L'ordinamento dei beni culturali: le origini, le riforme, le sfide
L'ordinamento dei beni culturali tra continuità e innovazione
Sommario: 1. Origini e impianto concettuale. - 2. Il mutamento: contesto... - 3. ...e innovazioni istituzionali. - 4. Implicazioni sull'ordinamento dei beni culturali. - 5. Sullo sfondo.
The cultural heritage system between continuity and innovation
The Paper discusses the evolution of cultural heritage system underscoring the reasons of its specialty and analyzing the impact of some elements of the social-economic context and principal legislative and institutional reforms on the cultural heritage governance (firstly the adoption of the Constitutional Chart, but also the successive constitutional reforms, the institution of a specific Ministry, the adoption of the Code of Cultural Heritage and Landscape) and the contribution of the last period of reforms (the Reform of Mibact, the reform of Public Procurement and the recent reform of co-called "Third Sector"). In the background its remain issues and problems with which the system has to make the accounts: the public-private relationships, the interinstitutional cooperation and the expansion of the concept of cultural heritage.
Keywords: Institutional Reforms; Organizational Reforms; Cultural Heritage; Public Private Cooperation; Interinstitutional Coordination.
1. Origini e impianto concettuale
Le basi dell'ordinamento dei beni culturali [1] attualmente vigente sono costituite da corpi normativi adottati tra l'età giolittiana e l'immediata vigilia del secondo conflitto mondiale. Per quanto trasformazioni di ogni genere abbiano poi cambiato in profondità ogni elemento del nostro tema, è dunque da queste premesse e dai loro caratteri essenziali che si deve partire per comprendere gli istituti giuridici adottati e l'evoluzione successiva del sistema.
La protezione delle "cose d'arte" era opera e legislazione già praticata in più casi anche in secoli precedenti. Ma negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo, ai tradizionali obbiettivi di contrasto alla "spoliazione" del ricchissimo patrimonio artistico del paese da parte di mercanti e collezionisti (non solo) stranieri si aggiungono altre ragioni legate a doppio filo alla unità italiana e alla costruzione dell'identità nazionale, del quale la memoria storica e artistica del passato costituiscono pietre miliari. Un progetto così elevato da legittimare attenuazioni proprio a quello statuto della proprietà privata che solo nel nuovo ordinamento e nei relativi caratteri di stampo liberale era divenuto valore fondante e che proprio per questo aveva portato a cancellare, insieme alle altre risalenti forme di proprietà divisa (enfiteusi perpetue, colonie perpetue, livelli, precarie, censi) i vincoli ai beni culturali in mano privata dettati da normative degli Stati preunitari [2]. Testimonianza di civiltà, carattere identitario e limiti al regime proprietario, pur nei profondi mutamenti avvenuti negli ultimi decenni, sono ancora oggi alla base della definizione e del regime del bene culturale.
Ma veniamo al dato che più ci riguarda, quello istituzionale, senza dimenticare che del diritto dei beni culturali fa parte anche la disciplina privatistica che regola le relazioni tra privati: un profilo certo più limitato ma il cui rilievo è destinato a crescere [3].
Muovendo dal soggetto, cioè dallo Stato nazionale, dal bene considerato e dalle finalità perseguite, è più agevole comprendere gli strumenti e la natura della normativa originariamente adottata. L'obbiettivo della conservazione è perseguito attraverso poteri essenzialmente interdittivi, cioè limiti o divieti alla circolazione (specie esportazione) dei beni o alla loro manomissione da parte dei titolari (essenzialmente privati), la cui applicazione è affidata alla mano pubblica e più precisamente all'amministrazione statale che vi provvede avvalendosi di un corpo professionale tecnicamente qualificato (storici dell'arte, archeologi, architetti). Dunque, all'origine, un sistema basato sulla separazione reciproca e sui dualismi che presuppone: pubblico e privato [4], Stato e amministrazioni decentrate, saperi tecnico-professionali specialistici e comunità (ma anche tradizioni) locali. Tratti che visibilmente presuppongono e insieme esprimono un sistema basato sul dualismo e la reciproca separazione.
La disciplina giuridica del settore, soprattutto all'inizio, ne ha risentito in modo altrettanto intenso. Sicuramente sul lato del privato e dello statuto del bene culturale [5], perché dopo il tentativo di presidiare il sistema limitandosi alla ricognizione dei beni e alla sequenza autorizzazioni (generalizzate) e acquisto da parte dello Stato (eventuale), fin dall'inizio del '900 si introducono limitazioni ex lege all'ordinario regime proprietario di tali beni che costituiscono ancora oggi la base del sistema della tutela.
Ma anche sul versante pubblicistico, aprendo la strada ad alcuni tratti significativamente distinti rispetto a quanto vigente negli apparati pubblici ordinari, come il complesso rapporto tra tipicità e identificazione dei beni culturali basata su clausole generali ampiamente rimesse a valutazioni tecnico-discrezionali; l'obbiettiva concentrazione nello stesso apparato amministrativo di poteri insieme regolatori, operativi e sanzionatori; la limitazione del controllo giurisdizionale ai soli elementi estrinseci propri della c.d. discrezionalità tecnica. Per non dilungarsi su aspetti più specifici [6].
Se le peculiarità sono innegabili, non ne consegue necessariamente la "necessaria" specialità del relativo regime e anzi più di un elemento, come vedremo al termine di queste note, va in direzione opposta. Tra l'altro, l'evoluzione complessiva dell'ordinamento a partire dalla seconda metà del secolo scorso, l'espansione delle politiche pubbliche connesse allo Stato sociale, l'influenza del dettato costituzionale e il rilievo dei principi e delle fonti normative sovranazionali, attenuano e modificano i presupposti stessi del dualismo. Gli stessi diritti privato e amministrativo perdono l'unitarietà interna non tanto per l'allontanamento delle singole parti dal nucleo centrale ma per la caratterizzazione mista ("meticcia") di queste ultime, per essere cioè "branche influenzate anche da altre discipline" [7]. Né mancano principi di diritto positivo ove bastano i riferimenti alla funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost. o il principio dell'ordinario ricorso alla veste privatistica per l'attività amministrativa non autoritativa (art. 1, comma 1-bis, legge 241/1990) per dare il segno di quanto si sia modificato il quadro generale al cui interno si collocano gli istituti che si sono richiamati stemperandone dualismi e specialità [8]. Sicché anche in termini generali l'indicazione che va tratta dell'ordinamento dei beni culturali non è quella della perdurante separazione dal resto ma dell'infittirsi di integrazioni e rimandi con altre discipline e l'evoluzione del restante sistema pubblicistico fino ad ora sottovalutata, in nome della propria peculiarità, delle stesse amministrazioni del settore.
Ma torniamo al regime originario. Fino alla fine del secolo scorso l'impianto resta sostanzialmente invariato. Non che non vi siano importanti innovazioni che direttamente riguardano i beni culturali, dall'art. 9 della Costituzione e dalle convenzioni internazionali ai lavori della Commissione Franceschini o alla attuazione dell'ordinamento regionale, ma gli effetti profondi che ne derivano vengono in superficie con lentezza e solo più tardi, alla vigilia del nuovo millennio.
Un importante saggio di M.S. Giannini del 1976 [9] offre di queste fasi una ricostruzione completa e una proiezione lungimirante [10] che solo più tardi sarà progressivamente riveduta [11]: la nozione delle "cose d'arte" della legge 1089 del 1939, che con l'aggiunta del riferimento generale al bene "testimonianza materiale avente valore di civiltà" diventa "bene culturale" nelle proposte della Commissione Franceschini del 1967, è da considerare dal punto di vista giuridico "liminale" cioè aperta e rinviata quanto a definizione del contenuto ad altra disciplina; il riferimento operato a realtà eterogenee accomunate però da una sostanziale unitarietà di regimi giuridici per i beni di appartenenza pubblica e privata; il ruolo determinante della identificazione al termine di istruttorie e processi valutativi con procedimenti dichiarativi, e dunque idonei a dare certezza legale come tutti gli atti di accertamento.
Inoltre, la valutazione espressa in occasione della identificazione non costituisce motivazione in senso tecnico perché non vi è alcuna ponderazione di interessi dato che "non vi sono motivi per i quali possa essere opportuno più o meno dichiarare una cosa bene culturale. Se essa lo è, occorre solo enunciare perché lo è": in breve, una valutazione di discrezionalità tecnica [12]. Quanto alla natura giuridica del bene culturale, il ruolo ineliminabile riconosciuto alla "cosa", cioè all'elemento materiale cui si riferisce una pluralità di interessi diversi: quelli di natura patrimoniale del soggetto che ne è titolare e che ne può disporre, godere, costituire diritti reali e di obbligazione che saranno disciplinati dal dr. amministrativo se il soggetto è pubblico e dal dr. privato negli altri casi, e quelli invece di carattere immateriale e di natura pubblica, che sono appunto gli interessi culturali. Si tratta di profili concettualmente ben distinti, con l'implicazione che essendo il profilo del bene culturale attinente al solo al versante immateriale il secondo, e cioè quello relativo al bene pubblico, rileva solo in termini di fruizione ma non di appartenenza.
Su questo quadro sostanziale e concettuale vengono a incidere pesantemente, sia pure con tempi e modalità diverse, dinamiche di varia natura destinate a modificare in modo profondo i presupposti del sistema e ad avviare conseguentemente, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso, una stagione di innovazioni istituzionali e amministrative scandita da ripetuti e eterogenei interventi di cui non è ancora chiaro il punto di approdo ma è certa l'incidenza sui caratteri dell'ordinamento dei beni culturali.
Alla base, come sempre, profondi mutamenti della realtà tra i quali in particolare le imponenti trasformazioni socio-economiche e l'innovazione tecnologica. Non è necessario ricordare, quanto alle prime, che fino agli anni '50 dello scorso secolo l'Italia era un paese a bassa industrializzazione e a prevalente occupazione agricola con la conseguenza che la protezione del paesaggio e indirettamente dei beni artistici che vi si trovano era quasi interamente assicurata dall'assetto socio-economico della società rurale dell'epoca. Il problema per la pubblica autorità, come bene indicano le leggi del 1939, non era dunque l'ambiente o il paesaggio ma la protezione di limitate realtà che per il peculiare valore estetico (bellezze naturali) o per costituire la quinta di monumenti storico-artistici erano assimilate alle "cose d'arte" e alla relativa tutela [13]. Condizioni, come ognuno sa, definitivamente tramontate dalla metà del secolo scorso.
Altrettanto determinante il profilo della tecnologia e della relativa espansione, visibilmente in atto in questi ultimi anni grazie alla sua rapidissima evoluzione e diffusione capillare senza che ancora se ne possano anche solo intravedere tutte le potenzialità e implicazioni, da quelle concettuali a quelle strettamente giuridiche. Da un lato si tratta di tutto ciò che muovendo dal patrimonio culturale supera come fruizione e diffusione anche l'ambito di attività tradizionalmente più prossime a questo ambito, come l'artigianato, e grazie alla forte evocazione di significati e contenuti culturali che le è propria apre la strada ad un ampio ventaglio di attività economiche e produzioni industriali che vanno dalla pubblicità al design e alla moda [14]. I fattori che generano questi ampi rinvii al patrimonio culturale sono numerosi e rilevanti, tanto da farne una sorte di "religione moderna" per le istituzioni pubbliche [15], e in forme spesso inedite esprimono crescenti domande e sensibilità di natura culturale, di cui l'esponenziale crescita del turismo è pur sempre espressione, ormai proprie dell'intero il pianeta [16].
Nello stesso tempo sono dominanti gli elementi dell'immagine e della comunicazione, trainati dalla tecnologia che ne rappresenta la premessa e il moltiplicatore, destinati a incidere non solo su singoli aspetti del diritto del patrimonio culturale come si è dato per la liberalizzazione delle riproduzioni fotografiche dei beni culturali pubblici (art. 108, comma 3 Codice) operata di recente dal c.d. Art Bonus [17] ma, più a fondo, sull'oggetto della disciplina.
La novità infatti non consiste nella immaterialità [18] dato che da sempre si è riconosciuta nel bene culturale, come si è visto, sia una parte materiale (la cosa) che una parte immateriale (il suo significato, il valore simbolico, il rimando a dati culturali e universali), ciò che ha richiesto la tutela della "cosa" come mezzo per tutelarne il valore immateriale. La novità è la dematerializzazione, perché la qualità degli strumenti oggi disponibili (in termini di riproduzione e di qualità dell'immagine) e la illimitata possibilità di farne uso e permetterne la circolazione e la riproduzione (dematerializzazione) svincola in qualche modo il bene immateriale dalla materialità con una doppia conseguenza: non è più necessario passare dalla "coseità" per incidere sul bene immateriale perché ormai questo può essere leso autonomamente, come nel caso della recente e ormai celebre pubblicità dell'immagine del David di Michelangelo che imbraccia un potente fucile da guerra (2014), e per altro verso il bene immateriale acquista un proprio concreto valore come bene tout court e dunque una autonoma e crescente valorizzazione economica che si aggiunge alla tradizionale valorizzazione culturale [19]. Una dimensione che si aggiunge al fatto che gli stessi mezzi di dematerializzazione diventano a loro volta suscettibili di porre un profilo di diretta tutela (per le fotografie, v. art. 10, comma 4, lett. e), Codice).
3. ...e innovazioni istituzionali
Non minori sono stati i mutamenti istituzionali a cominciare dalla Costituzione repubblicana, che mai tanto felicemente "presbite" come nei principi e nelle disposizioni in materia, ha anticipato di decenni queste dinamiche mostrando una straordinaria capacità di sostenerne e indirizzarne l'evoluzione.
Partendo dalle premesse poste qualche anno prima dalle leggi del '39 la nostra Carta costituzionale ha infatti impresso una svolta radicale alla materia già in sede di principi fondamentali, confermandone la sottrazione a pure logiche egoistico-proprietarie o di mercato (ma non alla esigenza, doverosa, di una gestione economica) [20] e facendone un primario compito della Repubblica [21] collegato strettamente al paesaggio (art. 9, comma 2), alla libertà di arte, scienza e insegnamento (art. 33, comma 1) e proiettato sul piano della promozione della cultura (art. 9, comma 1 Cost.) come elemento chiave per la crescita complessiva dei cittadini, in particolare delle fasce sociali più deboli (art. 3, comma 2): in una parola, della democrazia [22]. Di tutto questo, premessa e chiave di volta è il pluralismo, cioè la necessaria e virtuosa tensione tra la doverosità per le istituzioni di promozione e tutela (art. 9 Cost.) e la libertà dei singoli e delle associazioni (artt. 18 e 21), di arte e scienza (art. 33 Cost.) [23].
La rottura con il sistema precedente non potrebbe essere più netta. La legge 1089/1939 poggiava su un quadro istituzionale generale molto diverso da quello attuale caratterizzato dalla totalizzante centralità del pubblico e, all'interno di questo, del ruolo dello Stato, il che assicurava un assetto molto compatto e integrato non solo alla materia specifica, ma anche alle altre politiche pubbliche confinanti e ai poteri in vario modo connessi: centralità dello Stato apparato e riferibilità a quest'ultimo di tutti i più importanti elementi in gioco, nomine governative ai vertici delle amministrazioni locali, approvazione degli strumenti urbanistici da parte del ministero dei Lavori pubblici, l'onnipresenza del prefetto in sede locale e il controllo statale sugli atti di comuni e province oltre all'esclusività della funzione legislativa al centro e prevalentemente sull'Esecutivo.
Non uno di questi elementi è rimasto in piedi e in particolare l'ambito rimesso ai poteri pubblici, pur conservando un determinante ruolo statale, registra l'emergere di una pluralità di profili destinati a incidere profondamente su più fronti: l'estensione del sistema dei beni culturali (in termini di finalità, di soggetti coinvolti, di ambiti materiali interessati), l'interdipendenza di politiche pubbliche, il rapporto pubblico/privato e le relazioni centro/periferia. Vediamoli più da vicino.
Estensione. Per quanto riguarda le funzioni, la prima implicazione indotta dalla Costituzione è che le finalità dell'ordinamento dei beni culturali a differenza del passato si sono estese fino a inglobare, con lo stesso grado di importanza, anche la ricerca (oltre allo studio), la diffusione e la promozione del patrimonio culturale: studio e ricerca, diffusione e promozione che riguardano ovviamente, in primo luogo, anche i beni culturali in mano pubblica a cominciare dal ministero competente, con tutte le conseguenze che ne derivano specie in materia di doverosità della funzione di valorizzazione [24].
Quanto ai soggetti, in un sistema istituzionale policentrico composto da Stato, regioni e autonomie locali come quello sancito dall'art. 5 Cost., la cura e la promozione del patrimonio culturale sono ampiamente ripartite, secondo criteri precisati dagli artt. 117-118 Cost., tra Stato, regioni e comuni peraltro titolari di funzioni strettamente connesse ai beni culturali come la disciplina del territorio, ambiente e paesaggio. Un profilo naturalmente centrale e importante [25], ma pur sempre una proiezione del più generale principio costituzionale del pluralismo che in questa materia associa alle istituzioni territoriali altri soggetti pubblici (a cominciare dalle Università), i privati e i soggetti collettivi, tra cui le nuove imprese sociali (v. infra) e le associazioni culturali come (Italia Nostra, Fai, WWF e altro) che tradizionalmente operano in materia. Tutto ciò spiega anche l'estensione del profilo soggettivo degli interessi in gioco, ove la relazione bilaterale tra pubblico e privato proprietario si è trasformata (con la Costituzione, appunto) in trilaterale, per l'aggiunta della comunità dei fruitori, e multilaterale con l'ingresso di mecenati e sponsor [26] cui va aggiunta l'introduzione più recente del principio di sussidiarietà che privilegia, e prescrive alle istituzioni di favorire, "l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale" (art. 118 Cost.).
Quanto all'estensione oggettiva, c'è da registrare l'ampliamento del perimetro dell'oggetto della disciplina: in parte per integrazioni specifiche del Codice, come per gli spazi pubblici e i centri storici, in parte per dinamiche (ancora in atto come vedremo) dovute alla crescente influenza delle convenzioni internazionali, come per industria creativa, il design e più in generale l'ampia (e discussa) categoria dei beni immateriali e soprattutto con l'innesto, concettualmente opportuno ma tecnicamente complesso, del paesaggio.
Complesso, si è detto, per la collocazione del paesaggio e dei beni culturali nella più generale e unitaria nozione di patrimonio culturale operata dall'art. 2, comma 1 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (da ora Codice) [27] ove si articola la disciplina specifica in corpi normativi distinti (parti II e III) restando però comuni le disposizioni generali (parte I), una quota delle sanzioni (parte IV) e le disposizioni transitorie e abrogative (parte V). Un innesto impegnativo per molte ragioni: perché sul piano tecnico il paesaggio non è pienamente riconducibile all'elemento della testimonianza di civiltà [28], perché è strutturalmente estraneo alla maggior parte dei tradizionali strumenti di tutela in ragione del netto distacco che in questo caso si registra tra bene culturale immateriale e bene patrimoniale materiale [29], per l'atteggiarsi peculiare della valorizzazione (intrecciata a doppio filo agli elementi socio-economici del territorio), per il ruolo diverso della valutazione espressa dalla amministrazione in ordine alle autorizzazioni paesaggistiche [30] e infine, ma non ultimo, per il forte impatto funzionale e organizzativo che tutto ciò comporta sugli apparati amministrativi della tutela.
Interdipendenza di politiche pubbliche. Va registrata poi la crescente evidenza del principio di interdipendenza, vale a dire della forte relazione che lega tutela e valorizzazione del patrimonio culturale al contesto naturale e territoriale al punto che non solo la tutela del paesaggio, come è intuitivo, ma la stessa cura per il singolo bene monumentale o storico-artistico non è disgiungibile dall'ambiente in cui è inserito [31]. Perché ciò che caratterizza il nostro Paese non è solo la quantità e qualità del patrimonio artistico ma la sua disseminazione in tutto il territorio e il suo profondo intreccio con le attività, gli insediamenti, la storia e i saperi delle rispettive comunità dai quali non è né culturalmente né materialmente separabile [32].
Una interdipendenza drammaticamente evidenziata in negativo dalle calamità più gravi, dalla alluvione di Firenze (1966) ai recenti eventi sismici della fine 2016, ove l'opera di ricostruzione nella sola area del cratere delle quattro regioni coinvolte interessa più di 6500 edifici sottoposti alla disciplina dei beni culturali. Con la conseguenza che in Italia né la cura del patrimonio culturale (nella sua fisiologia, la conservazione programmata, e nell'intervento di eccezione, il restauro) o naturale (ambiente, paesaggio) né le politiche pubbliche di governo del territorio e delle attività che vi si svolgono possono essere condotte senza una stretta e reciproca correlazione. A cominciare, è bene sottolinearlo, da una solida, riconoscibile e per molti aspetti comune base conoscitiva di partenza su dati e elementi di contesto [33].
Quanto al rapporto pubblico/privato, l'espressione corrente è particolarmente imprecisa non solo perché come sappiamo vi sono molti "pubblici" (oltre allo Stato, le regioni, i comuni e i diversi enti o agenzie pubbliche di settore) ma perché, analogamente, vi sono più privati.
In particolare, per il profilo che qui interessa, il "privato" può riferirsi a tre realtà del tutto diverse, il che naturalmente facilita equivoci e fraintendimenti anche tra gli addetti ai lavori.
L'accezione più debole di "privato" dal punto di vista pubblicistico si ha quando l'azione pubblica (che tale è e tale rimane) ricorre alla veste giuridica privatistica, abbandonando il diritto amministrativo e utilizzando forme e strumenti del Codice civile come il contratto o la società. Si tratta ormai di un principio generale del nostro ordinamento amministrativo (art. 1, comma 1-bis legge 241/1990) che certo per le funzioni di tutela affidate al Mibact ha un ambito di applicazione più ridotto, mentre vi si ricorre con più larghezza per alcuni profili organizzativi come le agenzie operanti a livello centrale (v. Ales - Arte Lavoro e Servizi S.p.A, nella quale è stata incorporata dal 2016 Arcus S.p.a). La seconda figura è quella del privato-impresa, nella duplice veste di gestore di attività esternalizzate e di sponsor a sostegno dei compiti della amministrazione. L'ultima accezione, particolarmente importante in questo settore, è invece legata a soggetti privati (non profit) che operano per la soddisfazione di interessi generali. Si tratta di soggetti di varia natura e peso organizzativo e finanziario (interessi diffusi, associazioni, onlus, volontariato, fondazioni, comprese quelle di origine bancaria) la cui importanza nel funzionamento concreto del sistema di beni culturali è significativamente cresciuta e attestata anche di recente (d.lgs. 117/2017).
Sottolineare questa articolazione di realtà "private", per lo più concentrate sul versante della valorizzazione, è importante per più di un motivo: intanto, perché ognuna di queste ipotesi fa tendenzialmente riferimento ad una disciplina positiva diversa; in secondo luogo, e soprattutto, perché in linea di principio i rispettivi fondamenti concettuali e costituzionali sono del tutto diversi, dato che la prima resta per intero nell'ambito dei principi stabiliti per la pubblica amministrazione (artt. 97 ss. Cost.), mentre il privato-impresa va riferito all'art. 41 Cost. e alla tutela comunitaria della concorrenza nei contratti della pubblica amministrazione, e il privato non profit vive invece nel e del pluralismo enunciato agli artt. 2 e 18 Cost. rapportandosi alla pubblica amministrazione anche in termini di sussidiarietà orizzontale secondo quanto enunciato dall'art. 118, comma 4, Cost.
A partire dagli anni '70 si aggiunge poi, ma con un rilievo crescente dalla fine del secolo scorso ad oggi, l'ulteriore variabile rappresentata dall'ordinamento regionale e dalle vicende dei sistemi locali. Un profilo spesso trascurato in parte per la resistenza, culturale prima ancora che istituzionale, del centro ad aprirsi ai sistemi locali e più in generale all'esterno anche solo in termini di collaborazione [34] solo parzialmente giustificata dalle innegabili difficoltà presenti in alcune aree del Paese, in parte per la marginalizzazione della competenza legislativa regionale in materia, in parte infine per la difficoltà di ricostruirne il quadro di insieme trattandosi per lo più di dinamiche non emergenti sul piano legislativo [35]. E tuttavia si tratta di elementi di assoluto rilievo, basti considerare la determinante dimensione delle risorse finanziarie assicurate ai beni e alle attività culturali in sede locale dalla spesa pubblica [36] e da soggetti privati a cominciare dalle Fondazioni di origina bancaria [37].
All'ordinamento vigente e ai suoi principi è dunque tempo di porre mano senza trascurare il fatto che in un settore ad alta densità tecnico-professionale e amministrativa come quello in esame, l'incidenza delle scelte organizzative sui contenuti dei compiti affidati e delle funzioni svolte è alta e spesso non minore di quella della disciplina sostanziale.
4. Implicazioni sull'ordinamento dei beni culturali
I caratteri principali dell'ordinamento dei beni culturali vigente, pur restando segnati dall'impostazione adottata nella prima metà del secolo scorso, risentono inevitabilmente dei processi che abbiamo appena richiamato in termini di riforme o innovazioni specifiche e anche di tensioni, concettuali e in qualche caso anche normative, segno di processi ancora in atto e destinati probabilmente a maturare in futuro [38]. Ci limiteremo in questa sede a richiamarne i principali elementi, ricordando in ogni caso il ruolo particolarmente importante giocato in materia dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa.
Ma anche il piano legislativo ha registrato ripetuti e importanti interventi, segno della percezione delle innovazioni intervenute e della loro profondità ma anche sintomo della difficoltà di comprenderne appieno il significato e soprattutto di inserirle positivamente nel sistema tradizionale. Si tratta di interventi normativi che in più occasioni hanno interessato i profili organizzativi, dalla istituzione del ministero dei Beni culturali nel 1975 alla disciplina sostanziale (dal t.u. del 1998 al Codice del 2004 e successive novelle del 2006 e 2008).
Quanto ai provvedimenti più recenti degli anni 2015-2016 (c.d. Franceschini), le dinamiche complesse che si sono viste non hanno impedito l'innesto nell'ordinamento dei beni culturali di significative novità, tutte in vario modo riferibili ai lavori della Commissione D'Alberti [39] e concentrate su tre fronti: l'organizzazione, il regime finanziario e il regime giuridico dei beni ove c'è da sottolineare la correlazione, consueta nella pubblica amministrazione ma particolarmente stretta in settori ad alta densità organizzativa come questo, tra organizzazione e contenuti delle funzioni esercitate.
Le trasformazioni richiamate nelle pagine precedenti infatti hanno inciso in profondità sull'assetto precedente solo nei tempi più recenti trovando riscontro nell'inedito e autonomo rilievo riconosciuto alla funzione di valorizzazione [40] e al ripensamento dell'assetto organizzativo della tutela [41], entrambi ispirati al principio della specializzazione funzionale degli apparati. Non mancano certo problemi di messa a punto del progetto specie per la fase di attuazione, ma è giusto riconoscere che i criteri cui il complesso dei provvedimenti si ispira, peraltro spesso già presenti e enunciati in termini di principio dalla legislazione vigente a partire dal Codice, trovano fondamento nelle esperienze e nelle convenzioni internazionali più recenti e comportano in ogni caso effetti rilevanti anche sul piano strettamente giuridico come dimostra la recente vicenda delle nomine di direttori stranieri alla guida di musei italiani [42].
Le innovazioni degli ultimi anni hanno poi investito anche il fronte dei rapporti pubblico-privato con modalità approfondite dalle relazioni della seconda sessione dedicate a questi profili. I provvedimenti hanno riguardato in particolare il profilo finanziario e la partecipazione dei privati alle attività di valorizzazione, conservazione e restauro dei beni culturali attraverso le sponsorizzazioni e forme di mecenatismo [43] la cui procedura contrattuale è stata snellita da apposite disposizioni dettate dal Codice dei contratti pubblici (artt. 19 e 151 d.lgs. 50/2016) [44], oltre a registrare l'apertura all'impresa sociale (e relativo regime e benefici) dell'ambito dei beni e delle attività culturali, riconosciute di interesse generale dalla recente legge di riforma del terzo settore (d.lgs. 2 luglio 2017, n. 117) [45].
Si tratta di aperture importanti e i primi dati sembrano confermare la validità della strada imboccata, ma è importante in termini di valutazione complessiva che si tengano in attenta considerazione anche due aspetti problematici strettamente connessi: uno è specifico, e riguarda i presupposti e gli effetti diretti e indiretti delle risorse legate alle modalità di mecenatismo e sponsorizzazione [46] e l'altro è il rischio della alternatività più che della integrazione, che anche recenti episodi in altri paesi mostrano reale [47].
Vi è infine un terzo versante in cui le innovazioni, pur non paragonabili al rilievo delle precedenti, appaiono tuttavia connesse ad un tema di grande rilievo, quello del perimetro dei beni culturali. È il caso di quanto ruota intorno al tema della immaterialità (v. infra) che difficilmente continuerà a rimanere all'esterno della nozione positiva di bene culturale se alle considerazioni problematiche già riferite in precedenza si aggiunge la forte pressione per l'inclusione nella accezione positiva di bene culturale che continua ad essere operata sul versante internazionale: vedi, da ultimo, la dichiarazione di Firenze del G7 cultura del 30 marzo 2017 [48] o l'ormai prossimo anno europeo del patrimonio culturale 2018 [49].
Sempre in tema di ordinamento vigente, infine, è poi necessario richiamare brevemente alcuni elementi che sono espressione di ulteriori trasformazioni, compiute o in atto.
In ordine al pluralismo istituzionale, i riflessi riguardano le fonti e il rapporto centro/sistemi locali. Il diritto dei beni culturali, oggetto di una felice e autarchica anticipazione italiana operata dalla prima metà del '900, conosce ormai forme di regolazione sovranazionali e globali che riguardano, come messo recentemente in luce, tre distinti ambiti: la creazione di un sistema globale di protezione del patrimonio mondiale, che include la protezione in caso di conflitto armato e i rapporti tra tutela del patrimonio culturale e tutela della proprietà intellettuale e dei diritti degli artisti; la definizione di una disciplina internazionale del commercio e della restituzione dei beni culturali; l'elaborazione di norme, linee guida e standard per musei e mostre. In questo ambito, la World Heritage Convention del 1972, l'attività dell'Unesco (siti), l'Icom (mostre e musei) svolgono un ruolo di crescente importanza non solo generale e concettuale ma anche in termini di diritto positivo. Il recente riordino dei musei (d.p.c.m. 171/2014), ad esempio, fa esplicito riferimento alla definizione di questi ultimi formulata dall'Icom [50].
Non è difficile immaginare che questa tendenza tenderà a rafforzarsi nei prossimi anni.
Quanto all'ordinamento regionale, a parte il profilo della disciplina anche costituzionale relativa al riparto delle funzioni legislative e amministrative tra Stato e regioni, basta considerare le funzioni in materia di ambiente, territorio, attività economiche locali e turismo per rendersi conto del peso che regioni e sistemi locali comunque sono destinati ad esercitare direttamente e indirettamente su questo ambito, specie se si considera il dato (già posto in evidenza) della forte interdipendenza tra le politiche pubbliche di questo settore. Sia l'interdipendenza di politiche pubbliche che il rapporto pubblico/privato dunque, pur richiedendo ovviamente principi unitari di riferimento, non possono che essere declinati in ragione delle specifiche condizioni di ogni ambito territoriale e degli attori di varia natura che vi operano il che presuppone completezza di conoscenze, valutazioni ravvicinate e adeguatezza del provvedere che solo scelte decentrate e la possibilità di adattare modalità organizzative e funzionali possono assicurare.
A conferma che le ragioni del decentramento istituzionale e amministrativo non risiedono (solo) in previsioni costituzionali cui doverosamente dare seguito, ma in ragioni attuali e non meno profonde che nascono dalla realtà e dalla natura delle cose. La difficoltà di metterle in pratica, dunque, non sono riferibili alla fondatezza del disegno istituzionale ma alla perdurante incapacità di superare le resistenze e di mettere a punto adeguati strumenti operativi.
Materialità e immaterialità dei beni culturali. Un altro principio qualificante del nostro ordinamento, per esplicita indicazione del legislatore [51] e per costante giurisprudenza costituzionale [52] e amministrativa [53] è rappresentato dalla materialità che costituisce il presupposto per cui una cosa possa essere qualificata come bene culturale, anche perché è solo grazie a tale elemento che possono essere utilizzati i principali strumenti giuridici predisposti dal legislatore per garantirne la tutela: dai limiti alla circolazione e alla modificabilità alle forme di protezione e di fruizione.
Ma la questione è tutt'altro che esaurita. Non dimentichiamo infatti, come del resto sottolineava M.S. Giannini, che ad ogni bene culturale è connaturato un valore immateriale e anzi è proprio questo profilo a farne un bene di appartenenza pubblica (non nel senso di "proprietà" pubblica ma in quello di appartenenza, perché cioè "costituisce parte" del patrimonio culturale); che recenti convenzioni Unesco (Parigi 2003 e 2005) ratificate nel nostro paese dalla legge 167/2007 hanno ad oggetto la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e in particolare le espressioni di identità culturale collettiva (riti, giochi, canti, feste popolari e religiose), prescindendo dunque esplicitamente dalla "materialità" richiesta dal nostro Codice; e che, infine, sempre più evidente è la crescente correlazione tra valorizzazione economica del bene culturale e la sua dematerializzazione nella dimensione mediatica e virtuale.
Oltre tutto l'immaterialità non affatto è un termine univoco, tanto che di recente Giuseppe Morbidelli ne ha evidenziato numerose declinazioni rinvenibili nell'esperienza concreta e in corpi normativi o loro interpretazioni [54], ed è dunque sempre necessario precisare l'accezione alla quale si fa riferimento. E la crescente rilevanza anche economica dell'immateriale rispetto alla res (v. relazione Severini) è dimostrata in modo inequivocabile sia dalle sponsorizzazioni, ove il marchio è valorizzato dall'associazione al valore identitario del bene culturale, sia dalla immaterialità e virtualità propria della riproduzione e dei media.
Quanto alle convenzioni Unesco, in termini di diritto positivo è difficile negare l'evidente contrasto tra i due dispositivi normativi (Codice e convenzioni) egualmente in vigore nel nostro ordinamento [55] specie se si considera la netta chiusura ad ogni altra interpretazione operata dalla novella del 2008 [56]. Ma se dai principi si allarga lo sguardo al resto, non è difficile constatare che già oggi esistono altre forme di riconoscimento del valore culturale di un bene anche senza farne un bene culturale in senso codicistico, che a questi beni sono riservate forme di tutela (basta pensare ai beni c.d. "minori" nella normativa regionale e locale, a partire dai locali storici) [57] al di fuori del Codice, che la nozione di bene culturale è sempre più una nozione aperta e che dunque se esaminiamo della vicenda non il singolo fotogramma ma la sequenza più che di secco contrasto tra Codice e Convenzioni sarebbe più proprio vedere nel primo il punto di partenza e nelle seconde il probabile punto di arrivo di dinamiche ormai in atto.
Non è possibile, e forse neppure necessario indicare in questa sede tutte le implicazioni che discendono da quanto si è appena visto. Si consideri però che il bene immateriale, individuato in ragione dell'interesse culturale che gli è riconosciuto dalla comunità di riferimento, pur restando estraneo alle misure di protezione e di conservazione dettate rispettivamente dagli artt. 20 ss. e 29 ss. del Codice fruisce comunque di cure particolari a cominciare, dall'ammissione a forme di finanziamento dedicate ad azioni di supporto o di studio e conoscenza. In questo modo anche la stretta tipicità propria del regime dei beni culturali e l'altrettanto precisa riserva di legge statale in materia di tutela stabilita dall'art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione finiscono per relativizzarsi aprendosi, come del resto la nozione stessa di bene culturale, ad apporti più ampi e meno tipizzabili che si estendono anche a profili della tutela oltre che alle forme di promozione e valorizzazione.
Tutela e valorizzazione. Veniamo così alle funzioni in tema di beni culturali che il testo costituzionale vigente, dopo la riforma del titolo V del 2001, identifica nella tutela e nella valorizzazione la cui messa a punto, delicata non solo per i risvolti concettuali e sostanziali ma per il diverso regime sul piano del riparto delle competenze legislative tra Stato e regioni operato dalla Costituzione (potestà esclusiva statale per la tutela, 117, comma 2, lett. s); concorrente per la valorizzazione, 117, comma 3, con possibilità di specifiche integrazioni ex 116, comma 3 e reciproco coordinamento sulla tutela ex 118, comma 3), è dovuta in buona parte (proprio per queste ragioni) all'opera della Corte costituzionale.
Il contenuto dell'una e dell'altra è in linea di principio chiaramente riconoscibile, trattandosi per la tutela di una attività "diretta principalmente a impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale", tanto è vero che "la prima attività in cui si sostanzia la tutela è quella di riconoscere il bene culturale come tale", mentre la valorizzazione "è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale" (sentenza 9/2004). E d'altronde a questa bipartizione fanno riferimento le disposizione del Codice che definiscono la nozione di tutela (art. 3, comma 1) e di valorizzazione (art. 6, comma 1).
Sulla storia e l'elaborazione di questi concetti, i caratteri e l'evoluzione degli istituti in cui si articolano, le incertezze del legislatore e la diversità di opinioni della dottrina o l'importante ruolo svolto in materia dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa non è evidentemente possibile neppure accennare salvo alcuni aspetti rilevanti in questa sede, rinviando per il resto all'ampio approfondimento operato anche di recente dalla dottrina [58].
Pur con significative innovazioni recenti, come il rilievo accordato alla ricerca e alla educazione [59], i caratteri fondamentali della tutela non hanno registrato particolari innovazioni rispetto alla concezione progressivamente messa a punto nel tempo, rimanendo confermate le azioni principali in cui si articola la cura del bene culturale (individuazione, protezione e conservazione), la centralità del criterio dominicale (articolato in tre classi: stato, altri enti pubblici o privati non profit, singoli privati e imprese) nella definizione dei poteri dell'amministrazione e delle relative modalità di esercizio, la priorità accordata alla protezione e la conseguente prevalenza di atti di natura interdittiva come limiti al godimento e alla disponibilità della cosa e dei relativi diritti (qualche apertura più recente a provvedimenti conformativi) [60], il prevalere delle esigenze della tutela su quelle della valorizzazione in caso di contrasto (art. 6, comma 2 Codice). Il che è del tutto fondato sia sul piano concettuale, perché la protezione e conservazione del bene è la premessa di ogni altra funzione, sia su quello operativo, trattandosi di un ambito in cui il nostro Paese ha maturato tecniche e saperi universalmente riconosciuti.
Resta il fatto che i profondi mutamenti che si sono ampiamente richiamati prefigurano tendenze e sollevano problemi comunque destinati a lasciare il segno. Qualche esempio: se la materialità è il presupposto per la qualificazione del bene culturale, ad esempio, è inevitabile che l'azione e la strumentazione del Mibact risulti inadeguata quando sia in gioco, come nel caso delle sponsorizzazioni, la tutela non della res ma del suo valore immateriale [61]; l'espansione, anche questa già segnalata, del perimetro del patrimonio culturale rispetto a quello più stretto dei beni culturali ex Codice consegna aspetti della tutela (a cominciare dalla individuazione) a soggetti che in base alla riserva allo stato della relativa disciplina ne sarebbero esclusi. Certo, si può distinguere il "bene culturale" in senso proprio dal bene "di interesse culturale", cerchio più ampio, ma è difficile coniugare la tipicità della tutela con la mobilità dei confini del patrimonio culturale. Inoltre, l'innesto del paesaggio nell'ambito dei principi del Codice e relativa disciplina sposta la natura della valutazione rimessa alle soprintendenze oltre i limite del mero accertamento con riflessi sull'istruttoria, sulla motivazione del parere e sul ruolo stesso degli apparati [62].
Ben diverso è il discorso per quanto riguarda la valorizzazione.
Della definizione che ne dà il Codice (art. 6, comma 1) e di quanto disposto dalla Costituzione nel riparto di competenza legislativa tra Stato e regioni in occasione della riforma del 2001 già si è detto. Conviene invece soffermarsi sui caratteri e i contenuti della funzione di cui si potrebbe dire che ognuno dei principali attori della materia non ha contribuito a fare chiarezza confondendo forma e sostanza, rivendicazioni di ruolo e capacità di esercitarlo, profili giuridici e operatività organizzativa, esclusività di competenze e difficoltà e omissioni nel relativo esercizio. Il che richiede di porre, sia pure brevemente, qualche punto fermo.
Considerando che l'argomento costituisce oggetto di altri contributi, mi limiterò solo a qualche richiamo.
Sull'importanza della funzione, non è necessario aggiungere parola: il rilievo e talvolta l'enfasi (anche legislativa) che a questo versante è accordato, è indiscutibilmente giustificato dal molte ragioni, la prima delle quali è che su questo terreno si gioca una parte significativa della promozione della cultura che la Costituzione (art. 9) qualifica come compito primario della Repubblica. E fu proprio questo aspetto, espresso dal binomio valorizzazione-fruizione, che portò nel 1998 a dare esplicito rilevo giuridico alla gestione [63].
Tuttavia, larga parte del fiume di inchiostro versato sulla questione avrebbe potuto essere risparmiata se si fosse considerato che il punto non è tanto quello delle distinzioni all'interno della valorizzazione, indubbiamente necessarie perché attività, strumenti, tempi e finalità di quest'ultima non possono non tenere conto della natura dei beni (peraltro diversissimi), ma avervi fatto ricorso ai fini della ripartizione delle competenze Stato/regioni utilizzando il più storicamente accidentale (in questa materia) degli elementi, quello domenicale e della titolarità del bene: perché i soggetti sono vari per numero e natura e il riferimento alla "Repubblica" tutti li contiene; perché non è pensabile che finisca l'azione dell'uno dove comincia la proprietà dell'altro, stressando la distinzione (e la sensatezza) per tracciare limiti di competenza; perché vi sono ragioni di prossimità e di interdipendenza di politiche pubbliche che coinvolgono i sistemi locali in ogni caso anche se il bene è di titolarità statale, mentre in senso opposto resta il rilievo nazionale anche se la titolarità spetta all'ente locale; perché al di fuori di questo intreccio sfugge la dimensione della realtà quotidiana specie di alcune categorie di beni culturali (come borghi, città d'arte, centri storici, o paesaggi) nei quali, senza l'apprezzamento delle dinamiche socio-economiche e ambientali-territoriali che li riguardano, non sono possibili né tutela né valorizzazione, né restauro né fruizione.
Così non è stato e la distinzione, consacrata dalla riforma costituzionale del 2001 ma aggravata dall'interpretazione che ne è stata data successivamente dal Codice del 2004 e dalle successive novelle, ha potuto solo contare sui meritori sforzi della Corte per tentare di definire un sistema quanto più possibile convergente basato sull'unitarietà della tutela in capo allo Stato e una strutturata organizzazione a sostegno delle funzioni dirette alla conoscenza e alla fruizione del patrimonio culturale affidata alle regioni (sentenze 9/2004 e 194/2013): intenti che non sempre sono risultati sufficienti e che sembrano mostrare oggi qualche ripensamento (sentenza 140/2015) [64].
Ma non è tutto. Significato e ragione della valorizzazione, come si è detto in origine collegata strettamente alla fruizione, non sono certo da leggere solo in riferimento alle tematiche (e relativi conflitti) dell'asse centro/periferia nel sistema pubblico ma anche (e soprattutto) ad un versante diverso, quello della fruizione e del profilo gestionale. Il disegno originario, basato sulla constatazione delle evidenti difficoltà degli apparati ministeriali a svolgere tali compiti, mirava ad un vasto disegno di razionalizzazione funzionale affidando a ciascuno il suo compito: indirizzi, regolazione e controllo al ministero, gestione, profili operativi, produzione di beni e servizi ad altri soggetti e alle imprese. Intendendo per tali non solo quelle private, ma anche quelle miste e le stesse strutture pubbliche a prevalente funzione di valorizzazione purché dotate di autonomia funzionale e organizzativa [65].
A questo orientamento si è nei fatti contrapposta una visione fondata sul diverso (e specie in punto di gestione, opposto) principio della priorità e in ogni caso della sufficienza della gestione diretta e statale dei compiti in materia malgrado l'evidente difficoltà (se non impossibilità) ad assolverli [66], con il risultato concreto di porre ai margini la gestione e i relativi strumenti e forme collaborative pubblico/privato a suo tempo individuate dal legislatore (t.u. 1998 e altro). È probabilmente a questo ordine di motivazioni che vanno riferite le resistenze opposte alle recenti innovazioni organizzative (c.d. leggi Franceschini). Interventi che pur con difficoltà non trascurabili in fase applicativa, spesso a onor del vero riferibili a storture risalenti che le innovazioni hanno semplicemente posto allo scoperto, si sono limitati a riconoscere alle strutture pubbliche votate per eccellenza alla valorizzazione (e non solo) del patrimonio culturale, e cioè ai musei statali, quei caratteri di "adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile" per "la gestione diretta delle attività di valorizzazione" che sono prescritti dalla legge per tutte le "strutture organizzative interne alle amministrazioni" (art. 115, comma 2 Cod.) cui sono affidate tali funzioni.
Discrezionalità. Un'altra conseguenza importante delle trasformazioni e conseguenti ricadute di ordine concettuale riguarda il tema, sempre rilevante ma qui decisivo, della discrezionalità tecnica per l'evidente e difficile convivenza tra accezione tradizionale della prima nel nostro ordinamento - nelle premesse (unicità dell'interesse pubblico da soddisfare), nel suo svolgersi (riserva all'amministrazione delle relative valutazioni e esclusioni di ogni forma di comparazione e valutazione di altri interessi anche pubblici), nelle sue implicazioni (limite del sindacato giurisdizionale alla veridicità, completezza e logicità dell'istruttoria e dell'iter valutativo seguito) - e l'enorme estensione dell'area dei beni culturali compresa la parallela "culturalizzazione" del paesaggio [67] con la correlata moltitudine di altri interessi pubblici e privati che ogni decisione in materia finisce inevitabilmente per intercettare.
Il tema è in sé e per le sue connessioni con ogni altro aspetto talmente centrale che può essere consentita anche in questa sede qualche sintetica considerazione. Né il discorso deve considerarsi definitivamente chiuso dalla nota e recente pronuncia della VI sezione del Consiglio di Stato n. 3652/2015 che in tema di valutazione di compatibilità paesaggistica da parte della competente Soprintendenza afferma che "alla tutela del paesaggio (che il Mibac esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell'ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione", con la conseguenza che "il parere del Mibac in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica". Una conclusione, peraltro immediatamente ripresa da due circolari di direzioni generali del Mibact [68], riferita direttamente all'art. 9 Cost. che tutela al più alto livello possibile il paesaggio, insieme al patrimonio artistico e storico della Nazione, e richiede perciò alle amministrazioni preposte l'espressione di valutazioni solo tecnico-professionali e non comparative d'interessi.
Si è detto che il tema non è chiuso intanto perché la pronuncia è più articolata di questa sintesi e perché sulla questione, per i cui molteplici profili si rinvia ad un recente dibattito promosso dalla Rivista Aedon e al quadro che ne emerge e che conferma il rilievo del tema e la portata degli elementi variamente implicati [69], il problema resta aperto.
Da un lato infatti è certamente vero, come più volte si è detto, che appare arduo insistere sulla discrezionalità tecnica (specie se riproposta in forme immutate) e la sua affermata estraneità alla discrezionalità amministrativa rispetto all'estensione oggi raggiunta dal perimetro del patrimonio culturale e le conseguenti (e, deve aggiungersi, ampie valutazioni) riservate agli apparati tecnico-amministrativi in ordine alla pluralità degli interessi in gioco.
Dall'altro, è inevitabile prendere atto che la tesi opposta del superamento della distinzione tra le due tipologie di discrezionalità in favore di un unicum di valutazioni ove confluiscono attività conoscitive e compiti di interpretazione che l'amministrazione è chiamata in via ordinaria a svolgere e il giudice a sindacare [70], pur praticata in altri paesi specie in materia paesaggistica, non ha avuto seguito nel nostro ordinamento.
Non mancano soluzioni intermedie, sia nel senso di una discrezionalità tecnica distinta ma comprensiva al proprio interno di uno spazio autonomo di valutazione circa la sussistenza dell'interesse pubblico e di situazioni soggettive correlate [71], sia in favore di una soluzione a geometria variabile [72] che a fronte dell'influenza diretta di valutazioni tecniche opinabili sull'esercizio della discrezionalità tecnica suggerisce una valutazione distinta per settore e autorità amministrativa interessata perché diversa è la disciplina di questo aspetto dettata dalla legge, in alcuni casi esaustiva e in altri mancante: e dunque, almeno in questi ultimi, da ricondursi alla discrezionalità amministrativa e relativo regime. Una soluzione, questa, che nella giurisprudenza degli anni passati aveva avuto un certo seguito anche in tema di vincolo idrogeologico [73] ma che più di recente appare recessiva.
La soluzione del tema, che in questi termini potrebbe apparire senza sbocco, richiede invece un approccio più articolato.
Non dimentichiamo infatti che la riaffermazione da parte della sentenza della tesi "classica" sulla discrezionalità tecnica è accompagnata da indicazioni sul metodo di valutazione che le (diverse) amministrazioni debbono seguire e dalla forte sottolineatura dell'importanza che nelle fasi del procedimento ognuno degli attori (pubblici e privati) coinvolti faccia la sua parte. In questo modo una parte dell'enfasi e del peso si sposta dal momento finale, decisionale e valutativo, alla cooperazione e al momento istruttorio e conoscitivo con riflessi sul tema della legittimazione della riserva di amministrazione il cui rilievo è dovuto anche alla mancante (o debole) indicazione in questo senso da parte della Carta costituzionale [74].
Più in generale, una quota della necessaria e ampia valutazione rimessa agli apparati di tutela va riservata a attività precedenti (piani, indirizzi, linee metodologiche e operative) e successivi (controlli e verifiche di merito), la cui adozione rende più stabile e riconoscibile l'esercizio dei poteri discrezionali. Così come un ruolo determinante riveste l'attività continuativa (e condivisa con le altre amministrazioni operanti sul territorio, dall'ambiente alla pianificazione territoriale e urbanistica) di rilevazione e scambio dei dati relativi al rispettivo ambito di competenza.
Il problema, che resta, risulta innegabilmente ridimensionato e ancora una volta il paesaggio ne è la cartina di tornasole.
Sullo sfondo, la necessità di distinguere tra "capacità di decidere" oltre alla "competenza a farlo" e cioè il bisogno di "una riflessione teorica sui criteri di attribuzione del potere di decidere, non più con fuoco esclusivo sulla procedimentalizzazione quale correzione della frammentazione del potere, ma piuttosto con una distinzione fra decisioni frutto di composizione di poteri e decisioni di ultima istanza" [75].
In mancanza, il deferimento dell'intera decisione finale agli esecutivi nazionale e regionali, anche in termini di decisione sulla opposizione delle amministrazioni preposte alla tutela del patrimonio culturale [76], più che il primato della politica (rectius, dell'alta amministrazione) rischia di segnare la negazione del ruolo della amministrazione: stretta tra la difesa di soluzioni e principi non negoziabili e l'estremo opposto del restare ai margini della scelta finale in nome delle ragioni riservate ai vertice istituzionali. Con il rischio di un'ulteriore contraddizione, perché "al più alto livello politico la possibilità che il valore diventi interesse è un'opzione comunque conseguibile" con il risultato che "la dequotazione che il dato costituzionale vorrebbe impedire è più facile di quanto sembri" [77].
In questi termini, non si tratta solo di una contraddizione ma la conseguenza di un gioco a somma negativa che genera seri problemi per il sistema nel suo complesso. Se è vero infatti che alla base vi è la caduta dell'ipotesi originaria, quella della soluzione in via procedimentale dei problemi di coordinamento e di interdipendenza grazie all'unità di tempo, luogo e azione assicurate dalla prima formulazione della legge 241/1990 [78], è altrettanto vero che nelle condizioni attuali la riserva finale ai vertici istituzionali non risolve i problemi e rischia anzi di enfatizzarli. L'amministrazione in questo contesto è infatti indotta ad insistere nella difesa delle proprie valutazioni, e rigidità e formalismi risultare il corrispettivo della estraneità rispetto alla scelta finale, assunta in altre sedi e con altri parametri.
Se non si pone rimedio a questo stato di cose, l'osservanza e l'effettività dei principi che reggono il patrimonio culturale rischiano di perdersi, costretti all'interno di un sistema binario squilibrato sugli estremi, oscillante cioè tra l'ampia (e scarsamente controllabile) discrezionalità degli apparati tecnico-amministrativi competenti e l'ampiezza delle scelte (e dei parametri) del vertice istituzionale e politico. Sarebbe ingiusto riferire tutto questo ad un disegno malizioso, ma resta l'obbiettiva convergenza delle due soluzioni verso il minimo di responsabilità per le scelte compiute, o perché tecniche o perché di alta amministrazione.
Il che merita più di una riflessione.
Restano naturalmente molti problemi aperti e alcuni di questi costituiscono lo sfondo di quanto fin qui si è visto e dunque altrettante scelte necessarie o almeno auspicabili per il sistema dei beni culturali.
La prima riguarda il punto dei rapporti pubblico/privato, nelle accezioni che si sono viste. Che sia un nodo chiave, non tanto e solo per ragioni di scarsità di risorse ma per il rilievo assunto dalla gestione e l'intreccio strettissimo tra le principali azioni del settore (tutela, valorizzazione), le confinanti politiche pubbliche generali (ambiente, pianificazione territoriale e urbanistica, infrastrutture) e specifiche (turismo, contrasto al rischio sismico e idrogeologico) e le dinamiche socio-economiche e relative comunità, è ormai chiaro a tutti. Il punto è chi e come farvi fronte.
Su questo punto la linea seguita negli ultimi decenni è, come del resto si potrebbe ripetere sul tema della cessione di beni, una linea spezzata: dall'originaria autosufficienza del ministero competente si è passati alle improvvise e amplissime aperture (v. l'art. 33 della legge 448/2001) di un sistema ad ampio raggio di concessioni a soggetti non statali della gestione di servizi per la fruizione pubblica e la valorizzazione del patrimonio artistico, per fare ritorno di nuovo alla chiusura operata nel più efficace e tradizionale dei modi: evitando di porre mano al regolamento, necessario per l'attuazione. Con il risultato, ad oggi, che su un versante decisivo come questo della cooperazione pubblico/privato abbiamo un regolamento ma non l'originaria disposizione legislativa del 1998 che lo prevedeva e che è stata abrogata dal Codice nel 2004, mentre disponiamo di una legge più recente (la 448/2001) rimasta però priva di quanto previsto per essere operativa così come sono rimaste sulla carta le soluzioni immaginate dagli artt. 112, comma 5 e 115, commi 3 e 5 del Codice.
Stando così le cose, non meraviglia il fatto che del largo coinvolgimento funzionale e operativo di soggetti esterni e di imprese che la migliore letteratura del settore immaginava affidato a forme di cooperazione o a vere e proprie esternalizzazioni, sia rimasto ben poco [79].
In questo contesto infine si avvia l'ultimo segmento della linea spezzata che si è detto, perché le c.d. riforme Franceschini, con il riordino organizzativo e la specializzazione funzionale degli apparati di amministrazione diretta (musei, soprintendenze uniche) e l'intervento sul versante fiscale verso sponsor e mecenati, sembrano imboccare una strada diversa e in qualche modo intermedia, basata su una interpretazione del partenariato declinata in termini di parallelismo tra pubblico e privato: mantenimento pressoché totale della gestione, salvo i casi di sponsorizzazione tecnica di lavori, all'interno di una amministrazione pubblica razionalizzata per specializzazione funzionale e l'apertura, questa sì reale e crescente, all'apporto di risorse esterne a patto però di mantenerne l'esternità della condizione.
Se la lettura che qui si propone ha qualche fondamento, è allora necessario trarne le conseguenze: nella gestione diretta, infatti, vi sono profili da affrontare con decisione perché i risultati auspicati possano essere raggiunti e che vanno dalla effettiva formulazione di criteri e indirizzi unitari, chiari e stabili cui riferire le complesse operazioni connesse a queste modalità, previsti ma spesso ancora mancanti come nel caso degli indirizzi e norme tecniche in materia di conservazione (art. 29, comma 5 Cod.) o i criteri per la costituzione degli organismi misti per la valorizzazione (art. 112, comma 7 Cod.), fino alla disponibilità di dati attendibili o da riconoscibili criteri di determinazione dei valori cui rapportare canoni e contributi, alla capacità delle soprintendenze di gestire queste relazioni fino alle agenzie da accostare in veste di supporto tecnico per la progettazione e esecuzione degli interventi richiesti.
Con due corollari, che è bene esplicitare: il primo è che oltre ai requisiti ricordati il sistema può ispirarsi al parallelismo solo con la solida tenuta del coordinamento orizzontale a tre lati (Mibact, privati, amministrazioni locali) senza il quale il singolo intervento mancherebbe delle necessarie connessioni e il sistema di una visione organica delle necessità e delle iniziative. Coordinamento che oggi appare incerto, perché certo non esercitabile dal centro e per il resto affidato in sede locale alle deboli mani dei segretariati regionali e dunque facilmente destinato a restare nella terra di nessuno o limitato di volta in volta alla singola iniziativa dei direttori di musei autonomi o di poli museali.
Il secondo corollario è che se prendiamo sul serio quanto detto sul principio (costituzionale e legislativo) della doverosità della valorizzazione, la gestione in forma indiretta ex art. 115 di tale funzione è altrettanto dovuta quando l'amministrazione non sia in grado di provvedervi direttamente perché l'inerzia è ammissibile solo a condizione che anche il ricorso a privati o a altre amministrazioni pubbliche non sia praticabile nel caso specifico, il che tra l'altro andrebbe puntualmente motivato.
L'ultimo tema, ancor più rilevante, riguarda il cruciale rapporto tra regime dei beni culturali e definizione, o meglio ridefinizione, del relativo perimetro il cui continuo allargamento pone il sistema di fronte a due opzioni, non necessariamente alternative: rivedere modalità e regime degli strumenti di tutela, modificandone e articolandone contenuti e procedure in ragione della varietà dei beni compresi nel patrimonio culturale, o limitare il tradizionale e vigente regime ad un ambito più ristretto del perimetro complessivo del patrimonio culturale individuando, per il rimanente, modalità più semplici e forme di valutazione più aperte agli interessi pubblici e privati di volta in volta coinvolti fino a graduare in termini di proporzionalità le misure adottate o ad ammetterne un vero e proprio bilanciamento.
Non è necessario avvertire quanto tutto ciò richiederebbe il ripensamento del Codice vigente e delle relative prassi applicative aprendo la strada verso diverse ipotesi di articolazione del regime compresa quella dei "cerchi concentrici" fino ad ora solo sommariamente accennata in dottrina. In particolare, il primo e più stretto cerchio risulterebbe contrassegnato dalla prevalenza assoluta delle esigenze di protezione/conservazione, e dunque: rigida funzionalizzazione degli (altri) interessi in gioco, gestione conservativa affidata ai tecnici e il resto (in particolare la fruizione) solo se e in quanto possibile, standard stretti ed uniformi, quale che sia la mano (pubblica o privata, statale o governo locale) che provvede alla gestione, risorse (personale, finanziarie, ecc.) comunque garantite e prevedibili.
Quello più largo sarebbe invece fondato sull'apertura alla pluralità di interessi (non solo pubblici) da considerare e sul loro esplicito raffronto, selezione e composizione, connotandosi con una gestione (il più possibile) economico-aziendale, in tensione dialettica con il contrappeso (in chiave di indirizzo-controllo) costituito dagli apparati tecnici del ministero, differenziazione delle forme di regolazione e di organizzazione e risorse da acquisire (almeno in una percentuale minima da definire) all'esterno o comunque da una adeguata valorizzazione economica [80].
In ogni caso, qualche che sia l'esito del processo in corso, a regime invariato resta il rischio del corto circuito tra espansione del perimetro del patrimonio culturale e mantenimento inalterato di premesse concettuali e organizzative basate su presupposti radicalmente diversi e dimensioni assai più ridotte.
Sintomi inequivocabili di queste tensioni sono offerti da recenti disposizioni che si sforzano di alleggerire il carico (all'interno) e gli oneri (all'esterno) del regime attuale con diverse modalità, dalle misure adottate introducendo esclusioni o comunque riduzioni del perimetro del patrimonio culturale o timidi elementi di proporzionalità (lieve entità dell'opera) per lo snellimento delle procedure ordinarie sotto il segno della semplificazione. È quanto avviene per le autorizzazioni paesaggistiche [81] o per la circolazione dei beni culturali ove si agisce direttamente sul perimetro di questi ultimi portando da 50 a 70 anni la soglia temporale di rilevanza per le cose mobili di soggetti pubblici e privati non profit [82].
In entrambi i casi si è evocata, a ragione, la semplificazione. Ma dopo quanto si è osservato non è difficile cogliervi il segno del problema ben più ampio e profondo che si è appena accennato e che difficilmente potrà essere rimosso ancora a lungo o semplicemente banalizzato nelle forme del silenzio-assenso [83].
Note
[1] Utilizzo questo termine fin dall'inizio per semplicità di esposizione, anche se l'espressione nasce tra la fine degli anni '50 e gli anni '60 in sedi internazionali (Unesco) e viene introdotta e concettualmente precisata, dopo un illuminante dibattito interno, nei lavori conclusivi dalla Commissione Franceschini (1967). Sul punto, v. G. Sciullo, Patrimonio e beni, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Bologna, Il Mulino, 2017, pag. 31 ss.
[2] M.S. Giannini, presentazione a Ricerca sui beni culturali, Camera dei Deputati, quaderni di studi e legislazione, vol. I, Roma 1975, ora in M.S. Giannini, Scritti, vol. IV, pag. 992.
[3] In rapporto ai beni, su cui da ultimo F. Longobucco, Beni culturali e conformazione dei rapporti tra privati: quando la proprietà "obbliga", in Pol. dir., 2016, 4, pag. 547 ss. e alle diverse attività connesse: dalla circolazione dei beni mobili (v. collezionisti, gallerie, singoli privati) al turismo e ai diversi attori che vi operano.
[4] Nella cui sfera è compreso anche il cospicuo patrimonio dei beni culturali di interesse religioso, su cui si veda l'ampia ricerca dall'Istituto di diritto canonico San Pio X e da CESEN dell'Università cattolica del Sacro Cuore dopo l'Intesa tra Mibac e CEI del gennaio 2005 e G. Feliciani, l'Introduzione, in Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia, (a cura di) M. Madonna, Venezia, Marcianum Press, 2007, pag. 5 ss.
[5] Vedi i dubbi della dottrina privatistica da subito, a partire da F. Santoro Passarelli, I beni della cultura nella Costituzione italiana, in Studi, (a cura di) C. Esposito, Padova, Cedam, vol. III, 1973, pag. 1421.
[6] Dalla disciplina della alienabilità dei beni, per cui a differenza del regime generale dei beni pubblici non tutti i beni del demanio culturale sono inalienabili (artt. 54, comma 1 e 2 e 55 Codice) mentre al contrario vi sono beni estranei al demanio culturale contrassegnati dalla inalienabilità (art. 54, comma 2, lett. a) e c), alla significativa specialità della disciplina dei lavori di restauro e in genere di lavori concernenti beni culturali ad opera di soggetti pubblici o equiparati rispetto a quella dettata per la generalità dei lavori pubblici (artt. 145 ss. d.lgs. 50/2016 Codice dei contratti pubblici), su cui G. Sciullo, Patrimonio e beni, cit., pag. 59 ss. e pag. 182 ss.
[7] M.P. Chiti, Monismo o dualismo in diritto amministrativo: vero o falso problema, in Mutazioni del diritto pubblico nello spazio giuridico europeo, (a cura di) M.P. Chiti, Quaderni Spisa, Bologna, Clueb, 2003, pag. 24.
[8] A queste va aggiunta, ma è tutt'altro discorso di rilievo peraltro crescente in ragione della vulnerabilità al rischio sismico e idrogeologico dell'intero territorio italiano, la specialità dovuta alle misure adottate in casi di calamità naturali per specifici territori e periodi di tempo determinati i cui effetti peraltro, specie quando si tratta di aree estese o densamente popolate o dell'ampiezza di fenomeni sismici come quelli dell'agosto-ottobre 2016 che hanno investito ben quattro regioni dell'Italia centrale, si protraggono fino a costituire stabili sottosistemi normativi e organizzativi in termini di competenze e di procedure destinati a durare nel tempo (d.l. 189/2016, convertito in legge 229/2016 facendo salvi anche gli effetti del non convertito d.l. 205/2016).
[9] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1, ora in Scritti, cit., pag. 1003 ss.
[10] V. l'ampia analisi di L. Casini, "Todo es peregrino e raro y raro...: Massimo Severo Giannini e i beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 3, pag. 987 ss.
[11] Per quanto riguarda la nozione di bene culturale, in particolare, v. V. Cerulli Irelli, Beni culturali, diritti collettivi e proprietà pubblica, in AA.VV., Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, Giuffrè, vol. I, pag. 135 ss.
[12] M.S. Giannini, ivi, pag. 1020.
[13] B. Zanardi, Un patrimonio artistico senza. Ragioni, problemi, soluzioni, Milano, Skira, 2013.
[14] W. Santagata, La fabbrica della cultura. Ritrovare la creatività per aiutare lo sviluppo del paese, Bologna, Il Mulino, 2007.
[15] M. Fumaroli, Lo stato culturale. Una religione moderna, Milano, Adelfi, 1991.
[16] L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2016, pag. 61 ss.
[17] Cfr. d.l. 83/2014, su cui G. Gallo, Il decreto Art Bonus e la riproducibilità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 3.
[18] Cfr. l'introduzione di L. Casini e i saggi di G. Morbidelli, A. Bartolini, G. Severini, S. Fantini, M. Dugato e G. Manfredi in I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche, atti convegno Assisi ottobre 2012 in Aedon, 2014, 1.
[19] G. Severini, L'immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3 e G. Morbidelli e A. Bartolini (a cura di), L'immateriale economico nei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2016.
[20] Che è altra cosa, perché una gestione efficiente e equilibrata è richiesta già dalla stessa Costituzione in termini di buon andamento, prima ancora che dalla legislazione ordinaria (art. 1.1 legge 241/1990): in proposito, ampiamente, A.L. Tarasco, Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017, pag. 239 ss.
[21] F. Merusi, Art. 9, in Commentario della Costituzione. Principi fondamentali. Artt. 1-12, (a cura di) G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli/Soc. ed. Foro Italiano, 1975, pag. 434 ss.
[22] L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, cit.
[23] M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Padova, Cedam, 1991, pag. 132 ss.
[24] Per le quali rinvio al mio Il diritto del patrimonio culturale: una introduzione, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 23 ss.
[25] C. Barbati, Governo del territorio, beni culturali e autonomie: luci e ombre di un rapporto, in Aedon, 2009, 2; Id., Territori e cultura: quale rapporto, in Aedon, 2011, 2.
[26] L. Casini, Valorizzazione e gestione, in Il diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 200.
[27] D.lg. 42/2004, integrato dalle novelle del 2006 e 2008 e successive modificazioni.
[28] Che come osserva M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pagg. 1012-5, presuppone una attività dell'uomo e che anche dopo l'estensione della nozione di paesaggio proposta da A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, (a cura di) A. Predieri, Milano, Giuffrè, pag. 3 ss e concettualmente lascerebbe all'esterno proprio gli ambiti ove questo elemento manca, come nel caso delle aree naturalistiche.
[29] M.S. Giannini, ivi, pag. 1031.
[30] Più ampio della mera legittimità ma esteso "a una valutazione di merito amministrativo, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico": così Cons. Stato, sez. VI, 4 giugno 2015, n. 2751 e ulteriore giurisprudenza sulla motivazione del provvedimento, specie se negativo, e sul sindacato del giudice amministrativo, in G. Piperata, Paesaggio, in Diritto del patrimonio culturale, cit. pagg. 273 s.
[31] A. Crosetti, La tutela ambientale dei beni culturali, Padova, Cedam, 2001.
[32] D. Manacorda, L'Italia agli italiani. Istruzioni e ostruzioni per il patrimonio culturale, Bari, Edipuglia, 2014; T. Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane, Roma, Minimumfax, 2013 e Privati del patrimonio, Torino, Einaudi, 2015.
[33] B. Zanardi, Un patrimonio artistico senza. Ragioni, problemi, soluzioni, cit.
[34] M. Cammelli, I tre tempi del Ministero dei beni culturali, in Aedon, 2106, 3.
[35] Da ultimo C. Tubertini, L'assetto delle funzioni locali in materia di beni e attività culturali dopo la legge 56/2014, in Aedon, 2016, 1 e C. Barbati, Le amministrazioni regionali e locali, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 137 ss.
[36] Rilevate con difficoltà grazie alle rielaborazioni e all'impegno pluridecennale di soggetti (v. Economia della cultura) e esperti (Carla Bodo) privati. In ogni caso, il complesso delle risorse assegnate al settore da regioni, province e comuni già negli anni '90 era risultato superiore a quello di provenienza statale: cfr. P. Leon e G. Galli, Cambiamento strutturale e crescita economica del settore culturale, in Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1990-2000, (a cura di) C. Bodo e C. Spada, Bologna, Il Mulino, 2004, pag. 26 ss. La tendenza è andata decisamente rafforzandosi specie dalla crisi apertasi nel 2008, ove la diminuzione di risorse ha inciso in netta prevalenza su quelle statali passate nel 2001 e nel 2014 (termini assoluti) da 2.476 ml. di euro a 1903 ml. di euro mentre il sistema locale (regioni, province e comuni) ha sostanzialmente retto (da 3623 ml. di euro a 3.561 ml. di euro). In termini percentuali dunque la statale è passata dal 40,6% al 34,8%, quella del livello locale dal 59,4% al 65,2%. Cfr. Consiglio d'Europa, Compendium. Cultural policies and trends in Europe (www.culturalpolicies.net), Italy, maggio 2016, (a cura di) C. Bodo e S. Bodo, tabella 4 e figura 4, pag. 69.
[37] Complessivamente oscillanti intorno tra 250-300 ml. di euro annui (cfr. Acri, Rapporti annuali sulle fondazioni di origine bancaria).
[38] Per una recente e ampia rassegna in proposito cfr. Relazione finale della Commissione M. D'Alberti, in Riv. trim. dr. pubbl., 2014, pag. 161 ss. e L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, cit., in particolare la parte prima, Storia e contesto: cronache di un quarantennio, pagg. 23-104.
[39] G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare - una spesa, un investimento, Relazione al 63° convegno di studi amministrativi, Varenna, 21-23 settembre 2017, in Aedon, 2017, 3.
[40] Che ha riguardato in particolare la collocazione dei musei, con l'istituzione di una apposita direzione generale (agosto 2014) e soprattutto l'assetto complessivo dei musei (poli museali), distinti dalle relative soprintendenze e in particolari casi definiti in termini di "autonomia speciale" (decreti ministeriali dicembre 2014). Da sottolineare la qualificazione dei servizi finalizzati alla fruizione in termini di servizio pubblico essenziale operata dal d.l. 146/2015, su cui v. G. Piperata, Scioperi e musei: una prima lettura del d.l. 146/2015 e C. Zoli, La fruizione dei beni culturali quale servizio pubblico essenziale: il decreto legge 20 settembre 2015, n. 146 in tema di sciopero, entrambi in Aedon, 2015, 3.
[41] Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio (d.m. 23 gennaio 2016, art. 1.2) e corrispondenti soprintendenze "uniche" in sede periferica (d.p.c.m. 29 agosto 2014).
[42] In un primo tempo parzialmente annullate dal Tar Lazio, sez. II-quater, 7 giugno 2017 nn. 6719 e 6720 e poi legittimate dal Consiglio di Stato, sez. VI, 24 luglio 2017, n. 3665, proprio sul presupposto che per musei o simili (nel caso, parco archeologico del Colosseo) la direzione implica gestione prevalentemente economica e tecnica, dunque estranea all'esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri che giustifica la riserva di tali posizioni a cittadini italiani ai sensi dell'art. 38. d.lgs. 165/2001. Sul punto, ampiamente, i commenti di M. Gnes, M.P. Monaco e di F.G. Albisinni, in Musei italiani e direttori stranieri, Giorn. dir. amm., 2017, 4, pag. 492 ss.
[43] Aggiungendo alle tradizionali agevolazioni disposte dal Testo unico delle imposte sui redditi, vale a dire detrazioni di imposta e deducibilità dall'imponibile, il credito di imposta (65% in tre anni) introdotto (a regime) dal d.l. 83/2014 c.d. Art bonus.
[44] A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione e profili di specialità, in Aedon, 2017, 1.
[45] Cfr. ex art. 5, comma 1, la qualificazione come attività di interesse generale degli "interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e al miglioramento delle condizioni dell'ambiente e all'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali..." (lett. e), degli "interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio" (lett. f) e l'" organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale..." (lett. i).
[46] Su cui rinvio al mio La riga prima della prima riga, ovvero: ragionando su Art Bonus e dintorni, in Aedon, 2014, 3.
[47] Nel bilancio federale Usa 2018, caratterizzato dal taglio della corporate tax, la soppressione del fondo destinato al sostegno delle attività culturali (970 milioni di dollari) è giustificato dallo speaker della Camera Paul Ryan per il fatto che gli aiuti all'arte "sono in generale goduti da persone con i redditi più alti" e che comunque si tratta di attività che "possono essere supportate da risorse private" (28.9.2017).
[48] Il cui testo si apre con la seguente affermazione dei ministri partecipanti "Ribadiamo la nostra convinzione che il patrimonio culturale in tutte le sue forme, materiale e immateriale, mobile e immobile..." ivi.
[49] I cui obiettivi principali sono: promuovere la diversità culturale, il dialogo interculturale e la coesione sociale; evidenziare il contributo economico offerto dal patrimonio culturale ai settori culturale e creativo, compreso per le piccole e medie imprese, e allo sviluppo locale e regionale; sottolineare il ruolo del patrimonio culturale nelle relazioni esterne dell'UE, inclusa la prevenzione dei conflitti, la riconciliazione postbellica e la ricostruzione del patrimonio culturale distrutto.
[50] Così L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, cit., pag. 70 ss.
[51] Artt. 2, comma 2 e 10, comma 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
[52] Corte cost., 9 marzo 1990, n. 118, in cortecostituzionale.it.
[53] G. Severini, Commento agli artt. 1 e 2, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2011, pag. 24 ss.
[54] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1.
[55] L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, cit., pag. 54 ss. e A.L. Tarasco, Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, cit., pag. 81.
[56] E dunque successiva alla ratifica, stabilendo che i beni previsti dalle convenzioni possono essere considerati beni culturali solo a condizione della loro materialità: così l'attuale art. 7-bis del Codice introdotto dall'art. 2, lett. c), d.lgs. 62/2008.
[57] Cfr. Corte cost., sentenza 94/2003, in cortecostituzionale.it e ancora Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit. e disposizioni ivi richiamate.
[58] Un esame completo e aggiornato in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, cit., e in particolare il cap. III (tutela) di G. Sciullo e il cap. IV (valorizzazione e gestione) di L. Casini.
[59] V. art. 12 d.p.c.m. 171/2014 e la nuova direzione generale Educazione e Ricerca.
[60] In quanto volti a "conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale" (art. 3, comma 2 Codice).
[61] A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1.
[62] V. sopra, nota 26.
[63] In cui veniva infatti compresa "ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione", art. 148, lett. d), d.lgs. 112/1998.
[64] G. Sciullo, Corte costituzionale e nuovi scenari per la disciplina del patrimonio culturale, in Aedon, 2017, 1.
[65] Sul punto, cfr. tra i numerosi interventi di P. Leon quelli in particolare riportati in Economia della cultura, 1996, 3, in Aedon, 1999, 1 e l'introduzione in AA.VV. Beni culturali e imprese. Una collaborazione "virtuosa" tra pubblico e privato, Roma, Editori Riuniti, 2002, pag. 9 ss., e L. Covatta, Introduzione, in I beni culturali tra tutela, mercato e territorio, (a cura di) L. Covatta, Firenze, Passigli, 2012, pag. 15 ss.
[66] "Spesso il peggior nemico dei beni culturali di proprietà pubblica è il Demanio", così F. Merusi, Pubblico e privato e qualche dubbio di costituzionalità nello statuto dei beni culturali, in Dir. amm., 2007, 1, pag. 2.
[67] L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, cit., pag. 141 ss. e F. Cortese, Le amministrazioni e paesaggio, tra discorso di verità e discorso di volontà, in Aedon, 2016, 3.
[68] Circolare della direzione generale Archeologia n. 19 del 30 luglio 2015 e circolare della direzione generale Belle arti e Paesaggio n. 34 del 31 luglio 2015.
[69] Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela, in Aedon, 2016, 3 con presentazione di G. Sciullo e contributi di P. Carpentieri, Semplificazione e tutela, G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, F. Cortese, Le amministrazioni e il paesaggio, tra discorso di verità e discorso di volontà, cit., e G. Sigismondi, Valutazione paesaggistica e discrezionalità tecnica: il Consiglio di Stato pone alcuni punti fermi.
[70] L. Benvenuti, La discrezionalità amministrativa e i suoi interpreti, in Interpretazione e dogmatica nel diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, pag. 64 ss.
[71] F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, in Dir. amm., 2008, 4, pag. 791 ss.
[72] In particolare F. Cintioli, Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Poteri tecnici e "giurisdizionalizzazione", Milano, Giuffrè, 2005.
[73] Cfr. G. Sigismondi, Valutazione paesaggistica e discrezionalità tecnica: il Consiglio di Stato pone alcuni punti fermi, cit., e giurisprudenza ivi richiamata.
[74] In proposito rinvio al mio Amministrazione e mondo nuovo: medici, cure, riforme, in Dir. amm., 2016, 1-2, pag. 33 ss.
[75] L. Torchia, Teoria e prassi delle decisioni amministrative, in Decisioni amministrative e processi deliberativi, Convegno Associazione italiana professori di diritto amministrativo (Aipda), Bergamo 5-7 ottobre 2017, www.diritto-amministrativo.org,pagg. 31-32.
[76] Art. 14-quinquies legge 241/1990.
[77] F. Cortese, Le amministrazioni e il paesaggio, tra discorso di verità e discorso di volontà, cit., pag. 7.
[78] F. Cortese, Il coordinamento amministrativo. Dinamiche e interpretazioni, Milano, 2012, pag. 48 ss.
[79] Vedi P. Leon, Pubblico-privato nelle attività culturali, in Economia della cultura, 2002, 1, pag. 81 ss. e il più ampio richiamo nel mio Cooperazione, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 297 ss.
[80] Su cui v. M. Cammelli e L. Covatta, in I beni culturali tra tutela, mercato e territorio, (a cura di) L. Covatta, Paper Astrid, Firenze, Passigli, 2012, pag. 24 ss.
[81] D.p.r. 2017, n. 31, Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata.
[82] Cfr. art. 1, comma 175 della legge sulla concorrenza 4 agosto 2017, n. 124 e G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare - una spesa, un investimento, cit., pag. 8.
[83] Così, P. Carpentieri, Semplificazione e tutela, in Aedon, 2016, 3 che (ai parr. 4 e 5) indica come alternative al silenzio-assenso la liberalizzazione degli interventi minori di conservazione-manutenzione (ma anche di miglioramento antisismico ed efficientamento energetico) dell'esistente, spostando ex post il controllo e l'innesto di criteri di proporzionalità e ragionevolezza come criteri interni della decisione amministrativa di tutela.