I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso
Sul vincolo di destinazione per il bene culturale immobiliare: prime considerazioni su Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5 [*]
di Giuseppe Severini [**]
Sommario: 1. Una prima distinzione: tra nomofilachia e non. - 2. La rilettura dell’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio. - 3. L’art. 7-bis del Codice è il “quanto basta” per riconoscere un’indiretta rilevanza giuridica ai c.d. “beni culturali immateriali”. - 4. Perché i “beni culturali immateriali” restano fuori dal Codice. - 5. La tutela dei centri storici richiede altri e diversi strumenti di intervento. - 6. Conclusioni.
On the destination constraint for real estate cultural assets: first considerations on the Adunanza Plenaria nr. 5/2023 of the Italian State Council
The paper identifies, in the long the grounds of the decision of the Adunanza Plenaria, the parts that have the value of nomofilachia and therefore imply the stare decisis for the Consiglio di Stato: it is essentially the admissibility of the use restriction for real estate cultural assets. The paper urges a limited and very prudent use of this breakthrough, which can have dangerous consequences for the sector. The paper also underlines the brand new interpretation that the sentence gives to art. 7-bis of the Codice dei beni culturali e del paesaggio, now read as a complementary rule to those on the declaration of public interest. At the same time, the decision deserves sharing for having underlined that cultural heritage can only be material: which, almost paradoxically, implicitly confirms the original and usual reading of the same provision.
Keywords: Codice dei beni culturali e del paesaggio; Use Restriction for Real Estate Cultural Assets; Cultural Heritage; Cultural Goods; Materiality.
1. Una prima distinzione: tra nomofilachia e non
La decisione, quale sentenza dell’Adunanza Plenaria, ha giustificazione nel contrasto giurisprudenziale rilevato dall’ordinanza di rimessione della VI Sezione (28 giugno 2022, n. 5357). Il profilo non è secondario perché tale è la sua ragion d’essere di pronuncia emessa in luogo della Sezione deputata alla materia: cui, comunque, restituisce per il resto il giudizio.
La considerazione si riflette sulla portata di “nomofilachia rinforzata” ai sensi dell’art. 99, comma 3, Cod. proc. amm.: che riguarda soltanto i due principi di diritto enunciati in fondo alla molto lunga e talora oscillante motivazione e che rispondono ai due quesiti della anch’essa lunga ordinanza di rimessione: vale a dire che il “vincolo di destinazione d’uso del bene culturale” può essere imposto se funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici per prevenire situazioni di rischio per la conservazione di questa integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale che vi è incorporato; e che lo stesso vincolo di destinazione può tutelare beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo la conservazione materiale, ma anche “per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza”.
Ci si trova di fronte a una latitudine espositiva che è sintomo di un impegno notevole nella ricerca di argomenti ma il cui esito non corrisponde ai principi di sinteticità, chiarezza e precisione dell’art. 88 Cod. proc. amm. (“concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione”), il cui rispetto è intrinsecamente necessario per soddisfare l’aspettativa di certezza che presiede a una tal decisione, finalizzata a costituire una definitiva sicurezza giuridica in luogo dell’insicurezza che ha dato luogo al rilevato contrasto.
A questo punto occorre un’opera di “interpretazione dell’interpretazione” finalizzata a un ulteriore e nuovo némein: a separare, logicamente e giuridicamente, quanto realmente concerne i “punti di diritto” che avevano dato luogo al contrasto e perciò va considerato ineludibilmente incorporato, quale necessaria ratio decidendi, in quanto presiede a questi due principi di diritto e dunque genera la loro valenza nomofilattica, da quanto invece per sua natura è, e rimane, obiter dictum e perciò alla nomofilachia è estraneo: il che in realtà compone buona parte di quest’esternazione e va ad aggiungersi a quanto, in ragione proprio di quest’abbondanza espositiva, la sentenza si mostra già ictu oculi ricca. Si tratta, oggettivamente, di excursus e di digressioni non necessari, che rimangono non atti a generare lo stare decisis dell’art. 99, comma 3.
Di fronte a una tale ridondanza, l’operazione di discernimento è essenziale, viste anche le considerazioni in tali modi espresse: diversamente, decenni di elaborazione dottrinaria, giurisprudenziale e amministrativa sul diritto del patrimonio culturale dovrebbero essere improvvisamente mandati al macero.
La questione, vedremo, investe direttamente già la particolare e nuova lettura dell’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, rubricato alle “espressioni di identità culturale collettiva”. Nel che la sentenza mostra il profilo meritevole di maggior attenzione: da un lato per la singolare innovatività dell’interpretazione della disposizione, dall’altro - con una singolare circolarità - per l’implicito consolidamento di parametri basilari dell’ordinamento di settore.
L’art. 7-bis - norma di affinato linguaggio e sottile formulazione, volutamente minus quam perfecta quanto a struttura normativa nel senso kelseniano (precetto più sanzione) - era stato utilmente introdotto dal d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62 (il secondo decreto integrativo e correttivo, a norma della legge di delega 6 luglio 2002, n. 137) con finalità di regolamento di confini: vale a dire, al ben altro scopo di marcare il perimetro della “tutela”, funzione autoritativa che può concernere soltanto le cose materiali (nel che la conferma circolare di questa sintesi, come vedremo, che è il precipitato più apprezzabile di questa sentenza). Si trattava di marcare una sorta di varco vigilato nel limes, dialogante verso il c.d. “patrimonio culturale immateriale” delle due convenzioni UNESCO di Parigi del 2003 e del 2005, utile anche riguardo a successivi strumenti internazionali.
L’art. 7-bis, pur guardando così all’esterno del Codice e utilizzando un’appropriatezza lessicale indispensabile per evitare confusioni, insicurezze e incoerenze, conferiva al c.d. patrimonio culturale immateriale (meglio, appunto, chiamato “espressioni di identità culturale collettiva”) il riconoscimento della dignità di un valore positivo per l’ordinamento, seppur escludendone la riferibilità alla disciplina del Codice, incongrua proprio per il necessario carattere di res quae tangi possunt dei beni culturali e del collegamento degli strumenti della tutela. Si trattava, diceva la Relazione ministeriale al “correttivo”, di un settore contiguo ma non coincidente con quello del Codice e con i suoi istituti giuridici, che postulano la “materialità” (es., la dichiarazione, l’immodificabilità, la prelazione, l’espropriazione, i limiti all’esportazione, la tutela penale, ecc.).
Entrambi i “principi di diritto” enunciati dall’Adunanza Plenaria contengono il riferimento testuale all’art. 7-bis ed entrambi ne danno invece una lettura non di finestra verso l’esterno al Codice, cui il mero “immateriale” è naturalmente estraneo, sia esso “culturale” o “economico”, ma una lettura quasi complementare all’art. 10, comma 3, lett. d): previsione che concerne i beni culturali c.d. storico-relazionali e i beni culturali c.d. storico-identitari. Questi già con sé recano in modo accentuato rispetto agli altri beni culturali quel valore immateriale che già è proprio di qualsiasi bene culturale in quanto tale, secondo la nota e accettata ricostruzione concettuale di Massimo Severo Giannini del doppio valore della res, per cui “bene culturale” è una qualificazione giuridica riferita a una cosa materiale, una qualità incorporea, un’attribuzione che riflette un apprezzamento sociale accertato e riconosciuto erga omnes: e in relazione al quale la cosa è il supporto, il bene culturale il suo valore pubblico (ne forma il corpus mystichum, dice Giuseppe Morbidelli, che necessariamente si affianca al corpus materiale o mechanicum portandolo ad essere appunto, bene culturale).
In effetti, nell’ormai lunghissima storia di questo contrasto giurisprudenziale, forse originato per primo dai casi romani della Fiaschetteria Beltramme (su cui, in senso favorevole, Cons. Stato, VI, 10 ottobre 1983, n. 723) e della Libreria Croce in Corso Vittorio Emanuele II (su cui, in senso negativo, Cons. Stato, VI, 5 maggio 1986, n. 359), le ipotesi di ammissione del vincolo di destinazione d’uso prescindevano da una previsione, per di più inesistente, come quella dell’art. 7-bis: solo applicavano la norma corrispondente all’art. 10 del Codice, vale a dire gli artt. 1 e - soprattutto - 2, sul vincolo storico, dell’allora vigente legge Bottai 1 giugno 1939, n. 1089. Era richiamo sufficiente, proprio in base alla teoria del doppio valore della res, e non necessitava di alcun ulteriore riferimento a “espressioni di identità culturale collettiva”.
Nella vexata quaestio, l’indirizzo contrario a quello ora prescelto dall’Adunanza Plenaria aveva piuttosto riguardo ai limiti interni al potere di vincolo e alla sua accettabilità costituzionale e sociale (cfr. in particolare Cons. Stato, VI, 2 marzo 2015, n. 1003, al cui ragionamento fa da sfondo il contrasto con la tutela costituzionale del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica; l’irragionevolezza, il difetto di proporzionalità, l’effetto boomerang sulla conservazione materiale della res).
Sia quell’unanime lettura dell’art. 7-bis del Codice dal 2008 ad oggi, sia la sufficienza delle strette norme sul vincolo a bene culturale ai fini del controverso vincolo di destinazione d’uso, mostrano che quando nel luglio 2018 con il decreto poi impugnato il Ministero ha invocato a supporto anche l’art. 7-bis, è stata piegata a questo nuovo e diverso fine una disposizione di tutt’altra origine e ragione, con un eccesso di mezzo rispetto al fine. Ciò che è singolare, tuttavia, è che questo sia rimasto - a quel che è dato comprendere - incontestato evidentemente dalle parti e comunque dalle decisioni del Tribunale amministrativo del Lazio, della VI Sezione e dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. È particolare, specie per l’Adunanza Plenaria, che con questo modo di procedere si sia andati (e senza esprimere ragioni al riguardo), contro i lavori preparatori della disposizione e contro l’unanime avviso della dottrina.
Il diritto è nondimeno sedimento storicamente complesso e socialmente radicato di norme e loro elaborazioni ad opera dei suoi vari formanti: non bastano a immutarlo alcuni obiter dicta di una pur autorevole sentenza, la cui motivazione - non essendo il nostro un sistema di judge-made law - non ha l’attitudine di annullare il consolidato deposito della dottrina, della restante giurisprudenza e della pratica. Non rimane qui allora che prendere atto della “non necessarietà” al ragionamento giuridico della nuova lettura dell’art. 7-bis per i fini nomofilattici per i quali la questione dubbia era stata rimessa all’Adunanza Plenaria: e così escluderne il valore di nomofilachia, come naturalmente quello di nomopoiesi.
2. La rilettura dell’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio
Già dai primi scambi di opinioni tra alcuni autori del settore sono emerse nella sentenza dell’Adunanza plenaria “luci e ombre”: conviene dunque distinguere.
Generale, circa la questione di fondo, è la preoccupazione che l’ammissione di un vincolo di destinazione d’uso in positivo cioè con un obbligo sostanziale di facere (e non più solo in negativo, non facere), con riferimento a uno specifico bene culturale immobiliare e a una specifica attività economica (vincolata addirittura, sembrerebbe, nelle modalità di esercizio ad hoc), possa portare a una sproporzionata e irragionevole menomazione - non più conformativa, ma direttamente ablativa - del nucleo essenziale della proprietà di quella res e della libera iniziativa economica che la riguarda: con il serio rischio da un lato di quell’effetto boomerang, rinnegante nei fatti la finalità conservativa propria della tutela per normale e incoercibile calcolo economico del titolare (giustamente, al webinar del Centro Studi Giuridici e Politici dell’Umbria il Prof. Antonio Bartolini ha rilevato che, indebitamente, la sentenza pretermette del tutto un tale aspetto essenziale dell’”immateriale economico”); dall’altro di mettere a repentaglio l’assunto della non indennizzabilità del vincolo, traguardo raggiunto a suo tempo e pilastro fondamentale della tutela: il che recherebbe conseguenze catastrofiche sulla tenuta dell’intero settore.
È stato anche attentamente rilevato (Prof. C.P. Santacroce, allo stesso webinar) che questa nuova lettura dell’art. 7-bis può portare a seri dubbi di costituzionalità di questa dilatazione rispetto al parametro costituito dall’art. 76 Cost., sub specie di eccesso di delega ad opera del secondo decreto correttivo e integrativo, il d.lgs. n. 62 del 2008, che l’aveva introdotto nel Codice. Se questa infatti fosse la lettura da dare alla disposizione, tale da elevarla a nuovo e aggiuntivo strumento di ingerenza nella proprietà, la previsione andrebbe a contrastare il principio e criterio direttivo di delega legislativa del divieto di “ulteriori restrizioni alla proprietà privata”, posto come invalicabile dalla legge di delega 6 luglio 2002, n. 137 [art. 10, comma 2, lett. d)] e che ovviamente riguarda anche i decreti legislativi integrativi e correttivi quale esplicazioni ulteriori della medesima delega legislativa.
L’art. 7-bis è stato non solo ridotto a complemento dell’art. 10, ma anche - quanto a costrutto della disposizione - in qualche maniera ribaltato nella sua dizione. Si pretermette infatti che, stando al suo testo, le “espressioni di identità culturale collettiva” sono soltanto quelle (già) “contemplate dalle [cioè: in base alle] Convenzioni UNESCO” del 2003 e del 2005 (ad es., l’opera dei pupi siciliana, il canto a tenore dei pastori sardi, la pizza napoletana, ecc.). La previsione del resto era concepita come una finestra verso quanto è per sua natura esterno al perimetro del patrimonio culturale e dunque alla tutela, così come vi è esterno il c.d. “immateriale economico” (tema da tempo rilevato e messo in luce con - tra chi ora si occupa di questa sentenza - i Professori Giuseppe Morbidelli e Antonio Bartolini e con il collega Stefano Fantini). Sicché capitale era la sua parte finale, per cui tali “espressioni “sono assoggettabili alle disposizioni del presente Codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell’articolo 10”. Però la motivazione ne inverte il senso, per cui è una testimonianza materiale a costituire siffatta espressione e non viceversa. Dice infatti la decisione al paragrafo 4.5: “i provvedimenti di tutela di cui all’art. 7-bis cit. non impongono l’attivazione delle candidature, rilevanti per l’UNESCO, // Infatti, la disposizione statale richiama le Convenzioni Unesco al solo fine di identificare quelle fattispecie, costituenti “espressioni di identità culturale collettiva”, che possono essere assoggettate alle tutele di cui al Codice dei beni culturali, sussistendone le necessarie condizioni (e cioè “qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell’articolo 10”).
L’art. 7-bis dunque è ora invocato in modo diverso e diversamente orientato rispetto alla sua origine, comunque nuovo rispetto alle intenzioni del legislatore. A riprova di queste sta l’eccezione, altrimenti inutile, all’art. 51, comma 1, sullo speciale vincolo a bene culturale per gli “studi d'artista” (cfr. Cons. Stato, V, 25 marzo 2019, n. 1933): la quale, essendo eccezione a regole generali, è fattispecie di stretta interpretazione e non un exemplum legis come pare di capire assume invece la sentenza. Analogamente per l’art. 52 (“Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali”).
Nondimeno, è un dato che, a stare a certi suoi passaggi, la dilatazione rischia di offrirsi a pratiche abnormi: se si permette la battuta, come il pretendere il ritorno nelle case coloniche dell’Italia mezzadrile del mezzadro, allorché si fa applicazione dell’art. 10, comma 4, lett. l), che prevede come vincolabili “le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale”.
Da qui l’auspicio, davvero unanime, di un uso - da parte degli uffici ministeriali addetti alla tutela - di questo così dilatato potere che sia quanto mai parco, prudente, misurato, moderato e accorto, comunque episodico e sempre rispettoso in concreto del fondamentale “principio di proporzionalità”, con i suoi corollari della “necessarietà” e del “minor sacrificio” per la dimensione economica della proprietà privata, “riconosciuta e garantita” in base all’art. 42 della Costituzione.
Resta soprattutto da sottolineare che il vincolo di destinazione d’uso seppur reso possibile e comunque in base a questi parametri, non diviene un elemento necessario del vincolo. La stessa sentenza al paragrafo 4.8, parrebbe assumerlo quando afferma: “in siffatte ipotesi (può essere, come nella specie, il caso di un ristorante, ma anche di un teatro, di una sala cinematografica, di una farmacia o di una libreria di interesse storico, beni la cui presenza sul territorio rappresenta una componente particolarmente rilevante dell’offerta culturale del Paese), il vincolo sull’immobile e su quanto esso contiene non può prescindere, pena la sua vanificazione, dall’imprimervi un determinato uso”.
Diversi dubbi sono stati espressi anche sulla coerenza sistematica e - alla luce della necessaria “matematicità” del diritto per essere weberianamente “calcolabile” - sulla geometria e sulla linearità intrinseca e reciproca dei concetti e delle espressioni enunciati nella lunga motivazione della sentenza.
Lo sforzo dell’interprete è ora proprio quello di razionalizzazione in vista del bene superiore, immanente all’intero ordinamento, della “sicurezza giuridica”: e così di pervenire a una lettura adeguatrice della decisione che ne tolga “il troppo e 'l vano” e che ne rapporti il nucleo decisorio essenziale al consolidato quadro teorico della funzione pubblica di tutela del patrimonio culturale, definito oltre un secolo di legislazione organica e dalla comune lettura della dottrina e della giurisprudenza.
3. L’art. 7-bis del Codice è il “quanto basta” per riconoscere un’indiretta rilevanza giuridica ai c.d. “beni culturali immateriali”
Il lato apprezzabile della sentenza è che fa comunque buona e definitiva giustizia dell’assunto, vago e insostenibile dal punto di vista tecnico quanto insistito dal punto di vista comunicazionale, per cui nel perimetro della funzione pubblica di tutela sarebbero dovuti rientrare anche i c.d. beni culturali immateriali, quale che ne fosse l’identificazione e la consistenza (e talora veicolando malcelatamente l’idea di una scorciatoia per riconcettualizzazioni nell’ordinamento rispetto all’esistente “patrimonio culturale”).
Da questo punto di vista, la sentenza è di inequivoca chiarezza allorché dice, al paragrafo 5.4: “all’espressione immateriale e identitaria deve sempre accompagnarsi un substrato materiale” e poi ampiamente ripete il medesimo concetto. Esclude così espressamente dal perimetro della tutela quanto non è comunque incorporato in un bene culturale materiale. In pratica, bene afferma che il triangolo concettuale bene culturale - materialità - tutela è compiuto e non ammette deroghe o dilatazioni.
Merita dunque piena condivisione quest’affermazione per cui non c’è “bene culturale” e funzione di “tutela” se questa non riguarda una cosa materiale (res quae tangi potest), nella quale soltanto può consistere un bene culturale. Il che chiude con l’avviso di chi, forse senza considerare le conseguenze logiche del proprio assunto, è portatore un pensiero per cui - si perdonerà anche qui la battuta - cui se il pizzaiuolo serve una cattiva pizza napoletana (dal 2017 è Patrimonio UNESCO “l’Arte del ‘pizzaiuolo’ napoletano”) ci si deve rivolgere al Soprintendente perché provveda, o autoritativamente o in via sostitutiva.
Il punto di fondo è che le espressioni di identità culturale collettiva, anche quelle della lista UNESCO, possono soltanto essere oggetto di interventi eventuali, riconducibili alla valorizzazione: interventi di sostegno, non restrittivi, cioè non mai di tutela; non sono “beni culturali” e dunque non fanno parte, nel senso giuridico, del “patrimonio culturale”. Sono piuttosto eredità culturali, come una corretta e fedele traduzione della Convenzione di Faro del 2005 vuole. La realtà, al fondo, è che non c’è per loro “bisogno di diritto”, cioè di vere e proprie norme.
Come si è visto, la sentenza afferma espressamente che l’art. 7-bis rileva, quanto a tutela propriamente detta, esclusivamente quale elemento ulteriore e aggiuntivo per motivare l’interesse storico-testimoniale, o relazionale-esterno, contemplato dall’art. 10, comma 3, lettera d), del Codice.
Paradossalmente, tuttavia, lo spostamento a complemento dell’art. 10 mostra che la ratio che presiede all’art. 7-bis è confermata e così il suo scopo. Poiché si tratta, come ricordato, di una disposizione-finestra, che aveva una funzione pratica chiarificatoria, la sua stessa utilità sopravvive insieme alle possibilità di sua più tradizionale lettura: il che, come in uno sdoppiamento, riporta a una conferma del significato originario e proprio dell’art. 7-bis e archivia ogni questione di apparenza lessicale. La sentenza infatti non scardina né incide sulla nozione normativa e reale di bene culturale: anzi la conferma expressis verbis.
Detto altrimenti, la disposizione dell’art. 7-bis era enunciativa di un principio già di suo implicito nella tassonomia del Codice: perciò, in termini sostanziali, resta vano sottrarla alla sua ragion d’essere. Sicché la sua lettura distopica a complemento dell’art. 10, marcata dalla sentenza, resta inidonea a rimuovere dall’ordinamento quanto costituisce il suo enunciato. La necessaria connessione tra tutela, bene culturale e materialità della res, dichiarata dalla sentenza, in realtà va a anche confermarne la portata sistemica nel significato originario.
Emerge anzi ancora una volta, proprio alla luce di questa decisione, come questo significato originario dell’art. 7-bis segni il solo spazio di possibile rilevanza, quanto a tutela della materialità del supporto, delle “espressioni di identità culturale collettiva” contemplate dalle Convenzioni UNESCO di Parigi per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali del 2003 e del 2005 (e, ora, del cultural heritage contemplato dalla Convenzione di Faro del 2005).
A parte alcune considerazioni in dichiarato obiter dictum poste nella parte V della motivazione (“Alcune considerazioni generali sul patrimonio culturale”), la sentenza è netta nello stabilire (pag. 35) che “in definitiva, anche la tutela dei beni culturali (in uno alle attività) che costituiscono “espressione di identità culturale collettiva” può essere disposta sulla base del Codice dei beni culturali”. Essa mostra che l’art. 7-bis esclude esigenze di modifica del Codice integrandolo con una pretesa, inutile e fuor d’opera, disciplina di tutela dei c.d. beni culturali immateriali.
In realtà, nondimeno, la rilevanza del valore culturale “estrinseco” è già tutta nell’art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, che riprende la norma di marcata ispirazione storicistica e introdotta per la prima volta dalla legge n. 1089 del 1939 (art. 2).
Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni internazionali ricordate, rilevano quanto a tutela soltanto come ulteriore “retroterra” culturale, metagiuridico, cui ci si può riferire nel considerare quel particolare tipo di interesse “relazionale-esterno”, estrinseco e non intrinseco, che possono presentare le cose immobili e mobili “a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell'identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”. Di recente, del resto, la legge 12 ottobre 2017, n. 153 (relativa alla celebrazione dei cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci e Raffaello Sanzio e dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri), ha aggiunto, alla fine dell’art. 10 comma 3, lett. d), del Codice, la seguente previsione: “Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale”.
In questo senso la sentenza bene ribadisce il confine nel rapporto tra materiale e immateriale nel campo dei beni culturali.
4. Perché i “beni culturali immateriali” restano fuori dal Codice
Con l’occasione, vista questa implicita conferma del significato originario dell’art. 7-bis, è utile richiamare alcuni punti essenziali del ragionamento che porta a rendere chiarezza sulle ambiguità e confusioni che ancora sembrano persistere nel dibattito sui “beni culturali immateriali”.
a. Come segnalato nell’intervento del Consigliere di Stato Paolo Carpentieri al webinar di cui sopra, bisogna non confondere la cultura in senso socio-antropologico con il patrimonio culturale in senso giuridico. L’analisi qui - in virtù del principio di legalità che impronta di sé l’intero ordinamento - dev’essere giuridica e non socio-antropologica. Che sia meritevole d’interesse, dal punto di vista dell’antropologia, della sociologia, della storia culturale, una visione olistica, unitaria, nella quale ovviamente il patrimonio culturale è parte della cultura e della società umana, non richiede dimostrazioni. Ma trapiantare questo approccio nell’analisi giuridica del fenomeno è foriero di implicazioni paradossali e irragionevoli: il diritto sceglie, distingue, separa, attribuisce a ciascuno il suo, seleziona e gradua interessi, dirime conflitti, separa le questioni e soprattutto definisce e ripartisce i poteri pubblici. La cultura in senso socio-antropologico è invece fenomeno latissimo che comprende nel loro essere, e non già nel loro dover essere, gli usi, i costumi, i mestieri, i saperi, le prassi, la letteratura, lo spettacolo dal vivo, il cinema, la scuola, le Università, finanche - antropologicamente intese - la legge, la Costituzione, lo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio e, ancora il web, l’intelligenza artificiale e così via. Ma il patrimonio culturale in senso giuridico è tutt’altra cosa: è soltanto quello definito in base alle norme del Codice. Diversamente, si postulerebbe un corrispondente potere pubblico di altrettanta indeterminatezza e latitudine, con buona e definitiva pace dello Stato di diritto.
b. È bene dunque non confondere tra valore immateriale dei beni culturali e beni culturali immateriali. I beni culturali materiali sono presi in considerazione dall’ordinamento non per la sola loro consistenza materiale, ma anzitutto per il loro significato culturale, nel quale risiede il loro valore immateriale da salvaguardare per quanto possibile. Altra e ben diversa cosa, al di là degli equivoci lessicali, sono i beni culturali immateriali, o meglio le “espressioni di identità culturale collettiva”, ossia appunto la cultura, i mestieri, la vite ad alberello di Pantelleria, la pizza napoletana, il canto a tenore sardo, l’opera dei pupi siciliana e così via. La diversità tra beni culturali in senso reale e normativo, e beni culturali immateriali è ontologica, epistemologica e giuridica.
c. Che vi sia una “profonda interdipendenza fra il patrimonio culturale immateriale e il patrimonio culturale materiale e i beni naturali”, come dice il preambolo della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale di Parigi del 2003, è innegabile ma è proposizione priva di riflessi giuridicamente rilevanti. Qual è invero il “bisogno di tutela” dell’uno e dell’altro “patrimonio” culturale? Il tema riguarda appunto i fondamentali di uno Stato di diritto: tocca infatti il principio basilare di libertà, quello del minimo mezzo e quello di proporzionalità, e al fondo l’idea liberale per cui tutto è libero tranne quanto è espressamente vietato dal legislatore e che si traduce nella “grande regola” del principio di legalità: dunque la nominatività, tassatività e tipicità dei poteri pubblici funzionali, dalla limitata azione e dal contenuto àmbito, per cui il potere è dato dalla legge all’amministrazione tipo per tipo, fattispecie per fattispecie, finalità per finalità: non a latitudine indiscriminata. Lo Stato di diritto impone un uso contenuto del potere pubblico: solo quando è davvero necessario e se corrisponde a un reale bisogno di contenimento. Occorre cioè giuridificare quanto meno possibile e soltanto per lo stretto indispensabile.
La domanda si traduce allora in questa: qual è il “bisogno di diritto della cultura”? La risposta è che la cultura necessita della libertà; ha bisogno di supporto economico e non di restrizioni; di garanzie costituzionali di libera di espressione, non di autoritativa “tutela”, di discriminazioni, di intrusioni dall’alto. La cultura, per sua natura, rifiuta di essere giuridificata.
d. Che non si debba confondere, sul piano giuridico, cultura tout court e patrimonio culturale in senso proprio è dimostrato dagli istituti che compongono il Codice: non uno può essere applicabile ai c.d. beni culturali immateriali in quanto tali. La pretesa scindibilità del valore immateriale esterno rispetto alla res corporalis conduce piuttosto verso altri settori del diritto, come il diritto d’autore, la tutela del marchio o della denominazione di origine controllata, il riconoscimento di identità o paternità dell’uso o della tradizione.
e. Che i c.d. beni culturali immateriali non richiedano tutela, ma solo valorizzazione, sostegno o promozione, lo dice anche l’art. 2, comma 3, della Convenzione di Parigi del 2003 che così definisce la nozione di salvaguardia del patrimonio culturale immateriale: “Per ‘salvaguardia’ s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale”.
5. La tutela dei centri storici richiede altri e diversi strumenti di intervento
Ci si potrebbe a questo punto domandare se, alla base dell’opzione di fondo favorevole al vincolo di destinazione d’uso, non sia in qualche modo rintracciabile una sorta di arrière-pensée, mossa dalla generale preoccupazione per la progressiva perdita di identità e dei caratteri tradizionali, anche commerciali, dei centri storici: fenomeno indotto tra l’altro dalle c.d. liberalizzazioni commerciali del “decreto Bersani” (d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114). L’attuale art. 52 (Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali) del Codice ne sarebbe l’indicatore di valore (della regola e non - come comunemente assunto - dell’eccezione, analogamente a quanto mostra di ritenere la sentenza sull’art. 51 circa lo speciale vincolo a bene culturale per gli studi d'artista). Al fondo, dunque, l’opzione con cui il conflitto di giurisprudenza viene affrontato sarebbe una risposta alla perdita del decoro urbano dei centri storici [tema ampiamente trattato dalla giurisprudenza della V Sezione sui centri storici di Firenze e di Roma, e soprattutto da Cons. Stato, V, 3 settembre 2018, n. 5157 sul caso della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano].
Se così davvero fosse, fermo che il problema esiste ed è di importanza capitale per la sopravvivenza dei centri storici nella loro dimensione immateriale e identitaria, occorrerebbe osservare che la risposta sarebbe al contempo eccessiva e insufficiente: eccessiva per le ragioni già dette, insufficiente perché mai riuscirebbe a coprire un intero valore commerciale di un centro storico. In effetti, dilatare oltre ragionevole misura la tutela dell’interesse culturale per singoli immobili al fine ultimo di tutelare gli interi centri storici contro la gentrificazione, lo svuotamento, la perdita di vitalità, il rischio di musealizzazione e teatralizzazione, rischia di far deragliare il sistema della tutela dai suoi corretti binari di svolgimento, con effetti deleteri per la tenuta del sistema stesso.
Altri semmai possono essere gli strumenti per un tale salvaguardia dei centri storici e del loro genius loci unitario di organismi viventi, come già per i profili materiali insegna la Carta di Gubbio del 1960: si può pensare alle leggi regionali sulla valorizzazione dei locali storici (ad es., mediante contributi ai gestori), alle previsioni urbanistiche ed edilizie, alla disciplina del commercio e del turismo (i B&B e le locazioni turistiche brevi), forse un uso ad hoc dei vincoli paesaggistici “vestiti” di area vasta (secondo il modello della parte III del Codice): ma non con i semplici vincoli di cui all’art. 10.
In conclusione, il precipitato più significativo è che, seppur paradossalmente rispetto alla sua deviazione a complemento dell’art. 10, la sentenza n. 5 del 2023 dell’Adunanza Plenaria ha implicitamente richiamato alle basi concettuali del rapporto tra le espressioni di identità culturale collettiva di cui all’art. 7-bis del Codice e il sistema della tutela del patrimonio culturale codificato dall’intero corpo normativo. Una giovevole ricognizione di confini, dunque, che vale a fortiori per i valori, le credenze, le conoscenze e le tradizioni in continua evoluzione, ivi compresi tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi, di cui parla la Convenzione di Faro del 2005.
Per queste ragioni circolari, permane in realtà anche ai fini originari la validità dell’asciutta ed efficace formulazione dell’art. 7-bis, che bene racchiude quanto occorre al nómos del patrimonio culturale per il némein; cioè per ripartire, separare, distinguere e distribuire gli spazi di azione, dunque per misurare questo basilare rapporto.
I c.d. beni culturali immateriali di null’altro necessitano perché la loro rilevanza giuridica emerga e sia riconosciuta. L’art. 7-bis offre loro lo spazio concettualmente e giuridicamente possibile e praticabile.
Tutto ciò in disparte, rimane da registrare l’impressione che gli eccessi espressivi e le apparenti contraddizioni leggibili in vari tratti della motivazione possano essere riflesso indiretto delle approssimazioni terminologiche e concettuali generate dal variegato movimento comunicazionale inteso a sostenere l’ingresso dei c.d. beni culturali immateriali nel sistema della tutela definito dal Codice. Ragione ulteriore per mettere ordine sulla base dei concetti giuridici e riconoscere alla sentenza il rilevante nucleo di positività di cui si è detto, separandolo dal resto.
Note
[*] Attualità-valutato dalla Direzione.
[**] Giuseppe Severini, già Presidente di Sezione del Consiglio di Stato è Presidente del Centro Studi Giuridici e Politici dell’Assemblea legislativa dell’Umbria, g.severini@giustizia-amministrativa.it.