Il Codice dei beni culturali e del paesaggio vent’anni dopo - Atti del Convegno di Firenze (24 novembre 2024)
La tutela dei beni culturali a vent’anni dal Codice Urbani [*]
di Antonio Bartolini [**]
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il contributo di Grisolia alla moderna concezione di tutela. - 3. Le tecniche di tutela tra beni e situazioni soggettive: a) la tutela pubblica dominicale; b) la conformazione della proprietà culturale; c) la tutela dei diritti della personalità. - 4. Alcuni dei problemi aperti: a) la tutela dell’immagine dei beni culturali; b) la tutela dei beni di identità culturale collettiva. - 5. Conclusioni.
Il contributo si sofferma sulla cultura materialistica che impronta il Codice dei beni culturali e del paesaggio e sulle previsioni in materia di tutela, che sono state oggetto di una stratificazione storica. Lo scritto approfondisce così, più in particolare, le due principali resistenze dell’ordinamento, entrambe di carattere culturale: la prima consiste nel non accettare il superamento della concezione nazionale del patrimonio culturale come valore patrio ed espressivo dell’identità nazionale, mentre la seconda coincide con la difficoltà a superare la concezione materiale, integrandola con quella immateriale.
Parole chiave: patrimonio culturale; Codice Urbani; tutela dei beni culturali.
The protection of cultural heritage twenty years after the Urbani Code
The article focuses on the materialistic culture that characterises the Code of Cultural Heritage and Landscape and on the provisions regarding protection, which have been subject to historical stratification. More specifically, the paper examines the two main cultural obstacles within the legal system: the first is the refusal to accept that the national concept of cultural heritage as a national treasure and expression of national identity should be superseded, while the second is the difficulty in moving beyond the material concept and integrating it with the immaterial concept.
Keywords: Cultural heritage: Urbani Code; protection of cultural heritage.
Dovendo fare un resoconto, a vent’anni di distanza, su cosa abbia funzionato o, meno, del c.d. Codice Urbani, mi rendo conto che non basterebbe una giornata per affrontare il tema, visto che tutto il Codice è improntato alla finalità di tutela e, quindi, di protezione del patrimonio culturale.
Dovrò, dunque, fare delle scelte, accantonando alcuni temi a favore di altri.
Non affronterò, innanzitutto, le questioni che ruotano intorno all’art. 9 Cost. e alla tutela come materia di potestà legislativa esclusiva statale.
Né dei temi che ruotano intorno alla semplificazione e alla celerità delle risposte da dare da parte delle autorità tutorie: per pura ragione di cronaca si segnala, tra le recentissime, la questione di costituzionalità posta dal Consiglio di Stato sulla indebita estensione alla potestà di annullamento delle autorizzazioni all’esportazione dell’art. 21-nonies legge 7 agosto 1990, n. 241, laddove limita tale potestà ad un anno [1]. Come anche delle questioni che investirono la privatizzazione del patrimonio culturale. O quello, senza pace, della latitudine e ampiezza dei poteri discrezionali dell’amministrazione tutoria [2].
Mi concentrerò, invece, sul tema che a mio modo di vedere è centrale, ovvero quello riguardante la cultura materialistica che impronta il Codice e le sue previsioni in materia di tutela.
La cultura della tutela è, infatti, tutta improntata - da sempre - all’esigenza di protezione della cosa, del bene della res: e mi sembra del resto che ciò sia del resto assolutamente naturale.
Questa stratificazione storica denota, peraltro, due resistenze, sempre di carattere culturale (cioè di intendere, in un certo modo, la tutela).
La prima è quella che non accetta di superare la concezione nazionale del patrimonio culturale come valore patrio ed espressivo dell’identità nazionale, non ammettendo l’idea che il nostro patrimonio - almeno per i beni di maggiore rilevanza - non è solo italiano, ma appartiene culturalmente, come eredità culturale, a tutta l’umanità.
Affacciandosi, dunque, il tema del patrimonio dell’umanità che ha carattere universale, e come tale tutelato dall’Unesco.
Il che implica, rispetto alla stratificazione storica della nostra tradizione, almeno due conseguenze.
Innanzitutto, un diverso modo di concepire in ambito Unesco la tutela, che non si basa sul command and control, ma sulla persuasione (blame and shame), in linea con le moderne teorie delle scienze comportamentali (nudge) [3].
In secondo luogo - ma non per ordine di importanza - un superamento della concezione materiale del patrimonio culturale, allargandola anche a quella immateriale.
E così siamo arrivati alla seconda resistenza, ovvero quella di avere difficoltà a superare la concezione materiale, integrandola con quella immateriale.
Questa difficoltà di mutare approccio trova, a mio avviso, due punti di emersione: da un lato, il tema del diritto all’immagine; dall’altro quello dei beni di identità culturale collettiva.
Ma su questi aspetti avremo modo di tornare.
Invero, l’arretratezza culturale che connota il tema della tutela non è solo del legislatore e degli apparati ministeriali, ma in qualche modo anche della nostra scienza amministrativistica che pare ancora essere ancorata a degli schemi tralatizi che privilegiano mettere al centro il tema della protezione del bene, senza avvedersi che oggi la questione della tutela si è spostata sulle situazioni soggettive e sulle loro tecniche di tutela.
Più avveduta è, invece, la giurisprudenza che, di fronte ai temi nuovi e innovativi del diritto all’immagine, ha compreso che il piano della tutela si è spostato dalla res alle situazioni soggettive, impiegando le tecniche di tutela previste per i diritti della persona.
2. Il contributo di Grisolia alla moderna concezione di tutela
La cesura tra tutela dei beni e tutela dei diritti sui beni è dovuta, a mio modo di vedere, principalmente alla ricostruzione del concetto di tutela dovuto all’ancora oggi fondamentale volume del Grisolia sulla tutela delle cose d’arte [4].
A questi spetta sicuramente il merito di aver approfondito per la prima volta il concetto giuridico di tutela.
A tal fine, Grisolia evidenzia che tutela, nel panorama giuridico, è un termine polisenso che va dal diritto privato al diritto pubblico.
Nel diritto privato indica quell’insieme di “mezzi giuridici di difesa del diritto” [5]. Nel diritto amministrativo nella tutela si fanno confluire controlli e strumenti para giustiziali, ovvero la c.d. autotutela. Concetti, peraltro, che nulla hanno a che fare con la tutela delle cose d’arte (sempre secondo Grisolia), come anche esulerebbe dal concetto di “tutela” quella prevista dal Codice civile per i beni demaniali, da intendersi come mezzo per la difesa della proprietà pubblica [6].
Grisolia, peraltro, avverte - e qui la cesura con il legame tra diritti e beni - che questo tipo di tutela dei beni demaniali non può confondersi con la “tutela delle cose di interesse storico e artistico” [7].
La tutela - sempre secondo Grisolia - è “un sistema giuridico”, con cui si manifesta l’esigenza sostanziale che il patrimonio storico sia effettivamente difeso [8].
In questo modo si vuole dar atto che con la legislazione del 1939 (la legge n. 1089) sarebbe venuta definitivamente a cadere quella contrapposizione tra diritto di proprietà pubblica e diritto di proprietà privata (quindi su una tecnica di tutela fondata sui diritti), a favore di una omnicomprensiva che prescinde dalla titolarità dei diritti e guarda a un sistema di protezione complessiva del bene.
In realtà, a mio modo di vedere, si trattò di una forzatura poiché sia la disciplina del 1939 che quella attualmente vigente, e che oggi si celebra, mantengono, seppur in una cornice unitaria, che ha sempre come finalità la protezione del bene, tecniche di tutela che hanno retaggi storici differenti.
È noto, infatti, che la tradizione preunitaria in materia di tutela delle cose d’arte in alcune esperienze giuridiche aveva anticipato quello che più tardi sarebbe stato definito come potere di conformazione della proprietà privata: è noto a tutti che dai primi del Cinquecento fino alla elaborazione più matura del Cardinal Pacca nello Stato pontificio, ma anche nel Granducato di Toscana e nel Regno borbonico, si ammetteva la possibilità di limitare la proprietà privata a tutela delle memorie e dei reperti storici.
Invece, nel Regno di Sardegna valeva il principio opposto dell’intangibilità della proprietà privata (art. 29 Statuto albertino), sicché l’unica forma di protezione delle cose storiche e artistiche era l’appartenenza pubblica. Tant’è che nella legislazione post-unitaria in caso di necessità di tutela si procedeva mediante esproprio.
L’unificazione di queste tecniche di tutela in una non ebbe, peraltro, come effetto quella di una reductio ad unitatem delle due tecniche di tutela, ovvero quella tramite l’attribuzione del diritto di proprietà alla mano pubblica, e quella di conformazione della proprietà privata, che anzi hanno sempre convissuto fino ad oggi.
Peraltro, il concetto di tutela, inteso come sistema, ha fatto dimenticare che la tutela del bene avviene mediante tecniche di tutela delle situazioni soggettive.
E così è venuta a prevalere una concezione che mette al centro il bene, invece che i diritti. E al contempo la materialità del bene, senza curarsi della sua immaterialità.
3. Le tecniche di tutela tra beni e situazioni soggettive
a) la tutela pubblica dominicale
Mi sembra, peraltro, venuto il tempo di correggere la rotta e tornare ad enfatizzare il ruolo dei diritti nell’ambito della tutela del patrimonio culturale.
Del resto, questa esigenza è stata avvertita nel campo della cultura, prima ancora che in quello giuridico [9], ove si è affermato che una lettura costituzionalmente orientata del patrimonio culturale deve spostare l’attenzione dal bene ai diritti sul bene.
Come evidenziato da Tomaso Montanari occorre che si “inizi a comprendere” che i diritti che garantisce l’art. 9 della Costituzione “non sono diritti delle cose, ma delle persone. Il suo fine non è la tutela di oggetti: ma la produzione e la redistribuzione di conoscenza, la costruzione dell’eguaglianza. E così bisognerebbe iniziare a pensare il ministero per i Beni culturali: non come un ministero degli oggetti, ma come ministero dei diritti della persona, esattamente come lo sono quelli della Salute e dell’Istruzione” [10].
E, del resto, anche la Convenzione di Faro sul cultural heritage fa leva sui diritti, ovvero il diritto all’eredità culturale come diritto dell’uomo.
Segni, peraltro, che vanno in questa direzione provengono dallo stesso Codice Urbani in cui, nel definire la tutela come quell’attività consistente “nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione”, pone, peraltro, l’accento sui diritti affermando che l’esercizio delle funzioni di tutela “si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale” (art. 3, commi 1 e 2, d.lg. n. 42/2004) [11].
Come emerge chiaramente dalla lettera della norma il potere conformativo della proprietà anche se costituisce il centro della tutela non è l’unica forma epifenomenica, poiché il Codice lo circoscrive con un “anche”, lasciando intendere che la tutela è pure altro.
In altri termini, quando il Codice indica che la tutela si esplica anche con il potere conformativo, fa chiaramente intendere che la medesima tutela si manifesta anche con altre tecniche.
In primis, con quella di proprietà pubblica, cui il Codice attribuisce il compito di essere destinata alla fruizione pubblica (art. 2, comma 4).
Intorno alla proprietà pubblica [12] ruotano specifiche misure di tutela, a iniziare dal peculiare procedimento che caratterizza l’attribuzione della qualifica di beni culturali, che tramite il c.d. procedimento di verifica vincola ab origine tutti i beni di proprietà pubblica (e degli enti privati senza scopo di lucro) con più di settanta anni.
Sempre nella funzione di tutela rientra anche la possibilità di privatizzazione dei beni culturali di proprietà pubblica, tramite il regime riservato, con l’apposizione di prescrizioni, che seguono la res una volta privatizzata [13].
Ma, soprattutto, la proprietà pubblica è vista come ultima thule di tutela: difatti, laddove le proprietà privata, anche se conformata, non sia in grado di assicurare la tutela richiesta per il bene culturale, all’amministrazione sono riconosciuti importanti poteri di acquisizione, quali l’esercizio del diritto di prelazione, l’acquisto coattivo o l’espropriazione.
Infine, un peculiare tipo di proprietà pubblica è quella archeologica che è soggetta ad uno specifico regime di riserva statale, con particolare riferimento anche alla disciplina dei ritrovamenti (il c.d. diritto al premio) e degli scavi soggetti a regime concessorio (c.d. riserva di ricerca) [14].
b) la conformazione della proprietà culturale
È ovvio, per quanto premesso, che la forma principale di tutela è la tecnica della conformazione della proprietà culturale [15], che in questo caso investe sia la proprietà pubblica che privata.
A tal fine giova premettere che anche il potere di conformazione, in quanto potere amministrativo è una situazione giuridica soggettiva e rientra tra le tecniche di tutela, che ha per oggetto, peraltro, altre situazioni soggettive, nell’ambito del c.d. rapporto autorità libertà, potestà soggezione.
Il potere di conformazione riguarda diritti e comportamenti (come dice la norma) ed incide sulle modalità di acquisto, godimento e cessione del diritto di proprietà, tramite una serie di poteri tipicamente previsti ed attribuiti alla autorità preposta alla tutela.
Non è questa la sede per affrontare funditus tutte le relative problematiche, ma che brevemente vanno ricondotte al potere di apposizione del vincolo ed al regime di autorizzazione per l’utilizzo del bene, che conforma le sue modalità di conservazione, circolazione e fruizione.
Si tratta di una disciplina che principalmente mira a tutelare e proteggere la cosa nella sua materialità, mentre per le considerazioni che vedremo è assolutamente insufficiente a proteggere la vocazione immateriale del bene.
c) la tutela dei diritti della personalità
È proprio la questione della tutela dell’immateriale del bene culturale che mostra l’insufficienza dell’attuale conformazione della tutela di fronte all’emergere delle problematiche derivanti dalla dematerializzazione dei beni, connessa all’impiego delle tecniche di digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale.
E sotto questo profilo non appare risolutivo ricorrere allo schema della “proprietà divisa”, proposto da Giannini, secondo cui sul bene culturale esistevano due tipologie di proprietà una sul bene materiale, di appartenenza privata, e uno sull’immateriale destinato alla fruizione pubblica e come tale soggetto ai poteri di conformazione dell’autorità preposta alla tutela.
Il limite non sta tanto nella teoria gianniniana [16], che anzi ha il merito di aver evidenziato e dato enfasi all’immateriale presente nel bene culturale, ma nel diritto positivo che non detta una disciplina adeguata per la tutela dell’immateriale.
Infatti, la disciplina di diritto positivo parte dall’assunto incentrato sulla concezione materiale del bene, per cui l’immateriale essendo compresso e contenuto nel bene materiale, è tutelato di riflesso dalla disciplina di tutela apprestata per la res.
Solo che questa concezione non è più in grado di affrontare le questioni poste dalla contemporaneità e in primis quelle legate alla tutela della c.d. immagine dei beni culturali.
A tal fine, va rammentato che la disciplina codicistica - improntata alla più volte richiamata connotazione materialistica - detta una disciplina incompiuta e lacunosa in materia, costringendo, de facto, l’autorità preposta alla tutela di ricorrere al diritto comune, per tutelare l’uso illecito dell’immagine dei beni culturali in appartenenza pubblica.
A tal fine la tutela dell’immateriale, e in particolare dell’immagine del bene culturale, è stata ricondotta all’area delle tecniche di tutela dei c.d. diritti della personalità (azione inibitoria e risarcimento del danno), dove l’immagine del bene culturale è considerata una proiezione dello Stato-persona. D’altronde, se si pensa ad esempio alla numismatica e alle effigi delle monete, la figura dello Stato è sempre accostata a opere d’arte o del suo patrimonio culturale (uomo vitruviano, Castel del Monte, etc.).
La questione è stata di recente affrontata in giurisprudenza con i noti casi sottoposti al Tribunale di Venezia, per l’uomo vitruviano, e al Tribunale di Firenze, per il David di Michelangelo [17].
In termini molto lati, secondo la giurisprudenza, lo Stato, essendo chiamato a tutelare i beni culturali in forza dell’art. 9 della Costituzione, è legittimato a tutelare l’immagine dei beni culturali medesimi, facendo valere i diritti della personalità, quando altri, con finalità commerciali, ne facciano un uso abusivo per non essere stati autorizzati a ciò e non avendo pagato i corrispettivi previsti dal Codice (artt. 107 e 108).
Il Tribunale di Venezia ha rinvenuto la tutela dell’immagine dei beni culturali direttamente nel Codice civile (artt. 6, 7 e 10 cod. civ.), mentre quello di Firenze l’ha tratta direttamente dalla Costituzione e dal Codice.
Il Tribunale di Firenze ha accolto la domanda del Mic chiarendo che:
- al pari del diritto all’immagine della persona, positivizzato all’art. 10 c.c., può configurarsi un diritto all’immagine anche con riferimento al bene culturale;
- tale diritto trova il proprio fondamento normativo in una espressa previsione legislativa ovvero negli artt. 107 e 108 del D.lgs. N. 42/2004, che costituiscono norme di diretta attuazione dell’art. 9 della Costituzione (C. Cost. n. 194/2013);
- gli artt. 107 e 108 del C.B.C. rimettono alle amministrazioni consegnatarie il potere di legittimare, attraverso il proprio consenso, la riproduzione dei beni culturali;
- nel Codice dei Beni Culturali si rinvengono espressi richiami alla terminologia propria del diritto all’immagine, quale il “decoro” del bene culturale (es. artt. 45 co. 1, 49 co. 1 e 2, 52 co. 1-ter, 96, 120 co. 2, C.B.C.).
Le sentenze, nel ricondurre l’immagine al novero dei diritti della personalità, sono state variamente criticate, anche se hanno l’indiscusso merito di aver ricondotto la tutela dell’immagine sul piano delle situazioni soggettive e non delle funzioni [18].
a) la tutela dell’immagine dei beni culturali
È dunque, abbastanza evidente, che l’emergere dell’immateriale fa venire meno l’idea che la tutela ruoti tutta intorno alla res, poiché, invece, la questione della tutela va estesa anche alla proiezione immateriale del bene.
Non si deve, peraltro, nascondere come sia molto più facile tutelare la cosa in sé, mentre risulta ben più problematica e sfuggente la tutela quando deve seguire l’immateriale.
L’immateriale, infatti, è qualcosa di impalpabile, per cui la sua protezione è resa più difficile proprio dalla sua condizione di volatilità (qualcuno infatti rispetto all’immateriale, parla di beni volatili).
Sono note le problematiche che pone la tutela dell’immateriale, come correttamente di recente evidenziato da Giuseppe Piperata, il quale ha notato - facendosi portavoce di una convinzione piuttosto diffusa e radicata - che le strutture organizzative delle amministrazioni preposte non sono in grado di garantire la tutela dell’immagine, sia per l’esiguità delle risorse messe a disposizione, sia per la latitudine delle immagini da tutelare [19].
In effetti è già difficile tutelare il patrimonio nella sua veste materiale, figuriamoci se dobbiamo rivolgerci alla sua proiezione immateriale.
E qui vediamo ad un altro dei nodi della tutela che da tempo è stato messo in evidenza, ovvero quella del “benculturalismo”, dove il voler tutelare il tutto finisce per il tutelare niente: occorre, dunque, selezionare gli interessi e concentrarci su quelli più importanti e più strategici, come ben messo in evidenza - in termini generali - da Lorenzo Casini [20].
Questa è stata la scelta dell’ordinamento francese e del Code du patrimoine. Difatti, dopo un primo momento di assenza del legislatore colmato in via giurisprudenziale, il diritto all’immagine - in Francia - è stato normato selezionando gli interessi, e sottoponendo a disciplina di tutela e di uso solo le immagini utilizzate per fini commerciali più importanti e rilevanti, ovvero quelle riferibili ai “domaines nationaux”, cioè quei beni che hanno “un nesso eccezionale con la storia della Nazione e dei quali lo Stato è proprietario” (art. L. n. 621-34) [21].
De iure condendo, dunque, occorre che il legislatore superi la visione materiale del bene culturale e inizi a prendere sul serio le problematiche poste anche dal suo immateriale.
In questo ambito occorre certamente selezionare gli interessi più rilevanti e concentrare la tutela sui valori immateriali simbolici.
Occorre, poi, distinguere il profilo di tutela in senso stretto, che riguarda l’immateriale funzionale, da quello di valorizzazione economica, che concerne l’immateriale economico [22].
La funzione di tutela si dovrebbe concentrare sul concetto di decoro e vietare gli usi impropri che a fini commerciali possono essere utilizzati per massimizzare l’interesse privato di chi usa l’immagine, senza con questo voler evocare la presenza di uno Stato etico [23]. Qui si tratta solo di non banalizzare (e, quindi, di non offendere) il valore immateriale funzionale per finalità private e commerciali nell’ambito dello Stato di cultura (che mette al centro la cultura e la sua tutela, oltre che la sua promozione).
Altri aspetti che dovrebbero essere affrontati sono ad es. la definizione, la perimetrazione, dello scopo di lucro, le cui problematiche definitorie, ad es., hanno fatto affiorare il problema della pubblicazione delle immagini nelle riviste scientifiche.
Infine - ma qui entriamo nella valorizzazione e così ci dobbiamo fermare - l’impiego dell’immagine non andrebbe legata solo alla messa in valore vera e propria, cioè come fonte di introiti economici, ma andrebbe posta al centro di politiche di valorizzazione più estese dirette a massimizzare il capitale economico contenuto nell’immateriale, per favorire politiche di marketing territoriale (come ad es. è accaduto in Olanda dove l’uso dell’immagine è stata completamente liberalizzata a favore della cattura di valore volta a incentivare l’aumento degli ingressi a pagamento nei musei): in questo ambito dovrebbe essere lasciata maggiore discrezionalità ai direttori dei musei sul tipo di valorizzazione da collegare all’uso dell’immagine [24].
Non si può nascondere infine che la strumentazione amministrativa, legata alla nozione classica di tutela, è insufficiente a fronteggiare l’uso dell’immagine fuori dai confini nazionali, come dimostra la pronuncia del Tribunale di Stoccarda sull’uomo vitruviano che ha contestato l’applicabilità della legge italiana fuori dal territorio nazionale [25].
b) la tutela dei beni di identità culturale collettiva
Altro punto di faglia, di scontro, tra concezione materiale e immateriale, sono i “beni di identità culturale collettiva” (art. 7-bis, Codice).
È nota la vicenda genetica di questa categoria di beni: di fronte all’emersione dei beni culturali immateriali, così come tutelati dalle Convenzioni Unesco del 2003 e del 2005 [26], il Codice (meglio, il correttivo del 2008) ha posto una barriera all’ingresso di questo tipo di immaterialità all’interno del Codice.
La disposizione, infatti, prevede che “le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell’articolo 10”.
La previsione, in sostanza, preclude e non riconosce - ai sensi del Codice - a questa particolare categoria di beni (cioè quelli puramente immateriali) la qualificazione di “beni culturali” in quanto proprio connotati da pura immaterialità e ribadendo, invece, come requisito indefettibile per tale qualificazione (cioè di beni culturali) la materialità del bene [27].
La disposizione, dunque, avrebbe dovuto assumere la funzione di vera e propria diga all’ingresso nel nostro sistema dei beni culturali immateriali.
In realtà più che una diga, è stata una linea Maginot!
Anzi una linea Maginot fatta di fettuccine.
È chiaro a cosa intendo riferirmi, ovvero alla vicenda del Ristornate il “Vero Alfredo” affrontata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nel 2023 [28].
Il contenuto della pronunzia è noto ai commentatori e a tal fine rinvio al numero di Aedon dedicato a tale pronunzia [29].
In estrema sintesi, la pronunzia ammette che i beni di identità culturale collettiva, possano andare al di là del numerus clausus dei beni culturali immateriali protetti dall’Unesco e che si possa estendere a qualsiasi “manifestazione culturale immateriale”, purché collegata e internalizzata in un bene culturale materiale di notevole o eccezionale interesse ai sensi dell’art. 10, Codice.
È altrettanto noto l’effetto di questo riconoscimento, ovvero quello di porre un vincolo puntuale di destinazione d’uso all’attività immateriale collegata al bene materiale (nel caso è stato riconosciuto legittimo non solo il vincolo al Ristorante “Vero Alfredo” - cioè alla res - ma anche all’attività tradizionale immateriale ivi esercitata ovvero il cucinare e servire le fettuccine in stile romanesco).
Come rilevato autorevolmente da Giuseppe Morbidelli l’esito della pronunzia è quello di aver consentito di vincolare l’attività, ovvero, l’immateriale, piuttosto che la res, cosa che in precedenza non era consentito, se non in casi eccezionali [30].
Ecco il paradosso della concezione materialista che vuole comprimere il concetto di bene culturale alla res: si vuole escludere la pura immaterialità facendola uscire dalla porta e questa rientra dalla finestra.
Ma è la stessa sentenza ad essere vittima (inconsapevole, forse) di questa tensione, non rendendosi conto dei propri esiti contraddittori cui perviene: difatti, in alcune parti della pronunzia si preoccupa più di una volta di mantenere ferma e rispettare la concezione materiale affermando che tra elemento materiale e immateriale esiste un “rapporto bilaterale” in cui i due elementi “vengono a coesistere in un tutto inscindibile, in cui spazio e tempo attribuiscono nel loro insieme alla res il valore culturale meritevole di tutela” (punti 5.2 e 5.3 della sentenza), per poi dare prevalenza alla componente immateriale legittimando, l’apposizione di un vincolo all’attività immateriale, nel caso l’arte di fare e servire la fettuccine al “Vero Alfredo” [31].
Anche perché come avvertito da molti commentatori la pronunzia è foriera di un ulteriore paradosso: difatti, il vincolare l’attività in quel ristorante non necessariamente assicurerà la sua esistenza, la sua conservazione, la sua protezione (che, come abbiamo visto, è la finalità della tutela), poiché trattasi di attività economica sottoposta alle leggi di mercato e, quindi, anche destinata a fallire.
Correttamente, Giuseppe Severini, nel commentare la sentenza dell’adunanza plenaria, ha evidenziato come la questione dei beni culturali immateriali andrebbe meglio collocata all’interno del cultural heritage [32] - cioè dell’eredità culturale così come definita dalla Convenzione di Faro (e mal tradotta in Italia con patrimonio culturale) [33] - piuttosto che all’interno dei beni culturali materiali.
Questa notazione ci consente di tornare alla questione della tutela delle situazioni soggettive da cui siamo partiti.
Nel diritto convenzionale alla figura del cultural heritage, da intendersi come eredità culturale, cioè testimonianza materiale che immateriale di civiltà, si contrappone - anche se con margini di sovrapposizione - cultural property, da riferirsi alle testimonianze materiali di civiltà [34].
Ed in effetti è proprio così, la questione di collocare con forza la questione della pura immaterialità all’interno dei beni culturali è un errore prospettico, in cui non si tiene conto dell’origine e degli errori compiuti nel passato.
Va, infatti, ricordato che il termine cultural property è stato coniato per la prima volta in sede Unesco, e che, poi, nel nostro ordinamento è stato tradotto con la legge di ratifica (legge 11 aprile 1958, n. 279) in bene culturale.
Si preferì in tal modo prendere come riferimento i testi della Convenzione redatti in francese e spagnolo dove si usano le locuzioni, rispettivamente, di “biens culturels” e “bienes culturales”, anziché quella impiegata in lingua inglese di “cultural property” [35].
La scelta in favore della locuzione bene culturale, in luogo di quella di proprietà culturale, è stata una scelta che, peraltro, ha fortificato la concezione materiale.
Se, invece, sin dall’inizio si fosse impiegata la locuzione “proprietà culturale” molti dei problemi evidenziati nella presente relazione probabilmente non si sarebbero neanche posti.
Il diritto del patrimonio culturale si sarebbe ripartito in una summa divisio tra proprietà culturale ed eredità culturale, e per ognuno di questi mondi si sarebbero individuate le forme di tutela appropriate: per la proprietà culturale, quella fondata sulla conformazione della proprietà, per l’eredità culturale, quella della catalogazione (patrimonializzazione) e degli incentivi. All’interno della proprietà culturale si sarebbero indicate anche le nuove forme di proprietà, cioè quelle c.d. industriali, come marchi e tutela dell’immagine, fino ad arrivare ai confini del diritto d’autore per le opere dell’architettura. E anche i limiti a tutela e protezione della proiezione immateriale funzionale del bene, ovvero il decoro.
E quando, come nel caso del vero Alfredo, si sovrappongono problemi sia attinenti alla res, che all’immaterialità pura, anziché creare indebite commistioni, si sarebbero potuti impiegare gli strumenti previsti a tutela sia del materiale che dell’immateriale, ma senza indebite commistioni.
Basta prendere atto che la strada della materialità ha ormai perso la sua spinta storica e che nel futuro, spero immediato, si ritorni sul piano delle situazioni soggettive, che meglio possono consentirci di affrontare le sfide poste dalla contemporaneità della tutela del nostro patrimonio culturale (non solo) materiale.
Note
[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.
[**] Antonio Bartolini, professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Perugia, Piazza Università 1, 06123 Perugia, antonio.bartolini@icloud.com.
[1] Cons. St., VI, 16 ottobre 2024, n. 8296.
[2] Per una efficace sintesi delle problematiche e delle prospettive v. M. Cammelli, Il diritto del patrimonio culturale: una introduzione, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, Il Mulino, 2017, 11 ss. (il volume peraltro è arrivato alla III edizione del 2025).
[3] Mi riferisco alle teorie di C. Sunstein le cui conseguenze sul piano amministrativo sono state evidenziate nel saggio di A. Zito, La nudge regulation nella teoria dell’agire amministrativo, Napoli, Editoriale scientifica, 2021.
[4] M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Roma, Il Foro italiano, 1952.
[5] M. Grisolia, op. cit., pag. 8.
[6] M. Grisolia, op. cit., pag. 11.
[7] M. Grisolia, op. loc. cit.
[8] M. Grisolia, op. loc. cit.
[9] Con l’eccezione autorevole di R. Cavallo Perin, Il diritto al bene culturale, in Dir. amm., 2016, pag. 495 ss., che mette al centro della disciplina il diritto al bene culturale come diritto fondamentale dell’uomo.
[10] T. Montanari, Art. 9 Costituzione italiana, Roma, Carocci editore, 2018, pag. 128.
[11] Per una panoramica completa delle problematiche che ruotano intorno alla tutela v. G. Sciullo, Tutela, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 143 ss.
[12] A. Fantin, I beni immobili culturali di proprietà pubblica: aspetti pubblicistici, Padova, Cedam, 2008.
[13] Da ultimo A. Fantin, La circolazione dei beni culturali immobili di proprietà pubblica a 20 anni dall’emanazione del codice dei beni culturali: luci ed ombre, in Aedon, 2024, 1, pag. 41 ss.
[14] Su questi aspetti v. il recente lavoro monografico di S. Gardini, La disciplina amministrativa dell’archeologia, Napoli, Editoriale scientifica, 2023.
[15] G. Morbidelli, La proprietà culturale, in Il contributo dell’arte notarile alla evoluzione della disciplina delle situazioni reali, AA.VV., Milano, Il sole 24 Ore, 2015, pag. 15 ss.
[16] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 3 ss.
[17] In particolare, l’uso dell’immagine dell’Uomo Vitruviano è stato sottoposto al vaglio del Tribunale di Venezia, ed il caso è stato deciso con ordinanza del 22 ottobre 2022; quella sul David di Michelangelo, con sentenza del Tribunale di Firenze del 20 aprile 2023.
[18] Su queste pronunce v. oltre ad A. Bartolini, Quale tutela per il diritto all’immagine dei beni culturali? (riflessioni sui casi dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci e del David di Michelangelo), in Aedon, 2023, 2, pag. 138 ss.; R. Caso, Il David, l’Uomo Vitruviano, e il diritto all’immagine del bene culturale: verso un’evaporazione del pubblico dominio, in Foro. it., 2023, I, pag. 2257; G. Resta, Le immagini dei beni culturali pubblici: una critica al modello proprietario, in Dir. inform. e informatica, 2023, pag. 143 ss.
[19] G. Piperata, I beni del patrimonio culturale tra canoni e corrispettivi, in Aedon, 2023, 2, pag. 255 ss.
[20] L. Casini, Ereditare il futuro, Bologna, Il Mulino, 2016.
[21] Su tale vicenda G. Resta, Le immagini dei beni culturali, cit., pag. 155.
[22] Sulla distinzione tra immateriale funzionale ed economico è fondamentale la ricostruzione di G. Severini, L‘immateriale economico nei beni culturali, in L’immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli, A. Bartolini, Torino, 2016, pag. 17.
[23] È questa la critica rivolata direttamente all’autore del presente scritto da D. Manacorda, Un decreto inopportuno: appunti di un archeologo, in Aedon, 2023, 2, pag. 225 ss.
[24] Questa la proposta di G. Sciullo, Il d.m. 161 del 2023: un’analisi giuridica, in Aedon, 2023, 2, pag. 244 ss., oggi recepita dal d.m. 21 marzo 2024, n. 108.
[25] Su cui v. il contributo di S. Ferrazzi, La riproduzione a scopi commerciali di beni culturali pubblici: riflessioni sull’Uomo Vitruviano, tra Italia e Germania, in Aedon, 2024, 3, pag. 262 ss.
[26] Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 17 ottobre 2003 e Convenzione per la protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali del 20 ottobre 2005.
[27] V. G. Severini, Art. 1 e 2, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, III ed., pag. 27 ss.
[28] Cons. St., ad. plen., 13 febbraio 2023, n. 5.
[29] Il n. 1 del 2023.
[30] G. Morbidelli, Della progressiva estensione della componente immateriale nei beni culturali e dei suoi limiti, in Aedon, 2023, 1, pag. 53 ss.: “la considerazione sempre più accentuata che ha assunto nell’ordinamento nazionale e internazionale l’immaterialità culturale e la stessa attenzione della dottrina che da tempo ha posto intensa attenzione verso i beni culturali immateriali esprime un principio di fondo, che tra l’altro l’Adunanza Plenaria radica anche nell’art. 9 Cost. e nella Convenzione di Faro ratificata con legge 1° ottobre 2020, n. 133, in virtù del quale la disciplina dettata a tutela delle res culturali, si estende anche ai valori immateriali tutelati di per sé e soprattutto a tempo indeterminato. In sintesi, si dà luogo ad una estensione dell’oggetto o della disciplina dei beni culturali. Ed invero, la stessa ridondanza di motivazione e la sua strutturazione non sempre lineare, dimostra la difficoltà del trarre dai ‘principi valore’ come quelli espressi dalle convenzioni Unesco e dalla convenzione di Faro ovverosia dal principio della tutela dei beni culturali immateriali, attività compresa, e senza limiti temporali, un ‘principio regola’ ovvero l’applicazione dei meccanismi di tutela del Codice dei beni culturali parametrati invece sulla res e non sulla tutela dell’attività”.
[31] A. Bartolini, Colpa d’Alfredo, in Aedon, 2023, 1, pag. 45 ss.
[32] G. Severini, Sul vincolo di destinazione per il bene culturale immobiliare: prime considerazioni su Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5, in Aedon, 2023, 1, pag. 28 ss.
[33] Sul significato da attribuire al sintagma “cultural heritage”: G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della convenzione di Faro “sul valore del patrimonio culturale della società”: politically correct vs.tutela dei beni culturali?, in federalismi, 24 marzo 2021.
[34] Sulla distinzione tra proprietà ed eredità culturale v. diffusamente L. Casini, Cultural Heritage Law, Chetenham, UK, 2024, pag. 16 ss.
[35] Il testo della Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, sottoscritta a l’Aja nel 1954, è in 4 lingue (inglese, francese, spagnolo e russo): in inglese si parla di cultural property mentre in francese di biens culturels e in spagnolo di bienes culturales: da ciò la nostra traduzione in beni culturali.