Digitalizzazione del patrimonio culturale
La riproduzione a scopi commerciali di beni culturali pubblici: riflessioni sull’Uomo Vitruviano, tra Italia e Germania
di Sabrina Ferrazzi [*]
Sommario: 1. Introduzione. - 2. I fatti di causa. - 3. La competenza giurisdizionale a decidere della controversia. - 4. L’immunità degli Stati e dei loro organi dalla giurisdizione straniera. - 5. Ne bis in idem? Il rapporto tra azione cautelare e azione di merito e le conseguenze sull’efficacia della decisione. - 6. La legge applicabile: la vocazione universalistica della normativa italiana e il principio dell’inapplicabilità a priori delle norme pubbliche straniere. - 7. Considerazioni conclusive.
Il contributo analizza i profili giuridici che emergono dalla sentenza del Tribunale di Stoccarda del 2024 in merito all’utilizzo non autorizzato, a fini commerciali, dell’immagine del c.d. “Uomo Vitruviano” di Leonardo. La natura internazionale del mercato dei prodotti culturali, l’importanza delle parti coinvolte nella controversia e la sua rilevanza transnazionale rendono questo caso un significativo esempio delle possibili criticità giuridiche connesse a fattispecie con elementi di transnazionalità.
Parole chiave: pubblico dominio; misure provvisorie; libera circolazione delle decisioni; principio di territorialità; opere d’arte; Uomo Vitruviano.
The commercial reproduction of public cultural property: reflections on Vitruvian Man, between Italy and Germany
The paper analyzes the different legal issues revolving around a case arising from the unauthorized commercial use of the image of the famous Leonardo’s “Vitruvian Man”. The international soul of the market of cultural-related products, the importance of the parties involved in the disputes, and the transnational relevance of the topic make this case an illustrative example of possible legal issues arising from not pure domestic cases.
Keywords: public domain; provisional measures; free circulation of decisions; principle of territoriality; works of art; Uomo Vitruviano.
La sentenza in commento [1]] rappresenta, allo stato, l’ultimo atto di una controversia formalmente iniziata nel novembre 2019, quando la nota società Ravensburger [2] - rinomata a livello internazionale per i suoi prodotti, tra cui una serie di puzzle ispirati al mondo dell’arte - è stata diffidata dal ministero della Cultura italiano dall’utilizzare l’immagine dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Sin dal 2009, la società ha venduto sotto forma di puzzle l’immagine dell’opera, conservata presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia [3].
La riproduzione di beni in assenza di consenso da parte del proprietario è stata, negli anni, ripetutamente oggetto di controversie legali. Si pensi, ad esempio, ai problemi sollevati dalla riproduzione delle immagini di strade e palazzi nei comuni sistemi di navigazione stradale, problemi resi ancora più acuti dalla circostanza che tali sistemi non si limitano ad offrire la visione degli edifici quale ordinariamente percepibile dalla strada, ma utilizzano anche strumenti di visione dall’alto, con i quali si ottengono immagini di luoghi interni agli edifici (quali lastrici solari, corti e giardini privati), normalmente non accessibili senza il consenso del proprietario.
Il tema diviene ancora più delicato in presenza di beni culturali, laddove - accanto alla questione dell’utilizzo dell’immagine in contrasto alla volontà del proprietario - si può porre anche il problema dell’eventuale danno all’immagine del bene stesso, il cui valore culturale, simbolico e identitario potrebbe risultare svilito in presenza di un uso non rispettoso della dimensione valoriale e immateriale dell’opera.
Nella prospettiva opposta, la disciplina italiana volta a regolamentare la riproduzione di immagini di beni culturali è stata oggetto di discussione per il suo apparente contrasto con i principi in materia di tutela della proprietà intellettuale - in particolare in materia di pubblico dominio - e per le conseguenti limitazioni all’utilizzo a fini commerciali delle riproduzioni di opere che costituiscono sì beni culturali, ma che non sono protette dal diritto d’autore a causa delle loro caratteristiche intrinseche (si pensi a beni che non siano frutto dell’ingegno creativo dell’uomo) o a causa dell’assenza o venir meno dei presupposti per l’applicazione della tutela autoriale (tipicamente, a causa del principio tempus regit actum, nonché nelle ipotesi di superamento dei limiti temporali previsti) [4].
Il caso in esame si colloca al crocevia di interessi privati e pubblici riguardanti l’utilizzo di immagini di beni culturali, in una prospettiva di carattere transnazionale. In un contesto in cui l’interesse universale che da sempre accompagna i beni culturali attrae frequentemente nella sfera dei rapporti transfrontalieri le vicende che li coinvolgono, la decisione presenta un chiaro esempio di come le diversità tra gli ordinamenti possa portare a compromettere le politiche legislative promosse dai legislatori nazionali.
La società coinvolta nella vicenda aveva pubblicizzato e commercializzato sul mercato italiano e su quello europeo un puzzle raffigurante l’Uomo Vitruviano, in violazione delle disposizioni italiane in materia.
Infatti, ai sensi degli artt. 107 e 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, le riproduzioni di un bene culturale e il loro utilizzo a scopo di lucro non sono vietati in linea di principio, ma sono subordinati ad autorizzazione da parte degli enti pubblici territoriali che abbiano in consegna il bene e al pagamento di canoni di concessione e corrispettivi (nella misura stabilita sempre dall’autorità che ha in consegna il bene).
Nel caso in esame, tuttavia, nessuno dei due requisiti era stato rispettato. La società non aveva ottenuto (e, peraltro, nemmeno richiesto) l’autorizzazione alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, articolazione periferica del ministero della Cultura, che custodisce ed espone l’opera, né tantomeno, conseguentemente, aveva corrisposto all’Amministrazione alcun canone di concessione o corrispettivo. Per di più, la commercializzazione dei puzzle era continuata anche dopo la diffida.
Emerso il problema, le parti avevano inutilmente tentato di raggiungere un accordo relativo alla distribuzione del prodotto in Italia e all’estero. Fallita la trattativa, il ministero e le Gallerie si erano rivolti al Tribunale di Venezia, ottenendo un’ordinanza inibitoria [5] con la quale era stato impedito l’“utilizzo a fini commerciali dell’immagine dell’opera “Uomo Vitruviano” di Leonardo da Vinci e della sua denominazione, in qualsiasi forma e in qualunque prodotto e/o strumento, anche informatico sui propri siti internet e su tutti gli altri siti e social network di loro competenza”. A tale ordinanza cautelare non era seguita un’azione di merito di fronte al giudice italiano.
A questo punto, la società ha proposto dinanzi al Landgericht (Tribunale) di Stoccarda un’azione di accertamento negativo volta a far dichiarare l’assenza di qualsiasi diritto in capo al ministero e alle Gallerie di inibire l’utilizzo dell’immagine del bene al di fuori dei confini italiani. In tale sede, la società ha contestato la portata territoriale della normativa italiana e anche, più radicalmente, la conformità della disciplina italiana al diritto dell’Unione europea, affermando che la normativa italiana verrebbe a creare un diritto di privativa “ad infinitum”, in contrasto con la tutela unionale del diritto d’autore prevista dalla Direttiva 2006/116/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, concernente la durata di protezione del diritto d'autore e di alcuni diritti connessi, la quale pone, invece, dei limiti temporali alla durata dei relativi diritti.
Il ministero e le Gallerie si sono opposte contestando, in via principale, la giurisdizione del tribunale tedesco (sia sulla base dell’esistenza della decisione italiana, sia eccependo la propria immunità dalla giurisdizione in considerazione della loro natura pubblica) e sostenendo, in subordine, l’applicabilità della legge italiana.
A seguito di un ragionamento articolato - ma, come si dirà, non esente da criticità - il Tribunale di Stoccarda si è espresso a favore della società ricorrente, dichiarando l’inesistenza di un diritto in capo al ministero in grado di inibire l’utilizzo dell’immagine al di fuori del territorio italiano.
3. La competenza giurisdizionale a decidere della controversia
Il caso richiedeva, innanzitutto, di verificare l’esistenza della giurisdizione a decidere della controversia in capo al giudice tedesco.
Il primo punto affrontato dal Tribunale di Stoccarda è di diritto interno, ma il ragionamento merita attenzione. La sentenza indaga la natura della lite, ovverosia se essa sia inquadrabile o meno quale controversia in materia civile ai fini del riparto interno dell’ordinamento tedesco tra giurisdizione civile, amministrativa e penale (cfr. § 13 Gerichtsverfassungsgesetz). In maniera peculiare, la sentenza deduce la natura civile della causa, da un lato, prescindendo dalla natura pubblicistica delle pertinenti norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio italiano su cui si fondava l’originaria pretesa inibitoria, e, dall’altro, constatando che il procedimento italiano si era svolto di fronte a un tribunale civile.
Sotto il primo profilo - natura dell’art. 108 d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 - la decisione dichiara che una legge straniera al di fuori dell’ordinamento di provenienza non ha valore di “hoheitliches” (lett. “atto sovrano”), ma di “ein zivilrechtliches Handeln zu beurteilen” (lett. “come atto di diritto civile da giudicare”) [6]. Si nota sin d’ora che la scelta terminologica appare piuttosto singolare e non in linea con i principi del diritto internazionale privato.
Sotto il secondo profilo - natura del procedimento italiano - la scelta di giustificare la propria giurisdizione interna alla luce dell’autorità giurisdizionale adita in Italia appare, quanto meno, singolare. La natura del giudice italiano dovrebbe essere irrilevante ai fini del riparto di giurisdizione interno tedesco, in quanto l’individuazione del giudice italiano dipende, ovviamente, da criteri di riparto interno previsti dal diritto italiano che sono evidentemente inapplicabili alle corti tedesche e per esse irrilevanti. In questo senso si pone l’approccio adottato a livello di diritto dell’unione per identificare la natura civile di una controversia. In particolare, l’art. 1 del Regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2012, “concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale” (c.d. Regolamento Bruxelles I-bis) precisa che esso si applica in materia civile e commerciale “indipendentemente dalla natura dell’autorità giurisdizionale”.
Il legislatore europeo si dimostra consapevole del fatto che la ripartizione delle competenze interne tra autorità giurisdizionali è strettamente legata da ragioni storiche, politiche e giuridiche che variano nei singoli ordinamenti. Pertanto, la circostanza che un ordinamento attribuisca una determinata controversia alla cognizione della autorità giurisdizionale civile, autorità giurisdizionale amministrativa o a quella penale non è di per sé dirimente per accertare la natura della lite in questione in assoluto e con riferimento ai criteri di individuazione valevoli in altri ordinamenti.
Il riferimento alla ripartizione giurisdizionale interna italiana appare ancor più singolare se si considera che la sentenza, nel prosieguo, prescinde completamente da tale procedimento, da un lato, affermando espressamente che la causa proposta in Italia e quella proposta in Germania sono diverse e, dall’altro, negando che l’ingiunzione del Tribunale di Venezia produca effetti al di fuori dell’Italia.
In ogni caso, confermata la sussistenza della giurisdizione civile tedesca, il Tribunale di Stoccarda procede a verificare la propria competenza: competenza giurisdizionale ai sensi del Regolamento Bruxelles I-bis e competenza per materia e territorio ai sensi del codice di procedura civile tedesco (cfr. § 13 e § 17 Zivilprozessordnung).
Ai fini internazional-privatistici, trattandosi di azione di accertamento negativo, la competenza giurisdizionale si basa sul foro che potrebbe essere adito dal convenuto laddove volesse intentare la causa. Conseguentemente, il Tribunale dichiara correttamente la propria giurisdizione sulla base del c.d. forum rei, i.e. il foro del convenuto (ex art. 4(1) del Regolamento Bruxelles I-bis) e del foro unico in presenza di pluralità di convenuti (ex art. 8, n. 1 del Regolamento Bruxelles I-bis) [7].
Sul punto si noti che la fattispecie in oggetto - apparendo riconducibile alla categoria dell’illecito extracontrattuale - rientra tra i casi in cui il Regolamento Bruxelles I-bis prevede dei fori alternativi. A fianco del forum rei quale foro generale ex art. 4(1), infatti, è previsto che un’azione di responsabilità aquiliana possa essere iniziata anche presso il c.d. forum damni (i.e. “il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”) ex art. 7, n. 2.
Nella vicenda in esame, dunque, sia il giudice italiano che quello tedesco hanno fatto corretta applicazione della disciplina del Regolamento Bruxelles I-bis per fondare le rispettive giurisdizioni. Il primo ha applicato la regola del foro speciale [8], mentre il secondo ha utilizzato quella del foro generale.
Si nota ulteriormente che i fori speciali possono manifestare degli elementi di problematicità proprio in presenza di azioni di accertamento negativo. Difatti, i fori alternativi di cui all’art. 7 del Regolamento Bruxelles I-bis nascono al fine di agevolare la buona amministrazione della giustizia, garantendo la certezza del diritto e la prevedibilità del foro per il convenuto in presenza di ipotesi in cui vi sia un collegamento particolarmente stretto tra la controversia e una determinata autorità giurisdizionale. Così, oltre al forum damni, rientrano ad esempio tra i fori alternativi il luogo di esecuzione dell’obbligazione nelle controversie contrattuali (art. 7, n. 1), il luogo dove è stata esercitata l’azione penale in caso di risarcimento danni da reato (art. 7, n. 3) o, ancora, il luogo dove il bene si trova in caso di azione di restituzione di beni culturali (art. 7, n. 4).
In presenza di azioni di accertamento negativo, i fori speciali fanno in modo che sia il potenziale convenuto divenuto attore a decidere il foro, potendo così influenzare indirettamente l’esito della controversia. Tale ipotesi si è appunto concretizzata nel caso di specie: dal momento in cui la società ha scelto di rivolgersi al giudice tedesco, ha creato la possibilità per la propria difesa di contestare l’applicabilità della normativa pubblicistica italiana al di fuori dei confini nazionali, come si dirà meglio nel prosieguo della trattazione.
Sebbene nel caso di specie il giudice tedesco costituisca l’autorità giurisdizionale del foro generale, si ricorda che proprio il rischio di forum shopping aveva fatto sì che già in vigenza dell’art. 5 del precedente Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, “concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale” (c.d. Regolamento Bruxelles I) si fosse discussa l’opportunità di consentire l’applicabilità dei fori speciali in presenza di azioni di accertamento negativo. Nello specifico, si era messo in dubbio la loro applicabilità, ritenendo che la loro previsione costituisse un’alternativa a disposizione della sola parte attrice nell’azione positiva. La Corte di giustizia, tuttavia, ha escluso qualsiasi conflitto tra la facoltà del potenziale convenuto dell’azione positiva di adire i fori speciali e la finalità dei fori stessi, ammettendo, dunque, la libera scelta del foro anche in presenza di azioni negative [9].
Sul tema del rapporto tra l’azione promossa in Germania e la precedente radicata in Italia si tornerà più avanti. Quello che si vuole qui preliminarmente sottolineare è che il Tribunale tedesco correttamente ha confermato la propria giurisdizione sulla controversia e che l’alternatività dei fori, come stabilita oggi dal Regolamento Bruxelles I-bis (e, prima, dal Regolamento Bruxelles I), ha permesso al convenuto originario di instaurare una seconda causa in un foro diverso da quello originariamente scelto con l’instaurazione dell’azione cautelare, un foro che era stato volutamente evitato dall’attore dei primo giudizio.
Sotto ulteriore profilo, le convenute hanno eccepito in via pregiudiziale la propria immunità dalla giurisdizione tedesca in conseguenza della loro natura pubblica.
La questione merita di essere approfondita. L’idea che vi siano limiti alla possibilità di convenire in giudizio i rappresentanti di uno Stato straniero ha radici lontane, che risalgono al principio del par in parem non habet imperium. Si trova traccia di tale principio - seppur in una prospettiva interna, di rapporti tra titolari di poteri equivalenti - nell’ordinamento ecclesiastico medievale (su tale base, papa Innocenzo III ha giustificato l’emissione di un decreto in contrasto con un canone del suo predecessore Alessandro III e papa Gregorio IX ha affermato la non vincolatività delle regole contenute nel testamento di Francesco d’Assisi rispetto al suo successore a capo della confraternita in quanto, appunto, soggetti posti in una posizione di parità [10]. Successivamente, la portata del principio è stata estesa alle relazioni tra entità sovrane distinte, come rinvenibile nel De Monarchia di Dante (1312) [11].
Da tale originario principio è stato in seguito dedotto quello del par in parem non habet jurisdictionem, che esonera le decisioni sovrane di uno Stato dal controllo a opera di tribunali stranieri. Il principio è attualmente cristallizzato in una consuetudine internazionale che ne definisce i limiti e che vincola naturaliter la comunità internazionale [12].
Nel tempo, l’opinio iuris sulla portata della consuetudine si è andata modificando, passando da una concezione assoluta in base alla quale uno Stato non può - salvo rinuncia - essere convenuto in giudizio di fronte a un tribunale straniero (c.d. teoria dell’immunità assoluta) a una concezione relativa che circoscrive l’estensione della norma ratione materiae (c.d. teoria dell’immunità relativa o ristretta) [13].
Ai sensi della teoria dell’immunità relativa, gli Stati non sarebbero esentati dalla giurisdizione straniera sempre e comunque, ma solamente laddove la causa attenga alla funzione pubblica da essi esercitata. La teoria si ricollega, dunque, alla nota distinzione tra cc.dd. acta iure imperii e cc.dd. acta iure gestionis, la cui linea di demarcazione si definisce con riferimento all’esercizio di prerogative sovrane. In tale prospettiva, pertanto, solamente in presenza di atti sovrani è inibito alle autorità giurisdizionali nazionali di giudicare uno Stato straniero o di emettere nei suoi confronti misure cautelari ed esecutive. Diversamente, gli Stati sono sottoponibili alla giurisdizione straniera nell’ipotesi in cui le controversie siano collegate all’esercizio di funzioni iure privatorum [14].
La distinzione, chiara in linea di principio, risulta sovente tutt’altro che pacifica in concreto. Per tentare di fornire un supporto ermeneutico, nel tempo, sono stati individuati diversi criteri applicativi. Si è così suggerito, di volta in volta, di considerare la natura dell’atto, lo scopo dell’atto, la natura del rapporto (se, cioè, lo Stato agisca in veste di ente autoritativo) o, ancora, la funzione svolta dallo Stato (con l’immunità riconosciuta solamente in presenza di funzioni essenziali identificate dallo stesso diritto internazionale: c.d. teoria funzionale).
Al contempo, i legislatori - nazionali e internazionale - intervenuti in materia hanno cercato di ovviare alla nebulosità della distinzione, attraverso la formulazione di una lista esaustiva di ipotesi che includesse, a seconda dell’approccio, i casi di immunità (Convenzione di Basilea “sull’immunità degli Stati”, del 1972 [15]) oppure i casi esclusi dall’immunità (così, Convenzione delle Nazioni Unite “sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni”, del 2004, Stati Uniti d’America [16], Gran Bretagna [17], Australia [18]), definendo l’opposta categoria per esclusione.
Confrontando i diversi formanti è possibile individuare, in via generale, un nucleo di funzioni ritenute pacificamente sovrane, tra cui l’amministrazione della giustizia, l’esercizio di funzioni militari [19] e di politica estera, l’attività legislativa [20]. Al di fuori di tali ambiti, la distinzione concreta viene effettuata considerando la natura del rapporto giuridico e, dunque, valutando se lo Stato abbia agito iure publico nell’esercizio del suo potere sovrano oppure iure privatorum, adottando i criteri interpretativi in quel momento dominanti [21]. In tale prospettiva, sono stati fatti rientrare tra gli atti iure imperii i provvedimenti di confisca e di nazionalizzazione e l’attività giudiziaria e di polizia [22], mentre tra gli atti iure gestionis sono stati compresi la locazione e vendita di immobili e la compravendita e fornitura di merci e servizi [23].
Viene ricondotta alle attività iure privatorum anche l’emissione di titoli di Stato in quanto - a prescindere dalle finalità ulteriori della raccolta di capitali - il fine diretto e immediato alla base dell’attività giuridica è quello di ottenere liquidità sui mercati, in termini non dissimili da quelli di un soggetto privato [24]. Un tale conclusione, tuttavia, vale solo nella misura in cui lo Stato emittente non intervenga successivamente in via legislativa - e, dunque, con un atto di chiara natura sovrana - a modificare le condizioni dei titoli, estinguendoli. Siffatta modalità di intervento, in quanto estranea alla sfera di attività dei soggetti privati, è considerata coperta dal principio di immunità statale [25].
Alla luce delle coordinate ermeneutiche che si sono esposte, pare obiettivamente difficile ritenere fondata l’eccezione sollevata dal ministero e ricondurre, così, la vicenda in esame a una delle ipotesi di immunità giurisdizionale statale. La causa, infatti, non ha ad oggetto alcun atto dello Stato italiano, né una sua azione illecita rispetto a cui sia possibile valutare se il comportamento statale rientri tra gli atti compiuti nell’esercizio delle attività sovrane eventualmente coperti da immunità. Al contrario, la controversia riguarda l’accertamento e le conseguenze derivanti da un allegato illecito extra-contrattuale compiuto dalla parte privata (la società attrice) e mira, per gli effetti, ad accertare la inesistenza di un diritto in capo alla parte pubblica sorto a seguito dell’illecito. In questo senso, si nota che la causa non attiene a un potere inibitorio esercitato dal ministero a valle di un procedimento amministrativo (nel qual caso si potrebbe eventualmente ragionare di utilizzo di poteri sovrani da parte dell’autorità pubblica). Il potere inibitorio è conferito all’autorità giudiziaria stessa quale rimedio per la violazione delle norme in materia di utilizzo di riproduzioni di beni culturali.
Si comprende quindi perché l’eccezione paia in effetti priva di fondamento. Più che il tema dell’immunità giurisdizionale, la questione pare riguardare il tema dell’applicazione di norme pubbliche straniere. Ma prima di trattare tale profilo si deve preliminarmente affrontare un’ulteriore questione di rito, quella della preesistenza di un provvedimento italiano e, dunque, della possibilità che la decisione italiana abbia consumato in concreto il potere del giudice tedesco di esaminare la controversia.
5. Ne bis in idem? Il rapporto tra azione cautelare e azione di merito e le conseguenze sull’efficacia della decisione
Accertata la giurisdizione in capo al Tribunale tedesco e la infondatezza dell’eccezione in materia di immunità, la disanima della questione richiede di verificare il rapporto tra azioni esperite in fori diversi.
Come noto, per far fronte alle incertezze legate all’esistenza di procedimenti paralleli, nel corso dei secoli, sono state variamente sviluppate a seconda degli ordinamenti, disposizioni in materia di litispendenza e ne bis in idem [26]. Si tratta, naturalmente, di due facce della stessa medaglia, che si distinguono a seconda che si prendano in esame procedimenti giudiziari instaurati parallelamente o, all’opposto, l’uno successivamente alla definizione dell’altro, e che sono finalizzate a prevenire decisioni contrastanti in controversie considerate identiche [27].
A livello europeo, il Regolamento Bruxelles I-bis affronta la questione agli artt. 29/34 (in materia di litispendenza e connessione di cause) e agli artt. 36 (sul riconoscimento delle decisioni straniere) e 52 (sul riesame delle decisioni straniere). Senza entrare nel dettaglio, basti qui ricordare che - in presenza di procedimenti paralleli - il legislatore europeo prevede in via generale (salvo casi specifici) la sospensione del giudizio da parte dell’autorità adita successivamente, mentre - in presenza di una decisione già emessa in un altro Stato membro - il riconoscimento automatico della stessa e il divieto di procedere a un riesame del merito.
Nel caso di specie, il problema del rapporto tra la decisione giudiziaria tedesca e quella italiana si pone potenzialmente sotto due profili: il primo riguarda la configurabilità di una identità di cause quando una sia di accertamento positivo e, l’altra, negativo; il secondo attiene al rapporto tra azione cautelare e azione di merito.
Sotto il primo profilo - azione di accertamento negativo e azione positiva - preme ricordare che la nozione di identità di cause, elaborata principalmente ai fini della litispendenza, è intesa in senso ampio. La ratio della norma, collegata all’esigenza di scongiurare il rischio di sentenze tra loro incompatibili, verrebbe infatti compromessa da una lettura particolarmente ristretta della nozione di identità. Sarebbe, infatti, assai agevole aggirarne i limiti se una qualsiasi variazione - anche minima - del tema decidendum fosse sufficiente a escludere l’identità delle cause.
Pertanto, ai fini della litispendenza (ma anche ai fini del ne bis in idem), non è richiesto che le azioni siano perfettamente identiche, ma è sufficiente che siano congruenti a un livello tale da comportare il rischio di un contrasto tra giudicati [28]. Così, vi è identità tra cause anche qualora l’oggetto di una causa costituisca il presupposto logico della domanda oggetto di un’altra causa o quando, pur in presenza di domande diverse, la situazione sostanziale sia unica (si pensi a una domanda di alimenti nei confronti del padre e a una successiva causa volta all’accertamento della paternità dello stesso soggetto) [29]. Bisognerà, dunque, in concreto guardare al rapporto giuridico fondamentale e all’identità delle parti, indipendentemente dalla posizione processuale da loro assunta nei due procedimenti.
La Corte di giustizia ha avuto modo di esprimersi con riferimento specifico all’identità di causa tra azioni di accertamento positivo e azioni di accertamento negativo in presenza di un illecito aquiliano, confermando l’identità tra azione di accertamento negativo di responsabilità intrapresa dal presunto danneggiante e la successiva azione di risarcimento del danno proposta dal danneggiato [30].
Pertanto, si può conclusivamente ritenere che pur in presenza di un’azione negativa e di un’azione positiva vi possa astrattamente essere identità di cause e che, quindi, il tribunale successivamente adito possa essere tenuto a sospendere il giudizio sulla base della normativa in tema di litispendenza o a rigettare la propria giurisdizione sulla base della presenza di una previa decisione. In altre parole, la circostanza che - nel caso in esame - la domanda posta innanzi al tribunale tedesco sia stata formulata in senso negativo non esclude di per sé che le parti, il petitum e la causa petendi siano sostanzialmente identiche a quelle della domanda formulata nel procedimento italiano.
A conclusioni diverse si deve invece pervenire con riferimento al secondo profilo, dinanzi indicato, relativo alla natura delle due azioni. Sebbene infatti, a prima vista, le due azioni possano apparire identiche, nel senso testé indicato, esse presentano natura processuale diversa. L’azione instaurata in Italia è stata intrapresa ex 700 c.p.c. e, pertanto, si tratta di azione cautelare; l’azione instaurata in Germania è, invece, dichiaratamente un’azione di merito (seppure, come visto, con contenuto negativo). Pertanto, l’ulteriore aspetto da considerare è se un’azione cautelare e la relativa azione di merito possono definirsi cause identiche.
Come noto, i provvedimenti cautelari hanno tradizionalmente ricevuto una disciplina specifica, diversa da quella delle decisioni di merito, in particolare - quanto agli effetti - con riferimento al loro carattere provvisorio.
Anche dopo il superamento nell’ordinamento italiano, per effetto della legge 14 maggio 2005, n. 80, del nesso di strumentalità necessaria con la successiva azione di merito, quest’ultima - sebbene adesso rivesta carattere meramente eventuale - non ha perso il suo significato proprio.
Di conseguenza, ancorché la mancata successiva proposizione dell’azione di merito abbia l’effetto di mantenere indefinitamente in vita il provvedimento cautelare, nella misura in cui esso sia idoneo ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, gli effetti delle due tutele continuano a non essere equivalenti.
La scelta di non attivare la tutela ordinaria non trasforma, dunque, il provvedimento cautelare in una sentenza di merito. Se è pur vero che - in assenza di una decisione sul merito - il provvedimento d’urgenza finisce per regolamentare in via definitiva la controversia tra le parti, tale effetto è pur sempre conseguenza di meccanismi di diritto sostanziale (quale, la prescrizione del diritto o l’usucapione del bene), mentre solo nel caso della sentenza di merito esso si ricollega al passaggio in giudicato della pronuncia giudiziale. Pertanto, nonostante possa sopraggiungere un momento in cui l’azione di merito non è più concretamente esperibile, il provvedimento cautelare non è comunque di per sé mai in grado di acquisire forza di giudicato e di produrre i relativi effetti [31]. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 669-octies, u.c. c.p.c. esso non può essere invocato in un diverso procedimento.
In tale contesto, la differenza tra le due tutele è tale da escludere la identicità delle relative azioni. Dunque, si può affermare che la presenza del provvedimento cautelare non osta di per sé all’instaurazione di una successiva azione di merito. Al contrario, quest’ultima ne costituisce il suo naturale sviluppo.
Del resto, anche nel nostro diritto interno, gli elementi di differenziazione tra le due forme di tutela si rispecchia nella competenza a conoscere delle relative azioni, la quale non sempre è attribuita al medesimo giudice. Così, ad esempio, per le cause di merito di competenza del giudice di pace, la cognizione sulla relativa azione cautelare spetta al tribunale (cfr. art. 669-ter c.p.c.).
In presenza di fattispecie con elementi di estraneità, la questione diventa ancora più manifesta. I collegamenti tra cautelare e merito non tolgono che il giudice di uno Stato possa avere la competenza a decidere della domanda cautelare, con o senza la competenza a decidere il merito. Lo stesso ordinamento italiano prevede espressamente che pur in assenza di competenza giurisdizionale sul merito, il giudice italiano possa comunque essere adito in via cautelare [32]. Tale principio è sancito anche a livello europeo. Nello specifico - a prescindere dalla giurisdizione sul merito - i provvedimenti cautelari possono comunque essere richiesti di fronte all’autorità giurisdizionale di altro Stato membro, purché questa ne abbia l’autorità ai sensi della lex fori (Regolamento Bruxelles I-bis, art. 35).
Si contempla espressamente, dunque, quale ordinaria modalità di regolazione della complessità processuale, la possibile scissione tra giudici diversi della capacità a conoscere su azioni cautelari e azioni di merito.
Di conseguenza - escluso che tra un’azione cautelare e una di merito si possa porre un problema di incompatibilità per prevenire il contrasto tra giudicati (poiché, come dinanzi ricordato, un giudicato è in radice escluso in caso di azione cautelare) - si deve anche escludere che si imponga la concentrazione dinanzi al medesimo giudice delle due tutele processuali, che rimangono invece tra loro nettamente distinte, per funzioni e per disciplina.
Ed è proprio con riferimento a questo profilo che il Tribunale di Stoccarda ha - correttamente - ritenuto di poter esaminare la controversia nel merito. Il giudice tedesco ha, infatti, escluso l’identità tra le azioni, proprio in ragione del loro diverso carattere e funzione processuale (cfr. § 40 della sentenza).
In tale contesto, si nota che a una conclusione diversa si sarebbe potuti giungere ove - all’azione cautelare originariamente intrapresa dinanzi al giudice italiano - avesse fatto seguito una corrispondente azione di merito di fronte alla medesima autorità giurisdizionale, che avrebbe potuto impedire la disamina del merito da parte del giudice tedesco, in conseguenza degli effetti della previa decisione sul merito.
6. La legge applicabile: la vocazione universalistica della normativa italiana e il principio dell’inapplicabilità a priori delle norme pubbliche straniere
Il Tribunale tedesco, ritenuto correttamente di poter decidere la controversia, avrebbe dovuto procedere a identificare la legge applicabile. Ciò, tuttavia, non è avvenuto.
La decisione si è invece limitata - in negativo - ad escludere l’applicabilità della legge italiana, senza individuarne un’altra. Il ragionamento alla base della sentenza è il seguente: il provvedimento giudiziario italiano non produce effetti al di fuori dell’Italia in quanto basato sulle disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, le quali a loro volta non troverebbero applicazione al di fuori del territorio italiano, pena la violazione del principio di sovranità. Pertanto, i convenuti italiani non possono né invocare tale normativa né avvalersi del provvedimento cautelare che da tale normativa promana. In assenza di altre basi giuridiche allegate o evidenti, il provvedimento ingiuntivo italiano è da considerarsi inesistente.
In particolare, la sentenza statuisce che “dass ein italienisches Gesetz, wie dies zum Schutzes des kulturellen Erbes, nur auf dem Staatsgebiet Italiens Gültigkeit besitzt. Für eine Geltung außerhalb des italienischen Staatsgebiets fehlt dem Staat Italien die Regelungsbefugnis. Die gegenteilige Auffassung verletzt die Souveranität der einzelnen Staaten und ist daher abzulehnen” [33].
Tale affermazione appare in linea con quanto affermato nell’apertura della decisione laddove, come dinanzi ricordato, il Tribunale ha fatto riferimento alla legge straniera quale “ein zivilrechtliches Handeln zu beurteilen” (lett. “atto di diritto civile da giudicare”).
Tre appaiono i possibili significati astrattamente attribuibili a tale affermazione: 1) esclusione categorica dell’applicabilità della legge italiana in quanto legge straniera; 2) esclusione dell’applicabilità della legge italiana in quanto norma di diritto pubblico; 3) esclusione dell’applicabilità della legge italiana a fatti avvenuti in territorio non italiano.
La prima ricostruzione sembra in realtà più in linea con il dato letterale, che nella sua apparente categoricità, pare negare in radice i principi alla base del diritto internazionale privato, finendo con il respingere, in linea di principio, l’applicabilità nell’ordinamento tedesco di qualsivoglia legge straniera.
Laddove il giudice tedesco invece -seppur sulla base di un ragionamento non esplicitato - avesse inteso escludere l’applicazione della legge italiana alla controversia in quanto norma di diritto pubblico, si nota che il tema è connesso al concetto di sovranità nazionale e alla sua dimensione territoriale.
Ad avere carattere rigidamente territoriale, tuttavia, sarebbero appunto solo le norme di diritto pubblico, in quanto aventi precipuamente carattere politico [34]. In base a tale principio, dunque, le norme di diritto privato troverebbero applicazione in un ordinamento straniero, laddove richiamate in base al diritto internazionale privato o da una valida clausola di scelta di legge delle parti.
Poiché le previsioni del d.lg. n. 42/2004 contengono innegabilmente regole pubblicistiche, si potrebbe dubitare della loro applicabilità al di fuori dell’ordinamento italiano. Si deve, tuttavia, notare che l’esistenza e la portata del citato principio di categorica inapplicabilità a priori delle norme pubbliche straniere è stato messo in discussione nel corso degli anni [35].
La questione è stata affrontata a livello internazionale da due risoluzioni dell’Institut de Droit International, rispettivamente nel 1975 (Risoluzione di Wiesbaden) [36] e nel 1977 (Risoluzione di Oslo) [37].
In quest’ultima, l’Istituto affronta la questione da una prospettiva che non riguarda direttamente l’applicabilità delle norme di diritto pubblico, ma la ricevibilità di domande giudiziarie da parte di un’autorità straniera. Secondo la risoluzione dell’Istituto - che richiama la già menzionata distinzione tra acta jure imperii e acta jure gestionis - l’inammissibilità di azioni giudiziarie esperite da autorità straniere potrebbe riguardare esclusivamente le domande fondate su disposizioni di diritto pubblico che siano relative all’esercizio di poteri pubblici, rimanendo comunque escluse - anche all’interno di tale categoria - le ipotesi giustificate sulla base di esigenze derivanti dal principio di cooperazione internazionale o da interessi comuni dello Stato del foro e dello Stato parte del giudizio.
Il caso in esame esula da tale ultima ipotesi se non altro perché l’attore non è l’autorità pubblica straniera, ma la parte privata. Peraltro, anche laddove fosse stato il ministero italiano ad adire il Tribunale tedesco, sembra potersi escludere che le pertinenti norme italiane - sebbene di diritto pubblico - attribuiscano poteri equiparabili agli acta jure imperii.
La Risoluzione di Wiesbaden, invece, contesta direttamente il principio in discussione, ritenendolo privo di un valido fondamento teorico o pratico e, in realtà, potenzialmente controproducente, in particolare avuto riguardo alle esigenze di cooperazione internazionale. Pertanto, essa afferma che l’applicazione di una legge pubblica straniera non dovrebbe mai essere esclusa a priori, ma solo a seguito di una comprovata contrarietà della stessa all’ordine pubblico nazionale del foro.
Nel caso in esame, il Tribunale tedesco ha omesso qualsiasi valutazione sulla eventuale contrarietà della disposizione italiana all’ordine pubblico, ma ne ha semplicemente escluso a priori l’applicabilità.
Laddove il Tribunale avesse effettivamente proceduto a esaminare la questione, difficilmente avrebbe potuto identificare una violazione dell’ordine pubblico interno. Sul punto, si noti che, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte attrice (ma non scrutinato dal Tribunale, che lo ha ritenuto assorbito), non solo la previsione italiana non pare contraria al diritto dell’Unione europea, ma sembra invece trovare in esso uno specifico fondamento. Si tratta della Direttiva (UE) 2019/1024, relativa all’apertura dei dati e riutilizzo dell’informazione del settore pubblico [38].
Tale Direttiva - nei termini recepiti anche dalla corrispondente legge di attuazione tedesca - prevede il riutilizzo gratuito dei documenti, con esclusione di quelli in possesso, tra gli altri, a biblioteche, musei e archivi (art. 6 Direttiva; § 10 della legge di attuazione tedesca, Gesetz vom 16.07.2021 - BGB l. I 2021, Nr. 46 vom 22.07.2021, S. 294) per i quali è ammessa espressamente la possibilità di richiedere un corrispettivo in denaro, a fronte della fornitura e dell’autorizzazione al riutilizzo dei documenti [39].
In siffatto contesto normativo, pare difficilmente sostenibile che una norma che prevede la corresponsione di un corrispettivo per il riutilizzo di un bene conservato in un museo quale quella italiana possa essere considerata contraria all’ordine pubblico di uno Stato membro dell’Unione europea, che tale principio ha invece espressamente codificato. Per le stesse ragioni, la norma italiana non sembra poter essere ragionevolmente ritenuta in contrasto con i principi stabiliti dal diritto della proprietà intellettuale a livello europeo.
Qualora, infine - e passiamo così alla terza ipotesi dinanzi formulata - si dovesse ritenere che la decisione tedesca si sia riferita al principio di territorialità per distinguere tra l’utilizzo dell’immagine in territorio italiano (soggetto al diritto italiano) e l’utilizzo dell’immagine in territorio tedesco (sottoposto, invece, al diritto tedesco), il Tribunale avrebbe dovuto quanto meno verificare se - ai sensi del diritto tedesco - lo Stato italiano potesse pretendere dalla società l’astensione dall’uso delle riproduzioni e il risarcimento il danno. Senonché, manca totalmente, nella pronuncia in esame, qualsiasi tentativo di ricostruire la fattispecie ai sensi dell’ordinamento tedesco.
Inoltre, anche in questa eventualità, il ragionamento sembrerebbe carente sotto un ulteriore profilo. Il luogo di utilizzo dell’immagine, infatti, non basta ad attrarre la fattispecie in una dimensione meramente nazionale (tedesca). Le parti lese, la mancata autorizzazione alla riproduzione, la perdita patrimoniale derivante al mancato pagamento delle tariffe e l’eventuale lesione del diritto all’immagine del bene culturale rimarrebbero pur sempre legate al territorio italiano.
Tale precisazione è di importanza cruciale, in quanto trattandosi in questo caso di fattispecie transnazionale si rende necessario l’identificazione della legge applicabile. In particolare, ai sensi del Regolamento (CE) n. 864/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (c.d. Roma II), il criterio generale di collegamento per l’identificazione della legge applicabile in presenza di illecito extracontrattuale non è il luogo dove è avvenuto l’utilizzo dell’immagine (in ipotesi, la Germania), ma proprio il luogo dove si verifica il danno conseguente (e, dunque, l’Italia) (art. 4). Pertanto, la circostanza che l’eventuale sfruttamento dell’opera avvenga sul territorio tedesco non vale ad escludere l’applicazione della legge italiana all’illecito.
L’applicazione di specifiche previsioni straniere potrà essere esclusa solo laddove essa risulti “manifestamente incompatibile” con l’ordine pubblico del foro in cui devono essere applicate (art. 26 Regolamento Roma II). Nel caso di specie, come si è detto, non solo il giudice tedesco non ha per nulla effettuato tale esame, ma in ogni caso, in concreto, pare difficilmente sostenibile l’incompatibilità (che peraltro dovrebbe essere “manifesta”) delle disposizioni italiane in questione con l’ordine pubblico tedesco.
La controversia in esame ha attirato l’attenzione di giornalisti e specialisti del settore per la notorietà delle parti coinvolte e per la rilevanza commerciale della questione. L’importanza del patrimonio culturale italiano rende la riproduzione a fini commerciali dei suoi beni culturali particolarmente redditizia e di successo sul mercato.
Come esposto, la sentenza affronta i complessi profili giuridici in maniera non totalmente convincente.
Se, infatti, paiono condivisibili le conclusioni del tribunale tedesco circa il riconoscimento della propria autorità a conoscere del caso e circa l’inidoneità dell’ordinanza cautelare del giudice italiano ad impedirne l’esame nel merito, gli ulteriori passaggi della decisione appaiono connotati da profili di criticità, a partire dall’apodittica e generale affermazione che la legge italiana avrebbe portata territorialmente limitata ai confini nazionali.
Pur immaginando di poter escludere legittimamente l’applicabilità della normativa italiana, il tribunale avrebbe comunque dovuto, preliminarmente, individuare la legge applicabile e, ai sensi di questa, verificare la fondatezza della pretesa del ministero nei confronti della società attrice.
Anche il ragionamento rispetto alla portata territoriale del provvedimento cautelare italiano pare strutturato in maniera problematica. Da un lato, il giudice afferma che il provvedimento non esiste al di fuori dell’Italia, dall’altro sostiene che l’azione iniziata di fronte al tribunale tedesco è il procedimento di merito del procedimento cautelare italiano (cfr. sent. § 40).
Ora, che un provvedimento straniero non abbia di per sé effetti al di fuori dei confini nazionali è anch’essa affermazione in contrasto con i principi internazional-privatistici in materia di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni straniere. Tale conclusione potrebbe comprendersi solo se la sentenza avesse sostenuto - come ventilato in precedenza con riferimento alla legge applicabile - che la riproduzione e la commercializzazione dell’immagine nel territorio tedesco costituiscano un fatto diverso dalla riproduzione e commercializzazione nel territorio italiano e che l’oggetto del procedimento italiano fosse esclusivamente l’attività ivi avvenuta. Siffatto ragionamento non risulta tuttavia esplicitato nella sentenza.
Per di più, nel momento in cui il giudice tedesco afferma di trattare la causa di merito, la stessa rilevanza del provvedimento cautelare avrebbe dovuto venir meno, stante la natura di per sé provvisoria di tale tipologia di provvedimento e la sua irrilevanza ai fini della decisione di merito.
Non si comprende, dunque, se il giudice tedesco abbia ritenuto effettivamente di prendere una decisione di merito (come affermato) o se, invece, si sia limitato ad accertare la portata del provvedimento cautelare italiano.
Tale ambiguità sembra doversi riconnettere alla circostanza che nel caso in esame siamo in presenza di un peculiare giudizio di merito negativo. In via ordinaria, la decisione di merito è chiamata a prendere il posto della decisione cautelare. Qui, invece, si richiede di accertare che non vi sia alcun diritto in capo ai convenuti, comprendendo il diritto all’esecuzione del provvedimento cautelare.
La causa pare presentare sotto questo profilo, dunque, una natura ibrida: un’azione di merito (negativa) consistente nell’accertare l’inesistenza di un diritto in capo ai convenuti di inibire l’utilizzo dell’immagine (a prescindere dal provvedimento cautelare) e un’azione volta ad accertare l’efficacia del provvedimento cautelare, sotto il profilo dell’eseguibilità dello stesso nell’ordinamento tedesco. L’accertamento dell’esistenza del provvedimento cautelare, difatti, non giustifica di per sé la qualifica quale merito della causa. Come già più volte sottolineato, i provvedimenti cautelari sono di per sé provvisori e destinati a essere sostituiti dalla decisione di merito.
Tale distinzione sembra quanto meno sfumare nella sentenza in esame. Se di giudizio di merito si tratta, il Tribunale avrebbe dovuto prescindere dall’ingiunzione cautelare, pena il completo snaturamento del rapporto tra quest’ultima e il giudizio di merito. Se invece lo scopo dell’azione fosse stato quello di accertare l’efficacia del provvedimento italiano [40], allora semplicemente non saremmo in presenza di un giudizio di merito. Infatti, delle due l’una: o si intende accertare l’inesistenza dei requisisti per la sua esecuzione (nei limiti ammessi dal Regolamento Bruxelles I-bis), oppure si intende affrontare la causa di merito. È da escludersi, invece, che il Tribunale possa aver inteso contestare il contenuto del provvedimento cautelare nel merito, in quanto siffatta contestazione esulerebbe dai suoi poteri, essendo rimessa agli strumenti di riesame previsti dal diritto processuale italiano.
Peraltro, si nota che il Tribunale, mentre esclude che l’autorità giudiziaria italiana possa emettere ingiunzioni che producano effetti al di fuori dell’ordinamento italiano, contemporaneamente disattende il principio enunciato e dichiara infondata la pretesa non solo rispetto l’ordinamento tedesco, ma in via generale rispetto a qualsiasi ordinamento diverso da quello italiano (§48: “Ein solcher Anspruch besteht jedoch außerhalb Italiens nicht”) [41]. In questo modo se, da un alto, afferma che il giudice italiano non può emettere un provvedimento che accerti un diritto al di fuori dei confini nazionali propri (l’Italia), dall’altro, egli stesso emette un provvedimento che nega l’esistenza del diritto non solo nel territorio nazionale proprio (la Germania), ma anche in qualsiasi territorio diverso dall’Italia. La affermata limitazione territoriale, pertanto, sembrerebbe operare solo a sfavore delle autorità italiane.
In conclusione, diversi sono i punti della decisione che non paiono pienamente convincenti. A prescindere dall’opinione riguardo l’opportunità o meno di prevedere una tutela dell’immagine di beni non protetti dalle tradizionali forme di proprietà intellettuale, quella in esame appare come un’occasione persa di analisi del rapporto tra pubblico dominio e dominio pubblico [42] dal punto di vista del diritto sostanziale, in un panorama in cui gli interessi che coinvolgono il tema rendono la questione controversa a livello internazionale.
Note
[*] Sabrina Ferrazzi, assegnista di ricerca in Diritto privato comparato, Università di Verona, Via Carlo Montanari 9, 37122 Verona, sabrina.ferrazzi@univr.it.
[1] LG Stuttgart, Urteil vom 14.03.2024 - 17 O 247/22.
[2] In realtà, tre sono le diverse società del gruppo Ravensburger coinvolte nel giudizio: la Ravensburger A.G. (società holding), la Ravensburger Verlag GmbH (società produttrice con stabilimenti in Germania e in Repubblica Ceca) e la Ravensburger s.r.l. (società controllata, delegata alla distribuzione dei prodotti in Italia). Poiché, tuttavia, tale distinzione non è qui giuridicamente rilevante, si è preferito riferirsi complessivamente alla “società Ravensburger”, al fine di agevolare la lettura.
[3] Proprio in considerazione dell’utilizzo risalente della riproduzione, nel corso del procedimento cautelare svoltosi in Italia, la società ha contestato la configurabilità del periculum in mora, allegando - senza però riuscire a provarlo - l’effettiva conoscenza della commercializzazione da parte del ministero e delle Gallerie in data significativamente anteriore all’attivazione delle tutele.
[4] Sul tema, ex plurimis, L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3; M. Modolo, La riproduzione del bene culturale pubblico tra norme di tutela, diritto d’autore e diritto al patrimonio, in Aedon, 2021, 1, pag. 30 ss.; A. Pojaghi, Beni culturali e diritto d’autore, in Dir. aut., pag. 149 ss.; G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, in Pol. dir., 2009, 4, pag. 567 ss.; G. Resta, L’immagine dei beni, in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, (a cura di) G. Resta, Utet, Torino 2011, pag. 150 ss.; E. Sbarbaro, Codice dei beni culturali e diritto d’autore: Recenti evoluzioni nella valorizzazione e nella fruizione del patrimonio culturale, in Dir. ind., 2016, Parte I, spec. pag. 77 ss.; A. Tumicelli, L’immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, 1.
[5] Tribunale di Venezia, sez. II, ordinanza del 17 novembre 2022. Per un commento sulla decisione italiana, vd. A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo), in Aedon, 2023, 2, pag. 138 ss.; K. Kurcani, La riproduzione dei beni culturali: la tutela del bene alla prova della liberalizzazione della sua immagine, in Aedon, 2023, 2, §2, pag. 146 ss.
[6] LG Stuttgart cit., § 34: “Bei der Anwendung eines Gesetzes auf einen Sachverhalt in einem anderen Staatsgebiet ist dies daher nicht als hoheitliches, sondern als ein zivilrechtliches Handeln zu beurteilen”.
[7] Come precisato nella nota n. 1, si ricorda infatti come in realtà siano tre le società del gruppo Ravensburger interessate dalla causa. Due delle tre società hanno la sede legale nella Repubblica federale di Germania.
[8] Si ricorda che la competenza del giudice italiano - avendo carattere cautelare - può fondarsi anche sulla base del combinato disposto dell’art. 35 del Regolamento Bruxelles I-bis e delle norme italiane in tema di giurisdizione.
[9] La Corte di giustizia si era espressa proprio con riferimento al foro dell’illecito, dichiarando che il fine ultimo dei fori speciali è quello di garantire la buona amministrazione della giustizia e perseguire l’economia processuale, consentendo il radicamento di una causa in un foro che presenti un collegamento particolarmente stretto con la controversia stessa. Esulerebbe, invece, qualsiasi intento di rafforzare la tutela di un soggetto debole (nel caso di specie, la presunta vittima di un illecito civile). Vd. Corte Giust. 25 ottobre 2012, C-133/11, Folien Fisher AG & Fofiter vs Ritrama spa, ECLI:EU:C:2012:664. In senso contrario, l’opinione dell’avvocato generale: A.G. Opinion (Niilo Jääskinen), 19 aprile 2012, Folien Fisher AG & Fofiter vs Ritrama spa, C-133/11, ECLI:EU:C:2012:226.
[10] Innocentius III, Prima collectio decretalium, reperibile alla pagina web https://la.wikisource.org/wiki/Prima_collectio_decretalium: “Nobis tamen per eum adempta non fuit dispensandi facultas, quum ea non fuerit prohibentis intentio, qui successoribus suis nullum potuit in hoc parte praeiudicium generare, pari post eum, immo eadem potestate functuris, quum non habeat imperium par in parem.”
Gregorius IX, Quo elongati, in: H. Grundmann, Die Bulle «Quo elongati» Papst Gregors IX., in «Archivum Franciscanum Historicum» 54 (1961), p. 21: “ad mandatum illud vos dicimus non teneri, quod sine consensu fratrum et maxime ministrorum, quos universos tangebat, obligare nequivit nec successorem suum quomodolibet obligavit, cum non habeat imperium par in parem”.
[11] Dante Alighieri, De monarchia, 1312, traduz. di Marsilio Ficino (1468), libro I, cap. XII, reperibile alla pagina web https://it.wikisource.org/wiki/Monarchia/Libro_I/Capitolo_XII: “Dovunque può essere litigio, ivi debbe essere g[i]udicio, altrimenti sarebbe la cosa inperfetta sanza la perfetta honde possa avere perfetione: è questo è inpossibile, conciosiaché Iddio et la natura nelle cose necessarie non manchino. Ma tra due principi, de’ quali nessuno è all’altro subgetto, può essere contentione, ho per colpa sua o per colpa de’ subditi: e per questo tra costoro debbe essere g[i]udicio. Et perché l’altro non può g[i]udicare dell’altro, essendo pari, bisognia che ·ssia un terzo di più anpla g[i]uriditione che ·ssopra amendun[i] questi signoreggi. Quello ho e’ sarà un prencipe, ho e’ saranno più. Se sarà uno, noi abbiàno el proposito nostro; se saranno più, possono insieme contendere, e però hanno bisognio d’un terzo sopra ·lloro g[i]udicatore. E ·ccosì ho noi proccedereno in infinito, la quale cosa essere non può, ho noi perveremo a uno principe el quale, o sanza mezo o co mezi, tutte le lite decida. Questa rag[i]one significava Aristotile quand’e’ diceva: «Le cose non vogliono essere male disposte; la moltitudine de’ prencipi è male; adunque debbe essere uno principe»“.
[12] Sull’immunità degli Stati, ex plurimis, A. Atteritano, voce Stati stranieri (immunità giurisdizionale degli), in Enciclopedia del diritto, Annali, IV, 2011, pag. 1227 ss.; E.K. Bankas, The State Immunity Controversy in International Law. Private Suits Against Sovereign States in Domestic Courts, Heidelberg, 2023; R. Luzzatto, Stati stranieri e giurisdizione nazionale, Milano, 1972: R. Nigro, Le immunità giurisdizionali dello Stato e dei suoi organi e l’evoluzione della sovranità nel diritto internazionale, Padova, 2018; M. Panebianco, Giurisdizione interna e immunità degli stati stranieri, Napoli, 1967; L.J. Pike, State immunity, in Max Plank Encyclopedia of Public International Law, 1981, vol. 10, pag. 428 ss.; L. Sbolci, voce Immunità giurisdizionale degli stati stranieri, in Digesto delle discipline pubblicistiche, VIII, Torino, 1993, pag. 118 ss.; X. Yang, State Immunity in International Law, Cambridge, 2012; H. Fox, The Law of State Immunity, Oxford, 2002.
[13] Tale cambiamento risulta essere collegato all’evoluzione del panorama industriale nel corso del XX secolo e, in particolare, al sorgere di interventi pubblici nel settore commerciale con il diffondersi di società controllate dallo Stato le quali, grazie al principio in esame, potevano fruire di un evidente vantaggio rispetto a società private concorrenti. Cfr. nell’ordinamento inglese, particolarmente resistente al cambiamento, Court of Appeal, Trendtex Trading Corpn v Central Bank of Nigeria [1977] QB 529 (CA). In questo senso, L.J. Pike, State immunity cit., pag. 430. Il passaggio a livello giuridico è testimoniato dalla c.d. Tate letter (1956) [Lettera del 19 May 1952, da parte del U.S. State Department’s Acting Legal Adviser, Jack B. Tate, all’Acting Attorney-General Philip B. Perlman, in The Department of State Bullettin, 1952, vol. 26, pagg. 984-985]. In tale comunicazione, l’allora Consigliere giuridico del Dipartimento di Stato americano dava atto del cambiamento di approccio riscontrato nelle corti straniere rispetto al tema e annunciava al Dipartimento di giustizia la decisione di adottare una nuova politica rispetto all’esenzione stessa, proprio in conformità al mutato panorama internazionale.
[14] Così, ad esempio, la Cassazione italiana ha affermato la giurisdizione italiana nei confronti ministero dei Lavori pubblici portoghese in una causa di risarcimento del danno derivante dall’annullamento di una gara decisa da un giudice portoghese. L’immunità è stata esclusa in quanto il ministero portoghese era stato convenuto non tanto nella veste di esercente poteri sovrani, ma in quanto soggetto inadempiente agli obblighi derivanti dalla normativa comunitaria (Corte cass. 15 aprile 2010, n. 8988).
[15] Convenzione sull’immunità degli Stati, Basilea, 16 maggio 1972, Serie dei trattati europei, n. 74.
[16] 1976 Foreign Sovereign Immunities Act of (FSIA).
[17] 1978 State Immunity Act.
[18] 1985 Foreign States Immunities Act.
[19] Con riferimento alle funzioni militari, si ricorda che il tema dell’immunità è stato oggetto di grande attenzione e dibattito proprio nei rapporti tra Italia e Germania in considerazione dell’accoglimento da parte dei giudici italiani di domande risarcitorie contro lo Stato tedesco per i crimini perpetrati dai militari del Terzo Reich. In particolare, la giurisprudenza italiana ha affermato che l’immunità non potesse estendersi fino a coprire le richieste di risarcimento danni derivante da crimini contro l’umanità (Corte cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 14199) o da violazioni di diritti fondamentali (Corte cass., sez. un., 11 marzo 2004, n. 5044; sent. 29 maggio 2008, n. 14209; ord., 29 maggio 2008, n. 14201). La questione è stata portata dinanzi alla Corte internazionale di Giustizia, la quale ha rifiutato l’interpretazione italiana (sent. 3 febbraio 2012, n. 143). Similmente, si è espressa anche la Cedu (es plurimis, sent. Jones e. a. vs. Regno Unito, 14 gennaio 2014). La Cassazione penale italiana si è conformata alla tesi sostenuta dalle corti internazionali (cfr. Corte cass. pen., 9 agosto 2012, n. 32139). Tuttavia, la teoria che esclude da una tutela effettiva le vittime di crimini contro l’umanità o di violazioni di diritti fondamentali è stata fatta oggetto di dubbi di costituzionalità, risolti dalla Corte costituzionale italiana nel senso che una tale portata della norma consuetudinaria crea una sproporzione tra l’obiettivo di non incidere sulla potestà di governo di un paese terzo e il sacrifico del principio di insopprimibile garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti (art. 24 Cost.) e del principio di tutela dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost). Stante il contrasto con gli artt. 2 e 24 Cost, la Corte ha dunque dichiarato non operativo il rinvio di cui all’art. 10, 1° comma Cost, rispetto alla norma sull’immunità degli Stati stranieri nella parte in cui estende l’immunità alle azioni di danni provocati da suddette violazioni (sent. 22 ottobre 2014, n. 238).
[20] BGH, 8 marzo 2016 - VI ZR 516/14, § 15, Staatenimmunität bei staatlichem Handeln nicht-hoheitlicher Natur (NJOZ 2017, 582). In dottrina, G. Dahm, Völkerrecht, vol. 1, Stuttgart, 1958, pag. 235 s.; G. Dahm, Festschrift für Arthur Nikisch, Tübingen, 1958, pag. 166 s.
[21] BGH, 8 marzo 2016 cit., § 14. In questo senso, anche giurisprudenza risalente della Corte costituzionale tedesca: BVerfG, 30 aprile 1963 - 2 BvM 1/62, Inländische Gerichtsbarkeit gegenüber ausländischem Staat bei nicht-hoheitlicher Tätigkeit (NJW 1963, 1732), at pag. 1735.
[22] Così, Corte cass. 14 novembre 1972, n. 3369, Corte cass. 12 giugno 1999, n. 328.
[23] Ex plurimis, Corte cass. 29 aprile 1961, n. 1001; Corte cass. 15 luglio 1987, n. 6171; Corte cass. 26 novembre 1983, n. 7076.
[24] Così, BGH, 8 marzo 2016 cit., § 19.
[25] In questo senso, sul caso dei bond argentini, Corte cass. 27 maggio 2005, n. 11225.
[26] Si rammenta che esse trovano già una formulazione a livello di diritto romano: nel principio del bis de eadem re ne sit actio quale effetto della litis contestatio, la prima, e nella massima res inter alios iudicatas aliis non praeiudicare, la seconda. Sul tema, Res iudicata, (a cura di) L. Garofolo, Napoli, 2015.
[27] L. Pålsson, The Institute of Lis Pendens in International Civil Procedure, in Scandinavian studies in law, 1970, n. 14, pag. 68. Sulla litispendenza internazionale, vd. C. McLachlan, Lis Pendens in International Litigation, in Recueil de cours, 2008, vol. 336.
[28] R. Fentiman, sub Art. 27, in Brussels I Regulation, (a cura di) U. Magnus/P. Mankowski, Monaco, 2012, pag. 584 ss.
[29] Vd. A.G. Opinion, (Giuseppe Tesauro), 13.07.1994, C-406/92, Tatry vs Maciej Rataj, ECLI:EU:C:1994:289; A.G. Opinion (G. Federico Mancini), 11 giugno 1987, C-144/86, Gubisch Maschinenfabrik KG v Giulio Palumbo, ECLI:EU:C:1987:279.
[30] Corte Giust. 6 dicembre 1994, C-406/92, Tatry vs Maciej Rataj, ECLI:EU:C:1994:400. In tale frangente, la Corte ha valorizzato la circostanza che l’azione risarcitoria presuppone la responsabilità del soggetto e, dunque, include al suo interno l’accertamento della responsabilità.
[31] U. Corea, Autonomia funzionale della tutela cautelare anticipatoria, in Riv. dir. proc., 2006, 4, pag. 1251 ss.; M.F. Ghirga, Le nuove norme sui procedimenti cautelari, in Riv. dir. proc., 2005, pag. 785 ss.; D. Buoncristiani, Il nuovo procedimento cautelare, in Il nuovo processo ordinario e sommario di cognizione, (a cura di) C. Cecchella, D. Amadei, D. Buoncristiani, Milano, 2006, pag. 101 ss.
[32] In questo senso, l’art. 669-ter c.p.c. riconosce la competenza del giudice che sarebbe territorialmente competente a decidere il merito, in base a materia o valore, laddove sussistesse la giurisdizione italiana.
[33] LG Stuttgart cit., § 50 “una legge italiana, come quella sulla tutela del patrimonio culturale, è valida solo sul territorio italiano. Lo Stato italiano non ha l’autorità normativa per applicarla al di fuori del territorio italiano. La tesi contraria viola la sovranità dei singoli Stati e deve quindi essere respinta”.
[34] M. Frigo, Circulation des biens culturels, détermination de la loi applicable et méthodes de règlement des litiges, The Hague, 2016, pag. 144 ss.
[35] G. Diena, Principi di diritto internazionale. Il diritto internazionale privato, Napoli, 1917, pag. 56; M. Udina, Elementi di diritto internazionale privato, Padova, 1930, pag. 56 ss.; E. Vitta, Diritto internazionale privato, Torino, vol. I, 1972, pag. 13; P. Arminjion, Les lois politique et le droit international privé, in Revue de droit international privé, 1930, 25, pag. 385 ss.; F. Rigaux, Droit publique et droit privé dans les relations internationales, Parigi, 1977, pag. 185 ss.; M. Frigo, Circulation des biens culturels, détermination de la loi applicable et méthodes de règlement des litiges cit., pag. 145 ss.; C. Roodt, Private International Law, Art and Cultural Heritage, Cheltenham, 2015, pag. 312 ss.
[36] Institut de Droit International, L’application du droit public étranger, Sessione di Wiesbaden-1975, XX Commissione (Referente: M. Pierre Lalive), reperibile alla pagina web http://www.idi-iil.org/app/uploads/2017/06/1975_wies_04_fr.pdf. Vd. anche i Lavori della 63ma Conferenza dell’International Law Association Conference [Proceedings of the Sixty-Third International Law Association Conference, Varsavia, 1988, vol. 63, pagg. 719 ss.].
[37] Institut de Droit International, Les demandes fondées par une autorité étrangère ou par un organisme public étranger sur des dispositions de son droit public, Sessione di Oslo-1977, XX Commissione (Referente: M. Pierre Lalive), reperibile alla pagina web http://www.idi-iil.org/app/uploads/2017/06/1977_oslo_01_fr.pdf.
[38] Sulla Direttiva, G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’ in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019/1024, in Aedon, 2021, 1, pag. 16 ss.; M. Arisi, Riproduzioni di opere d’arte visive in pubblico dominio: l’articolo 14 della Direttiva (EU) 2019/790 e la trasposizione in Italia, in Aedon, 2021, 1, pag. 3 ss.
[39] L’importo non deve superare i costi di raccolta, diffusione, archiviazione e conservazione dei documenti, maggiorati da un utile sugli investimenti, indicato come “ragionevole”.
[40] LG Stuttgart, cit. § 55 “Andere Anspruchsgrundlagen für den geltend gemachten Unterlassungsanspruch werden seitens der Beklagten nicht geltend gemacht und sind auch nicht ersichtlich. Demzufolge war das Nichtbestehen der Unterlassungsansprüche (ausgenommen für das Staatsgebiet von Italien) festzustellen.”
[41] “Tuttavia, una simile pretesa non esiste al di fuori dell’Italia”.
[42] Cfr. G. Sciullo, ‘Pubblico dominio’ e ‘Dominio pubblico’ in tema di immagine dei beni culturali: note sul recepimento delle Direttive (UE) 2019/790 e 2019/1024, cit.