Alla ricerca delle coordinate del patrimonio culturale immateriale
L’insostenibile leggerezza del patrimonio culturale immateriale
di Valentina Gastaldo [*]
Sommario: 1. Premessa. - 2. I beni culturali immateriali nel diritto internazionale. - 3. Ordinamenti a confronto. - 4. La sfuggevole tutela della immaterialità nell’ordinamento italiano. - 5. Conclusioni.
La lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità si arricchisce continuamente e molti di questi beni sono rappresentativi proprio dell’identità e delle tradizioni del nostro Paese. Tuttavia, il nostro ordinamento prevede strumenti di tutela e valorizzazione per i soli beni dotati di un substrato materiale, e, ciò nonostante, a livello internazionale ed europeo si stiano sviluppando riflessioni particolarmente sensibili al tema delle espressioni culturali intangibili. Il presente contributo ha lo scopo di indagare - anche in chiave comparata attraverso l’esame della legislazione adottata da alcuni Paesi - le peculiari prospettive di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale immateriale, e rafforzare l’idea per cui, anche a livello nazionale, sia indispensabile ripensare la categoria dei beni intangibili in una dimensione ultrastatale che superi l’elaborazione codicistica sinora delineata.
Parole chiave: patrimonio culturale immateriale; identità culturale; generazioni future; digitalizzazione.
The unsustainable lightness of intangible cultural heritage
The list of the intangible cultural heritage of humanity is constantly expanding, and many of these assets are representative of the identity and traditions of our country. However, our legal system provides tools for the protection and enhancement of only those assets with a material substrate, despite the fact that international and European discussions are increasingly focused on the issue of intangible cultural expressions. The aim of this paper is to investigate - also through a comparative approach by examining the legislation adopted by several countries - the specific perspectives for the protection and enhancement of intangible cultural heritage, and to strengthen the idea that, even at the national level, it is essential to rethink the category of intangible assets within a supranational dimension that goes beyond the codified framework currently in place.
Keywords: intangible cultural heritage; cultural identity; future generations; digitization.
“Libiamo, Libiamo né lieti calici...” [1] perché l’Italia può aggiungere l’arte del Canto Lirico [2] alle altre “tradizioni vive” [3] inserite nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Ma che cosa comporta questo riconoscimento per il nostro Paese, sotto il profilo giuridico?
La visione “materiale” [4] dei beni culturali che permea il nostro ordinamento, mi porta, allo stato, a rispondere nel senso che si tratta solo di una medaglietta ottenuta dall’Italia perché l’intera legislazione nazionale di settore è ancora oggi fortemente sbilanciata a favore della corporalità [5], non prestando attenzione - salvo poche intrusioni nel d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 [6] - ai beni immateriali che non si sostanziano in cose.
E ciò nonostante negli ultimi anni si senta sempre più spesso parlare di patrimonio culturale immateriale e, a livello internazionale ed europeo, si stiano sviluppando riflessioni particolarmente sensibili al tema delle espressioni culturali intangibili, allo stretto legame che sussiste tra queste, lo sviluppo sostenibile e l’ambiente in generale, e a cosa vogliamo (o dobbiamo) impegnarci a conservare e salvaguardare per noi e per le generazioni future.
Perché è indubbio che questo tipo di beni culturali, in quanto intimamente legato all’esistenza e alle origini delle persone, ai profili identitari delle popolazioni di un determinato territorio, alle comunità che praticano e trasmettono le proprie tradizioni locali, conoscenze, know-how, è estremamente fragile ed esposto al rischio di scomparire ed essere dimenticato, tanto più in ragione dell’incessante cavalcata dei processi di globalizzazione [7] che stanno interessando la nostra società e che, se da un lato hanno prodotto esiti certamente positivi, dall’altro, in alcuni contesti, stanno portando ad una perdita della diversità bioculturale in luogo di una omogeneità di tutto e tutti [8].
In questo contesto di progressiva e costante erosione del sapere culturale un ruolo fondamentale è svolto dall’Unesco - grazie all’approvazione di Convenzioni, programmi, rapporti ed azioni - e da alcuni organismi internazionali regionali [9].
All’attenzione dimostrata sul fronte internazionale fa, purtroppo, da contraltare la scelta legislativa italiana che, salvo qualche episodica eccezione di ampliamento verso una nozione aperta di bene culturale (ben presto rinnegata [10]), è rimasta strettamente ancorata al concetto di patrimonio “qui tangi possunt” [11], prevedendo quindi strumenti di tutela per i soli beni dotati di un substrato materiale.
Un primo segnale di apertura possiamo ora rintracciarlo nella legge 7 ottobre 2024, n. 152, che all’art. 10, rubricato “Principi relativi al patrimonio culturale immateriale”, prevede che: “Lo Stato riconosce il patrimonio culturale immateriale come componente del valore identitario e storico per gli individui, le comunità locali e la comunità nazionale, assegnando rilievo alle prassi, alle rappresentazioni, alle espressioni, alle conoscenze, alle competenze nonché agli strumenti, agli oggetti, ai manufatti e agli spazi culturali associati agli stessi, che le comunità, i gruppi e gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.
Non passa inosservato come la definizione fornita dalla legge è diversa da quella resa dalle principali convenzioni internazionali in materia. Inoltre, il provvedimento rimanda a dei decreti legislativi che il Governo dovrà adottare, in conformità con le convenzioni internazionali - in particolare con la Convenzione Unesco del 2003 sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale - di cui poi occorrerà valutare l’effettiva portata.
C’è da chiedersi quali sono, almeno fino ad oggi, le ragioni di questa “disattenzione” giuridica, che appare ancora più incomprensibile se solo si prendono le mosse dall’art. 9 della nostra Carta costituzionale laddove dispone che la Repubblica promuove lo “sviluppo della cultura” [12]. Un lemma (“cultura”) pensato e voluto dall’Assemblea costituente per ricomprendere non solo le qualità mentali, ma anche l’insieme dei comportamenti e delle credenze umane, in quanto “espressione dei modi di vita creati e trasmessi da una generazione all’altra tra i membri di una particolare società” [13], secondo, dunque, una visione dinamica, evocativa di quella che Mortati definiva “Costituzione materiale” [14].
Il testo costituzionale ci offre così una idea di cultura intimamente collegata con la comunità territoriale di riferimento. Anche l’art. 117 Cost., in tema di riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regioni in materia culturale, contribuisce a ritenere che la categoria dei beni culturali immateriali e la sua protezione siano già presenti nel nostro ordinamento. Come è stato osservato [15], infatti, tale disposizione “distingue fra tutela e valorizzazione dei beni e promozione e organizzazione dell’attività (commi 2 e 3): mentre i primi consistono nelle memorie ereditate dal passato (cultural heritage), da preservare e trasmettere quali testimonianze di civiltà, le seconde sono rivolte soprattutto al futuro (living culture) e vanno promosse, in condizioni di libertà (art. 2 Cost.) ed eguaglianza (art. 3 Cost.), quali espressioni della creatività umana e della diversità culturale”.
Vero è però che ad oggi, nonostante queste indicazioni, l’ordinamento italiano non si è ancora spinto ad integrare l’attuale corpo normativo sulla tutela, valorizzazione e promozione dei beni immateriali, ribadendo, invero, la necessità di una res e del legame indissolubile con il bene culturale.
Ma è ormai chiaro che il patrimonio culturale immateriale esiste e risulta strettamente connesso con quello materiale [16], come ci insegnano il diritto internazionale [17] e i sistemi giuridici stranieri [18] - maggiormente sensibili alle esigenze di tutela di questi beni -, come già da tempo era stato sostenuto da autorevole dottrina [19] e dalla giurisprudenza [20], e come emerge, altresì, dall’analisi di alcune normative nazionali a carattere settoriale [21] e regionali [22]. E, dunque, in questo senso non è più sufficiente un intervento del Legislatore limitato, come è stato finora, a timidi tentativi di adeguarsi (malamente) agli impegni assunti che hanno portato solo a frustrare la nozione di patrimonio immateriale che fornisce valore all’immateriale ex se, generando l’ossimoro del bene immateriale che necessita un quid di materialità. I tempi sono, invece, oramai maturi per una riflessione seria sull’ampliamento della nozione di bene immateriale e sull’importanza di una positivizzazione del settore attraverso la creazione di un corpus normativo ad hoc.
Partendo dall’esame dei caratteri essenziali delle Convenzioni Unesco e, in particolare, dalla nozione di patrimonio culturale immateriale, il presente studio si propone - anche in chiave comparata attraverso l’esame della legislazione adottata da alcuni Paesi proprio in un’ottica di recepimento delle disposizioni internazionali - di rafforzare l’idea per cui, anche a livello nazionale, sia indispensabile ripensare la categoria dei beni intangibili in una dimensione ultrastatale che superi l’elaborazione codicistica sinora delineata.
2. I beni culturali immateriali nel diritto internazionale
L’impulso alla tutela della componente immateriale e di quelle forme di espressione della cultura non ancorate necessariamente alla tangibilità, prende le mosse dal diritto internazionale e comunitario e, segnatamente, attraverso l’adozione della Convenzione [23] per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, conclusa a Parigi il 17 ottobre 2003 [24], ed alla successiva Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, siglata a Faro il 27 ottobre 2005.
La Convenzione del 2003 fornisce una definizione [25] volutamente ampia ed eterogenea di patrimonio culturale immateriale, ricomprendendo “le pratiche, le rappresentazioni, le conoscenze, e il know-how che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui, riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale” (art. 2, comma 1).
È sempre l’art. 2 ad individuare cinque ambiti esemplificativi del fattore culturale che caratterizza la natura intangibile del patrimonio: (a) le tradizioni e le espressioni orali, compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; (b) le arti dello spettacolo; (c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; (d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo; (e) l’artigianato tradizionale.
Già ad una prima lettura della Convenzione è possibile ricavare alcuni elementi innovativi. Viene anzitutto in luce un significativo intreccio [26] tra patrimonio immateriale, sviluppo sostenibile [27] e ambiente [28]. Inoltre, nella seppur chiara distinzione tra beni immateriali e quelli qui tangi possunt, viene però in evidenza la loro unità ontologica [29]. Come emerge infatti sia dal preambolo che dal primo “Riconoscendo” anche i beni intangibili vengono espressamente qualificati come “beni culturali”.
Risulta altresì evidente la centralità attribuita all’aspetto partecipativo delle comunità o dei gruppi [30], non solo nell’identificazione [31] di ciò che rappresenta la loro identità culturale, ma altresì nella trasmissione, condivisione e continuazione di questo patrimonio alle generazioni future per garantirne la salvaguardia (art. 1, lett. a), suscitare la consapevolezza a ogni livello, locale, nazionale e internazionale dell’importanza dello stesso (art. 1, lett. c) e promuovere la cooperazione internazionale e il sostegno (art. 1, lett. d).
Quello che emerge è che, se il patrimonio culturale immateriale è espressione di un “valore ideale di civiltà” e, dunque, centrato sull’idea di natura evolutiva della cultura, non può che presentarsi come un bene dinamico a seconda dell’interazione con la società e con l’ambiente [32].
Con la Convenzione del 2003 assistiamo ad un processo di revisione del concetto di patrimonio culturale, tradizionalmente inteso in una accezione statica, e pertanto da proteggere mantenendo inalterata questa sua fissità; ora, invece, viene avvertito come espressione culturale vivente da salvaguardare nella sua evoluzione, anziché da conservare in una determinata forma immutabile nel tempo [33]. E proprio il carattere mutevole [34] che contraddistingue questa categoria di beni ha indotto l’Unesco a individuare quale fine delle politiche pubbliche in materia, la “salvaguardia” del patrimonio culturale immateriale, anziché la “protezione”, misura tipica per la tutela dei beni tangibili.
Non è, come potrebbe sembrare, una questione meramente terminologica, in quanto la salvaguardia [35] richiama l’attenzione sul fatto che un bene non deve essere solo protetto, ma devono essere intraprese tutte quelle azioni che contribuiscono “a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento di vari aspetti di tale patrimonio culturale” (art. 2, comma 3) [36].
Il quadro internazionale in tema di patrimonio culturale si è arricchito ulteriormente grazie all’adozione della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, meglio nota come Convenzione di Faro [37].
Nonostante alcuni punti in comune tra la Convenzione Unesco del 2003 e quella di Faro, laddove quest’ultima va a rafforzare quel nesso “tra cultura e comunità” già espresso nella prima, ad un’analisi più attenta emergono però alcune differenze [38]. Se nella Convenzione di Parigi l’oggetto è, infatti, circoscritto alla categoria dei beni immateriali, la nozione di cultural heritage [39] della Convenzione di Faro [40] si estende fino a ricomprendere tutte le forme di patrimonio culturale [41] che costituiscono, nel loro insieme, una fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività; nonché gli ideali, i principi e i valori, derivati dall'esperienza ottenuta grazie al progresso e nei conflitti passati, che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto dei diritti dell'uomo, della democrazia e dello Stato di diritto.
L’elemento di maggiore novità su cui poggia l’articolato riguarda la configurazione dei diritti culturali quali “diritti fondamentali”, in quanto componenti “del diritto alla vita” [42]. È inoltre evidente il cambio di prospettiva rispetto agli altri strumenti giuridici internazionali esistenti in materia [43], infatti, viene spostata l’attenzione dal patrimonio culturale alle persone, al loro ruolo essenziale nel processo di identificazione dei valori culturali e al loro rapporto con l'ambiente circostante.
Assistiamo in questo modo ad un capovolgimento dei ruoli per cui le comunità passano da mere consumatrici a produttrici del patrimonio stesso [44], le sole capaci di “individuare” e “trasmettere” le “eredità culturali”.
Prima di passare ad esaminare gli effetti che il diritto internazionale e comunitario hanno (forse) avuto sull’ordinamento italiano, pare utile uno sguardo comparatistico. Va sin da subito anticipato che sono numerosi i Paesi che, attraverso una implementazione [45] della loro normativa, hanno dimostrato di comprendere il valore e le potenzialità che la tutela del patrimonio culturale immateriale può avere in molti settori, quali quello ambientale, sociale, economico e tecnologico [46].
L’analisi non può che partire dal sistema giapponese, che potremmo definire un modello a regolamentazione forte [47] perché si è dotato, sin dal 1950, di una normativa specifica volta a diffondere la conoscenza di questo tipo di patrimonio e a prevedere misure di tutela e valorizzazione [48].
La particolarità di questa legge è quella di concentrare l’attenzione non solo sul sapere e sull’abilità ma anche sulla persona che detiene il “tesoro nazionale”, coniando così la dizione di “tesoro umano vivente” [49]. Questa categoria di “portatori di saperi” è stata fatta propria anche dall’Unesco - seppur con qualche differenza rispetto al modello originale [50] - laddove afferma che “Living Human Treasures are persons who possess to a high degree the knowledge and skills required for performing or re-creating specific elements of the intangible cultural heritage” [51]. In tal modo, ciascun paese viene sollecitato a presentare una lista di detentori di un patrimonio immateriale che ricevono un riconoscimento e sono incoraggiati a diffondere le loro conoscenze e a continuare le loro pratiche per trasmetterle alle generazioni presenti e future.
Emerge, allora, che il contributo orientale sia stato particolarmente rilevante per sensibilizzare le riflessioni internazionali sulla necessità di un riconoscimento dell’aspetto immateriale del patrimonio dell’umanità e della sua valorizzazione, che hanno poi condotto alla nascita della Convenzione del 2003.
All’indomani della ratifica, la normativa giapponese [52] è stata potenziata ampliando la nozione giuridica di patrimonio culturale immateriale e innalzando il livello di tutela.
Interessante è anche l’esperienza brasiliana. La convivenza di diverse etnie - ciascuna con il proprio bagaglio identitario [53] - e religioni ha contribuito alla nascita di una normativa fortemente incentrata sul riconoscimento [54] dei valori etici e culturali delle comunità. E così nella Carta costituzionale, anche la protezione dei beni culturali immateriali, viene riconosciuta come compito primario dello Stato. L’art. 216, infatti, stabilisce che il patrimonio culturale brasiliano è formato dai “bens de natureza material e imaterial, tomados individualmente ou em conjunto, portadores de referência à identidade, à ação, à memória dos diferentes grupos formadores da sociedade brasileira, nos quais se incluem: as formas de expressão; os modos de criar, fazer e viver” [55].
Tuttavia, per lungo tempo tale protezione è stata assicurata solo attraverso processi di identificazione, catalogazione e inventariazione del patrimonio intangibile. La ratifica della Convenzione Unesco ha portato all’approvazione di alcuni decreti presidenziali che hanno rafforzato il sistema di protezione di questa categoria di beni [56].
Per rientrare invece nei confini europei, interessante è l’esperienza spagnola. La Spagna vanta una legislazione in materia di patrimonio culturale immateriale che può farsi risalire alla Costituzione spagnola del 1978 che nel preambolo richiama espressamente, quale finalità del Paese, quella di proteggere tutti gli spagnoli e i popoli della Spagna nell’esercizio dei diritti umani, delle loro “culture e tradizioni”, delle lingue e istituzioni [57].
Sulla base della Carta Costituzionale è stata poi adottata la Ley del Patrimonio Histórico Español, n. 16/1985 [58] che, pur non prevedendo una definizione esplicita di beni culturali immateriali, riferendosi alla “knowledge and activity” e alla “popular and traditional culture” assicurava tutela a elementi immateriali [59].
L’importanza [60] di questa legge è da attribuire al fatto di assegnare al Patrimonio Histórico Español una nozione ampia che ricopre [61] sia i beni culturali materiali che immateriali [62].
Con la ratifica della Convenzione 2003 - che, come visto, è incentrata sulla funzione di “salvaguardia”, richiamando l’attenzione degli Stati sulla necessità di forme di valorizzazione specifiche per il patrimonio culturale immateriale - assistiamo alla nascita di una regolamentazione particolarmente sensibile alla tutela di ogni profilo di manifestazione della cultura, indipendentemente dalle modalità di espressione. La legge n. 10 del 2015 [63] estende, in quest’ottica, la nozione di patrimonio culturale immateriale a tutte le forme di socializzazione collettiva in cui si esprime l’identità del cittadino spagnolo [64]. Tuttavia, da un’analisi della normativa, sembra non pienamente valorizzato il “principio di partecipazione” delle comunità, presupposto imprescindibile della Convenzione Unesco del 2003.
La legislazione spagnola si configura, infatti, come fortemente accentratrice, in capo all’Amministrazione statale [65], delle competenze in materia di patrimonio culturale immateriale. Dunque, sotto il profilo del coinvolgimento degli enti territoriali, quali “protagonisti” nelle attività di valorizzazione e di gestione dei beni culturali, l’assetto normativo spagnolo richiederà qualche rifinitura.
Per quanto riguarda la Francia, invece, la Costituzione del 1958 non contiene alcun riferimento al patrimonio culturale. Invero, tale assenza non stupisce perché il testo era concepito solo come insieme delle disposizioni volte a regolare il funzionamento dei pubblici poteri, e non anche i diritti e le libertà dell’essere umano, divenuti parte integrante solo a seguito della grande dècision del Conseil Constitutionnel del 1971 [66].
L’ordinamento francese è stato uno dei primi Stati a ratificare la Convenzione Unesco del 2003 [67], tuttavia, solo nel 2016 [68] è stato inserito nel Code du Patrimoine del 2004 [69] un espresso riferimento al patrimonio immateriale: “Il s’entend ègalement des èlèments du patrimoine culturel immaterièl, au sens de l’article 2 de la convention internationale pour la sauvegarde du patrimoine culturel immatèriel, adoptèe à Paris le 17 ottobre 2003”.
Negli anni l’interesse dell’opinione pubblica è sempre più aumentato dando vita ad una policy nazionale sul tema del patrimonio immateriale che ha portato lo Stato francese [70] ad impegnarsi attivamente per implementare gli elementi iscritti nelle liste rappresentative dell’Unesco [71].
Dall'analisi del quadro giuridico internazionale e sovranazionale emerge, come la ratifica delle Convenzioni (Unesco del 2003 e di Faro), abbia modificato la visione delle politiche culturali, portando ad una maggiore consapevolezza da parte degli Stati parte dell’importanza del patrimonio culturale immateriale, quale espressione dell’identità dei popoli, e, dunque, della diversità culturale che necessita di forme di protezione rafforzata in quanto strumento indispensabile per la piena realizzazione dei diritti umani fondamentali [72].
È interessante notare come i Paesi esaminati, seppur con alcune differenze legate al fatto che prendevano le mosse da un “punto di partenza” normativo non omogeneo, hanno, in taluni casi, rafforzato e, in altri, creato (o comunque rinnovato) il quadro giuridico in materia.
Ben diverso, come è stato anticipato, è l’atteggiamento riservato dall’ordinamento italiano al sistema ordinamentale internazionale ed europeo.
4. La sfuggevole tutela della immaterialità nell’ordinamento italiano
Non ci si sarebbe mai aspettati che proprio in Italia - territorio caratterizzato da una moltitudine di tradizioni - il tema del patrimonio intangibile venisse così trascurato. Invero, anche le spinte sovranazionali non hanno inciso in modo significativo a colmare le lacune del nostro Paese. Del resto, il Legislatore italiano ha assicurato, come vedremo, una stravagante attuazione ai principi sanciti dalla Convenzione Unesco del 2003.
L’art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio mantiene, infatti, ancora oggi strettamente legati i beni culturali alle cose che presentano un interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e alle altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.
Anche l’art. 7-bis [73], rubricato “Espressioni di identità culturale collettiva”, introdotto nel 2008, non ha minimamente scalfito la prospettiva tradizionale del Codice [74], ancorando gli strumenti di tutela e valorizzazione al substrato materiale attraverso il quale il bene immateriale si manifesta [75].
Ulteriore conferma che la scelta del Legislatore sia saldamente legata alle cose tangibili, disconoscendo l’elemento immateriale come concetto giuridico autonomo, la si ricava altresì dall’art. 52, comma 1-bis, del “Codice Urbani”, relativo all’esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali [76]. Si tratta, infatti, di una norma di carattere settoriale finalizzata a introdurre misure di carattere promozionale solo per l’artigianato tradizionale.
Questa posizione è stata, infine, confermata dalla giurisprudenza costituzionale [77] che, in un caso sottoposto alla sua attenzione, ha evidenziato che il valore immateriale può trovare tutela solo nella prospettazione materiale in quanto “non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetto separatamente dal bene”.
Recentemente anche i giudici amministrativi sono tornati sul concetto di bene culturale, colto nella sua dimensione immateriale, riconoscendo l’impossibilità di scindere la dimensione materiale da quelle immateriale, stante la loro immedesimazione. In particolare, in una recente sentenza il Consiglio di Stato [78] ha precisato come il “bene culturale, oltre a essere oggetto diretto della tutela apprestata dalle norme, rileva anche come ‘testimonianza vivente’, vale a dire come mezzo di prova dell’esistenza della manifestazione culturale, immateriale e collettiva, che, per mezzo di esso, si alimenta e si ricrea, perpetuandosi nel tempo. Infatti, il bene culturale non si esaurisce soltanto nelle testimonianze materiali che lo rappresentano, attribuendogli il valore estetico o storico che gli è proprio, ma presenta anche una particolare forza ‘evocativa’ in virtù del valore in esso insito, che assume significato per l’intera collettività di riferimento, la quale da esso trae un senso di identità e di continuità. Rilevato che la manifestazione culturale ‘immateriale’ deve riferirsi ad una cosa materiale, mobile o immobile, che consenta di ricostruirne contenuti e caratteristiche, va rimarcato come deve esservi tra esse un ‘rapporto bilaterale’: la cosa acquista valore di testimonianza per mezzo del suo rilievo culturale. L’elemento immateriale e quello materiale vengono così a coesistere in un tutt’uno inscindibile, in cui spazio e tempo attribuiscono nel loro insieme alla res il valore culturale meritevole di tutela. Il bene culturale è percepito come tale dalla comunità attraverso quel determinato uso, ma al contempo lo trascende, diventando non solo ‘patrimonio culturale’, in un’ottica soltanto ‘conservativa’ per la sua preservazione, ma anche una ‘eredità culturale’ da trasmettere alle future generazioni (c.d. cultural heritage, come definita dalla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, ratificata con la legge 1° ottobre 2020, n. 133, la quale ha definito il ‘patrimonio culturale’ come l’insieme delle risorse ereditate dal passato, riflesso di valori e delle credenze, delle conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione, rilevanti per una comunità di persone, rimarcando il valore e il potenziale del patrimonio culturale come risorsa per lo sviluppo sostenibile e per la qualità della vita e individuando il ‘diritto al patrimonio culturale’)”.
La scelta operata non deve però essere intesa come un disconoscimento della categoria dei beni intangibili, tant’è che vi sono state leggi di settore [79] che hanno cercato di assicurare loro una forma di tutela. Ma altrettanto intenso è stato il dibattito circa la possibilità di estendere la disciplina dettata dal Codice per la proprietà industriale [80] e per il diritto d’autore [81], in assenza - e in attesa - di una legge generale.
Seppur apprezzabili, si tratta, pur sempre, di tentativi di adeguare la normativa nazionale agli insegnamenti internazionali che hanno avuto, tuttavia, una portata limitata e non sono stati in grado di individuare principi fondamentali di carattere generale.
In questo quadro, un ruolo rilevante è stato svolto dalle Regioni [82] che hanno adottato normative dal contenuto piuttosto variegato, comunque tutte accomunate dalla volontà di individuare, quale obiettivo comune fondamentale, la promozione e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e culturale dei loro territori, nonché la cura delle identità culturali.
L’interesse regionale trova una sua ragion d’essere nella teoria secondo cui “la diffusione, la molteplicità, la variegatezza dei beni culturali immateriali, fa sì che la individuazione e le connesse misure di valorizzazione sono di competenza ‘naturale’ delle comunità in cui germinano e di cui costituiscono elementi valoriali ed identitari. Di conseguenza, non sono riservate al legislatore statale, essendo anzi più consono al loro essere e al loro divenire il germinare nell’humus dei vari territori” [83].
Ormai l’inscindibile endiadi tra patrimonio culturale e territorio ha fatto sì che anche le autonomie locali dedicassero la propria attenzione “legislativa” alla previsione di misure di salvaguardia dei beni intangibili, che prosperano nei vari territori, in quanto espressione dei valori identitari degli individui che fanno parte della comunità. Indicative sono le diverse esperienze locali che per stimolare le potenzialità del bene culturale immateriale, hanno cercato di assicurare la mise en valeur di tutto ciò che lo circonda, in termini sia di tutela, salvaguardia e conservazione, che di promozione, valorizzazione, gestione e fruizione, anche e soprattutto attraverso la partecipazione attiva dei cittadini. È incontrovertibile, del resto, che grazie agli individui che compongono la comunità di riferimento il bene immateriale può essere individuato; tuttavia, è altresì indubbio che la sussidiarietà orizzontale [84] può essere di ausilio anche per la diffusione della conoscenza, promozione e per la sopravvivenza di questi beni.
Il patrimonio culturale immateriale prende oggi le mosse dalla centralità dell’individuo, quale depositario di conoscenze identitarie e attore nella diffusione della memoria di una determinata comunità; assume quindi sempre più un ruolo centrale, un valore etico in sé. Non a caso l’art. 2 della Costituzione italiana richiama il principio personalista, come pure il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea pone l’individuo al centro della sua azione.
E la giurisprudenza nazionale [85] ha riconosciuto il dato essenziale della centralità della persona - sostenendo che è il principio personalistico che anima la nostra Costituzione - affermando che “dalla applicazione diretta degli artt. 2, 9 e 42 Cost. si ricava il principio della tutela della personalità umana e del suo corretto svolgimento, nell'ambito dello Stato sociale [...] anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che - per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale - devono ritenersi ‘comuni’, prescindendo dal titolo di proprietà”.
Le considerazioni svolte portano a riconoscere che il fine ultimo della tutela del patrimonio culturale immateriale possa essere inteso tanto a beneficio dell’umanità intera, quanto nella sua dimensione umana che vede i singoli individui come attori in grado di esprimere concretamente la propria identità individuale, garantita tramite il loro accesso, partecipazione e contributo al patrimonio culturale stesso.
Le riflessioni formulate fino ad ora ci portano ad alcune considerazioni conclusive.
L’inazione del legislatore statale italiano è stata in parte colmata dagli interventi regionali e comunali che hanno consentito di offrire una base giuridica alle diverse espressioni della cultura immateriale. Si tratta però di un quadro normativo a macchia di leopardo che crea una profonda discriminazione tra i diversi livelli di governo e non può certamente essere ritenuto sufficiente per superare le lacune del nostro ordinamento e la distanza rispetto agli altri Paesi. Anche perché in questo modo il rischio è quello di ignorare che i beni immateriali rappresentano quel “patrimonio identitario inalienabile, di identità e di esperienze e perfino di simboli di quella singola e specifica comunità” [86], e perciò uno degli elementi costitutivi della Nazione [87] / [88].
È quindi innegabile un’opera di sistemazione organica della disciplina così da attribuire cittadinanza [89] a questa categoria nel nostro ordinamento, e serve, altresì, un ripensamento profondo in tema di salvaguardia del patrimonio immateriale che ne consenta un ancoraggio giuridico in una legge organica di livello nazionale.
Anche l’ennesima riforma organizzativa del ministero della Cultura, apportata dalla Legge 206 del 2023 [90], che poteva sembrare una presa d’atto della maturata convinzione del nostro Legislatore dell’importanza di elaborare una specifica normativa dei beni immateriali [91], non è servita a determinare un’inversione di rotta.
Nel dettaglio, l’art. 21, comma 1, riconosce, per la prima volta il valore culturale dei beni immateriali per l’identità collettiva nazionale, laddove afferma che “Il Ministero della cultura e, per i profili di competenza, il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste e le altre amministrazioni competenti promuovono la valorizzazione e la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, quale insieme di beni intangibili espressione dell’identità culturale collettiva del Paese” [92].
Appare però sin da subito evidente il limite di questa disposizione che ammette l’esistenza di questa categoria di beni ma, ancora una volta, non offre alcuna definizione. La scelta di non delineare i confini della nozione di patrimonio culturale immateriale, da un punto di vista giuridico, rappresenta però un problema perché non consente di individuare gli strumenti amministrativi e legislativi in tema di tutela, valorizzazione e gestione.
Il testo che è stato recentemente approvato (legge n. 152/2024 [93]) segna, almeno nelle intenzioni, un passo in avanti nel percorso di riconoscimento del patrimonio vivente, ovvero di quelle tradizioni, pratiche, rituali che, tramandandosi di generazione in generazione, costituiscono l’identità di ciascuno di noi e delle comunità in cui viviamo. In particolare, il nuovo quadro normativo affronta anche la tutela del patrimonio culturale immateriale, definito come l’insieme delle pratiche, delle espressioni, delle conoscenze e delle tradizioni che le comunità riconoscono come parte del proprio patrimonio culturale.
Questo provvedimento rappresenta una potenziale evoluzione verso la valorizzazione delle tradizioni storiche e delle espressioni culturali non materiali, mirando a rafforzare la tutela e la promozione del patrimonio culturale nazionale e locale anche in un’ottica di preservare e trasmettere alle future generazioni queste tradizioni, garantendo la partecipazione attiva delle comunità locali.
Rimangono però aperte alcune questioni che dovranno essere considerate.
Anzitutto non si può dimenticare che il patrimonio culturale immateriale ha una dimensione dinamica, in continua evoluzione. Pertanto, a differenza dei beni culturali materiali non possono essere musealizzati secondo le metodiche tradizionali, pena il rischio di essere cristallizzate nel tempo e nello spazio. Ulteriore aspetto da considerare attiene poi al rapporto con le regioni. Abbiamo ricordato che, nel silenzio del legislatore nazionale, gli enti regionali sono intervenuti sia con leggi specifiche per tutelare singole espressioni dei patrimoni immateriali, sia attraverso l’individuazione degli strumenti di tutela e di valorizzazione [94]. Pertanto, per non disperdere, o rendere vani, gli effetti positivi prodotti da questi interventi, sarà allora indispensabile capire come coordinare questa produzione normativa con i successivi decreti.
Infine, il timore è che siamo ancora lontani da una rivisitazione del Codice Urbani e dall’introduzione di un’organica disciplina. Credo, infatti, sarebbe opportuno l’inserimento all’interno del d.lg. n. 42/2004 di specifiche norme volte a rendere attuabili una politica di tutela, promozione e valorizzazione dei valori culturali intangibili, anche al fine di evitare di applicare la Convenzione di Faro, che, in quanto “normativa sui generis”, è di per sé generica e di difficile attuazione. Disposizioni che, a differenza dell’art. 7-bis - che rappresenta una dichiarazione di intenti, sottesa al superamento dei canoni della patrimonialità, che non ha però condotto ad una piena tutela dei beni culturali immateriali - accolgano, finalmente, una nozione allargata di bene culturale.
Ritengo allora che non sia più possibile per il legislatore procrastinare un proprio intervento, e che il primo sforzo debba essere quello di circoscrivere [95] questa categoria tenendo conto sia delle peculiarità delle diverse comunità che formano il nostro ordinamento, sia delle indicazioni sovranazionali [96].
Inoltre, occorre un intervento concreto in termini di individuazione di misure ad hoc di salvaguardia [97] al fine di preservare e trasmettere, anche nell’interesse delle generazioni future [98], una risorsa strategica [99], qual è quella del patrimonio culturale immateriale.
Un’esigenza che si rende sempre più pressante anche alla luce dell’impatto rivoluzionario che le nuove tecnologie, tra cui i processi di digitalizzazione [100], stanno avendo anche nell’ambito della cultura e, in particolare, dei beni culturali [101]. D’altra parte, una volta che l’immagine del bene viene inserita in rete, ciò che si deve tutelare, al fine di evitare usi impropri, non è più la res tangibile ma il valore immateriale dell’opera.
Tra le possibili declinazioni dell’immaterialità non va nemmeno dimenticata la sponsorizzazione che assegna alla dimensione immateriale del patrimonio culturale un’attenzione sempre più rilevante. Infatti, attraverso questo istituto lo sponsor si vede riconosciuto il diritto di utilizzare il valore immateriale del bene e di trarne benefici per la propria immagine [102].
Concludo sottolineando che tutte le osservazioni critiche espresse in questo contributo vogliono essere costruttive, e non distruttive, auspicando a risultati migliori in un futuro non troppo lontano, forse anche grazie alla legge n. 152/2024.
Note
[*] Valentina Gastaldo, ricercatrice e professoressa aggregata di Diritto amministrativo presso l’Università degli studi di Parma, Via Università 12, 43121 Parma, valentina.gastaldo@unipr.it.
[1] Aria nel primo atto de La Traviata di Giuseppe Verdi (scena II).
[2] La proclamazione è avvenuta il 6 dicembre 2023 nel corso della 18° sessione dell’Intergovernmental Committee for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage, in Botswana che ha proclamato il “canto lirico italiano” elemento idoneo ad entrare nella lista delle pratiche mondiali meritevoli di tutela perché risponde appieno alla definizione che l’Unesco ha dato per beni immateriali, ovvero: “l’insieme delle tradizioni, espressioni orali, arti dello spettacolo, [...] che sono espressione vivente dell’identità della comunità e delle popolazioni che in esse si riconoscono”.
Secondo i criteri stabiliti dall’Unesco la pratica del canto lirico rappresenta un capolavoro del genio creativo umano ed è una testimonianza unica di una tradizione culturale direttamente associata a opere artistiche di valore universale. Infatti, è in grado di unire la musica, il canto, la recitazione e le scenografie tipiche dell’Opera e ha la capacità di racchiudere in sé patrimoni materiali e immateriali tipicamente italiani e di rappresentare l’identità culturale del nostro Paese in una delle sue massime espressioni: il testo cantato, le abilità e le tecniche che mirano a valorizzare la voce umana e la mimica facciale e gestuale.
[3] Gli elementi italiani iscritti nella Lista Rappresentativa del patrimonio culturale immateriale sono 18:
a) Opera dei Pupi siciliani (2008);
b) Canto a tenore sardo (2008);
c) Saperi e saper fare liutario della tradizione cremonese (2012);
d) Feste delle Grandi Macchine a Spalla (La Festa dei Gigli di Nola, la Varia di Palmi, la Faradda dei Candelieri di Sassari, il Trasporto della Macchina di Santa Rosa a Viterbo) (2013);
e) Dieta mediterranea (2013);
f) La pratica agricola tradizionale della coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria (2014);
g) Falconeria (2016);
h) L’Arte del “pizzaiuolo” napoletano (2017);
i) L’Arte della costruzione dei muretti a secco (2018);
j) Perdonanza Celestiniana (2019);
k) Alpinismo (2019);
l) Transumanza (2019);
m) L’arte delle perle di vetro (2020);
n) L’arte musicale dei suonatori di corno da caccia (2020);
o) Cerca e cavatura del tartufo in Italia: conoscenze e pratiche tradizionali (2021);
p) La tradizione dell’allevamento dei Cavalli Lipizzani (2023);
q) Irrigazione tradizionale: conoscenza, tecnica e organizzazione (2023).
[4] La dottrina italiana ha giustificato l’accoglimento di una nozione reale di bene culturale sostenendo che “nell’opera d’arte come in ogni altra cosa in cui si riconosce un valore culturale che giustifica la soggezione di quest’ultima alla speciale ragione di tutela, il profilo ideale che è oggetto di protezione si è talmente immedesimato nella materia in cui si esprime da restarne definitivamente prigioniero, così che esso si pone come oggetto di protezione giuridica inscindibile dalla cosa che lo racchiude”. In tal senso, T. Alibrandi e P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001, 47. E’ stato così osservato che sebbene la cosa non è che una entità extragiuridica che si qualifica giuridicamente, in quanto presenta un interesse che può essere tutelato dal diritto (M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse storico, artistico, Padova, 1953, 98), la vis attractiva esercitata dalla res sul valore culturale ha prevalso e ha condotto all’elaborazione di una disciplina incentrata unicamente sui beni materiali (G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1). Pertanto, la ricostruzione dei beni culturali è tutta svolta con l’occhio alle cose che siano beni culturali: al fondo della concezione c’è sempre una cosa oggetto di un diritto patrimoniale. Così S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Rass. arch. Stato, 1975, 1-3, pag. 116 ss. Va anche rilevato come l’art. 810 c.c., nell’affermare che bene sono “le cose che possono formare oggetto di diritti”, riconduce inevitabilmente il concetto giuridico di “bene” ad una cosa materiale.
[5] Questa impostazione può farsi risalire alla scelta operata dalla Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio (che porterà il nome del suo presidente Franceschini), istituita su proposta del ministro della Pubblica Istruzione, con la legge n. 310 del 26 aprile 1964, con il compito di “condurre una indagine sulle condizioni attuali e sulle esigenze in ordine alla tutela e alla valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio e di formulare proposte concrete” (art. 1).
Il principale merito della commissione è stato quello di elaborare una nozione di bene culturale non più legata ad una concezione “estetizzante” crociana - sintetizzata nel riferimento alle Antichità e Belle Arti che compariva nella stessa denominazione dell’Autorità (la Direzione generale per le Antichità e le Belle arti, istituita presso il ministero della Pubblica Istruzione) preposta alla loro tutela - bensì legata ad una visione più ampia. Viene, infatti, proposta l’idea che al patrimonio culturale della nazione debbano appartenere “tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario (...) ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Per un maggior approfondimento sul tema e sulle ragioni di questo nuovo modo di intendere la cultura si rinvia tra gli altri a F. Merusi, Pubblico e privato e qualche dubbio di costituzionalità nello statuto dei beni culturali, in Dir. Amm., 2007, pag. 1 ss., secondo cui “l’aggettivo culturale attribuito al sostantivo bene dalla Commissione Franceschini in poi, grazie anche all’efficacia suadente di un famoso scritto di Massimo Severo Giannini, ha avuto un grande pregio, quello di estendere un regime protettivo anche a cose non ricadenti nell’angusta dizione delle belle arti e dell’archeologia”. Lo scritto a cui si riferisce l’Autore è il saggio di M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 5 ss.
Invero, come è stato rilevato da P.L. Petrillo, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale a vent’anni dall’adozione della Convenzione Unesco del 2003. Profili di diritto comparato, in DPCE Online, 2023, 2, pagg. 1691-1729, questa limitata attenzione da parte delle scienze giuridiche italiane ai patrimoni culturali immateriali è dipesa da una pluralità di fattori. Anzitutto, la mancanza di una definizione univoca di tali beni che ha impedito di delimitare l’oggetto della tutela con il rischio di abbracciare la concezione antropologica di bene culturale, cedendo al c.d. panculturalismo o benculturalismo che sottoporrebbe a protezione l’intera vita sociale. In tal senso G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, in Aedon, 2014, 1, che ha evidenziato la eterogeneità di molte ipotesi di beni del patrimonio culturale immateriale; G. Severini, La nozione di bene culturale e le tipologie di beni culturali, in Il Testo unico sui beni culturali ambientali (D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490). Analisi sistematica e lezioni, (a cura di) G. Caia, Milano, 2000, pag. 12; B. Zanardi, Un patrimonio artistico senza. Ragioni, problemi, soluzioni, Milano, 2013, pag. 117 ss.; S. Settis, Benculturalismo parolaio: il Patrimonio «boccheggia», ma tutti esaltano le «Eccezionali Mostre», in Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2006; T. De Marco, Qualche premessa teorica alla nozione di cultura e bene culturale, in Il Comune democratico, 1978, pag. 16.
Secondo taluni Autori poi vi sarebbe la convinzione che la protezione dei beni culturali non possa prescindere dalla realità, a discapito di altri elementi. Così L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, 2016, pag. 50.
A ciò si aggiunga che quando si parla di patrimonio culturale si pensa immediatamente a oggetti, luoghi tangibili, i quali peraltro spesso versano in stato di abbandono o necessitano comunque di interventi per la loro protezione. E questo inevitabilmente spinge a individuare forme di salvaguardia di questi beni. Tuttavia, la cultura assume anche forme incorporee che rischiano di deteriorarsi o disperdersi e che impongono, allo stesso modo, una attenzione da parte del legislatore e del giurista al fine di definire efficaci livelli di tutela.
[6] La novella del 2008 del Codice dei beni culturali e del paesaggio ha infatti introdotto l’art 7-bis che assoggetta alle disposizioni dello stesso Codice “le espressioni di identità culturale collettiva contemplate nelle Convenzioni Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’art. 10”. Di fatto, quindi, viene, nuovamente confermato l’originario impianto concettuale e giuridico.
[7] Proprio l’inarrestabile processo di trasformazione sociale, che porta ad una ricerca della somiglianza per non apparire diverso dagli altri, mette in pericolo di scomparsa e distruzione il patrimonio culturale immateriale, inducendo le persone ad accantonare il proprio bagaglio culturale in favore della cultura dei gruppi dominanti e identificandosi con la comunità di riferimento. Y. Donders, Protection and Promotion of Cultural heritage and Human Rights, in Research Handbook on Contemporary Cultural Heritage. Law and Heritage, (edited by) C. Waelde, C. Cummings, M. Pavis, E. Enright, Elgar, 2018, pag. 54 ss.
Tale fenomeno ha determinato una volontà universale di porre al riparo questo patrimonio e di salvaguardare i diritti culturali dei popoli. E tale scopo è espressamente indicato all’art. 1 della Convenzione Unesco del 2003.
[8] Così si è espressa A.A. Adewumi, Protecting intangible cultural heritage in the era of rapid technological advancement, in International Review of Law, Computers & Technology, 2021.
[9] Si pensi ad esempio l’Asia Pacific Organisation International Council of Museum (Icom) che ha adottato nel 2002 la Shanghai Charter a tutela del patrimonio culturale immateriale dei Paesi asiatici, all’African Intellectual Property Organisation (Oapi) che riconosce misure di protezione e tutela alle espressioni folcloristiche e legate alle popolazioni indigene africane, oppure all’Arab Copyright Convention impegnata a prevedere misure di protezione delle espressioni culturali immateriali dei popoli arabi. Si ricorda anche la United Nations Conference on Trade and Development (Unctad) che ha organizzato nel 2000 un forum internazionale per la difesa del patrimonio immateriale delle popolazioni del mondo. Infine, di rilievo anche la United Nations Environment Programme (UNEP) che si propone di garantire protezione alle tradizioni indigene come elemento essenziale per il rispetto dell’ambiente naturale e le diversità biologiche.
[10] Si ricorda che l’art. 148, lett. a), d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, che aveva superato la visione materiale introdotta dalla Commissione Franceschini (1967), considerando come culturale la mera “testimonianza avente valore di civiltà”, è stato abrogato dall’art. 184 del Codice dei beni culturali che ha fatto espressamente propria la concezione materiale prevedendo che beni culturali sono esclusivamente quelli mobili ed immobili individuati dalla legge o in base alla legge, quali testimonianza di civiltà (art. 2, comma 2).
[11] Particolarmente significativo è il pensiero dei Giudici della Corte costituzionale secondo i quali “il valore culturale dei beni di interesse storico, artistico, archeologico ed etnografico, è dato dal collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia, della civiltà o del costume anche locale. In altri termini, essi possono essere stati o sono luoghi di incontro e di convegni di artisti, letterati, poeti, musicisti ecc.; sedi di dibattiti e discussioni sui più vari temi di cultura, comunque di interesse storico-culturale, rilevante ed importante, da accertarsi dalla pubblica amministrazione competente. La detta utilizzazione non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene”. In tal senso Corte Cost., 9 marzo 1990, n. 118, in https://giurcost.org/decisioni/1990/0118s-90.html. Cfr. anche G. Astuti, Cosa (storia), in Enciclopedia del diritto, XI, Milano, 1962, pag. 5.
[12] Lo ricorda anche F. Rimoli, Le libertà culturali, in I diritti costituzionali, (a cura di) P. Ridola, R. Nania, Torino, 2001, pag. 665 ss., secondo il quale le previsioni dettate dal Codice Urbani non risponderebbero alla formula dell’articolo 9. Secondo L. Merlini, La politica culturale della Repubblica e i principi della Costituzione, in AA.VV. Scritti in memoria di Paolo Barile, Padova, 2003, pag. 507 ss., poiché deve essere letto unitamente ai principi e ai diritti fondamentali, talché la “cultura” deve essere connessa ad ogni “processo di formazione intellettuale della persona umana”. Di diverso avviso, invece, F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, pagg. 50-51, per il quale nella categoria dei beni culturali devono essere ricompresi, in coerenza con il concetto di cultura di cui all’articolo 9, esclusivamente i beni tangibili. Per un primo commento all’art. 9 si veda F. Merusi, Articolo 9, in Commentario della Costituzione. Art. 1-12. Principi fondamentali, (a cura di) G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna, 1975, pag. 442.
[13] In tal senso si è espresso M. Abbagnano, Cultura, in Dizionario di filosofia, Torino, 1961, pag. 201. Secondo la voce Cultura, in La piccola Treccani. Dizionario enciclopedico, Roma, 1995, pagg. 579-580, componente della cultura è anche “l’insieme delle conoscenze, valori, simboli, modelli di comportamento e anche le attività materiali, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, in relazione alle varie fasi di un processo evolutivo o ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali”.
[14] C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, Milano, 1940.
[15] Secondo M. Giampieretti e B. Barel, Spunti per una legge regionale sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, in Il Patrimonio culturale immateriale. Venezia e il Veneto come Patrimonio europeo, (a cura di) M.L. Picchio Forlati, Venezia, 2014, pag. 228.
[16] Un esempio di integrazione è rappresentato dagli ecomusei (quello francese Ecomusée d’Alsace e de Marquèze, oppure quello del paesaggio di Pabiago) considerati come una “pratica partecipata di valorizzazione del patrimonio culturale materiale ed immateriale, elaborata e sviluppata da un soggetto organizzato, espressione di una comunità locale nella prospettiva dello sviluppo sostenibile”. Tale definizione è stata resa in occasione del Coordinamento Nazionale che si è tenuto a Torino nel 2009.
Invero, questa nozione è stata utilizzata la prima volta nel 1971 da Hugues de Varine riferendosi ad “un qualcosa che rappresenta ciò che un territorio è, e ciò che sono i suoi abitanti, a partire dalla cultura viva delle persone, dal loro ambiente, da ciò che hanno ereditato dal passato, da quello che amano e che desiderano mostrare ai loro ospiti e trasmettere ai loro figli”.
Come è stato meglio chiarito, si tratta di una manifestazione culturale che rappresenta il modo in cui la comunità locale attribuisce valore al proprio territorio, alle sue memorie, alle sue trasformazioni, alla sua realtà attuale e alle sue protezioni future, consentendo la rappresentazione del patrimonio, del paesaggio, dei saperi in cui i cittadini si riconoscono e che desiderano trasmettere alle nuove generazioni. Così M.G. Pulvirenti, Il patrimonio culturale materiale-immateriale, in www.aipda.it.
In altre parole, un istituto che consente di valorizzare non solo i prodotti immateriali ma anche i luoghi della loro produzione, delineando così una nuova concezione di museologia “in grado di esaminare tutte le possibili prospettive di gestione del territorio e di utilizzo delle risorse, mobilitando la creatività locale e attivando un disegno coerente di valorizzazione del patrimonio culturale che abbia come scopo quello di accrescere il benessere, non solo economico, della comunità di riferimento, ma anche favorire l’arricchimento culturale, la qualità del paesaggio, la valorizzazione del capitale sociale” (come si legge nel Manifesto strategico degli ecomusei).
Possiamo pensare anche agli itinerari religiosi, come il Camino de Santiago de Compostela o la Via Francigena, oppure ai paesaggi culturali (la costa ligure delle Cinque Terre, secondo l’Unesco) in cui è evidente il connubio tra beni materiali e intangibili, unificati da un tema culturale unificante.
Ulteriore esempio della stretta connessione tra materialità e immaterialità è quello offerto dalla vicenda del David di Michelangelo armato. Una società statunitense aveva utilizzato l’immagine della statua senza l’autorizzazione del ministero richiesta per le riproduzioni dagli artt. 107 e 108, d.lg. n. 42/2004. Ciò che rileva, per quanto a noi interessa, è l’uso improprio della riproduzione del bene in considerazione del valore che esso rappresenta (elemento intangibile), sebbene l’operazione non abbia comportato un intervento sul substrato materiale del bene, trattandosi di un fotomontaggio.
[17] Il pensiero va subito alle Convenzioni Unesco del 2003 e del 2005, ratificate dall’Italia.
[18] Sono diversi i paesi nel mondo che hanno adottato una concezione di patrimonio culturale ampio che consente, in modo più o meno diretto, di ricomprendere anche la tutela dei beni culturali immateriali. Ci si riferisce, ad esempio, alle leggi delle Comunida des Autònomasdi Valencia, Ley, n. 4 del 1998, di Aragona, Ley, n. 3 del 1999; al National Historic Preservation Act degli Stati Uniti del 1966; la Ley Portoghese, n. 107 del 2001. Per un approfondimento sui sistemi giuridici stranieri si veda A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana, in Foro amm., 2008, 7-8, pag. 2261 ss.
[19] M.S. Giannini, I beni culturali, cit., 26 secondo cui “il bene culturale non è bene materiale, ma immateriale: l’essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da questa distinta, nel senso che esse sono supporto fisico, ma non bene giuridico”. Secondo l’Autore nei beni culturali vi sarebbe una duplice anima: la res, da un lato, e il valore immateriale contenuto nella cosa, dall’altro. In altre parole, ogni bene culturale tangibile ha una dimensione immateriale e, dunque, quel quid che lo rende culturalmente rilevante. Materiale e immateriale sono aspetti tra loro strettamente connessi, caratterizzati da una compenetrazione tra corpus mechanicum e corpus mysticum, e meritevoli di tutela unitariamente. Il tema delle diverse declinazioni della immaterialità dei beni è stato trattato anche da G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1.
[20] Anche la giurisprudenza costituzionale riconosce nella res l’esistenza di un valore culturale immateriale che spesso è frutto di creatività, riproducibilità e perciò degno di tutela giuridica. E’ stato affermato “La circostanza, infatti, che una specifica cosa non venga ‘classificata’ dallo Stato come di ‘interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico’, e dunque non venga considerata come ‘bene culturale’, non equivale ad escludere che essa possa, invece, presentare, sia pure residualmente, un qualche interesse ‘culturale’ per una determinata comunità territoriale: restando questo interesse ancorato, in ipotesi, a un patrimonio identitario inalienabile, di idealità e di esperienze e perfino di simboli, di quella singola e specifica comunità. In tale contesto e solo entro tali limiti, la potestà legislativa delle Regioni può dunque legittimamente esercitarsi - al di fuori dello schema tutela/valorizzazione - non già in posizione antagonistica rispetto allo Stato, ma in funzione di una salvaguardia diversa ed aggiuntiva: volta a far sì che, nella predisposizione degli strumenti normativi, ci si possa rivolgere - come questa Corte ha avuto modo di sottolineare - oltre che ai ‘beni culturali’ identificati secondo la disciplina statale, e rilevanti sul piano della memoria dell'intera comunità nazionale, eventualmente (e residualmente) anche ad altre espressioni di una memoria ‘particolare’, coltivata in quelle terre da parte di quelle persone, con le proprie peculiarità e le proprie storie”. Così Corte Cost., 17 luglio 2013, n. 194, in Giur. cost., 2013, 4, pag. 2760; Corte Cost., 16 giugno 2005, n. 232, in Riv. giur. amb., 2006, 1, pag. 66.
[21] I beni culturali immateriali hanno trovato un proprio spazio giuridico nella legge 8 marzo 2017, n. 44, recante “Modifiche alla legge 20 febbraio 2006, n. 77, concernenti la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale immateriale”. Tale previsione normativa riconosce anche agli “elementi” del patrimonio immateriale culturale le misure di salvaguardia destinate dalla legge 20 febbraio 2006, n. 77 ai “siti” e ai “beni materiali del patrimonio dell’Unesco”.
[22] Si veda la Liguria che ha adottato la legge 2 maggio 1990, n. 32 (poi modificata dalla legge regionale 17 dicembre 1998, n. 37) in tema di “Norme per lo studio, la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale di alcune categorie di beni culturali ed in particolare dei dialetti e delle tradizioni popolari della Liguria”; in Molise le leggi regionali 11 aprile 1997, n. 9, e 5 maggio 2005, n. 19, aventi ad oggetto il patrimonio culturale immateriale: etnologico, sociale, antropologico, produttivo; la Sicilia, che con Decreto Assessoriale del 26 luglio 2005, n. 77, ha istituito il Registro delle eredità immateriali di Sicilia (Rei), con il fine di individuare, tutelare e valorizzare l’eredità orale e culturale immateriale della Regione; la Lombardia, che con la legge regionale 23 ottobre 2008, n. 27 “Valorizzazione del patrimonio culturale immateriale”, ha istituito il registro delle eredità immateriali Lombarde. E ancora la Puglia, con la legge regionale 22 ottobre 2012, n. 30, ha disciplinato gli “interventi regionali di tutela e valorizzazione delle musiche e delle danze popolari di tradizione orale”.
[23] Per un’analisi più approfondita della Convenzione e del percorso che ha portato alla sua adozione cfr. J. Blake, Creating a new heritage protection paradigm?, in The Routledge Companion to Intangible Cultural Heritage, Londra, 2016, pag. 11 ss.; L. Gasparini, Il patrimonio culturale immateriale. Riflessioni per un rinnovamento della teoria e della pratica sui beni culturali, Milano, 2014; S. Oggianu, La disciplina pubblica delle attività artistiche e culturali nella prospettiva del federalismo, Torino, 2012, pagg. 5-11; M. Fumagalli Meraviglia, La valorizzazione del patrimonio culturale nel diritto internazionale, in Cultura e istituzioni. La valorizzazione dei beni culturali negli ordinamenti giuridici, (a cura di) L. Degrassi, Milano, 2008, 42 ss.; A. Sola, Quelques rèflexions à propos de la convention pour la sauvegarde du patrimoine culturel immatèriel, in J. Nafziger, T. Scovazzi (eds.), The Cultural Heritage of Mankind, Leiden, 2008; M. Jadè, Le patrimoine immatérielle. Perspectives d’interprétation du concept de patrimoin, Parigi, 2006, pag. 33 ss.; L. Lankarani Elzein, L’avant-proget del la Convention de l’Unesco pour la sauvergarde du patrimoine culturel immateriel: èvolution et interrogations, in Annuairefrancais de droit international, 2002, vol. 48, pagg. 624-656.
[24] È bene ricordare che per molti anni anche a livello internazionale ha prevalso un’impostazione concentrata sulla tutela e valorizzazione del solo patrimonio culturale materiale, salvaguardato dalla Convenzione Unesco per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, firmata a Parigi nel novembre 1972, ed entrata in vigore nel dicembre 1975. Si tratta del primo strumento giuridico che, attraverso la creazione di un elenco di siti culturali e naturali, possono godere, in considerazione del loro valore eccezionale nell’ambito della storia umana, arte, scienze, estetica, di una particolare attenzione in termini di tutela, conservazione, maggiore conoscenza e visibilità.
La sensibilizzazione, e la conseguente esigenza di protezione di questi beni inseriti nella lista del patrimonio mondiale, prende le mosse da un avvenimento specifico, ossia la costruzione della diga di Aswan in Egitto che avrebbe comportato l’inondazione della vallata che ospita i templi di Abu Simbel. La Convenzione definisce le diverse tipologie di beni che possono essere iscritti. In particolare, sono considerati “patrimonio culturale” (art. 2): i monumenti (opere architettoniche, plastiche o pittoriche monumentali, elementi o strutture di carattere archeologico, iscrizioni, grotte e gruppi di elementi di valore universale eccezionale dall’aspetto storico, artistico o scientifico), gli agglomerati (gruppi di costruzioni isolate o riunite che, per la loro architettura, unità o integrazione nel paesaggio hanno valore universale eccezionale dall’aspetto storico, artistico o scientifico), i siti (opere dell’uomo o opere coniugate dell’uomo e della natura, come anche le zone, compresi i siti archeologici, di valore universale eccezionale dall’aspetto storico ed estetico, etnologico o antropologico). Sono individuati come “patrimonio naturale” (art. 3): i monumenti naturali costituiti da formazioni fisiche e biologiche o da gruppi di tali formazioni di valore universale eccezionale dall’aspetto estetico o scientifico, le formazioni geologiche e fisiografiche e le zone strettamente delimitate costituenti l’habitat di specie animali e vegetali minacciate, di valore universale eccezionale dall’aspetto scientifico o conservativo, i siti naturali o le zone naturali ‘strettamente delimitate di valore universale eccezionale dall’aspetto scientifico, conservativo o estetico naturale. Quello che emerge dalla lettura delle disposizioni sopra richiamate è, tuttavia, un elemento di debolezza, in quanto non idonee a ricomprendere tutta la ricchezza e la varietà di produzione delle differenti civiltà e comunità culturali dal pianeta. In tal senso, L. Gasparini, Il patrimonio culturale immateriale. Riflessioni per un rinnovamento della teoria e della pratica sui beni culturali, cit., pag. 27.
Interessante appare anche il pensiero di J. Blake, Developing a New Standard-setting Instrument for the Safeguarding of Intangible Cultural Heritage. Elements for consideration, UNESCO Edition, Paris, 2002, 75, secondo cui “The concept of universality is insufficiently explained in the 1972 Convention, and it needs further elaboration if it is to be applied to intangible aspects of cultural heritage”.
Il primo richiamo al termine “patrimonio immateriale” si ha durante la Conferenza mondiale sulle politiche culturali (Mondiacult) svolta a Città del Messico dal 26 luglio al 6 Agosto 1982. Nel report finale (capo 85, 14) si legge “Since Venice, the concept of heritage had evolved considerably. It now also covered all the values of culture as expressed in everyday life, and growing importance was being attached to activities calculated to sustain the ways of life and forms of expression by which such values were conveyed. The attention now being given to the preservation of the ‘intangible’ heritage may be regarded as one of the most constructive developments of the past decade”.
[25] Parte della dottrina ha evidenziato che ci troveremmo di fronte non ad una vera e propria definizione, bensì ad una descrizione del patrimonio culturale intangibile. Così T. Scovazzi, La definizione di patrimonio culturale intangibile, in Patrimonio culturale e creazione di valore, (a cura di) M. Golinelli, Milano, 2012, pag. 152 ss.; T. Scovazzi, La Convenzione per la salvaguardia dal patrimonio culturale intangibile, in Il patrimonio culturale intangibile nelle sue diverse dimensioni, (a cura di) T. Scovazzi, B. Ubertazzi, L. Zagato, Milano, 2012, pag. 3 ss.
[26] Al riguardo B. Ubertazzi, Intangible cultural heritage and sustainable environment, in Riv. giur. amb., 2022, 2, pagg. 333-353.
[27] Del resto, la Convenzione stabilisce che saranno presi in considerazione solo quegli elementi del patrimonio culturale immateriale che risultano compatibili, oltre che con gli strumenti giuridici esistenti in materia di diritti umani, anche con i principi di sviluppo sostenibile. Da ciò ne discende che sono considerati irrinunciabili il rispetto dei diritti umani e la sostenibilità. Ulteriore elemento a riprova della stretta relazione tra patrimonio immateriale e sviluppo sostenibile è il coinvolgimento delle comunità.
[28] La Convenzione assegna un ruolo centrale anche all’ambiente, riconosciuto come uno degli aspetti più importanti del patrimonio immateriale. Cfr. T. Scovazzi, The Unesco Convention for the safeguarding of the intangible cultural heritage. General remarks, in The Legal protection of the intangible cultural heritage, (a cura di) P.L. Petrillo, 2019, pag. 4. Sono diversi i riferimenti rinvenibili in tutto il testo: l’art. 2 precisa che il patrimonio immateriale “... è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura”; all’art. 3 dove stabilisce che “nessun elemento può pregiudicare l’applicazione degli obblighi internazionali contratti dagli Stati parte: tra questi vi sono naturalmente quelli relativi all’ambiente, all’utilizzo delle risorse biologiche e naturali”.
Lo stretto rapporto tra patrimonio immateriale e ambiente non deve, tuttavia, stupire vista la comunanza che si esplicita nel fatto di essere entrambi risorse esauribili, non rinnovabili che devono quindi essere preservate, e di essere oggetto di diritti fondamentali in relazione alla cultura, alla diversità culturale e alla salvaguardia dell’ambiente e della salute. Così è stato osservato da L. Zagato, La convenzione sulla protezione del patrimonio intangibile, in Le identità culturali nei recenti strumenti UNESCO. Un approccio nuovo alla costruzione della pace?, (a cura di) L. Zagato, Padova, 2008, pagg. 63-66; C. Videtta, Cultura e sviluppo sostenibile. Alla ricerca del IV pilastro, Torino, 2018, pag. 4.
[29] È evidente che per loro stessa natura ci troviamo di fronte a tipologie di beni tra loro distinti che richiedono, conseguentemente, strumenti differenti di salvaguardia: la tutela e la valorizzazione dei beni materiali si sostanzia attraverso un’azione volta a preservare il bene nella sua immutabilità; per il patrimonio immateriale, invece, si esprime attraverso attività dirette ad assicurarne la sua trasmissione, vitalità e ravvivamento (art. 2, comma 3, Convenzione Unesco 2003).
Tuttavia, la Convenzione evidenzia che il patrimonio culturale dell’umanità resta unico ed è formato dalla commistione tra beni materiali e immateriali, talché la necessità di definire una disciplina unitaria.
Questa esigenza ricorda una questione analoga che si era posta con riguardo ai beni paesaggistici che, all’esito di numerosi dibattiti dottrinali, sono compenetrati all’interno del patrimonio culturale e, dunque, pur nella diversità di nozioni e disciplina giuridica, sottoposto ai principi generali sanciti dagli artt. 1-9 del d.lg. n. 42/2004.
[30] È stato osservato che mentre il patrimonio tangibile è fortemente ancorato ad un luogo, le espressioni immateriali sono strettamente connesse alle persone che si riconoscono in una identità di gruppo o comunità. Si veda, L. Gasparini, Il patrimonio culturale immateriale. Riflessioni per un rinnovamento della teoria e della pratica sui beni culturali, cit., pag. 83.
[31] Proprio perché il patrimonio culturale immateriale acquista valore laddove venga identificato come significativo per un determinato gruppo di persone, la Convenzione prevede una “lista rappresentativa”, nella quale possono figurare gli elementi che le comunità e i gruppi considerano rappresentativi della loro identità, e una “lista di salvaguardia urgente”, nella quale vengono iscritti elementi a rischio di estinzione che necessitano di un intervento immediato. Viene così abbandonato quel criterio di “eccezionalità” che nella Convenzione del 1972 rappresentava il principio di selezione dei beni per il loro inserimento nella Lista del patrimonio mondiale dell’Unesco, considerato discriminatorio nei confronti di quegli elementi che seppur non connotati da un impatto estetico particolarmente scenografico, sono comunque cruciali per l’identità di un popolo.
[32] Cfr. V. Manzetti, Il patrimonio culturale immateriale tra ordinamento internazionale, europeo e nazionale. Spunti dall’esperienza spagnola, in Nomos, 2018, 3.
[33] L. Gasparini, Il patrimonio culturale immateriale. Riflessioni per un rinnovamento della teoria e della pratica sui beni culturali, cit., pag. 77.
[34] Sono molte le comunità in cui le tradizioni sono prevalentemente, se non esclusivamente, orali (storie narrate, canzoni, rappresentazioni). E questo patrimonio, con il passare del tempo, viene continuamente rielaborato da parte dell’uomo che intreccia ispirazioni antiche con la creatività attuale. Per questa ragione non è quindi possibile individuare forme rigide e inamovibili di tutela.
[35] Il tema della tutela del patrimonio immateriale è strettamente connesso a quello della diversità culturale e alla tutela delle differenti comunità che producono questo tipo di beni. Con l’intento di salvaguardare le varie culture esistenti, proteggendole e aiutandole nel loro sviluppo, e al fine di promuovere l’interculturalità, considerata come una grande ricchezza per gli individui e le società e condizione essenziale per uno sviluppo sostenibile a beneficio delle generazioni presenti e future (art. 2, comma 6), è stata elaborata la “Convenzione Unesco sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali”, firmata a Parigi il 20 ottobre 2005. L’importanza di questo strumento va individuata anche nel fatto che incoraggia la tutela contro le discriminazioni razziali, in quanto considera la diversità culturale come eredità comune dell’umanità da rispettare. Per approfondimenti si veda G. Poggeschi, La “Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali” dell’Unesco entra a far parte del corpus legislativo italiano. Una novità nel panorama degli strumenti giuridici internazionali?, in Aedon, 2007, 2; L. Pineschi, Convenzione sulla diversità culturale e diritto internazionale dei diritti umani, in Le identità culturali nei recenti strumenti Unesco, (a cura di) L. Zagato, Padova, 2008, pagg. 159-190; P. Parolari, Culture, diritto, diritti. Diversità culturale e diritti fondamentali negli Stati costituzionali di diritto, Torino, 2016, pag. 104 ss.
Invero, va segnalato che, prima ancora della Convenzione del 2005, il primo strumento giuridico, seppur di soft law, che ha riconosciuto il legame tra la promozione della diversità culturale e lo sviluppo umano sostenibile, va rinvenuto nella Dichiarazione universale sulla diversità culturale del 2001.
Ma che i patrimoni culturali immateriali siano manifestazione di diversità culturale lo si ricava anche dal fatto che nel 2005 è stata adottata dalla Conferenza generale dell’Unesco la Convenzione per la protezione e la promozione della Diversità Culturale. M. Cornu, La Convention pour la protection et la promotion de la diversité des espressions culturelles, in Journal du droit international, 2006, 3, pag. 929 ss.
[36] La pregevolezza della Convenzione va rinvenuta nella sua capacità di contribuire ad affermare i diritti culturali intangibili sia dei gruppi maggioritari, sia di quelli delle minoranze che, come noto, sono maggiormente sottoposti al rischio di dispersione, ma anche di distruzione durante i conflitti armati in quanto rappresentativi di storia, tradizioni e identità del popolo sconfitto. F. Francioni, F. Lenzerini, The Obligation to Prevent and Avoid Destruction of Cultural Heritage: From Bamiyan to Iraq, in Cultural Heritage Rights, A.J. Connolly, Routledge, 2015, pag. 275 ss.
Non a caso, la Corte penale internazionale ha qualificato questi atteggiamenti dei vincitori come un crimine contro la cultura e dunque contro l’umanità. Su questo si legga T. Scovazzi, La prima sentenza della Corte Penale Internazionale in tema di distruzione di beni culturali, in Diritti umani e diritto internazionale, 2017, pagg. 77-86; B. Varesano, La tutela del patrimonio culturale: riflessioni a margine della sentenza di merito resa dalla Corte penale internazionale nel caso Al-Faqi Al-Mahdi. Commento a Corte Penale Internazionale, Camera di prima istanza VIII, sent. 27 settembre 2016, ICC-01/12-01/15, Il Procuratore c. Ahmad Al-Faqi Al-Mahdi, in Dpc, 2017, 5.
[37] Per un commento alla Convenzione si rinvia a A. Gualdani, L’Italia ratifica la convenzione di Faro: quale incidenza nel diritto del patrimonio culturale italiano?, in Aedon, 2020, 3, pagg. 271 ss.; M. Cammelli, La ratifica della convenzione di Faro: un cammino da avviare, in Aedon, 2020, 3, pag. 186 ss.; C. Carmosino, La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, in Aedon, 2013, 1; C. Vitale, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in La globalizzazione dei beni culturali, (a cura di) L. Casini, Bologna, 2010, 186 ss.; G. Volpe, Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini, Novara, 2016, pag. 29 ss.; P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in federalismi.it, 2017.
[38] Secondo P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), cit., pag. 4 ci troviamo di fronte a due cose diverse (due cerchi concentrici (...) di cui uno più ampio - il cultural heritage di Faro - che iscrive nella sua circonferenza l'altro più ristretto - il patrimonio culturale immateriale della Convenzione di Parigi). Ne evidenzia le differenze anche L. Lixinski, Regional and international treties on intagible cultural heritage, in C. Waelde, C. Cummings, M. Pavis, H. Enright (eds), Research Handbook on Contemporary Cultural Heritage. Law and Heritage, Elgar 2018, pag. 15 ss.
[39] Viene considerato come un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in continua evoluzione. Così si sono espressi J. Blake, On Defining the Culture Heritage, in The International and Comparative Law Quartrly, 1, 2000, pag. 61 ss.; M.N. Craith, Intangible Cultural Heritages, in Anthropological Journal of European Cultures, 2008, 1, pagg. 54-73. Pertanto, il “cultural heritage” comprende sia il bene culturale tangibile, sia gli elementi culturali immateriali.
[40] Per un approfondimento M. Montella, La Convenzione di Faro e la tradizione culturale italiana, in La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia, AA.VV., Macerata, 2016, pag. 14 ss.; M. Cammelli, La ratifica della Convenzione di Faro: un cammino da avviare, cit.; C. D’Alessandro, La ratifica della Convenzione di Faro e il difficile inserimento del cultural heritage nell’ordinamento giuridico italiano, in Società e diritti, 2020, 10, pag. 23 ss.
[41] C. Carmosino, La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, cit., evidenzia come il concetto di patrimonio viene scomposto in due componenti: una prettamente culturale, costituita da tutte le manifestazioni di cultura che rammentano gli avvenimenti che hanno contrassegnato la storia europea; l'altra intellettuale, formata dall'insieme condiviso dei valori sociali e degli ideali europei. Il patrimonio culturale si definisce quindi attraverso il suo legame con la collettività. Così M. Cornu, Safeguarding Heritage: From Legal Rights over Objects to Legal Rights for Individuals and Communities?, intervento al convegno The Future of the Past: Memory, History and Cultural Heritage in the 21st Century, Oxford, 27 aprile 2012.
[42] A. D’Alessandro, La Convenzione di Faro e il nuovo Action Plan del Consiglio d’Europa per la promozione dei processi partecipativi. I casi di Marsiglia e Venezia, in Citizens of Europa. Culture e diritti, (a cura di) L. Zagato e M. Vecco, 2015, pagg. 77-92.
[43] Sulla comparazione tra la Convenzione di Faro e la Convenzione UNESCO del 2003, si rimanda a M. Cornu, Safeguarding Heritage: From Legal Rights over Objects to Legal Rights for Individuals and Communities?, cit., nonché P. Liévaux, The Faro Convention, an original tool for building and managing Europe’s heritage, in Council of Europe, Heritage and Beyond, Strasbourg, Council of Europe Publishing, 2009, pag. 45, che prende in considerazione anche la Convenzione UNESCO sulla protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali (2005).
[44] “Culture is becoming less of a sphere that is professionally determined and expert-defined, with the public as a passive audience and more one where collaboration between experts and the public is the predominant characteristic”. Cfr. J. Holden, Learning at the heart of culture: implications for the heritage sector, Journal of Education in Museums, GEM, 2008, 29, pagg. 4-9, citato da S. Goddard, Heritage partnerships - Promoting public involvement and understanding, in Council of Europe, Heritage and Beyond.
[45] L’utilizzo di tale termine è voluto ed evoca il fatto che già in molti Stati, ancora prima della approvazione della Convenzione Unesco del 2003, esisteva una disciplina normativa dell’intangible cultural heritage.
[46] Particolarmente evocativa della molteplicità di collegamenti che il patrimonio culturale ha con diversi ambiti e tematiche, oggi sempre più centrali nelle azioni e nelle politiche dei vari Paesi, è l’espressione utilizzata da Bottai riferendosi ai beni culturali, secondo il quale essi si troverebbero in una “rete di rapporti”, nella quale non vi è solo il rapporto pubblico-privato e, dunque, l’interesse privato al libero uso della cosa, ma una molteplicità di altri interessi quali, ad esempio, quelli di natura economica e commerciale, o quelli collettivi alla fruizione della cosa e, ancora, quelli alla ricerca scientifica e alla valorizzazione. Così G. Bottai, Politica fascista delle arti, Roma, 1940, pag. 123.
[47] Come evidenziato da S. Miyata, Intangible Cultural Heritage Policy in Japan, in L. Arizpe, C. Amescua (eds), Antropological Perspectives on Intagible Cultural Heritage, Springer, 2013, pag. 83 ss.
[48] Le ragioni che hanno indotto il Giappone a dotarsi di una disciplina per la protezione del patrimonio immateriale vanno fatte risalire all’indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale quando la preoccupazione era quella di non disperdere i valori della società giapponese e la propria identità a causa dell’occupazione straniera e delle devastazioni della guerra. Analogamente si è mossa la Corea del Sud che nel 1962, a seguito della guerra con la Corea del Nord, ha approvato una legge specifica sul patrimonio intangibile al fine di preservare l’identità nazionale della penisola.
[49] Il patrimonio immateriale culturale viene infatti definito come: “arti performative, musiche tradizionali, artigianato e gli altri elementi dotati di particolare valore storico e artistico”, ricomprendendo anche i “living human treasures”, vale a dire le persone talmente rilevanti perché portatrici di “higly sophisticated skills and know-how” da richiedere una tutela. S. Koo, From Korea to Japan: A Transnational Perspective on South Korea’s Important Intangible Cultural Properties and Zainichi Korean Artist, in Korean Studies, 2021, 45, pagg. 89-116. La categoria dei “detentori di saperi” è stata prevista anche dalla Corea del Sud nella propria normativa del 1962.
[50] Non è infatti stato riproposto il criterio della eccezionalità, previsto nella legislazione giapponese e coreana quale strumento di selezione dei tesori nazionali viventi, per le ragioni delineate a nota 31, a cui si rimanda.
[51] http://www.unesco.org/culture/ich/.
[52] E così anche quella coreana che, attraverso una legge quadro del 2015, ha introdotto una nozione più ampia di patrimonio culturale immateriale. Per un approfondimento degli effetti della Convenzione sull’ordinamento giapponese e coreano si rimanda a P.L. Petrillo, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale a vent’anni dall’adozione della Convenzione Unesco del 2003. Profili di diritto comparato, cit., pag. 1711.
[53] In tal senso parte della dottrina ha avanzato l’idea di introdurre una “cittadinanza multiculturale”. Cfr. W. Rymlicka, Teoria e pratica del multiculturalismo d’immigrazione, in E. Caniglia, A. Spreafico, Multiculturalismo o comunitarismo?, Luiss University Press, 2003, pag. 127 ss.; S. Benhabib, La rinvendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Il Mulino, 2005, pag. 79 ss. Si esprime, invece, in senso critico ad una società multiculturale D.T. Goldberg, Multiculturalism: a Critical Reader, Blackwell Publishers, 1994, pag. 18 ss.
[54] C. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, 1993, pag. 38 ss.
[55] Dunque, beni di natura anche immateriale connessi all’identità e alla memoria dei gruppi culturali che compongono la società brasiliana. T. Scovazzi, Brevi considerazioni sulla tutela del patrimonio culturale intangibile a livello costituzionale in Brasile e in Italia, in T. Scovazzi, H. Cunha Filho, Salvaguarda do patrimonio cultural imaterial: una analise comparativa, UFBA, Salvador 2020, pag. 323 ss.
[56] Per un approfondimento si rinvia a R.M.L. M. Musarra, Brazilian cultural safeguard instruments for intangible goods, in Reveista de dereito administrativo e constitucional, 2020, 3, pag. 69 ss. Si ricorda solo che il registro del patrimonio culturale immateriale, introdotto con il decreto del Presidente federale n. 3551 del 2000, è stato integrato con la creazione di quattro sezioni: tradizioni connesse alla vita quotidiana; forme di espressione della creatività; celebrazioni rituali tra cui le pratiche sociali, alimentari e religiose; luoghi fisici associati a queste pratiche, tradizioni, rituali.
[57] Sono significativi anche l’articolo 3, comma 3, che dichiara: “la riqueza de las distintas modalidades lingüísticas de España es un patrimonio cultural, que será objeto de especial respeto y protección” e, dunque, la “diversità linguistica spagnola” assurge a bene che deve essere protetto come patrimonio culturale. L’art. 46 che, nell’affermare che i poteri pubblici garantiranno la conservazione e la promozione del “patrimonio storico, culturale e artistico”, introduce un concetto più ampio di patrimonio storico-artistico che ricomprende anche il “valore culturale”, estendendo così gli ambiti di protezione anche al patrimonio culturale immateriale. Infine, l’art. 149.2 che stabilisce che lo Stato è tenuto a considerare il servizio della cultura (“tutta”) come un dovere e un’attribuzione “essenziale”, da svolgere in accordo con le Comunidades Autónomas.
[58] In particolare, questa legge non si riferisce esclusivamente al patrimonio culturale immateriale, ma introduce la nozione di Patrimonio Histórico Español, identificato con “los inmuebles y objetos muebles de interés artístico, histórico, paleontológico, arqueológico, etnográfico, científico o técnico, ... el patrimonio documental y bibliográfico, los yacimientos y zonas arqueológicas, así como los sitios naturales, jardines y parques, que tengan valor artístico, histórico o antropológico. Asimismo... los bienes que integren el Patrimonio Cultural Inmaterial...”.
[59] M.L. Labaca Zabala, Las festividades religiosas: “manifestaciones representativas del Patrimonio Cultural Inmaterial”, in RIIPAC. Revista sobre patrimonio cultural, 2016, 8, pag. 7.
[60] Il limite di questa normativa è invece legato alla mancata previsione di idonee misure di valorizzazione dei beni immateriali. Il Legislatore ha preferito rinviare ai meccanismi di tutela “classici” propri del patrimonio materiale, non idonei però a tutelare questa categoria dal carattere mutevole.
La stessa criticità si riscontra nelle diverse legislazioni speciali adottate da ciascuna regione autonoma, caratterizzate da una indifferenziata tutela di ogni bene culturale. Pur richiamando l’importanza del patrimonio culturale immateriale, quale elemento identitario e di diversità culturale delle singole comunità, le Comunidades Autónomas “dimenticano” di inserire appositi strumenti di salvaguardia. Cfr. J.F. Gabardón de la Banda, La tutela del patrimonio cultural inmaterial en España: la ley para la salvaguardia del patrimonio cultural inmaterial, in Anuario Jurídico Económico Escurialense, XLIX, 2016, pag. 282 ss.
[61] Potremmo dire che attraverso questa Legge la Spagna ha dato effettiva attuazione al pensiero di Giannini (tentativo che in Italia è stato fatto dalla Commissione Franceschini nel 1967, ma poi fallito) di introdurre una categoria aperta di beni culturali, il cui fil rouge è rappresentato dall’essere espressione di quel “valore ideale di civiltà”, elemento “immateriale” qualificante tutti i beni culturali.
[62] Beni intangibili individuati come un insieme eterogeno di conoscenze e attività sottoposto ad una specifica condizione, essere o essere stato “expresión relevante de la cultura tradicional del pueblo español en sus aspectos materiales, sociales o espirituales”.
[63] Per un approfondimento sul percorso che ha portato alla nascita di questa Legge si rinvia a V. Manzetti, Il patrimonio culturale immateriale tra ordinamento internazionale, europeo e nazionale. Spunti dall’esperienza spagnola, cit., pagg. 24-25; S. Baldin, I beni culturali immateriali e la partecipazione della società nella loro salvaguardia: dalle convenzioni internazionali alla normativa in Italia e Spagna, in DPCE online, 2018, 3, pagg. 593-616.
[64] E. Gamero Ruiz, El patrimonio cultural inmaterial: comentarios a la ley estatal 10/2015, de 26 de mayo, in Revista General de Derecho Administrativo, 2016, 43, pag. 1 ss.; C.A. D’Alessandro, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale. uno studio di diritto comparato, Padova, 2021, pag. 192 ss.
[65] In particolare, il Titulo III “Competencias de la Administración General del Estado”, assegna, seppur in “colaboración con las Comunidades Autónomas”, alla “Administración General del Estado”, per il tramite del “Ministerio de Educación, Cultura y Deporte”, le tre principali funzioni relative alla politica culturale in materia di patrimonio immateriale, ovvero il Plan Nacional de Salvaguardia del Patrimonio Cultural Inmaterial (art. 13), l’Inventario General de Patrimonio Cultural Inmaterial (art. 14), la Declaración de Manifestación Representativa del Patrimonio Cultural Inmaterial (art. 12).
[66] In particolare, tale decisione ha inserito il Preambolo della Costituzione della IV Repubblica del 1946 e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789. Così facendo i dritti e le libertà in questi testi richiamati, sono diventati parte integrante della Carta Costituzionale. Si assiste, in tal modo, alla nascita del bloc de constitutionnalité, e all’inserimento, grazie alle sentenze del Conseil Constutionnel, del Preambolo della Costituzione del 1958 e della Charte de l’Environnement del 2004.
[67] La ratifica è avvenuta nel 2006 e la scelta è legata alla particolare attenzione che la Francia ha sempre manifestato nei confronti dei diritti culturali. Del resto, già nel 1972 aveva ratificato la Convenzione sul patrimonio mondiale e culturale e nel 2005 la Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità e delle espressioni culturali.
[68] L’art. 1 del Codice è stato integrato, attraverso il riferimento al patrimonio culturale immateriale, dalla legge 925/2016, art. 55, in tema di libertè de la crèation, à l’architecture et au patrimoine (c.d. Loi CAP).
[69] Il Codice è stato emanato con l’ordinanza n. 178 del 2004, ratificata dal Parlamento con la legge 9 dicembre 2004.
[70] Per un maggior approfondimento sui profili della legislazione francese si rinvia a C.A. D’Alessandro, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale in Francia. Spunti ricostruttivi, in federalismi.it, 2018, 23, pag. 2 ss.
[71] Per una lettura degli elementi inseriti nelle liste Unesco si veda: https:///www.culture.gouv.fr/Thematiques/Patrimoine-culturel-immateriel/Le-PCI-francais-et-l-Unesco/Elements-francais-inscrits-en-cours.
[72] Interessante è il pensiero di F. Lenzerini, Intangible Cultural Heritage: The Living Culture of Peoples, in The European Journal of International Law, 1, 2011, 114, secondo il quale “the existence of the relationship between ICH and human rights is crystal clear from various perspectives. First, it is precisely the peculiarity of ICH as a fundamental element of the identity of its creators and bearers that presupposes relevant implications in terms of human rights (i.e., cultural rights) protection. In particular, it is a fact that a huge part of ICH is interconnected with religious beliefs. Consequently, where this heritage is not adequately safeguarded, the (in)action of a state may result in a breach of the right to freedom of thought, conscience, and religion - expressed, inter alia, by Article 18 of the Universal Declaration of Human Rights and Article 18 of the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR)”. Per approfondire l’interazione tra protezione del patrimonio intangibile e diritti culturali quali la diversità linguistica, religiosa e alimentare cfr. J. Blake, International Cultural Heritage Law, Oxford University Press, 2015, pagg. 271-311.
[73] Il Consiglio di Stato, ad. plen., con sentenza 13 febbraio 2023, n. 5 ha messo in evidenza la differenza tra le espressioni di identità culturale collettiva di cui all’art. 7-bis e il patrimonio immateriale di cui alle Convenzioni Unesco. “Le ‘espressioni di identità culturale collettiva’ sono state autonomamente contemplate, come possibile oggetto di tutela, dal legislatore interno, che le ha connotate in modo ‘misto’, nel senso che all’espressione immateriale e identitaria deve sempre accompagnarsi un substrato materiale, dato da una cosa che la testimoni e che giustifichi una tutela ai sensi dell’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il ‘patrimonio culturale’ in base alle citate Convenzioni va tutelato anche nelle sue ‘manifestazioni immateriali’, anche se queste non siano riconducibili a specifici beni materiali che le testimonino. L’art. 7-bis ha ricondotto la protezione di queste espressioni alle forme ordinarie di tutela, che si operano innanzitutto attraverso i decreti di vincolo; sicché a tal fine non occorrono procedure specifiche di inclusione negli elenchi di beni tutelati ai sensi delle Convenzioni UNESCO. Il quid pluris introdotto dall’art. 7-bis sta dunque nel consentire riguardo alla cosa materiale non solo la conservazione del valore culturale in essa incorporato e derivante già dalla sua qualificazione come bene culturale ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza. In base all’art. 7-bis è quindi possibile riconoscere, alle ivi indicate condizioni, rilievo e significato nel nostro ordinamento anche ai c.d. ‘beni culturali intangibili’ (o ‘patrimonio culturale immateriale’), per il quale la ratio di tutela risiede nella ravvisata impossibilità di scindere la dimensione materiale da quella immateriale del bene culturale. L’articolo 7-bis sottolinea la pregnanza della dimensione immateriale di tali beni, il cui valore culturale non risulta circoscrivibile solo al riferimento alla storia dell’arte e dell’architettura, in quanto essi costituiscono, nel loro insieme, un punto di riferimento identitario per la comunità e un veicolo di costruzione della memoria collettiva, sicché i diversi elementi, materiali e immateriali, che li compongono, traendo forza e sostanza dal legame inscindibile gli uni con gli altri, non possono essere separatamente considerati e tutelati”.
[74] Meno critici sulla scelta operata dall’ordinamento italiano sono L. Casini, Oltre la mitologia giuridica dei beni culturali, in Aedon, 2012, 1-2; G. Sciullo, La tutela: gli articoli 1-15, in Aedon, 2008, 3, secondo il quale: “la formula impiegata [nell’art. 7-bis] appare felice nel collegare la disciplina del Codice agli impegni assunti dal nostro Paese con gli atti di ratifica ed esecuzione delle due Convenzioni. Per un verso, le espressioni di identità culturale collettiva, che nelle Convenzioni hanno o possono avere natura immateriale (cfr. artt. 1 e 2 Convenzione del 2003 e art. 3 Convenzione del 2005) sono ricondotte all’ambito di applicazione del Codice - che considera come beni culturali solo le cose materiali - quando appunto ‘siano rappresentate da testimonianze materiali’. Per altro verso, non si amplia il novero dei beni culturali tradizionali aprendolo alle cose che presentano un mero interesse di ‘identità culturale collettiva’, richiedendosi che devono sussistere ‘i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell'art. 10’ (che definisce i beni culturali). In sintesi, alle espressioni di identità culturale collettiva viene estesa la disciplina del Codice purché dette espressioni abbiano un substrato materiale e questo presenti un interesse artistico, storico, archeologico e etnoantropologico”.
[75] Secondo A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale, cit., 2262, “tale norma ha eluso la normativa internazionale negando e contraddicendo la Convenzione del 2003 allorquando pretende che il patrimonio immateriale si ‘materializzi’ in un supporto tangibile. Il che equivale a far finta di recepire quelle stesse disposizioni internazionali, ribadendo, in realtà, la superiorità dell’impianto codicistico” e così confermando un impianto concettuale e giuridico ampiamente datato ma considerato “dai maitres-a-penser del diritto dei beni culturali come un dato incontestabile e insuscettibile di revisione”.
[76] Tale comma, inserito dall’art. 2-bis della legge n. 112 del 2013, prevede che: “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 7-bis, i comuni, sentito il soprintendente, individuano altresì i locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 della Costituzione”.
[77] Corte Cost., sentenza n. 118 del 1990 che è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del vincolo apposto dal ministero dei Beni e delle Attività culturali ai sensi dell’allora vigente legge n. 1089/1939 nei confronti dell’Antico Caffè Genovese di Cagliari e della Gioielleria Masenza di Palazzo Fiano a Roma. Per un approfondimento, F. Rigano, Tutela dei valori culturali e vincolo di destinazione d’uso dei beni materiali, in Giurisprudenza costituzionale, 118, 1990, pag. 660 ss.
[78] Cons. St., ad. plen., 13 febbraio 2023, n. 5. La sentenza è altresì importante perché fa il punto sul regime giuridico applicabile ai beni immateriali, ritenuti tutelabili attraverso gli strumenti ordinari previsti dal Codice per i beni tangibili. Il Consiglio di Stato: “ha sancito che il ‘vincolo di destinazione d’uso del bene culturale’ può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato; il medesimo vincolo può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza”.
[79] Si pensi ad esempio alla legge 8 marzo 2017, n. 44, che ha apportato modifiche alla legge 20 febbraio 2006, n. 77 relativa a “Misure speciali di tutela e fruizione dei siti e degli elementi italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella Lista del patrimonio mondiale, posti sotto la tutela UNESCO”. Attraverso questa disposizione sono state estese anche agli elementi italiani inclusi nella Lista Rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco le misure di salvaguardia che la legge 77/2006 aveva previsto solo per i siti e per i beni materiali. Nell’ordinamento italiano è possibile altresì rintracciare alcune disposizioni relative al patrimonio immateriale. Nei regolamenti di organizzazione interna dei ministeri della Cultura, delle Politiche Agricole e della Sovranità Alimentare, dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica vi sono, ad esempio, norme che attribuiscono a specifiche direzioni generali la tutela e la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale di competenza del ministero.
[80] Il d.lg. n. 30/2005 all’art. 19, comma 3, prevede che “anche le amministrazioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni possono ottenere registrazioni di marchio, anche aventi ad oggetto elementi grafici distintivi tratti dal patrimonio culturale, storico, architettonico o ambientale del relativo territorio”. Solleva alcune riserve A. Gualdani, I beni culturali immateriali: ancora senza ali?, in Aedon, 2014, 1, secondo la quale “La lettera della norma parla di ‘elementi grafici distintivi’ e non v’è chi non veda come ciò possa riferirsi soltanto ai beni culturali materiali. Come sarebbe possibile consolidare l'immagine di una rappresentazione, di una danza, o di una rievocazione storica, la cui mutevolezza è insita nella loro natura ontologica, perché la loro riproduzione seriale può essere simile, ma mai uguale e/o identica? Inoltre si configurerebbe anche qui un problema di proprietà: i beni immateriali appartengono alla comunità, a tutti ed a nessuno in particolare. Pertanto, come potrebbe un ente pubblico ottenere la registrazione di un bene privo di titolare?”.
[81] La legge 633 del 1941 tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo al cui interno vengono fatte rientrare le opere della letteratura, della scienza e dell’arte. Si tratta di una disposizione improntata nell’ottica privatistica proprietaria, pertanto, è indubbia la differenza rispetto alla tutela di cui necessitano i beni culturali immateriali che, essendo res communes omnium, prescindono dalla loro riferibilità ad un soggetto. La natura a non domino di tali beni è stata confermata anche dal Tribunale di Milano del 9 novembre 1992, in Giur. it., 1993, II, pag. 747, relativa al Palio di Siena, in cui si è affermato che “il Palio di Siena è pubblico evento risalente al XIII secolo dunque appartenente al patrimonio storico, culturale e folkloristico della nazione, senza che chicchessia possa vantare diritti esclusivi di sorta su di esso”. E che “mentre la tutela del diritto d’autore è di tipo dominicale, quella pensata per i beni immateriali è di tipo pubblicistico, perché volta a perseguire l'interesse pubblico che si concretizza nel tramandare e promuovere la conoscenza delle tradizioni identitarie di una comunità”.
[82] Sul punto, in aggiunta a quanto indicato nella nota 22, si ricorda la legge regionale della Puglia del 22 ottobre 2012, n. 30, riguardante “Interventi regionali di tutela e valorizzazione delle musiche e danze popolari”; le leggi regionali che tutelano i dialetti e/o le lingue minoritarie presenti su tutto il territorio nazionale (Piemonte 7 aprile 2009, n. 11 “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico del Piemonte”; Sardegna 15 ottobre 1997, n. 26 “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna”; Lazio 21 febbraio 2005, n. 12 “Tutela e valorizzazione dei dialetti di Roma e del Lazio”; Veneto 13 aprile 2007, n. 8 “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto”).
Vi sono poi Regioni che, al fine di impedire la dispersione del patrimonio orale, hanno dato vita ad una produzione normativa piuttosto ampia. Si pensi al Piemonte, con la legge regionale 10 aprile 1990, n. 26, “Tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza dell'originale patrimonio linguistico del Piemonte”, che mira alla protezione del dialetto piemontese, occitano, franco-provenziale e walser; all'Emilia-Romagna, con la legge regionale 7 novembre 1994, n. 45, per la tutela e valorizzazione dei dialetti dell'Emilia-Romagna; alla Basilicata con la legge regionale 28 marzo 1996, n. 16, “Promozione e tutela delle minoranze etniche-linguistiche di origine greco-albanese in Basilicata”; e ancora alla Sardegna con la legge regionale 15 ottobre 1997, n. 26, “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna”; al Lazio, con la legge regionale 21 febbraio 2005, n. 12, “Tutela e valorizzazione dei dialetti di Roma e del Lazio”; al Veneto, con la legge regionale 13 aprile 2007, n. 8, “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto”; al Friuli-Venezia Giulia, con la legge regionale n. 17 febbraio 2010, n. 5, “Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella regione Friuli-Venezia Giulia”; alla Sicilia, con la legge regionale 31 maggio 2011, n. 9, “Norme sulla promozione, valorizzazione e l’insegnamento della storia, della letteratura e del patrimonio linguistico siciliano nelle scuole” e, infine, alla Calabria con la legge 11 giugno 2012, n. 21, “Tutela, Valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico, dialettale e culturale della Regione Calabria”.
La rilevanza assegnata ai dialetti è legata al fatto che vengono considerati un patrimonio straordinario dell’Italia, unico. In tal senso si è espresso C. Marazzini, L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Milano, 2019, 8-10.
Oggi, anche i social network sono utilizzati come strumento per agevolare la tutela e la diffusione dei dialetti, anche aiutando a riscoprirli. Cfr. P. D’Achille, I Social Network e la lingua italiana, tra neologismi e anglicismi, comunicazione al Convegno Viva i Social, abbasso i Social. Cittadini, pubbliche amministrazioni e la “rivoluzione” dei Social Network, Firenze, 17 marzo 2016, in accademiadellacrusca.it/it/scaffali-digitali/articolo/social-network-lingua-italiana-neologismi-anglicismi.
[83] Così G. Morbidelli, Dei beni culturali immateriali, cit., 587. N. Aicardi, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela e nella valorizzazione, Torino, 2002; M. Ainis, M. Fiorillo, I Beni culturali, in Trattato di diritto amministrativo, (a cura di) S. Cassese, Milano, 2003, pag. 1449 ss. Questa visione appare confermata anche dalla giurisprudenza costituzionale che nella pronuncia 194 del 2013 ha affermato che “una specifica cosa non venga ‘classificata’ dallo Stato come di ‘interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico’, e dunque non venga considerata come ‘bene culturale’, non equivale ad escludere che essa possa, invece, presentare, sia pure residualmente, un qualche interesse ‘culturale’ per una determinata comunità territoriale: restando questo interesse ancorato, in ipotesi, a un patrimonio identitario inalienabile, di idealità e di esperienze e perfino di simboli, di quella singola e specifica comunità. In tale contesto e solo entro tali limiti, la potestà legislativa delle Regioni può dunque legittimamente esercitarsi - al di fuori dello schema tutela/valorizzazione - non già in posizione antagonistica rispetto allo Stato, ma in funzione di una salvaguardia diversa ed aggiuntiva: volta a far sì che, nella predisposizione degli strumenti normativi, ci si possa rivolgere - come questa Corte ha avuto modo di sottolineare - oltre che ai ‘beni culturali’ identificati secondo la disciplina statale, e rilevanti sul piano della memoria dell'intera comunità nazionale, eventualmente (e residualmente) anche ad altre espressioni di una memoria ‘particolare’, coltivata in quelle terre da parte di quelle persone, con le proprie peculiarità e le proprie storie”. La tutela del patrimonio culturale sembrerebbe quindi andare su due binari paralleli: quello dei beni materiali, individuati, dal Codice dei beni culturali, affidati allo Stato; e quello degli elementi immateriali, estranei alla normativa codicistica, la cui salvaguardia è rimessa alle Regioni.
[84] È stato osservato che il principio di sussidiarietà orizzontale traccia un nuovo modo di concepire l’intervento pubblico. Cfr. G. Pastori, Amministrazione pubblica e sussidiarietà orizzontale, in Studi in onore di G. Berti, vol. 2, Napoli, 2005, pag. 1759. Anche la Convenzione Unesco del 2003 ha evidenziato l’importanza degli individui per la salvaguardia del patrimonio immateriale laddove all’art. 2 afferma “il patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione è costantemente ricreato dalla comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità”. D’altra parte, il Comitato per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (art. 5 Convenzione) invita gli Stati che presentano le proprie richieste per l’inserimento dei beni nella lista dei beni immateriali Unesco di dimostrare che le comunità e i gruppi hanno partecipato attivamente all’elaborazione della candidatura in tutte le sue fasi. Cfr. M. Giampieretti - B. Barel, Spunti per una legge regionale sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, in Il Patrimonio culturale immateriale. Venezia e il Veneto come Patrimonio europeo, (a cura di) M.L. Picchio Forlati, Venezia, 2014, pag. 237.
[85] Cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665, in https://www.demaniocivico.it/public/public/886.pdf e Cass. sez. un., 16 febbraio 2011, n. 3813, in https://www.demaniocivico.it. Si veda anche Cass., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, in Rass. dir. farm., 2008, 2, pag. 235, laddove afferma l’inviolabilità della dignità umana “la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l'intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del ‘rispetto della persona umana’ in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive”.
[86] Corte Cost. sentenza n. 194 del 2013, in www.cortecostituzionale.it.
[87] Tra l’altro vi possono essere patrimoni immateriali comuni a più comunità dislocate su territori che travalicano i confini nazionali. Si pensi alla “Dieta Mediterranea” riconosciuta patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 2010 su proposta dell’Italia, Grecia, Marocco e Spagna, poi estesa a Cipro, Croazia e Portogallo nel 2013. Si richiama a tal riguardo P.L. Petrillo, G. Scepi, The Cultural Dimension of the Mediterranean Dieta s an Intangble Cultural Heritage of Humanity, in G. Golinelli (ed), Cultural Heritage and Value Creation, Springer, 2015, pag. 171 ss.
[88] Significativo come in molti Paesi, tra i quali la Spagna, la Francia, il Giappone vi siano stati numerosi contenziosi sul riparto di competenza tra Stato e istituzioni periferiche in tema di tutela e valorizzazione del patrimonio immateriale. Altrettanto indicativo è l’atteggiamento dei tribunali che si sono sempre pronunciati in favore dell’istituzione centrale in ragione della funzione identitaria.
[89] La legittimazione del patrimonio culturale immateriale trova la propria legittimazione nella Costituzione “culturale multilivello” e, in particolare, nell’art. 9 che richiama la centralità del patrimonio culturale quale espressione dei valori storici insiti nella storia e nei valori che questi beni esprimono quali manifestazioni identitarie delle diverse comunità. Si tratta di una nozione ampia che ricomprende tutti i beni che costituiscono testimonianza materiale o immateriale avente valore di civiltà. Così M. Cecchetti, Commento all’art. 9 Cost., in Commentario alla Costituzione, (a cura di) Raffaele Bifulco, Alfonso Celotto, Marco Olivetti, Torino, 2006, pag. 226 ss.
[90] L’art. 21 della legge 27 dicembre 2023, n. 206 “Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy” ha inserito negli ambiti di competenza amministrativa del ministero il patrimonio culturale immateriale.
[91] Riferendosi ai beni immateriali A.M. Cirese, Introduzione, in R. Grimaldi, I beni culturali demo-antropologici. Schedatura e sistema informativo, Torino, 1988, pagg. 13-22 ha utilizzato l’espressione di beni volatili.
[92] Il comma 2 stabilisce: “A tal fine, al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 52, comma 1, dopo le parole: ‘in materia di beni culturali’ sono inserite le seguenti: ‘materiali e immateriali’;
b) all’articolo 53, comma 1, lettera b), le parole: ‘del patrimonio culturale’ sono sostituite dalle seguenti: ‘, anche economica, del patrimonio culturale materiale e immateriale’”.
[93] La legge 7 ottobre 2024, n. 152 “Disposizioni in materia di manifestazioni di rievocazione storica e delega al Governo per l'adozione di norme per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” è entrata in vigore il 1° novembre.
[94] In Campania, sono stati ad esempio istituiti appositi registri.
[95] Il Legislatore non è solo in questo compito posto che già il diritto internazionale ha fornito una definizione giuridica di patrimonio culturale immateriale nella Convenzione Unesco del 2003. Così A. Serra, Patrimonio culturale e nuove tecnologie: categorie di interessi e profili giuridici, in La globalizzazione dei beni culturali, cit., pag. 225, la quale ha evidenziato che nelle fonti dell’ordinamento internazionale e di quello comunitario, è emersa chiaramente “una nozione di patrimonio culturale che non coincide con quella relativa ai beni culturali utilizzata dal nostro Codice, perché sembra superare sia il dato della materialità in senso stretto sia quello della territorialità”. Nello stesso senso, L. Giancristofaro, V. Laparicella Zingari, Patrimonio culturale immateriale e società civile, Roma, 2020, pag. 21 ss.
[96] S. Cassese, Il futuro della disciplina dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2012, 7, pag. 781 ss. afferma che la dimensione globale impone un totale ripensamento della categoria giuridica dei patrimoni culturali in Italia. Nello stesso senso L. Casini, Introduzione. I beni culturali e la globalizzazione, in La globalizzazione dei beni culturali, (a cura di) L. Casini, Bologna, 2010, pagg. 20-22.
[97] Taluni Autori hanno affermato che le uniche attività per i beni immateriali sarebbero quelle di valorizzazione, promozione e fruizione. C. Lamberti, Ma esistono i beni culturali immateriali?, in Aedon, 2014, 1, secondo il quale “più che alle misure di riconoscimento di protezione e di autenticazione caratteristiche dei beni veri e propri, i beni culturali immateriali si prestano a forme di traditio della memoria e dei valori che tali attività inverano”. In particolare, “a forme di protezione e valorizzazione e dunque anche di tutela, ma non di controllo che sarebbe in conflitto con la libertà di espressione e con la naturale quanto inesauribile mutazione che investe le varie forme di cultura immateriale”.
[98] Non è un caso che L. Casini ha intitolato il suo libro Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, 2016. Per un approfondimento sui diritti delle generazioni future si veda A D’Aloia, nella voce Generazioni future (diritto costituzionale), in Enc. dir., Agg., Milano, 2016, 331, il quale ne parla come di una “nuova questione costituzionale”; A D’Aloia, L'art. 9 Cost. e la prospettiva intergenerazionale, in Passaggi Costituzionali, 2022, pagg. 26-43.
[99] Il rilievo di questa categoria è rintracciabile anche grazie al materiale economico sotteso allo stesso come rileva A. Bartolini, Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. amm., 2019, 2, pag. 245 ss. Si veda, inoltre, L’immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli e A. Bartolini, Torino, 2016; S. Fantini, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, in Aedon, 2014, 1.
[100] Con tale espressione si fa riferimento al processo di trasformazione di un’opera, di un’immagine, di un suono, di un documento in un formato digitale, interpretabile da un sistema informatico. Così G. Pellicciari, La digitalizzazione della cultura tra interessi pubblici e privati. Il valore immateriale dei beni culturali, in L’immateriale economico nei beni culturali, cit., pag. 187.
[101] Fondamentale impulso alla diffusione dei contenuti digitali è stato offerto dall’attuazione del progetto Europeana, biblioteca pubblica, archivio, portale, museo digitale d’Europa. Il progetto, come riconosciuto nel report “Il nuovo rinascimento”, presentato a Bruxelles il 10 gennaio 2011 dal Comité des sages on bringing Europe’s cultural heritage, considera la digitalizzazione un modo per dare nuova vita alle opere del passato e trasformarle in una straordinaria risorsa per il singolo fruitore e per l’economia digitale. Nella Raccomandazione della Commissione UE del 27 novembre 2011 “sulla digitalizzazione e l’accessibilità in rete dei materiali culturali e sulla conservazione digitale” si afferma che la digitalizzazione si presenta come uno dei principali strumenti per accedere ed utilizzare i beni culturali, in quanto consente agli autori e ai fornitori di contenuti di raggiungere legalmente un pubblico nuovo e più ampio, rapidamente e con minori costi, offrendo altresì nuove possibilità economiche ed imprenditoriali. Per un maggior approfondimento si rinvia a D. Donati, La digitalizzazione del patrimonio culturale. Caratteri strutturali e valore dei beni, tra disciplina amministrativa e tutela delle opere d’ingegno, in www.semanticscholar.org/paper, 2020, pagg. 323-337; V. Francola, Nuove tecnologie, conservazione e fruizione dei beni culturali, in Astrid Rassegna, 4, 2018 mette in evidenza l’importanza delle nuove tecnologie quale strumento per la conservazione del patrimonio culturale. Si veda anche S. Mochi, Il problema della digitalizzazione delle opere d’arte per scopi commerciali, in Rassegna di diritto della moda e delle arti, 2023, 1, pagg. 45-49; P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, in P.A. Persona e Amministrazione, 2019, 2, pagg. 245-301; P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2020, 3, pag. 263 ss.; M.F. Cataldo, Preservare la memoria culturale: il ruolo della tecnologia, in Aedon, 2020, 2, pag. 85 ss. Sono poi numerosi i musei e le istituzioni culturali che hanno digitalizzato le proprie collezioni immettendo le immagini nei propri siti. Cfr. M. Croce, La digitalizzazione delle collezioni museali. Stato dell’arte e prospettive, in Aedon, 2023, 2, pag. 179 ss.; M.C. Pangallozzi, La fruizione del patrimonio culturale nell’era digitale: quale evoluzione per il “museo immaginario”?, in Aedon, 2020, 2, pag. 96 ss. Si ricorda anche il progetto Google’s Art Project che ha messo online decine di migliaia di opere d’arte di oltre 6.000 artisti.
[102] La sponsorizzazione deve però avvenire attraverso l’associazione del nome, del marchio, dell'immagine, dell'attività o del prodotto all'iniziativa oggetto del contributo, in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l'aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, così da non creare un danno all’immagine del bene stesso (art. 120, comma 2, codice beni culturali). Si rimanda a S. Fantini, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, in Aedon, 2014, 1. Per un approfondimento in tema di sponsorizzazioni culturali si veda P. Barbera, Commento all’art. 120, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2011, pag. 905 ss. e P. Ungari, La sponsorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1.
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