La "Convenzione sulla protezione e la promozione
della diversità
delle espressioni culturali" dell'Unesco entra a far parte
del corpus legislativo italiano. Una novità nel panorama
degli strumenti giuridici internazionali?
Sommario: 1. Introduzione. - 2. La "diversità": un concetto ritenuto fino a poco tempo fa insidioso, diventato oggi "di moda". - 3. I contenuti principali della "Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali". - 4. La dimensione economica della diversità culturale. - 5. Un altro strumento internazionale di protezione minoritaria?. - 6. Aspetti peculiari dell'applicazione della Convenzione. - 7. Conclusioni. Uno strumento di soft law di supporto alle più svariate politiche culturali.
Con la legge 19 febbraio 2007, n. 19 il Parlamento italiano ha ratificato e dato esecuzione alla "Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali", fatta a Parigi in sede Unesco il 20 ottobre 2005. La Convenzione in esame si pone sulla scia degli altri strumenti adottati dall'Unesco [1], tesi a salvaguardare e sviluppare tutti gli aspetti del patrimonio culturale mondiale nell'ottica, solennemente stabilita dalla sua Costituzione - che richiama la Carta delle Nazioni Unite -, della pace fra i popoli e della conseguente sicurezza, da perseguire attraverso la collaborazione tra le nazioni per mezzo dell'istruzione, della scienza e della cultura. Il presente articolo si propone di analizzare brevemente i contenuti e le implicazioni della Convenzione recentemente entrata a far parte del corpus normativo italiano ed a porla in relazione con altri strumenti internazionali volti a garantire e proteggere i diritti legati alla diversità linguistica e culturale.
2. La "diversità": un concetto ritenuto fino a poco tempo fa insidioso, diventato oggi "di moda"
La parola "diversità" compare nella Costituzione italiana solamente all'art. 107, quando si recita che "i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni". Si tratta, come si può intuire, di un contesto totalmente diverso da quello della presente Convenzione. La Costituzione francese, attraverso l'inserimento, effettuato dalla legge costituzionale 1 marzo 2004, n. 205, della "Carta dell'ambiente", contempla invece l'espressione "diversità biologica". Nessuna menzione del termine "diversità" figura nella Costituzione spagnola del 1978, né nella Legge fondamentale tedesca del 1949.
Questa breve carrellata di diritto comparato non vuole essere fine a se stessa, a guisa di quella narcisistica "filatelia costituzionale" che una brillante dottrina imputa, un po' crudelmente ma forse a ragione, a taluni autori [2], ma serve a dimostrare che quello di "diversità" è un concetto che solo recentemente, ed indirettamente - ad esempio proprio con l'adesione alla Convenzione dell'Unesco del 2005, e negli altri modi che saranno in seguito analizzati -, ha trovato accoglienza nei principali documenti giuridici dei tradizionali Stati di democrazia liberale. La spiegazione che può essere data a quanto scritto risiede nella (presunta) insidia che la diversità pone nei confronti del principio di eguaglianza [3], applicazione irrinunciabile di un moderno Stato di diritto e condizione essenziale per il godimento dei diritti di libertà. Inoltre, l'enfasi (giustificata) data, sin dal dopoguerra, ai diritti individuali a scapito di quelli collettivi, nell'esaltazione dei quali si scorgeva il potenziale pericolo che aveva portato alle aberrazioni dei nazionalismi e delle teorie della razza, rendeva poco servibile un concetto, come quello di "diversità", più facilmente riferibile ai gruppi che agli individui. L'analisi del contenuto della "Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali", che sarà svolta nel prossimo paragrafo, dovrebbe corroborare questa mia tesi.
Il "diritto alla diversità" è oggi divenuto invece una parola d'ordine, qualcosa che le politiche di tutti i livelli istituzionali interessati devono tenere in considerazione e perseguire. In realtà, un diritto alla diversità è sempre esistito anche quando non esplicitamente previsto con il suo vocabolo specifico: ad esempio i principi della libertà religiosa e della protezione delle minoranze linguistiche, ai sensi degli articoli 7 e 6 della Costituzione, implicano un riconoscimento della diversità. Certamente i quasi sei decenni di vigenza della nostra Carta fondamentale hanno reso più effettivo il diritto alla differenza delle minoranze religiose e linguistiche, e quindi favorito il ricorso ad un termine ritenuto in precedenza un po' pericoloso. Questo è avvenuto anche in altri ordinamenti [4]: ovviamente il federalismo ed il regionalismo maturo favoriscono il ricorso alla diversità, intesa come autonomia politica degli enti sub-statali. Lo Stato federale e regionale è per se stesso portatore e garante della diversità, pur nella necessità di un'unità nazionale, che viene garantita in diverse maniere [5].
Peraltro, non è sempre chiaro dal punto di vista giuridico cosa si intenda con termini quali, appunto, "diversità", o "differenziazione" ed "asimmetria". Ad esempio in Spagna, dove il diritto alla diversità linguistica è il più sviluppato e regolamentato d'Europa [6], si utilizza il termine "fatti differenziali" per giustificare il diritto ad una maggiore autonomia di alcune Comunità autonome [7], più caratterizzate e di conseguenza più rivendicative nei confronti dello Stato centrale rispetto ad altre, ed in Austria è stato scritto dal costituzionalista Peter Pernthaler un importante libro sullo "Stato federale differenziato" [8]. Si tratta in entrambi i casi di creazioni dottrinali, senza diretto riscontro nella realtà normativa. Di "diritto alla diversità" si è parlato in Italia soprattutto in riferimento ai diritti delle confessioni religiose minoritarie [9]. Una discussione che può indirettamente riferirsi al concetto di "diversità" riguarda la natura delle protezione delle minoranze linguistiche in Italia, che ha visto protagonisti Alessandro Pizzorusso e Sergio Bartole. Secondo il primo, la tutela minoritaria costituisce una declinazione del principio di eguaglianza, per il secondo essa si traduce al contrario in una sua eccezione [10]. Lo stesso potrebbe dirsi del concetto di "diversità": si tratta di un'evoluzione del concetto di eguaglianza o di una sua negazione? Il quesito non ha solamente natura accademica, poiché il ricorso, oggi frequente, addirittura "di moda", al concetto di "diversità", ed a quello conseguente di "multiculturalismo", può tuttora implicare applicazioni rischiose che potrebbero negare alcune conquiste di diritti civili [11]. E' anche tenendo conto di queste variabili che sarà condotta l'analisi dei prossimi paragrafi.
3. I contenuti principali della "Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali"
Il lungo preambolo della Convenzione in esame elenca i motivi per i quali bisogna proteggere e promuovere la diversità culturale. Essa "costituisce un patrimonio comune dell'umanità che dovrebbe essere celebrata e preservata per il bene di tutti", "è indispensabile alla pace e alla sicurezza a livello locale, nazionale ed internazionale", è importante "per la piena realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali proclamati nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e in altri strumenti universalmente riconosciuti". Inoltre è riconosciuta "l'importanza del sapere tradizionale, in particolare per quanto riguarda i sistemi di conoscenze dei popoli autoctoni", come anche la necessità di proteggere la diversità delle espressioni culturali, "in particolare nelle situazioni in cui (esse) possono essere minacciate di estinzione o gravi alterazioni", e si effettua anche un richiamo alla diversità linguistica come "elemento fondamentale della diversità culturale" ed il connesso "ruolo basilare svolto dall'educazione per la protezione e promozione delle espressioni culturali".
Fra gli obiettivi enumerati all'art. 1 figurano ovviamente la protezione e la promozione della diversità culturale (punto a), la creazione di condizioni favorevoli per il libero sviluppo delle culture, "in modo da arricchirsi a vicenda" (punto b), lo stimolo dell'interculturalità (punto d) e la promozione "del rispetto della diversità delle espressioni culturali e la consapevolezza del suo valore ai livelli locale, nazionale ed internazionale" (punto e). L'articolo 2 enumera le "linee direttrici" della Convenzione, che sono il "principio del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali" (comma 1), i principi di sovranità (secondo comma), della pari dignità e del rispetto di tutte le culture (terzo comma), della solidarietà e della cooperazione internazionale (quarto comma), della complementarietà degli aspetti economici e culturali dello sviluppo (quinto comma).
La Convenzione in esame abbraccia una vastissima, all'apparenza infinita, gamma di forme legate al fattore culturale. Le definizioni elencate all'art. 4 servono da guida e confermano quanto detto sull'applicazione potenzialmente infinita della Convenzione. Innanzitutto, come stabilisce il primo comma dell'art. 4, "per 'diversità culturale' s'intende la molteplicità delle forme mediante le quali si esprimono le culture dei gruppi e delle società. Tali espressioni si trasmettono all'interno dei gruppi e delle società nonché fra di essi. La diversità culturale si manifesta non soltanto nelle variegate forme attraverso le quali il patrimonio culturale dell'umanità si esprime, arricchisce e trasmette grazie alla varietà delle espressioni culturali, ma anche attraverso modi diversi di creazione artistica, di produzione, diffusione, distribuzione e godimento, quali che siano i mezzi e le tecnologie utilizzati". Per capire la differenza fra i due concetti, vengono in ausilio dell'interprete i seguenti commi. Ai sensi del secondo, "per 'contenuto culturale' s'intende il senso simbolico, la dimensione artistica e i valori culturali che hanno alla radice o che esprimono identità culturali". Le 'espressioni culturali', recita il terzo comma, sono "le espressioni che risultano dalla creatività degli individui, dei gruppi e delle società e che hanno un contenuto culturale". Molto ampia è la portata di quello che il quarto comma definisce 'attività, beni e servizi culturali': questi "incarnano o trasmettono espressioni culturali, indipendentemente dal loro eventuale valore commerciale. Le attività culturali possono essere fini a sé stesse oppure contribuire alla produzione di beni e servizi culturali". Il seguente comma quinto completa il concetto legato alla distinzione dell'arte fine a se stessa e di quella commerciabile: "Per 'industrie culturali' s'intendono le industrie che producono e distribuiscono i beni o i servizi culturali,,,". Il sesto comma chiarisce che cosa si intende per 'politiche e misure culturali': esse sono "le politiche e misure relative alla cultura, a livello locale, nazionale, regionale o internazionale, che siano incentrate sulla cultura in quanto tale o destinate ad avere un effetto diretto sulle espressioni culturali degli individui, dei gruppi o delle società, compresa la creazione, la produzione, la diffusione e la distribuzione di attività, beni e servizi culturali, e sull'accesso agli stessi". Per "protezione", aggiunge il settimo comma, "s'intende l'adozione di misure finalizzate alla conservazione, alla salvaguardia e alla valorizzazione della diversità delle espressioni culturali". Una disposizione rivelatrice dello spirito "ecumenico" della Convenzione è il settimo comma, che stabilisce che "per 'interculturalità' s'intendono l'esistenza e l'interazione paritaria di diverse culture e la possibilità di generare espressioni culturali condivise mediante il dialogo e il rispetto reciproco".
La parte quarta della Convenzione (artt. 5-19) è relativa ai "Diritti e doveri delle Parti". Si tratta di disposizioni piuttosto dettagliate, ma suscettibili di essere applicate in maniere molto diverse, con le quali le Parti (gli Stati firmatari) si impegnano "per creare sul proprio territorio un ambiente che incoraggi gli individui ed i gruppi sociali" a "creare, produrre, diffondere e distribuire le proprie espressioni culturali e ad accedere alle stesse" ed anche "ad accedere alle diverse espressioni culturali provenienti dal loro territorio e dagli altri paesi del mondo" (art. 7). L'art. 10 è dedicato alla "educazione e sensibilizzazione del pubblico", raggiungibile anche attraverso la cooperazione fra i diversi Stati. Proprio la cooperazione internazionale sembra essere uno dei cardini della Convenzione (art. 12), sia essa bilaterale, regionale ed internazionale, "al fine di creare condizioni propizie alla promozione della diversità delle espressioni culturali", tenendo conto in modo speciale dell'esistenza di situazioni particolari in cui le espressioni culturali sono esposte a un rischio di estinzione o a una minaccia grave (art. 8.1 ed art. 17; sulla dimensione prossima alla "tutela minoritaria" di queste ultime disposizioni v. infra, par. 5).
Gli organi della Convenzione sono la Conferenza della Parti (di cui all'art. 23) ed il Comitato intergovernativo (art. 24). La prima costituisce l'organo plenario supremo, ed approva le direttive preparate dal secondo, il quale, composto da 18 membri di Stati che sono parte della Convenzione (che diverranno 24 allorché essa raggiungerà il numero di 50 Stati), è responsabile della promozione degli obiettivi di essa, ed incoraggia e garantisce il seguito della sua attuazione (art. 23.6 a). Il Comitato intergovernativo trasmette alla Conferenza delle Parti le relazioni di queste alla Convenzione, con le sue osservazioni e da un riepilogo dei contenuti (art. 23.6 f).
L'adesione degli Stati alla Convenzione è disciplinata dall'art. 27. Essa è aperta, ai sensi del primo comma, a "qualunque Stato non membro dell'Unesco che sia membro dell'Organizzazione delle Nazioni Unite o di una delle sue istituzioni specializzate e invitato ad aderire dalla Conferenza generale dell'Organizzazione". La Convenzione è altresì aperta "all'adesione dei territori che godono di autonomia interna integrale riconosciuta dall'Organizzazione delle Nazioni Unite ma che non hanno ottenuto la piena indipendenza conformemente alla risoluzione 1514 (XV) dell'Assemblea generale e che sono competenti per le materie oggetto della presente Convenzione, compresa la competenza a concludere trattati su tali materie" (secondo comma). Entro certi limiti specificati nel terzo comma dell'art. 27, anche le "organizzazioni di integrazione regionale", come l'Unione europea, l'Asean o la Nafta possono aderire ad essa.
4. La dimensione economica della diversità culturale
Il quinto comma dell'art. 2 stabilisce la complementarietà degli aspetti economici e culturali dello sviluppo: "Poiché la cultura è una delle spinte fondamentali dello sviluppo, gli aspetti culturali dello sviluppo sono altrettanto importanti degli aspetti economici, e gli individui e i popoli hanno il diritto fondamentale di parteciparvi e di goderne". Certamente l'attenzione costante alle culture dei paesi in di sviluppo, e la penetrazione della consapevolezza ambientalista è alla base del seguente comma sesto:, intitolato appunto "principio dello sviluppo sostenibile": "La diversità culturale è una grande ricchezza per i singoli e le società. La protezione, la promozione e la conservazione della diversità culturale sono una condizione essenziale per uno sviluppo sostenibile a beneficio delle generazioni presenti e future".
Le citate disposizioni, combinate con quelle sulla cooperazione, svelano una degli aspetti più rilevanti (a mio parere) della Convenzione: l'attenzione per le culture "deboli", sia perché provenienti da Stati economicamente non forti o perché espresse dagli immigrati di questi paesi stabiliti nelle regioni ricche del mondo. Tale attenzione si rivela in tutta la sua chiarezza in molte disposizioni dell'art. 14, ai sensi del quale "le Parti si adoperano per sostenere la cooperazione per lo sviluppo sostenibile e la riduzione della povertà, in particolare per quanto riguarda le esigenze specifiche dei paesi in via di sviluppo, nell'ottica di favorire l'emergere di un settore culturale dinamico, fra l'altro nei modi seguenti". Inoltre, è da perseguire il "rafforzamento delle industrie culturali dei paesi in via di sviluppo" (punto a), "creando e rafforzando le capacità di produzione e di distribuzione culturali nei paesi in via di sviluppo", e "permettendo l'emergere di mercati locali e regionali capaci di durare (punto a iii). Deve essere anche, nella misura del possibile, agevolata la mobilità degli artisti dei paesi in via di sviluppo (art. 14 a v). Il punto seguente sostiene "un'opportuna collaborazione tra i paesi sviluppati ed i paesi in via di sviluppo, in particolare nei settori della musica e della cinematografia". Il sostegno finanziario, disciplinato al punto d, si traduce nell'istituzione di un "Fondo internazionale per la mobilità culturale" (su cui v. infra, par. 6), nonché nella "assegnazione di aiuti pubblici allo sviluppo culturale secondo le esigenze, anche mediante un'assistenza tecnica destinata a stimolare e sostenere la creatività", e di "altre forme di aiuto finanziario, come prestiti a tasso ridotto, sovvenzioni e altri meccanismi di finanziamento".
5. Un altro strumento internazionale di protezione minoritaria?
Negli ultimi anni, a dimostrazione dell'accresciuta sensibilità per la tutela della diversità linguistica, nazionale e culturale, sono stati adottati importanti strumenti internazionali, ai quali la Convenzione ivi in esame sembra potersi accodare comodamente. La Convenzione comprende nel suo ambito di applicazione i diritti degli appartenenti alle minoranze ed ai popoli autoctoni, enumerati insieme nelle stesse disposizioni. Anche in questa scelta si scorge un favor verso culture considerate fino a pochi decenni fa marginali, oggi invece, almeno sulla carta, valorizzate, persino in alcune Carte costituzionali, come quella Bolivia, con la denominazione di "popoli indigeni" (art. art. 171 della Cost. del 1994) [12]. Il terzo punto dell'art. 2, relativo alla "pari dignità e del rispetto di tutte le culture", include fra queste "quelle delle persone appartenenti a minoranze e quelle dei popoli autoctoni". L'art. 7, dedicato alle "Misure destinate a promuovere le espressioni culturali", tratta "delle esigenze particolari delle donne e di diversi gruppi sociali, comprese le persone appartenenti a minoranze e i popoli autoctoni".
La Convenzione, trattando congiuntamente minoranze e popoli autoctoni, di cui non dà alcuna definizione, non traccia la distinzione, considerata irrinunciabile anche se forse troppo rigida, fra vecchie minoranze e nuove minoranze. Le prime sarebbero quelle costituite da cittadini di un dato Stato, sul cui territorio vivono da secoli e che si distinguono dalla maggioranza per elementi oggettivi quali una diversa storia, cultura e lingua, e per elementi soggettivi come il desiderio di preservare tali aspetti (quello che Pizzorusso definisce l'animus comunitario [13]). Le seconde sono costituite dagli immigrati, che non hanno dunque la cittadinanza del paese in cui vivono e che hanno un diverso interesse dai primi all'integrazione [14]. I punti deboli di tale impostazione, che peraltro continua ad essere valida e ad informare la legislazione dell'Italia e degli altri paesi europei, riguardano i punti della cittadinanza, del dovere/capacità d'integrazione, ed anche dell'animus comunitario (ho dei dubbi che gli occitani del Piemonte, per fare un esempio, presentino questa caratteristica più che molti moldavi residenti in Italia). Senza prolungarci qui sulla questione rilevo come il criterio territoriale, a cui si è del resto ispirata la legge 482/1999 sulle "minoranze storiche", rimanga quello valido per la distinzione fra i due tipi di minoranze [15]. Questo breve excursus serve a dimostrare che la Convenzione comprende nel suo ambito di applicazione entrambi i tipi di minoranze, oltre che i popoli autoctoni, che dovrebbero essere compresi nelle "vecchie minoranze" per il loro legame secolare e privilegiato con il proprio territorio, ma che, per motivi storici, economici e sociali, hanno spesso problemi di discriminazione più simili a quelli delle "nuove minoranze" nei paesi economicamente sviluppati.
Il più rilevante ed efficace strumento internazionale di protezione delle minoranze è la "Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali", conclusa in seno al Consiglio d'Europa nel 1994. Fra le caratteristiche che meritano di essere ricordate, è quella della mancanza di una definizione del concetto di minoranza ed il rispetto dell'integrità territoriale degli Stati. Se ci si dovesse limitare a questi due aspetti, la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali sembrerebbe uno strumento di soft law poco efficace. Ma l'enumerazione degli obblighi che spettano agli Stati, e soprattutto il meccanismo sanzionatorio, seppure anch'esso non immediatamente vincolante, dell'Advisory Committee, rendono la "Convenzione quadro" qualcosa di più delle solite dichiarazioni di intenti sui diritti minoritari.
Il successo della "Convenzione quadro" è peraltro legato ad un fattore che i suoi autori ignoravano al momento della sua redazione: essa è servita, e continua a servire, come parametro della politica minoritaria che i cosiddetti "Criteri di Copenhagen", decisi dal Consiglio europeo del 1993, impongono ai candidati alla membership dell'Unione europea: "l'associazione richiede che il paese candidato abbia raggiunto la stabilità delle istituzioni che garantiscono la democrazia, il primato della legge, i diritti umani ed il rispetto e la protezione delle minoranze". Si noti che, mentre il rispetto per le minoranze potrebbe esaurirsi in una politica di non discriminazione, la protezione implica una politica minoritaria attiva, delle azioni positive. Per fare esempi pratici, la Slovacchia ha dovuto modificare alcune sue norme in materia linguistica e minoritaria per rispondere ai requisiti richiesti dalla "Convenzione quadro", e la Turchia è sotto esame poiché non è ancora sicuro che alle norme sulle minoranze, in realtà emanate negli ultimi anni, corrisponda un'effettiva politica di tutela di esse [16]. La "Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali" non sembra poter ambire ad un ruolo così concreto come quello che, felicemente ed al di là delle aspettative, ricopre a livello europeo la "Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali", ma appare come un elemento aggiuntivo alla tutela minoritaria nel mondo, dimostrando l'accresciuta sensibilità generale in una materia peraltro ancora suscettibile di progressi da parte di molti Stati come è quella della protezione della diversità linguistica, etnica, culturale e nazionale [17].
6. Aspetti peculiari dell'applicazione della Convenzione
Fra le disposizioni più originali della Convenzione, particolarmente opportuno appare la previsione dell'art. 30, che riguarda i regimi federali. Ai sensi del secondo comma del citato articolo, "per quanto riguarda le disposizioni della presente convenzione la cui applicazione rientra nell'ambito di competenza di ciascuna delle unità costituenti quali Stati, contee, province o cantoni che, a norma del regime costituzionale della federazione, non sono tenute ad adottare misure legislative, se necessario il governo federale porterà le autorità competenti delle unità costituenti quali Stati, contee, province o cantoni a conoscenza delle suddette disposizioni, insieme al proprio parere favorevole, affinché siano adottate." Può apparire un po' limitativo il riferimento unicamente ai regimi federali e non anche a quelli regionali, le cui entità sub-statali sono egualmente competenti, al pari delle loro omologhe degli ordinamenti federali, sulle materie toccate dalla Convenzione, come dimostra il caso italiano relativamente alla concorrenza fra Stato e Regioni sulle "attività culturali" [18], chiarito in buona parte dalla sentenza 285 del 2005 della Corte costituzionale [19]. La Convenzione però, in due punti dell'articolato, menziona anche il livello locale (art. 1 e, art. 4.6), ritenuto decisivo per la sua possibilità di supportare iniziative culturali "dal basso".
Il "Fondo internazionale per la diversità culturale" costituisce un deposito le cui risorse sono decise "dal Comitato intergovernativo in base agli orientamenti della Conferenza delle Parti ,,," (art. 18.4). Le risorse di questo sono costituite "a) dai contributi volontari delle Parti; b) dai fondi stanziati a tal fine dalla Conferenza generale dell'Unesco; c) da versamenti, donazioni o lasciti effettuati da altri Stati, organizzazioni e programmi del sistema delle Nazioni Unite, altre organizzazioni regionali o internazionali ed enti pubblici o privati, nonché persone private; d) dagli interessi relativi alle risorse del Fondo; e) dal prodotto di collette e dalle entrate dovute alle manifestazioni organizzate a favore del Fondo; f) da tutte le altre risorse autorizzate dal regolamento del Fondo" (art. 18.2).
Decisivo, e difficile da pronosticare nei suoi sviluppi futuri, è il meccanismo di conciliazione previsto dalla Convenzione in esame. Prima che esso sia innescato, sarebbe preferibile la collaborazione, incoraggiata in varie norme della Convenzione e soprattutto all'art. 25, ma in mancanza di essa le previsioni dell'allegato sulla "Procedura di conciliazione" sono quanto mai utili ed opportune. Dunque "Su richiesta di una delle Parti interessate è istituita una commissione di conciliazione. A meno che le Parti non convengano altrimenti, la commissione è composta da cinque membri, due per ciascuna Parte più un presidente scelto di comune accordo dai membri così designati". (art. 1 dell'allegato). Essa decide a maggioranza dei propri membri (art. 5). Non è chiara la portata dell'interesse che le Parti hanno di mettere in moto il meccanismo conciliativo: certamente è un limite di questo il fatto che protagonisti sono solo gli Stati. I gruppi che esprimono una cultura minoritaria che non abbia uno Stato di riferimento (kin-State) rimarrebbero ad esempio sguarniti, come anche i gruppi o gli individui che esprimono culture alternative non gradite ai poteri dello Stato dove risiedono. Sarebbe interessante un meccanismo di tutela aperto agli individui od a classi di cittadini legittimati; ovviamente la natura soft della Convenzione, di cui tratterò nel prossimo paragrafo, non sarebbe più tanto tale.
7. Conclusioni. Uno strumento di soft law di supporto alle più svariate politiche culturali
Le diverse (!) espressioni utilizzate nella Convenzione in esame per definire i fenomeni legati al fattore culturale ("diversità culturale", "contenuto culturale", "espressioni culturali", "attività, beni e servizi culturali", "industrie culturali", "politiche e misure culturali", nonché "protezione" ed "interculturalità"), disciplinate all'art. 4, suscitano un lecito sospetto, confermato dalla lettura dell'insieme della "Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali", di una pressoché illimitata possibilità di applicazione di essa.
Per illimitata applicazione non intendo però attribuire alla Convenzione in esame un'efficacia ed un impatto che uno strumento del genere, tipicamente di soft law, non può avere di pèr sé. Insomma, ampiezza di contenuti non significa certezza dell'efficacia. Però, nonostante l'efficacia delle disposizioni e dello spirito della Convenzione possa essere mediata solo con precise politiche e norme definite ad un livello di decisione per forza di cose statale, regionale o locale, le idee e le direttive stabilite dall'Unesco in una Convenzione non possono non costituire una fonte di legittimazione "alta" da richiamare per giustificare un programma, una politica, una norma avente ad oggetto il fattore culturale. Questo sta già avvenendo anche in Italia: nel disegno di legge "Disposizioni generali in materia di promozione delle attività cinematografiche e audiovisive, nonché deleghe al governo in materia di agevolazioni fiscali relative al settore cinematografico ed audiovisivo", il comma terzo dell'art. 1, contenente i principi, stabilisce che "La Repubblica riconosce il cinema e l'audiovisivo quali attività culturali, come definite dalla Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, fatta a Parigi il 20 ottobre 2005 e ratificata ai sensi della legge 19 febbraio 2007, n. 19".
Ecco dunque che la Convenzione può essere legittimamente invocata per promuovere le iniziative di un'associazione di stranieri nella Regione Veneto, per rafforzare le misure a favore della lingua Quechua in Perù, per motivare una legge nazionale sulla cinematografia e forse anche per promuovere la cultura dei graffiti e dei murales nelle aree urbane delle città europee. La creazione artistica come momento individuale di creatività, la "conoscenza intuitiva o espressiva" che Benedetto Croce identifica con il fatto estetico o artistico [20], questa può sì essere protetta e tutelata dalla presente Convenzione, ma non si può negare che lo sia soprattutto dal diritto fondamentale della libertà di espressione. L'art. 21 della Costituzione italiana, il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti delineano le garanzie necessarie per esplicare la creatività artistica e culturale. Del resto, la Convenzione fa esplicito riferimento alle libertà fondamentali nelle linee direttrici: nel primo comma dell'art. 2 viene statuito che "la diversità culturale può essere protetta e promossa solo se vengono garantiti i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali, quali la libertà d'espressione, dell'informazione e della comunicazione, nonché la possibilità per gli individui di scegliere le proprie espressioni culturali. Nessuna disposizione della presente convenzione può essere invocata per ledere o limitare i diritti umani e le libertà fondamentali proclamati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo o garantiti dal diritto internazionale".
La novità della Convenzione sembra essere allora quella di riferire la protezione di cui sopra non solo agli individui, che dovrebbero essere già tutelati dai tradizionali strumenti di protezione dei Diritti dell'uomo, ma ai gruppi sociali, specialmente quelli che provengono da situazioni economiche e sociali poco favorevoli alla diffusione dei frutti, anche "industrializzabili", della loro creatività. Un altro aspetto fondamentale su cui la Convenzione insiste è quello della solidarietà che i paesi ricchi devono mostrare verso le espressioni culturali dei paesi in via di sviluppo. I prossimi anni sveleranno se la "Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali" sarà effettivamente efficace nelle sue interessanti e potenzialmente infinite applicazioni.
Note
[1] Fra queste Convenzioni può essere ricordata la "Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale storico e naturale" del 1972 (v. testo in italiano), e la "Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale" del 2003 (v. testo in inglese). V. anche la lista completa delle Convenzioni, generali o regionali, dell'Unesco.
[2] R. Bin, Assemblee rappresentative, forma di governo ed investitura diretta dell'esecutivo, consultabile sul Forum dei Quaderni Costituzionali.
[3] Basti citare, nella sterminata letteratura, il classico L. Paladin, Il principio costituzionale d'eguaglianza, Milano, Giuffrè, 1965.
[4] Addirittura negli USA, dove il dibattito sulla diversità si incentra in particolar modo, e con implicazioni delicatissime., sulla questione razziale, esiste una pregevole rivista giuridica dedicata intermante ai rapporti fra razza e diritto: si tratta del Michigan Journal of Race & Law.
[5] V. AA.VV., La definizione del principio unitario negli ordinamenti decentrati, Torino, Giappichelli, 2005.
[6] Mi permetto di rinviare a G. Poggeschi, Le nazioni linguistiche della Spagna autonomica, Padova, CEDAM, 2002; J. M. Pérez Fernández (coord.), Estudios sobre el estatuto jurídico de las lenguas en España, Barcelona, Atelier, 2006.
[7] E. Aja, El Estado autonómico. Federalismo y hechos diferenciales (seconda ed.), Madrid, Alianza Editorial, 2001
[8] P. Pernthaler, Lo Stato federale differenziato, Bologna, Il Mulino, 1998.
[9] G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia. Dal diritto all'uguaglianza al diritto alla diversità, Torino, Einaudi, 1997.
[10] V. A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Torino, Einaudi, 1993; S. Bartole, Minoranze nazionali, in Novissimo Digesto Italiano, Appendice V, in specie p. 45.
[11] L. Volpp, Feminism Versus Multiculturalism, in Columbia Law Review, Vol. 101, No. 5, 2001, pp. 1181-1218
[12] M. Aparicio, Los pueblos indigenas y el Estado, Barcelona, Cedecs, 2002.
[13] A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, cit, passim.
[14] Per una critica di una rigida distinzione fra le due fattispecie v. R. Medda, Old and New Minorities: Reconciling Diversity and Cohesion. A Human Rights Model for Minority Integration", tesi dottorale non pubblicata.
[15] Sulla problematica delle minoranze linguistiche in Italia v. V. Piergigli, Lingue minoritarie e identità culturali, Milano, Giuffrè, 2001.
[16] D. Kurban, Confronting Equality: the Need for constitutional Protection of Minorities on Turkey's Path to the European Union, in Columbia Human Rights Law Review, Vol. 151, No. 35, 2003, pp. 151-214.
[17] Il 13 settembre 2007 l'Assemblea Generale dell'ONU ha adottato un altro importante strumento di tutela minoritaria internazionale, la "Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni".
[18] Questa rivista ha ospitato numerosi contributi sul tema in questione. Fra questi, con particolare attenzione alla disciplina dello spettacolo inserita (o no) fra le "attività culturali" v. C. Barbati, Lo spettacolo: il difficile percorso delle riforme (dalla Costituzione del 1948 al "nuovo" Titolo V e "ritorno"), n. 1, 2003.
[19] V. G. Demuro, Il Cinema tra leale collaborazione e intese imposte, in Le Regioni, n. 1, 2006, pp. 178-183 (nonché sul Forum on line dei Quaderni Costituzionali.
[20] B. Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (11» ed.), Bari, Laterza, 1965 (prima edizione Palermo, Sandron, 1902).