione dell’immagine e lesione dell’elemento immateriale del bene culturale (come configurato dal Codice: “il danno all’immagine dell’opera pubblica è un danno anche immateriale al bene culturale” [38]. In secondo luogo, è convincente la traccia logica seguita: punto di partenza è il bene culturale con i suoi caratteri e non il diritto (di proprietà o della personalità) in capo al soggetto che ha il bene in consegna. In altre parole, come è stato notato [39], si tratta di un “percorso” che procede non dal soggetto che ha la titolarità o la disponibilità alla cosa, ma dalla res alla persona, e che si muove in una prospettiva “rimediale” già prospettata in sede dottrinale [40]. Questo fa sì che per delineare la tutela dell’immagine, in assenza di una sua disciplina specifica, il giudice utilizzi non solo lo strumento generale della responsabilità aquiliana (artt. 2043 e 2059 c.c.), ma richiami per analogia gli strumenti interdittivi dettati a tutela dell’immagine della persona (art. 10 c.c.) ed evochi come precedente la tutela accordata da tempo dal giudice di legittimità a immagini di cose ancorché prive di carattere culturale [41].

Consideriamo ora per cenni sintetici gli aspetti meritevoli di approfondimento. Il primo concerne la qualificazione del diritto all’immagine spettante al soggetto che ha in custodia il bene culturale. Il richiamo contenuto nelle pronunce all’art. 10 c.c. non comporta una riconduzione del diritto all’immagine del bene culturale al diritto all’immagine di una persona, e perciò da intendersi come diritto della personalità, ma vuole soltanto esprimere che “al pari del diritto all’immagine della persona, positivizzato all’art. 10 c.c. può configurarsi un diritto all’immagine anche con riferimento al bene culturale” [42]. Il che consente di utilizzare in via analogica la disciplina risarcitoria e inibitoria dettata dalla disposizione civilistica senza mettere in forse la ontologica diversità fra i due diritti. Non a caso si precisa che “l’immagine di un bene è (...) cosa diversa rispetto all’immagine del suo titolare” [43].

Solo in una pronuncia si parla di “inclusione del ‘diritto all’immagine dei beni culturali’ nell’ambito dei diritti di personalità” [44], posizione questa peraltro che ha trovato eco nella dottrina [45]. Tuttavia, è da pensare che tale inclusione sarebbe giustificata solo nel caso in cui la riproduzione/riuso che ledesse il valore culturale del bene venisse consentita dall’ente che ne ha la consegna. In questa ipotesi infatti tale soggetto potrebbe risentirne in termini di discredito, di appannamento della sua immagine “istituzionale”. Fattispecie questa però, come è evidente, chiaramente diversa (opposta) rispetto a quella della riproduzione/riuso priva di atto di consenso considerata dalla pronuncia.

Si può invece ritenere che il “diritto all’immagine” nella formulazione operata dalla giurisprudenza esprima una “riserva dell’uso commerciale dell’immagine” [46] a favore del soggetto che ha in consegna la res e concorra a delineare lo statuto proprietario del bene culturale pubblico (più esattamente, in base alla lettera dell’art. 107 del Codice, di quello appartenente ad un ente territoriale). Il che - non appare superfluo ricordarlo - risulta pienamente in linea con il diritto eurounitario [47].

Una qualche attenzione richiede poi il tema dei danni risarcibili. Quanto ai danni patrimoniali, è sufficiente notare che tutte le sentenze che se ne sono occupate li individuano nella perdita subita dall’amministrazione consegnataria del bene per effetto del mancato introito del canone di concessione e del corrispettivo di riproduzione [48]. Viceversa, risulta non univoco l’orientamento delle pronunce in ordine ai danni non patrimoniali. Talora si afferma che “la lesione dell’art. 10 c.c. [ossia dell’immagine] è insita, senza necessità di specifiche prove di svilimento dell’opera”, nella violazione degli artt. 107 e 108 del Codice, “perché ciò è stato ritenuto dal legislatore creare di per sé un danno all’immagine dell’opera” [49].

Altre volte, viceversa, sembra senz’altro necessaria l’effettiva lesione, soffermandosi il giudice sugli elementi di fatto che l’hanno delineata [50] oppure negando egli il risarcimento “in mancanza di prove specifiche sul punto”, come richiesto dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “il danno non patrimoniale, costituendo anch’esso pur sempre un danno conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi in re ipsa [51].

La tesi del danno non patrimoniale in re ipsa (ossia per il solo fatto della riproduzione/riuso intervenuta in assenza del consenso dell’amministrazione che ha in custodia il bene) viene affermata in dottrina sostenendosi che l’art. 108 esprimerebbe una “presunzione legislativa di inconciliabilità dell’utilizzo dell’immagine di beni culturali per scopi commerciali con il decoro dei beni medesimi”, sicché la riproduzione/riuso in mancanza di tale consenso andrebbe considerata “di per sé determinativa della lesione del valore ideale del bene, manifestato attraverso la relativa immagine”. “Correlata” a tale presunzione legislativa opererebbe una “riserva valutativa dell’amministrazione” che precluderebbe che la “compatibilità sia valutabile dal singolo giudice” [52]. Senza entrare nel merito degli argomenti appena richiamati mi limito ad osservare che tale orientamento porta ad un risultato in certo qual modo paradossale, ossia all’impossibilità di quantificare il danno non patrimoniale che si ritiene sussistere in re ipsa. Il giudice, infatti, per determinare l’ammontare del risarcimento dovuto per il danno presunto ex lege, in assenza del giudizio dell’amministrazione dovrebbe ricorrere ad una valutazione equitativa del suo ammontare, ma perciò non potrebbe esimersi dal considerare anche l’entità della lesione del valore ideale del bene veicolato dall’immagine, ambito questo però che si afferma dall’orientamento in esame riservato all’amministrazione (e se ben si è compreso) a lui precluso.

Agli orientamenti espressi dalla giurisprudenza sono stati avanzati in dottrina taluni rilievi che pare opportuno sommariamente indicare, facendoli seguire dagli argomenti in senso contrario contenuti nelle pronunce.

In primo luogo, è stato osservato, a proposito della pronuncia del Tribunale di Firenze 20 aprile 2023, che si tratterebbe di una “creazione giurisprudenziale ex post di una pseudo-proprietà intellettuale eterna e indefinita” che “conduce alla violazione del principio del numero chiuso dei diritti esclusivi su beni immateriali” [53]. Argomenti in senso contrario sono espressi nella pronuncia della Corte di appello di Bologna 10 settembre 2024 dove si rileva che la disciplina del diritto di autore e quella del Codice “non interferiscono fra loro”, giacché “l’una è rivolta a garantire la protezione delle opere dell’ingegno di carattere creativo e dei loro autori, l'altra a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura in attuazione dell’art. 9 Cost.” [54]. Pertanto, risulta infondato “il preteso contrasto della disciplina legale di cui al d.lgs. n. 42/2004 con il numerus clausus della proprietà intellettuale e industriale, posto che, se la normativa in materia di beni culturali e finalizzata alla migliore e più efficiente conservazione e gestione del patrimonio culturale per la pubblica fruizione (...), la disciplina in materia di proprietà intellettuale è volta a tutelare i diritti di un'opera dell'ingegno” [55].

In effetti i sopra richiamati rilievi critici ripropongono il tema del rapporto esistente fra la disciplina del Codice e quella del diritto d’autore [56]. Si tratta di due corpi normativi che hanno il punto di intersezione nel fatto che il bene culturale costituisce (spesso, anche se non sempre) opera dell’ingegno, ma che divergono in relazione alle finalità che li ispirano, alle logiche che li governano e alle disposizioni che dettano. Non è un caso che l’art. 107, comma 1, fa salva l’applicazione della disciplina autoriale e che l’art. 32-quater, della legge 633/1941 tiene “ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali” dettate dal Codice.

Le norme contenute negli artt. 107 e 108 non si occupano della tutela del soggetto autore del bene culturale in quanto opera dell’ingegno, ma attengono al regime del bene in quanto entità di appartenenza pubblica (con più esattezza, di enti territoriali), concorrendone a definire lo statuto con riguardo alla riproduzione/riuso dell’immagine, che veicola il valore culturale espresso dal supporto materiale del bene.

Questo comporta - ed è il rilievo di fondo che può essere mosso ai rilievi critici avanzati - che l’attuale disciplina del Codice, nella corretta lettura che ne ha dato la giurisprudenza, non può essere valutata secondo gli schemi logici che valgono per la disciplina autoriale (creazione o meno di nuovi diritti di esclusiva in violazione del principio del loro numero chiuso), ma richiede di essere vagliata secondo coordinate di giudizio idonee a saggiare il regime proprietario per il bene culturale.

Come già osservato l’attuale disciplina codicistica distingue fra riproduzione/riuso dell’immagine in relazione al fine perseguito (senza scopo di lucro oppure per finalità lucrativa), liberalizzando la prima (salvo che in alcuni casi di portata limitata) ed esentandola da un canone concessorio, viceversa sottoponendo la seconda ad un previo atto di consenso dell’amministrazione e ad un onere economico. Pertanto, una corretta analisi valutativa può avere reale consistenza solo se si interroga sulla idoneità o meno di tale la disciplina a rappresentare un ragionevole bilanciamento delle esigenze espresse dagli artt. 9, 21, 41 e 97 Cost. Bilanciamento questo che, in quanto decisivo per configurare l’assetto proprietario del bene culturale pubblico, può senz’altro essere oggetto di proposte di modifica che si mantengano nell’ambito concettuale appena richiamato.

Un altro profilo che ha richiamato l’attenzione degli osservatori riguarda la ‘effettività’ del controllo pubblico sulla riproduzione/riuso del bene culturale, quando lo sfruttamento commerciale sia effettuato all’estero.

Sulla base dell’asserita applicabilità delle norme del Codice solo all’interno del territorio italiano si è prospettata l’opinione che lo sfruttamento ‘fuori confini’ sia possibile anche in assenza di un atto di consenso da parte dell’amministrazione, fino a quando non intervenga un’apposita disciplina sovranazionale [57]. A ben vedere però l’utilizzo all’estero dell’immagine del bene culturale italiano ridonda fatalmente nella questione del risarcimento del danno conseguenza (patrimoniale e non patrimoniale) derivante da tale utilizzo e come tale richiede anche, ma direi soprattutto, di essere analizzato. Il che deve avvenire sotto il duplice profilo della giurisdizione legittimata a giudicare e delle norme di diritto sostanziale da applicare.

Per entrambi gli aspetti può farsi diretto rinvio all’analitico ed esauriente percorso argomentativo contenuto nella pronuncia del Tribunale di Venezia del 17 novembre 2022, relativa all’utilizzo a fini di lucro dell’immagine dell’Uomo Vitruviano da parte delle società Ravensburger [58]. Detto in breve, a esito di tale percorso il giudice veneziano ha concluso tanto per la sussistenza della giurisdizione italiana quanto per l’applicazione della legge italiana (Codice e Codice civile) come disciplina da utilizzare per la soluzione della controversia. Ciò perché, a proposito delle fattispecie che presentano elementi di estraneità, il diritto sovranazionale individua nel luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto (nella specie Venezia) l’elemento che determina sia l’autorità giurisdizionale sia la legge con cui giudicare [59].

Il tema dell’effettività della tutela della riproduzione/riuso a scopo di lucro del bene culturale si è nuovamente riproposto a seguito della pronuncia del Tribunale di Stoccarda (LG Stuttgart, Urteil vom 14.03.2024 - 17 O 247/22) sul caso Uomo Vitruviano, in ideale seguito della decisione del Tribunale di Venezia appena considerata [60]. In essa si affermato che “la legge italiana, come quella sulla tutela del patrimonio culturale, è valida solo sul territorio italiano” [61].

Un’attenta analisi di tale pronuncia [62] ha rilevato le debolezze di tale affermazione in relazione alle sue possibili motivazioni: inapplicabilità a priori della legge italiana (il Codice) perché legge straniera, o perché normativa di diritto pubblico, oppure perché contraria all’ordine pubblico della RFT. Dopo aver rilevato che la prima motivazione colliderebbe con i principi stessi alla base del diritto internazionale privato, che la seconda non terrebbe conto che l’amministrazione in materia di riproduzione dell’immagine opera iure gestionis, non iure imperii, l’analisi, quanto alla terza, ha sottolineato che in Germania la legge di attuazione della Direttiva UE 2019/1024 sull’apertura dei dati e riutilizzo delle informazioni nel settore pubblico [63] ammette espressamente la possibilità di richiedere un corrispettivo a fronte della fornitura e della possibilità di riutilizzo degli stessi dati. Soprattutto si è rilevato che, trattandosi di un caso con elementi di estraneità rispetto al territorio tedesco, sia mancata nella pronuncia l’identificazione della legge applicabile ai sensi del Regolamento Ce n. 864/2007 in tema di obbligazioni extracontrattuali [64].

Per concludere, si può ritenere che il rischio della ‘ineffettività’ per la tutela dell’immagine non vada sottovalutato, specie a fronte dei continui progressi della tecnologia digitale che dilata le possibilità e le occasioni di abusi, ma che al contempo non manchino strumenti giuridici per contrastarlo. Questi appaiono meritevoli di impiego, specie nei casi più eclatanti, non fosse altro perché - a parte ogni considerazione sull’offesa al valore ideale del bene - l’uso dell’immagine a scopo di lucro, in particolare per fini commerciali seriali, rientra in definitiva fra i ‘fattori di produzione’, e come tale merita di essere trattato secondo le logiche che governano il settore.

6. La tutela amministrativa

Spazio più ristretto di analisi, ma non minore attenzione richiede il tema della tutela amministrativa dell’immagine nei casi di riproduzione di cui agli artt. 107 e 108.

È affermazione ricorrente che manchi al riguardo una disciplina sui poteri inibitori e repressivi di usi ‘impropri’ dell’immagine, e pertanto viene auspicato l’intervento del legislatore a colmare la lacuna [65]. In effetti di tale tutela non fanno cenno né le anzidette disposizioni né quelle previste dagli artt. 160 e 166, che in ragione delle fattispecie considerate non interessano la riproduzione dell’immagine. Pertanto, deve convenirsi con la richiamata affermazione. Purtuttavia possono ipotizzare ambiti sia pur limitati di tutela amministrativa.

Al riguardo si considerino le fattispecie oggetto delle pronunce giurisprudenziali sopra richiamate. Esse vertono su una ipotesi comune: riuso dell’immagine per fini di lucro, condotto in assenza dell’assenso da parte dell’amministrazione consegnataria e con lesione del valore culturale insito delle opere riprodotte. Tali opere, poi, fanno parte di raccolte museali statali [66]. In quanto tali sono qualificabili come beni demaniali ai sensi dell’art. 53 del Codice e dell’art. 822 di quello civile.

In proposito, pertanto, va anzitutto ricordata la previsione dell’art. 823, comma 2, del Codice civile, secondo cui “spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal presente codice”.

In secondo luogo, occorre tener conto che, come già sostenuto persuasivamente in dottrina, l’art. 21-ter della legge 241/1990 ha sottoposto l’autotutela esecutiva dell’amministrazione al principio di legalità inteso cumulativamente come principio di nominatività (sussistenza del potere esecutivo della PA solo nelle ipotesi previste dalla legge) e come principio di tipicità (suo esercizio con le modalità previste dalla legge) [67].

Orbene, ad accogliere la tesi per la quale l’art. 823, comma 2, esprime una norma non meramente ricognitiva di singoli poteri esecutivi previsti da specifiche disposizioni, ma invece attributiva di un potere generale [68], si apre la possibilità di configurare a proposito dei casi oggetto della giurisprudenza sopra richiamata anche una tutela esecutiva sia pure limitata alla riscossione ex post del canone di riproduzione non versato ex ante (non essendo stato richiesto il consenso del consegnatario del bene culturale). Invero, a soddisfare il principio di legalità risulta la previsione dell’art. 823, comma 2, mentre quello di tipicità è rispettato dalle disposizioni dettate per l’esecuzione dei crediti dello Stato (e in particolare dal r.d. 14 aprile 1910, n. 639, e succ. mod.) richiamate dallo stesso art. 21-ter della legge n. 241.

Viceversa, sembra doversi escludere la possibilità per l’amministrazione consegnataria di esercitare i poteri di carattere inibitorio o repressivo conferiti dall’art. 10 c.c. all’autorità giudiziaria oppure quelli spettanti all’Agcom in forza dell’art. 8 della All. A alla delibera n. 680/13/CONS del 12 dicembre 2013 della stessa Autorità.

Invero, pur a seguire la tesi di una “tipicità attenuata” del poter esecutivo dell’amministrazione, ossia di una tipicità che attinga alla tipizzazione offerta dall’ordinamento complessivamente inteso, parrebbe eccessivo fare ricorso a tali disposizioni per ritenere sussistente un potere di autotutela in capo all’amministrazione consegnataria, perché, nel primo caso, si tratta di un poteri assegnati non all’amministrazione, ma all’autorità giudiziaria [69], nel secondo, perché pur trattandosi di un potere dell’amministrazione, esso è finalizzato alla tutela del diritto di autore e quindi contraddistinto da una “causa” del tutto diversa dalla tutela del valore culturale che deve perseguire l’amministrazione consegnataria del bene.

È da aggiungere, invece, la possibilità che norme dettate per la salvaguardia del decoro urbano abbiano l’effetto di tutelare in via amministrativa anche l’immagine del bene culturale. Lo spunto proviene da quanto accaduto a Firenze nel 2024, a proposito del David di Michelangelo: l’esposizione alla vista dei passanti della merce su cui era impresso un particolare anatomico della statua è stata ritenuta offensiva del decoro pubblico e perciò colpita in termini pecuniari in base all’art. 30 del Regolamento di Polizia urbana comunale [70].

Pur nei limiti delle fattispecie appena considerate si può quindi affermare che l’inosservanza della disciplina sostanziale dettata dagli artt. 107 e 108, e perciò l’uso ‘improprio’ dell’immagine del bene culturale, trovi una sanzione amministrativa anche in assenza di una specifica previsione da parte del Codice. Resta fuori dubbio, peraltro, l’auspicio di un intervento in materia da parte del legislatore [71].

7. Le “zone grigie” e le “carenze”

L’osservazione appena formulata introduce al tema di quelle che possono considerarsi le “zone grigie” (o incertezze) e le “carenze” (o vuoti [72]) della disciplina attualmente dettata sulla riproduzione (delle immagini) dei beni culturali dagli artt. 107 e 108.

All’interno delle prime si colloca la questione, in precedenza affrontata [73], della distinzione fra scopo di lucro e scopo non lucrativo. L’affermazione di Max Weber sopra ricordata giustifica il perché nell’art. 108 il comma 3 esenti dal canone, ad esempio, “le riproduzioni per motivi di studio (...) purché attuate senza scopo di lucro” e il comma 3-bis sancisca la libertà delle riproduzioni, sempre ad esempio, “svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio”, non considerando quindi ex se la finalità di studio come non lucrativa. Resta però senza risposta quando, per proseguire l’esempio, il motivo o finalità di studio si connoti per l’assenza o la presenza dello scopo lucrativo. Insomma, permangono margini di ambiguità non sciolti dalla norma legislativa, che, meritoriamente, ma in termini insufficienti, le previsioni delle linee guida ministeriali hanno cercato di eliminare [74].

Rientra fra le “zone grigie” altresì un aspetto dell’atto di consenso alla riproduzione da parte dell’amministrazione consegnataria del bene. Può darsi per acquisito (fino a consideralo come la ragione stessa della sua previsione) che tale atto presuppone la previa verifica di compatibilità della riproduzione rispetto al carattere storico e artistico del bene che ne sarà oggetto [75]. In sostanza quanto previsto dall’art. 106 per l’“uso individuale” è ritenuto da applicarsi anche per gli usi di cui all’art. 107 (“uso strumentale e precario e riproduzione”).

È rimasta però in ombra la questione se l’atto di consenso in questo secondo tipo di uso presupponga l’autorizzazione del MiC, come richiesto per il primo dall’art. 106, comma 2-bis. In senso contrario militano tanto la ragione di evitare un appesantimento procedurale non indicato quanto il fatto che la autorizzazione del soprintendente per gli utilizzi ex art. 107 è prevista solo nel caso di “calchi di copie” (comma 2). Del resto, anche i d.m. 161/2023 e 108/2024 non ne fanno menzione.

Emerge quindi l’interrogativo se il ministero abbia la possibilità di “intervenire” sull’atto di consenso espresso un’amministrazione non statale consegnataria del bene [76] quando non condivida la ritenuta compatibilità. Al riguardo pare da escludersi la possibilità di esercitare un potere sostitutivo, analogo a quello previsto all’art. 5, comma 7, del Codice per i compiti di tutela esercitati dalle regioni sulla base di accordi con lo Stato: in questo caso, infatti, la valutazione di compatibilità (concettualmente rientrante nella funzione di tutela) è assegnata all’amministrazione consegnataria direttamente dalla legge [77]. Può pensarsi piuttosto alla legittimazione del ministero ad impugnare l’atto di consenso alla riproduzione espresso a seguito di una valutazione inadeguata di compatibilità (e perciò inficiato da illegittimità per eccesso di potere). Ciò sempre che si ammetta in capo al Mic, sulla base dell’art. 4 del Codice, una funzione di tutela ‘di sistema’ nel campo dei beni culturali.

Va, infine, annoverato, fra le “zone grigie” anche l’ambito oggettivo di riferimento degli artt. 107 e 108, ossia il quesito se tali disposizioni concernano, per usare una dicotomia entrata in circolo, oltre ai beni “sottratti alla pubblica vista” anche quelli “liberamente visibili”. Il quesito è strettamente legato al c.d. diritto di panorama [78], che in genere si considera vigente nell’ordinamento italiano, come regola non scritta, per i beni esposti alla pubblica vista in forza del principio di liceità dei comportamenti non vietati [79] o di quello di libera fruibilità ed accessibilità del patrimonio culturale [80], pur con qualche dubbio sollevato nel caso di riproduzione con finalità commerciale [81]. A bene vedere però la regola si rintraccia nell’attuale testo dell’art. 108, comma 3-bis, che nel prevedere come “libere” talune riproduzioni esclude quelle che comportano, “all’interno degli istituti della cultura, l’uso di stativi o treppiedi”. È di tutta evidenza che, se il legislatore con tale disposizione avesse inteso normare solo i beni “all’interno degli istituti della cultura”, ossia quelli “sottratti alla pubblica vista”, l’inciso sarebbe stato inutile. Pertanto, è da ritenersi che quanto previsto dagli artt. 107 e 108 trovi applicazione anche per la riproduzione (dell’immagine) dei beni culturali ‘liberamente visibili’ e conseguentemente valga per essi pure la differenziazione di regime giuridico in rapporto allo scopo perseguito [82].

Passando alle “carenze” della attuale disciplina che richiedono come necessario o almeno opportuno intervento del legislatore, riprendo per iniziare quanto già indicato a proposito della tutela in via amministrativa dell’immagine del bene culturale [83]. A superamento dei limiti al momento presenti per tale tutela sarebbero da prevedere poteri inibitori/repressivi in capo all’amministrazione depositaria da esercitarsi in caso di potenziale o effettivo uso di un’immagine lesivo del valore culturale del bene. In particolare, tenuto conto che la via più diffusa (e insidiosa) per veicolare immagini è nel tempo presente costituita dal web, va condivisa senz’altro l’idea da tempo avanzata [84] che siano introdotti strumenti di intervento sulla falsariga di quanto stabilito dall’art. 8 della delibera dell’Agcom n. 680/13/CONS del 12 dicembre 2013 a tutela del diritto d’autore. Andrebbe pertanto sancita la possibilità che l’Autorità, su istanza dell’amministrazione consegnataria o del Mic (come pure dell’autorità giudiziaria), ordini, a seconda che l’ubicazione del server interessato si trovi sul territorio nazionale o su quello estero, la disabilitazione dell’accesso all’immagine o al sito, con l’applicazione, in caso di inosservanza, delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui all’art. 1, comma 31, della legge 31 luglio 1997, n. 249.

Anche per i beni ‘liberamente visibili’ o se si preferisce per il c.d. diritto di panorama parrebbe opportuna una disciplina ‘in chiaro’, magari articolata in ragione della circostanza che il bene culturale riprodotto compaia in un “contesto paesaggistico o di ambientazione” oppure risulti l’elemento catalizzante dell’immagine, in altre parole una disciplina che distingua “le immagini prettamente ‘panoramiche’”, da liberalizzare, e quelle che ritraggono “l’opera in sé”, da sottoporre vincoli perché determinanti una fruizione particolare, ovvero “non tipica” [85].

Altra carenza di non poco conto è data dalla mancata considerazione negli artt. 107 e 108 dei beni culturali appartenenti ad enti pubblici diversi da quelli territoriali e a soggetti privati. L’assenza di una esplicita disciplina per le due classi di beni in genere non è fatta oggetto di attenzione oppure è segnalata [86], senza però approfondimenti circa il regime da applicarsi. Eccezionalmente si parla di “amministrazioni pubbliche proprietarie” senza distinzioni [87]. Tale formula è pienamente condivisibile, ma rappresenta l’esito di un percorso argomentativo che merita di essere esplicitato anche al fine di chiarire la differente disciplina valevole per la riproduzione dei beni culturali privati.

Punto di partenza è la collocazione degli artt. 107 e 108 all’interno dell’area della fruizione (Capo I, Titolo II, della Parte seconda del Codice), area segnata dalla dicotomia pubblico/privato. Orbene tutti i soggetti pubblici sono impegnati dal Codice alla fruizione, ancorché per quelli territoriali l’impegno è riferito “al patrimonio culturale” (comma 3) complessivamente inteso, mentre per quelli non territoriali è limitato al “loro patrimonio culturale” (comma 4). L’art. 101, dedicato agli istituti e luoghi della cultura, ribadisce poi che quelli che appartengono a “soggetti pubblici sono destinati alla pubblica fruizione” (comma 3). La previsione comprensiva della intera gamma dei soggetti pubblici è confermata a sua volta dall’art. 102, comma 1 per la quale “Lo Stato, le regioni, gli altri enti territoriali ed ogni altro ente ed istituto pubblico, assicurano la fruizione negli istituti e nei luoghi indicati all’articolo 101”, cui si aggiunge al comma 3 l’indicazione che “la fruizione dei beni culturali pubblici[88] al di fuori di tali istituti e luoghi “è assicurata secondo le disposizioni del presente Titolo”, sia pure compatibilmente con lo svolgimento degli scopi istituzionali cui i beni sono destinati.

Sulla scorta di tali indicazioni normative è indubbio che la disciplina dettata dal legislatore negli artt. 107 e 108 - con tutta probabilità pensata con riguardo agli istituti e luoghi della cultura degli enti territoriali in ragione della loro più significativa consistenza numerica e qualitativa [89] - può e deve applicarsi anche alla riproduzione dei beni culturali degli enti pubblici non territoriali.

Soluzione diversa è da darsi nel caso di beni culturali privati. Ancorché pure essi si configurino sul piano teorico come “beni di fruizione” [90] la loro fruibilità non rappresenta l’attuale regola di regime giuridico, come risulta dall’art. 1, comma 5, del Codice, che impegna i privati proprietari, possessori e detentori di beni culturali a garantirne la sola “conservazione”. La loro fruizione da parte del pubblico è rimessa quindi alle scelte di quanti hanno la loro disponibilità, che possono modulare anche la riproduzione dell’immagine secondo lo statuto proprietario dettato dalla normativa civilistica [91].

Questo in linea di principio, giacché obblighi di fruizione in termini di “accessibilità al pubblico” (o “assoggettamento a visita da parte del pubblico per scopi culturali”) possono essere imposti ai sensi degli artt. 38 e 104 del Codice. Negli accordi che in questi casi intervengono fra il ministero e i privati proprietari ecc. circa le modalità dell’accesso possono, ma è da pensare devono, essere contemplati anche i modi e i limiti della riproduzione dei beni culturali interessati.

Postilla

Le considerazioni svolte nel presente lavoro si sono mosse all’interno del quadro regolatorio attualmente vigente segnato dalla dicotomia fra scopo di lucro e scopo non lucrativo della riproduzione/riuso, quadro che sembra realizzare un ragionevole bilanciamento fra i valori costituzionali che vengono in rilievo. In particolare, nel caso di finalità lucrativa, la necessità di acquisire il previo consenso dell’amministrazione permette di garantire il valore culturale del bene e l’‘autenticità’ [92] della sua immagine. Resta ovviamente aperta l’opzione di un diverso assetto del settore, come auspicato da una parte degli osservatori, nel quale comunque dovrebbe essere sanzionato prontamente (stante la velocita della comunicazione via web) un utilizzo dell’immagine non compatibile con il significato culturale espresso dal bene.

In uno scenario di conservazione dell’intelaiatura degli artt. 107 e 108, ma anche in quello di una piena liberalizzazione della riproduzione/riuso, un compromesso che volesse coniugare l’esigenza di una previa o comunque tempestiva valutazione dell’uso dell’immagine con la speditezza dell’azione amministrativa (richiesta dal cittadino specie se operatore economico), potrebbe sostanziarsi, come già indicato in un precedente scritto [93], nell’introduzione di un meccanismo rispettivamente di silenzio assenso (relativo al rilascio dell’atto di consenso) e di Scia/Dia (che viceversa presuppone un’attività liberalizzata). Meccanismi questi in linea di principio esclusi nel settore dei beni culturali (cfr. art. 20, comma 4 e art. 19, comma 1, legge n. 241/1990), ma che per la riproduzione/riuso potrebbero contemperare ragionevolmente le esigenze in campo.

Più in generale sembrano imprescindibili approcci ‘aperti’ e soluzioni flessibili, anche a salvaguardia del fondamentale valore costituito dall’autonomia delle istituzioni culturali, che si presentano differenti quanto a natura, vocazione, risorse disponibili, capacità amministrativa come pure per possibili scelte in termini di tecniche e ambiti di digitalizzazione.

Da non trascurare sarebbe, infine, la circostanza che la nota distinzione fra “source nations” e “market nations[94] sembra trovar ragion d’essere anche nel campo della realtà digitale e perciò richiedere al nostro Paese, senz’altro collocabile nel primo gruppo, un supplemento di attenzione nella definizione del quadro regolatorio e nella sua attuazione.

 

Note

[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.

[**] Girolamo Sciullo, già professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Bologna, Via Zamboni 22, 40126 Bologna, g.sciullo@studiogam.it.

[1] Per i contributi comparsi su questa Rivista v. i nn. 2/2023 nonché 1 e 2 del 2024.

[2] L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3.

[3] Cfr. ad es. N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1986, pag. 884.

[4] Cfr. Tribunale di Firenze, sez. II civ., 21 aprile 2023, n. 1207, e 11 aprile 2022. n. 1910.

[5] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), trad. it., Torino, Einaudi, 2014.

[6] Si pensi alle molteplici copie romane di sculture ellenistiche (ad es. Venere capitolina ecc.).

[7] È certamente vero che il nuovo supporto (fotogramma o file) presenta in genere una “materialità” di sostanza e di grado minori rispetto al supporto originario (quadro, statua ecc.), ma appare indubbia la sua “dimensione fisica”, cfr. G. Spedicato, Digitalizzazione di opere librarie e diritti esclusivi, in Aedon, 2011, 2, nt. 28.

[8] In tal senso G. Spedicato, Digitalizzazione, cit., par. 5.

[9] Cfr. A. Bartolini, Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. amm., 2019, 2, pag. 234 e pag. 236, che però lo considera bene immateriale.

[10] Sulla nozione e i caratteri dei beni immateriali cfr. M. Are, voce Beni immateriali, in Enc. dir., V, Milano, Giuffrè, 1959, pag. 248 ss.; v. anche P.G. Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, in Dig. IV (Discipline pubblicistiche), vol. II, Torino, Utet, 1987, pag. 219; F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002, pag. 51.

[11] Anche in questo caso, come avviene a proposito del bene culturale (cfr. di recente L. Casini, Advanced Introduction to Cultural Heritage Law, Cheltenham, UK - Northampton, MA, USA, Edward Elgar, 65 s.) l’immagine riprodotta (che veicola l’interesse culturale) e il supporto materiale sul quale essa insiste rappresentano un binomio inscindibile.

[12] M. Cammelli, Immateriale economico e profilo pubblico del bene culturale, in L’immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli e A. Bartolini, Giappichelli, Torino, 2016, pag. 92; A. Bartolini, Il bene, cit., pag. 234; G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1, par. 5.

[13] Cfr. F. Caporale, La valorizzazione, dei beni culturali, Napoli, Editoriale Scientifica, 2024, pag. 271.

[14] Sulla digitalizzazione come fenomeno diverso dalla riproduzione, in quanto meccanismo fornito di “un’ampia possibilità di maneggio e alterazione creativa” dell’immagine e di “disponibilità all’arricchimento cognitivo” riguardo al bene originario, cfr. le riflessioni di P.P. Forte, Il bene culturale digitalizzato. Note per uno studio giuridico, in P.A. Persona e amministrazione, 2019, 2, pag. 256 ss. (citazioni a pag. 260).

[15] G. Spedicato, Digitalizzazione, cit., par. 5.

[16] Escludono la possibilità di qualificare l’immagine come bene culturale, sia pure con altri percorsi argomentativi, P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2020, 3, par. 1 e ora C. Videtta, Le immagini dei beni culturali. Riflessioni a margine del dibattito, in Aedon, 2024, 2, par. 14 ss.

[17] W. Cortese, Art. 107, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 424.

[18] W. Cortese, op.cit., pag. 423. Come ricorda G. Calculli, Il d.m. 11 aprile 2023, n. 161 del Ministero della Cultura, un’iniezione di ottimismo per il patrimonio culturale statale, in Aedon, 2024, 2, par. 2 l’Ufficio legislativo del Mibact con la nota 16 giugno 2009, n. 13014 per le ipotesi di uso di più lunga durata prospettava come necessaria l’applicazione dell’art. 57-bis del Codice.

[19] Tale atto di consenso sembra inquadrabile in termini di concessione nel caso di “riproduzione” del bene culturale, trattandosi dell’uso di un bene nella titolarità dell’amministrazione con conseguente accrescimento della sfera giuridica del privato, mentre per il caso di “divulgazione” o riuso di un’immagine già acquisita legittimamente sembra più corretta la qualificazione come autorizzazione, essendo stata richiesta all’amministrazione la rimozione di un limite posto all’esercizio di un utilizzo nella titolarità del privato, cfr. I. Forgione, La discrezionalità nella concessione in uso dei beni culturali, in A.L. Tarasco e R. Miccù, Il patrimonio culturale e le sue immagini, Napoli, Editoriale Scientifica, 2022, pag. 100 e G. Calculli, Il d.m., cit., pag. 7.

[20] Ciò per effetto dell’art. 12, comma 3, del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, conv. dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, che modificò anche l'art. 108, comma 3.

[21] M. Weber, Storia economica, (trad. italiana), Roma, Donzelli, 2007, 3 (corsivo riportato).

[22] Che l’inciso “purché attuate senza scopo di lucro” vada riferito non solo alle riproduzioni mosse da “finalità di valorizzazione”, ma anche a quelle “richieste o eseguite da privati per uso personale o finalità di studio” risulta sia dalla punteggiatura del periodo, sia dall’intento del legislatore. Come si legge a p. 20 nella relazione governativa al d.d.l. (Atto Camera XVII Legislatura) di conversione del d.l. 83/2014, “scopo della nuova disposizione [di modifica del comma 3 dell’art. 108] è, pertanto, quello di operare ... una diversa distinzione tra soggetti onerati e non onerati dal canone, fondata sui fini - lucrativi o non lucrativi - cui è diretta l’attività svolta”.

[23] In tal senso A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali?, in Aedon, 2023, 2, par. 2, che parla di “regime di concessione a titolo gratuito”. Tuttavia, in dette ipotesi la valutazione di compatibilità rimessa all’amministrazione si atteggia in termini più ristretti dell’ordinario, v. infra nel testo.

[24] Viceversa, risultano slegati dalla presenza o meno dello scopo di lucro i “corrispettivi” connessi alla riproduzione di cui ai commi 1, 2 e 6 dell’art. 108. Pur se la lettera di tali disposizioni non pare impeccabile, mentre per “canoni” sono da intendersi le somme dovute per gli atti di consenso dell’Amministrazione, i “corrispettivi” è da pensare che costituiscano quanto dovuto dal privato per acquisire riproduzioni effettuate dalla Amministrazione. Sicché essi sono legati solo alla natura del soggetto che effettua materialmente la riproduzione.

[25] Per la vigenza della clausola di incompatibilità anche per l’uso e la riproduzione di cui all’art. 107 cfr. M. Brocca, La disciplina d’uso dei beni culturali, in Aedon, 2006, 2, par. 2; C. Ventimiglia, Art. 107, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, pag. 989; I. Forgione, La discrezionalità, cit., pag. 96; G. Calculli, Il d.m., cit., par. 2; C. Videtta, Le immagini, cit., par. 4, che richiama anche la previsione dell’art. 120 del Codice in tema sponsorizzazione, nonché la giurisprudenza in tema di riproduzione dell’immagine che sarà considerata nel par. 5. Del resto, la relazione al d.d.l. di conversione del d.l. n. 83/2014 sottolineava a proposito del nuovo comma 3-bis dell’art. 108 che i previsti poteri di controllo del ministero “sono riconducibili al generale potere-dovere del Ministero stesso di verificare la compatibilità degli usi del bene culturale con le esigenze di tutela (articolo 20, comma 1, e articolo 106, comma 2-bis, del Codice). In tale prospettiva le verifiche mireranno anzitutto ad accertare che effettivamente la riproduzione avvenga con modalità non pregiudizievoli per la conservazione o il decoro del bene culturale”, pag. 20. Ne sembrerebbe decisiva l’obiezione secondo cui negli artt. 20 e 106 del Codice la compatibilità dell’uso si riferirebbe all’uso “fisico” del bene e non anche per quello “immateriale”. Il rilievo non terrebbe conto della configurazione codicistica del bene culturale come insieme di un supporto fisico e di un valore immateriale (il carattere storico-artistico veicolato dall’immagine) sicché la lesione di tale valore se certamente può essere provocata da un intervento sulla res, non necessariamente lo postula potendo esso essere inciso autonomamente, cfr. in tal senso M. Cammelli, L’ordinamento dei beni culturali tra continuità e innovazione, in Aedon, 2017, 3, par. 2 e F. Caporale, La valorizzazione, cit., pag. 329.

[26] “La concessione per l’uso e la riproduzione dei beni culturali è comunque subordinata alla previa verifica di compatibilità della destinazione d’uso della riproduzione con il carattere storico-artistico dei medesimi beni culturali, ai sensi dell’articolo 20 del Codice”.

[27] In tal senso F. Caporale, La valorizzazione, cit., pag. 278.

[28] Cfr. Sezione A-Riproduzioni di beni culturali.

[29] È da pensare peraltro che il chiarimento preliminare ispirasse la casistica prevista nella Tabella 3 del paragrafo “A.2. Riproduzioni a scopo di lucro” (ad es. per “brochure”, “merchandising”).

[30] L’assenza dello scopo di lucro è richiesta per la “divulgazione” di cui all’art. 108, comma 3-bis, n. 2.

[31] Nelle “condizioni generali d’uso” previste dal Louvre (https://collections.louvre.fr/en/page/cgu) si legge:

Art. 4.1.1. a. Réutilisation à titre gratuit:

Le téléchargement et la réutilisation des photographies en moyenne définition figurant sur le site internet des collections et représentant des œuvres non protégées au titre du droit d’auteur (ci-après les «Photographies») sont autorisés, à titre gratuit, pour toute utilisation non collective dans un cadre strictement privé, ainsi que pour les usages à vocation muséographique, scientifique et pédagogique suivants, limitativement listés:

- la projection et diffusion dans le cadre d’activités muséographiques, pédagogiques et scientifiques, telles que la reproduction sur des cartels, panneaux d’expositions, la présentation de visites conférences, l’animation d’ateliers pédagogiques, la délivrance d’enseignements et de formations et la tenue de colloques et séminaires;

- l’édition de catalogues d’expositions ou de collections permanentes, de publications scientifiques et de thèses pour les éditeurs ayant leur siège dans l’Union européenne, dans la limite d’un seuil de tirage de mille cinq cents (1500) exemplaires, rééditions comprises;

- les publications numériques à vocation scientifique ou pédagogique”.

Art. 4.1.1. b. Réutilisation à titre onéreux:

Toute utilisation autre que celles limitativement listées à l’article 4.1.1 a. ci-avant, et notamment toute utilisation commerciale telle que la fabrication et la distribution de produits dérivés, la production audiovisuelle et multimédia et les éditions sur support papier autres que celles visées à l’article 4.1.1., doit faire l’objet d’une demande écrite adressée par l’Utilisateur à la Rmn-GP via le site internet de son agence” photographique photo.rmn.fr. La demande doit préciser l’utilisation ou les utilisations envisagée(s). De telles utilisations sont consenties à titre onéreux, aux tarifs pratiqués par la Rmn-GP”.

[32] Tribunale di Firenze, ordinanza 11 aprile 2022, Tribunale di Venezia, ordinanza 17 novembre 2022, Tribunale di Firenze, sentenza 20 aprile 2023, Corte d’appello di Bologna, sentenza 10 settembre 2024, n. 1792, Tribunale di Firenze, sentenza, 18 dicembre 2024. A. Mondini, La tutela, cit., 178, menziona anche Tribunale di Firenze, sentenza 28 agosto 2023, n. 2446, ancora inedita, che non mi è stato possibile reperire.

[33] Possono richiamarsi le pronunce del Tribunale di Firenze, sentenza, 21 settembre 2017, del Trib. Palermo, ordinanza, 26 ottobre 2017, con commento di M.L. Franceschelli, La riproduzione di beni culturali a scopo di lucro, in Riv. dir. ind., 2018, II, pag. 277 ss.

[34] Per un ampio ventaglio di posizioni cfr. fra gli altri, A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo), in Aedon, 2023, 2, par. 3 ss.; Id., Beni culturali immagini, in Arte e dir., 2024, pag. 5 s.; G. Anselmo, La confusione concettuale sul “diritto all’immagine” del bene culturale”. Una necessaria rilettura secondo il paradigma proprietario, in Dir. Fam. e Per., pag. 1455 ss.; R. Caso, Il David, I’Uomo vitruviano e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio?, in Foro it., 2023, 1, pag. 2283 ss.; G. Leone, Uomo Vitruviano e David di Michelangelo: tanto rumore per nulla, in Arte e dir., 2024, pag. 197 ss.; T. dalla Massara, L'immagine dei beni culturali tra soggettività e appartenenza, Relazione al XXXIII Convegno annuale della Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativi, Cortina d’Ampezzo, 7 luglio 2023, https://mediaspace.unipd.it/ [tempo 43:43-1:05 nella riproduzione]; A. Mondini, Il giusto risarcimento del danno spettante al Ministero per l’uso illecito dell’immagine del David di Michelangelo, in https://www.giustiziainsieme.it/; Id., La tutela risarcitoria del diritto sulle immagini del patrimonio culturale pubblico, in Arte e dir., 2024, 177 ss.; C. Petta, Sul presunto diritto all’immagine dei beni culturali, Dir. Fam. e Per., 2024, spec. pag. 365 ss.; A. Pirri Valentini, La riproduzione dei beni culturali: tra controllo pubblico e diritto all’immagine, in Giorn. dir. amm., 2023, 2, pag. 251 ss.; nonché G. Resta, L’immagine dei beni culturali pubblici: una nuova forma di proprietà?, in Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?, (a cura di) D. Manacorda e M. Modolo, Pacini 2023, pag. 78 ss.; Id., Le immagini dei beni culturali pubblici: una critica al modello proprietario, in Riv. inf., 2023, 2, pag. 146 ss.

[35] Tribunale di Firenze., 11 aprile 2022, e 20 aprile 2023, nonché Corte d’appello di Bologna, n. 1792/2024.

[36] Più in dettaglio e facendo richiamo a passi della pronuncia del Tribunale di Firenze n. 1207/2023:

- “al pari del diritto all’immagine della persona, positivizzato all’art. 10 c.c., può configurarsi un diritto all’immagine anche con riferimento al bene culturale” (pag. 7);

- tale diritto si colloca all’interno “del processo di emersione delle res materiali quali espressione di profili giuridici immateriali autonomamente rilevanti e suscettibili di tutela” (p. 11) e nel Codice dei Beni Culturali si rinvengono espressi richiami alla terminologia propria del diritto all’immagine, quale il “decoro” del bene culturale (es. artt. 45 comma 1, 49 commi 1 e 2, 52 comma 1-ter, 96, 120 comma 2, C.B.C.) (pag. 7);

- esso trova “il proprio fondamento normativo in una espressa previsione legislativa ovvero negli artt. 107 e 108 del D.lgs. n. 42/2004”, norme di diretta attuazione dell’art. 9 Cost.” (pag. 7), dalla cui interpretazione teleologica e sistematica emerge che “il perseguimento delle finalità individuate dalla normativa di tutela dei beni culturali non può prescindere dalla tutela della loro immagine” (pag. 10. Al riguardo la citata ordinanza 1910/2022, p. 6, sottolinea che. “la natura stessa del bene culturale intrinsecamente (...) esige la protezione della sua immagine, mediante la valutazione di compatibilità riservata all'Amministrazione”);

- “non è sufficiente per la legittima riproduzione del bene culturale il pagamento (ancorché ex post) di un corrispettivo, poiché elemento imprescindibile dell’utilizzo lecito dell’immagine è il consenso reso dall’Amministrazione, all’esito di una valutazione discrezionale in ordine alla compatibilità dell’uso prospettato con la destinazione culturale ed il carattere storico-artistico del bene” (pag. 10);

- “il danno arrecato [da una condotta in contrasto con gli artt. 9 Cost. e 107 e 108 Codice] è senz’altro ingiusto perché in violazione di norme di legge ordinaria oltre che di un principio costituzionale” (pag. 7).

[37] Nella pronuncia del Tribunale di Firenze 18 dicembre 2024 è presente il riferimento al diritto all’immagine, ma non è ripreso l’impianto argomentativo espresso nelle pronunce citate alla precedente nota. Peraltro, si richiamano pur sempre gli artt. 107-108 del Codice e l’art. 10 c.c., e viene accordata tanto la tutela risarcitoria quanto quella inibitoria. Nell’ordinanza del Tribunale di Venezia, 17 novembre 2022, non si parla, invece, di diritto all’immagine, ma la tutela della immagine del bene culturale viene fondata anche in questo caso sugli artt. 6, 7 e 10 c.c. e sugli artt. 107 e 108 del Codice, ed è assicurata attraverso gli strumenti della responsabilità extracontrattuale e inibitori.

[38] Così il Tribunale di Firenze 11 aprile 2022, sub Fumus boni iuris. A sua volta il Tribunale di Firenze 18 dicembre 2024 precisa: “La tutela dei beni culturali, quindi, è una tutela non meramente realistica e materiale, ma ricomprende soprattutto la tutela del suo aspetto ‘immateriale’ e culturale (...); e proprio questo valore immateriale (...) viene tutelato con le norme poste a tutela del ‘diritto all’immagine’ impressa nel supporto fisico dell’opera”.

[39] Cfr. T. Dalla Massara, L'immagine, cit.

[40] “Più che declinare i vari possibili statuti proprietari definendo la relazione di titolarità (bene privato di interesse pubblico, bene pubblico, bene comune), quindi, mi pare essere maggiormente efficace, ancora in una prospettiva concettuale, l’attribuzione di rilevanza al ‘valore culturale’ come valore riconducibile alla sfera dell’utilitas publica, quale sfera che si pone al di fuori della schematizzazione privato/pubblico. Parallelamente, sul piano pratico, a mio avviso risulterebbe forse più incisiva la predisposizione di strumenti di tutela volti a sanzionare le singole fattispecie lesive in ragione della specificità del bene, della condotta, del tipo di lesione, e di danno, e ai quali siano legittimati tanto il singolo quanto la collettività, quali portatori del medesimo interesse” (B. Cortese. Patrimonio culturale, diritto e storia, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma e A. Massaro, RomaTre Press, 2017, pag. 23).

[41] Ad es. recita la pronuncia del Tribunale di Firenze 11 aprile 2022: “la Suprema Corte [Cass. Civ. n. 12929/2008; Cass. Civ. n. 8397/2016; Cass. Civ. n. 23401/2015; Cass. Civ. n. 18218/2009] ha preso atto del corrente processo di emersione delle res materiali quali espressione di profili giuridici immateriali autonomamente rilevanti e suscettibili di tutela, pur in assenza di immediata e diretta riconducibilità alla persona (...). Attesa dunque la già riconosciuta autonomia del diritto all'immagine in relazione a semplici beni non qualificati da particolare rilievo per la collettività, seppur particolarmente noti ed ammirati dal punto di vista commerciale, non risulterebbe affatto ragionevole escludere la tutela di tale diritto con riferimento al bene culturale”.

Merita di essere precisato che il riferimento all’art. 10 c.c. contenuto nelle pronunce del Tribunale di Firenze 21 aprile 2023 e 11 aprile 2022 non comporta una sovrapposizione fra la tutela dell’immagine del bene e quella dell’immagine della persona. Nella prima decisione si afferma infatti che “al pari del diritto all’immagine della persona, positivizzato all’art. 10 c.c., può configurarsi un diritto all’immagine anche con riferimento al bene culturale” (8 punto 3-A) - sicché i due diritti all’immagine restano ontologicamente distinti - e nella seconda si precisa che “l’immagine di un bene è (...) cosa diversa rispetto all'immagine del suo titolare” (punto 5). Viceversa, parla di “inclusione del ‘diritto all’immagine dei beni culturali’ nell’ambito dei diritti di personalità” la Corte di appello di Bologna n. 1792/2024.

[42] Tribunale di Firenze, 20 aprile 2023, punto 3 A.

[43] Tribunale di Firenze, 11 aprile 2022, punto 5.

[44] Corte d’appello di Bologna, n. 192/2024.

[45] “È stato sancito che il diritto all’immagine appartiene ai dritti della personalità dello Stato-persona”, così A. Bartolini, Beni culturali, cit., pag. 5. Dello stesso A. cfr. anche Quale tutela, cit., par. 3 e 4.

[46] L’espressione è di G. Morbidelli, Il valore, cit., par. 4.

[47] Cfr. l’art. 6 della Direttiva (UE) 2019/1024 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 e l’art. 7 del d.lg. 24 gennaio 2006, n. 36, e succ. mod., di attuazione.

[48] Cfr. Tribunale di Venezia 17 novembre 2022 (sub Fumus boni iuris), Tribunale di Firenze 20 aprile 2023 (punto 4 A)), Tribunale di Bologna, n. 1792/2024, e Tribunale di Firenze, 18 dicembre 2024. Il che non esclude ovviamente che possano emergere ulteriori danni di carattere patrimoniale (in ipotesi calo dei visitatori paganti per la visione dell’originale). Contesta l’individuazione del danno patrimoniale nel “mancato pagamento (e quindi introito) del corrispettivo di cui all’art. 108” A. Mondini, La tutela, cit., pag. 192, sostenendo che questo “è un fatto del tutto scollegato dalla condotta illecita e dall’evento lesivo”. L’opinione non pare convincente dal momento che il mancato introito si collega al non richiesto atto di consenso alla riproduzione/riuso da parte del privato e di conseguenza alla mancata valutazione di compatibilità da parte dell’amministrazione, che nello orientamento giurisprudenziale rappresentano nell’ordine la condotta antigiuridica e l’evento lesivo dell’interesse giuridicamente rilevante.

[49] Tribunale di Firenze, 18 dicembre 2024, che prosegue: “Ad abundantiam e senza dunque che occorresse, parte attrice ha dato anche prova di alcune forme di utilizzo che non avrebbe assentito (...) e che determinano (...) un inequivocabile svilimento dell’opera secondo costante giurisprudenza”.

[50] Cfr. Tribunale di Firenze, 20 aprile 2023, secondo il quale “la società convenuta (...), con la tecnica lenticolare ha insidiosamente e maliziosamente accostato l’immagine del David di Michelangelo a quella di un modello, così svilendo, offuscando, mortificando, umiliando l’alto valore simbolico ed identitario dell’opera d’arte” (sub 4 A della motivazione).

[51] Corte d’appello di Bologna, n. 1792/2024, con ampi riferimenti giurisprudenziali. La pronuncia prosegue affermando: “Nè, peraltro, l’eventuale ricorso ad una liquidazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c. può sopperire a lacune probatorie delle parti, giacché una liquidazione equitativa presuppone comunque che il danno sussista e sia provato”. Può ricordarsi che analoga posizione fu espressa anche dal Trib. Palermo, 21 settembre 2017, Riv. dir. ind., 2018, II, pag. 283.

[52] Così A. Mondini, La tutela, cit., pag. 190 e pag. 19 per i passi riportati, e in precedenza Id., Il giusto risarcimento, cit. punti 8.2 e 8.4. L’Autore, peraltro, nella ricostruzione della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., in termini generali aderisce alla configurazione del danno (anche non patrimoniale) conseguenza, cfr. le opere citate, rispettivamente pag. 186 e punto 2.

[53] R. Caso, Il David, cit., par. II.

[54] Si osserva poi che “La stessa previsione del pagamento di un canone nelle ipotesi di riproduzione dell'opera d'arte per finalità commerciale non risponde a finalità lucrativa, ma di implementazione della tutela del patrimonio culturale”.

[55] Si aggiunge, infine, che “i beni sottoposti a vincolo culturale ricevono dall’ordinamento una tutela pubblicistica in quanto espressione di un'identità collettiva che l’ordinamento intende preservare. Pertanto, la durata temporale illimitata dei diritti relativi ai beni culturali non appare irragionevole, ma risponde a prevalenti ragioni costituzionali di valorizzazione e, fruizione collettiva degli stessi”. In proposito per un’ampia e convincente confutazione dei rilievi critici avanzati cfr. A. Mondini, La tutela, cit., 181 ss.

[56] Cfr. per tutti A. Musso, Diritto d’autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, (a cura di) F. Galgano, Bologna-Roma, Zanichelli/Foro it., 2008, pag. 112, nt. 6.

[57] Cfr. A. Pirri Valentini, La riproduzione, cit., pag. 259 ss. con riferimento all’ordinanza del Tribunale di Firenze, 11 aprile 2022 e al caso ArmaLite del 2014 (riproduzione del David con in braccio un fucile mitragliatore). In precedenza, cfr. anche M.L. Franceschelli, La riproduzione, cit., pag. 301 s., riguardo all’ordinanza Tribunale di Firenze, 26 ottobre 2017 (sempre in tema di utilizzo dell’immagine del David).

[58] Ravensburger AG, Ravensburger Verlag GmbH e Ravensburger s.r.l.

[59] Il Tribunale, quanto alla giurisdizione, ha affermato quella del giudice italiano ai sensi dell’art. 7 del Regolamento Ue 1215/2012, secondo cui “una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in altro Stato membro: (...) in materia di illeciti civili (...) davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”, per tale dovendosi intendere secondo C.G.U.E., in causa c-12/15 e in altre, tanto il luogo dove è insorto il danno quanto quello in cui si è verificata la condotta, così rimettendo la scelta all’attore (nella fattispecie la sequenza causale viene considerata sorta in Germania con progressione eziologica in Italia, essendosi qui verificata la fase finale che ha determinato il danno, posto che nel territorio italiano era localizzato sia il bene culturale sia l’ente preposto alla sua custodia. Quanto alla legge applicabile, viene affermata quella italiana sulla base dei seguenti parametri di diritto internazionale privato contenuti nel Regolamento UE 864/2007: 1) ex art. 16 qualificazione del Codice come “norma di applicazione necessaria”; 2) art. 4, par. 1, secondo cui la legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali derivanti da fatto illecito è quella dello Stato in cui si è verificato il danno. Sempre a proposito della pronuncia del Tribunale di Venezia 24 ottobre 2022 e con riguardo alla legge applicabile cfr. anche A Perruccio, L’utilizzazione economica dell’immagine dei beni culturali, in RivistaGiuridicaAmbienteDiritto.it, 2023, 1, pag. 1 ss.

[60] Le società del gruppo Ravensburger avevano avanzato un’azione di accertamento negativo volta a far dichiarare l’assenza di qualsiasi diritto in capo al ministero e alle Gallerie dell’accademia di Venezia di inibire l’utilizzo dell’immagine del bene al di fuori dei confini italiani.

[61] “Ein italienisches Gesetz, wie dies zum Schutzes des kulturellen Erbes, nur auf dem Staatsgebiet Italiens Gültigkeit besitzt”.

[62] S. Ferrazzi, La riproduzione a scopi commerciali di beni culturali pubblici: riflessioni sull’Uomo Vitruviano, tra Italia e Germania, in Aedon, 2024, 3, spec. par. 6 s.

[63] Gesetz vom 16.07.2021 - BGB l. I 2021, Nr. 46 vom 22.07.2021, S. 294.

[64] È da rilevare, come ben messo in luce da S. Ferrazzi, La riproduzione, cit., par. 5, che, se l’azione cautelare originariamente intrapresa dinanzi al giudice italiano fosse stata seguita da una corrispondente azione di merito, sarebbe scattata per l’autorità tedesca la sospensione del giudizio nonché, una volta intervenuta la pronuncia nel merito, il riconoscimento automatico della stessa e il divieto di procedere al suo riesame. Ciò alla luce degli artt. 29-34, 36 e 52 al Regolamento Ue 1215/2012.

[65] Cfr., in particolare, A. Bartolini, Quale tutela, cit., par. 2 e 6; A. Mondini, La tutela, cit., pag. 188.

[66] A seconda dei casi, Gallerie dell’Accademia di Venezia, Gallerie degli Uffizi, Gallerie Estensi di Modena.

[67] Per riferimenti generali sul tema cfr. per tutti R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, Giappichelli, pag. 316 ss.

[68] Cfr., in particolare, M. Renna, La tutela dei beni pubblici, in Dir. proc. amm., 2008, 2, pag. 396 ss. e spec. pagg. 401, 403 e 407; Id., Principio di tipicità e tutela amministrativa dei beni pubblici, in Jus, 2020, 2-3, pag. 490.

[69] In tal senso invece M. Renna, La tutela, pag. 403, Id., Principio, cit., pag. 490.

[70] In dettaglio il particolare anatomico del David era evidenziato su cartoline, poster e souvenir messi in vendita su una bancarella. L’esposizione della merce alla vista dei passanti è stata considerata in violazione dell’art. 3 del Regolamento di polizia urbana del 2008, che al comma 4 vieta di “esporre alla vista dei passanti qualsiasi oggetto o merce che possa recare offesa al decoro pubblico”. Della vicenda ha dato notizia il quotidiano QN La Nazione, 24 novembre 2024, 5.

[71] V. infra par. 6.

[72] Il termine richiama l’importante scritto di L. Casini, Riprodurre, cit.

[73] V. supra par. 3.

[74] Cfr. supra par. 3.

[75] Cfr. ancora supra par. 3.

[76] Nel caso di un’amministrazione statale diversa dal ministero, la soluzione si affida alla dinamica politica all’interno della compagine governativa in carica e all’eventuale utilizzo di quanto previsto dall’art. 5, comma1, lett. c-bis, della legge 23 agosto 1988, n. 400.

[77] Come nota G. Pastori, Art. 5, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2004, 73, il potere sostitutivo secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 43/2024, p. 4 in diritto) può esercitarsi anche al di fuori delle funzioni delegate, ma richiede garanzie e cautele, che, a mio avviso, non paiono ricorrere nel caso specifico.

[78] Per la accennata dicotomia e per il c.d. diritto di panorama, anche con ampi riferimenti ad ordinamenti esteri, cfr. nella letteratura italiana in particolare G. Resta, Chi è il proprietario delle Piramidi? L’immagine del bene tra property e commons, in Pol. Dir., 2009, pag. 581 ss.; Id., L’immagine dei beni culturali, in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, (a cura di) G. Resta, Torino, Utet, 2010, pag. 564 ss. e pag. 570 ss.; Id., Il regime giuridico dell’immagine dei beni, in Libro dell’anno del Diritto 2013, www.treccani.it/enciclopedia, par. 3 ss.

[79] Cfr. Atti Camera 19 febbraio 2008 (all.to. B della seduta n. 275) risposta scritta del sottosegretario del Mibac on. Mazzonis all’interrogazione n. 4-05031 presentata dall’on. Grillini, riportata per esteso da M.L. Franceschelli, La riproduzione, cit., 300 nt. 35. Peraltro, come ricorda L. Stella Faggioni, La libertà di panorama, in Dir. ind., 2011, 537, ad una precedente interrogazione (la n. 4/04417 del 2007) il ministero aveva (in data 12 novembre dello stesso anno) indicato come applicabili gli artt. 107 e 108.

[80] G. Morbidelli, Il valore, cit., par. 4, A. Bartolini, Il bene, cit., pag. 237; G. Manfredi, La tutela proprietaria dell’immateriale economico nei beni culturali, in L’immateriale, cit., pag. 127.

[81] Cfr. G. Morbidelli, op. loc. ult. cit.

[82] Per l’applicazione dell’art. 108 anche alla riproduzione di un bene culturale “liberamente visibile” (nella specie il Teatro Massimo di Palermo) può richiamarsi la sentenza del Trib. Palermo, 21-09-2017, in Riv. dir. ind., 2008, II, pag. 277 ss.

[83] Supra par. 5.

[84] Cfr. S. Fantini, Strumenti amministrativistici di tutela e valorizzazione dell’immateriale economico, in L’immateriale, cit., pag. 118.

[85] Per le espressioni v. G. Morbidelli, Il valore, cit., par. 4 (che riprende la distinzione proposta da M. Fusi, Sulla riproduzione non autorizzata di cose altrui nella pubblicità, in Riv. dir. ind., 2006, pag. 98) e L. Stella Faggioni, La libertà, cit., pag. 540.

[86] C. Videtta, Le immagini, cit., pag. 20.

[87] L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 3, pag. 662.

[88] I corsivi sono miei.

[89] Cfr. il riferimento agli “istituti della cultura” contenuto nell’art. 108, comma 3-bis, n. 1.

[90] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 31.

[91] Per la dottrina, anche con ampi riferimenti a quella estera, si rinvia a quella menzionata alla nt. 34. Per la giurisprudenza i precedenti più significativi sembrano rappresentati da Cass. civ., sez. I, n. 18218/2009 e n. 4213/2012: l’una relativa all’immagine di un’imbarcazione privata (peraltro non bene culturale) riprodotta da terzi a scopo pubblicitario senza il consenso dell’avente diritto e senza il pagamento del prezzo comunemente dovuto per simili utilizzi, l’altra concernente un sito catacombale nel suolo di Roma nella disponibilità (anche per il relativo accesso) della Santa Sede ai sensi dell’art. 12, comma 2, della legge n. 121/1985, fatto oggetto di una riproduzione fotografica a finalità commerciale, non autorizzata né accompagnata da corrispettivo. Non è da escludersi peraltro che nel caso di riproduzioni di beni culturali privati acconsentite dal proprietario ecc., ma ritenute non compatibili con il carattere storico artistico, il soprintendente possa intervenire sulla base dell’art. 20 del Codice, cfr. F. Caporale, La valorizzazione, cit., 281 nt. 378.

[92] L. Casini, Patrimonio, cit., 663, riprendendo la formula coniata da J.H. Marryman.

[93] G. Sciullo Il d.m. 161 del 2023: un’analisi giuridica, in Aedon, 2023, 2, par. 9.

[94] J.H. Merryman, Two ways of thinking about cultural property (1986), ora in Id., Thinking About the Elgin Marbles., The Hague-London-Boston, 2009, 66, citato da L. Casini, Ereditare il futuro, Bologna, Il Mulino, 2016, pag. 55.

 

 

 



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