I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche - Atti Convegno Assisi (25-27 ottobre 2012)
Ma esistono i beni culturali immateriali? (in margine al Convegno di Assisi sui beni culturali immateriali)
Sommario: 1. Materialità dei beni culturali e beni culturali immateriali. - 2. La necessità di uno statuto comune. La cultura come espressione di civiltà. - 2.1. La valorizzazione della componente immateriale. - 2.2. La sponsorizzazione dei beni culturali. - 3. Il confronto con il Codice della proprietà industriale. - 3.1. Marchi geografici e pubblicità ingannevole. - 3.2. I toponimi tra tutele, volgarizzazione e diritti consolidati - 3.3. Il forcing e la regola dell'essential facility. - 4. Considerazioni d'insieme.
Does Exist the Intangible Cultural Heritage? (on the Sidelines of the Assisi Convention on Intangible Cultural Heritage)
The debate about the
real nature of the "immateriality" starts with an analysis of the
"immaterial" inherents in every cultural object by investigating
characteristics, forms of promotion, development and protection. About the
nature, is highlighted the intangible value that overhangs and dominates the res in the "cultural object".
Is treated the issue of the exploitation of the intangible component of
culture, highlighting the limit of the development identified with the mere
fruition, especially when the object is free of a substrate material. Is shown
the need, for the purpose of a more efficient protection of immateriality, of a
"unitary legal status" due to juridical operator. After dealing
with the problem of exploitation and enjoyment of immaterial object, is
analyzed the importance to giving multimedia character to the cultural immaterial
object, through the encouragement of the use of websites and other connectivity
tools, highlighting, at the same time, the need to identify forms of
utilization that don't falsify their real identity, and above all, to avoid
that the diffusion borders on trivialisation and vulgarization. Starting from
the confirmation reflected in the reality of the use of immateriality finalized
to ensure profits to the state finance, after highlighting as an insufficient
identification makes it difficult the use for economic purposes of the
immateriality, is investigated the opportunity to exploit for commercial
purposes the registration of the mark containing distinctive graphic elements
deriving from the cultural heritage of public institutions, always respecting
the public destination of the gainings, to get to overcome the doubt of
compatibility of exclusive right with the collective usability of cultural
object. Under the aspect of protection, are examined tools such as: De.Comma
(Municipal Denomination), the geographic and collective mark, until you get to
evaluate the possibility to require the holder of property right to give to
others access to the resource. The existence of the immaterial cultural objects
is consecrated, highlighting the need to ensure the respect and preservation of
these.
Keywords: Immateriality; Intangible Value; Culture.
1. Materialità dei beni culturali e beni culturali immateriali
Tirando le fila della sessione dedicata al "valore immateriale dei beni culturali", Giuseppe Morbidelli colloca i beni culturali immateriali nell'ambito di aree oltremodo volatili sicché anche la loro riconduzione all'interno della categoria dei beni comuni non giunge a farli assurgere ad unitarietà di regime e neppure di individuazione.
Più che alle misure di riconoscimento di protezione e di autenticazione caratteristiche dei beni veri e propri, i beni culturali immateriali si prestano a forme di traditio della memoria e dei valori che tali attività inverano e con esse di promozione della conoscenza attraverso fonti (in senso lato) di vari livelli che vanno dalla legislazione statale a quella regionale, da deliberazioni di enti locali a deliberazioni di istituti di cultura, da consuetudini a prassi canonizzati in documenti di soggetti pubblici e privati, la cui rilevanza sotto il profilo giuridico si esaurisce sul piano delle provvidenze e al più dell'assegnazione di un "titolo" da spendere sul mercato.
In sintesi, i beni culturali immateriali si prestano a forme di promozione e valorizzazione e dunque anche di tutela ma non di controllo che sarebbe in conflitto con la libertà di espressione e con la naturale quanto inesauribile mutazione che investe le varie forme di cultura immateriale: anche se non è da escludere la possibilità di individuare forme di protezione più intensa, di limiti alla loro modificabilità, di riserve di uso, ciò richiede la necessità dell'individuazione di soggetti esponenziali cui riferire tali beni e di conseguenza la relativa responsabilità.
E' necessario, in tal caso, la legge statale non solo in ossequio a quanto disposto dall'articolo 117 comma 2, lett. s), Cost. ma perché tale regime inciderebbe su forme di proprietà da regolare sempre con legge dello Stato ex art. 42 comma 2 e 117, lett. l) della Costituzione. Oltre che da un substrato positivo, gli articoli 2 e 10 del Codice dei beni culturali che delimitano nell'ambito delle sole "cose" la nozione di "bene culturale"; la conclusione si pone in apparente continuità con le affermazioni di Giannini nel notissimo scritto del 1976 sui beni culturali che anche distingue la "testimonianza avente valore di civiltà" che esprime il bene culturale dalla res che ne è portatrice. Come nella teorizzazione gianniniana è l'immanenza culturale intrinseca alla cosa che la rende "bene culturale", il prodotto cioè di un valore immateriale che sovrasta e domina la res, ma non la cancella; anche nel Codice la cultura non assume un rilievo autonomo separato e distinto dal "bene" di interesse storico, artistico, archeologico ed etnografico ma si compenetra nella cosa che ne costituisce il supporto materiale e, conseguentemente, non può essere protetta separatamente da questa. Anche nel "Correttivo 2008" "le espressioni di identità culturale collettiva" delle convenzioni Unesco [1] sono sottoposte al Codice "se rappresentate da testimonianze materiali".
La materialità assume il valore di limite rispetto al quale rapportare la guridicizzazione di qualsiasi entità culturale difformemente (e contraddittoriamente) alla libera manifestazione del pensiero, nella quale l'immaterialità trova la sua naturale origine e sviluppo: fiabe e giochi, canti popolari e feste patronali, CD e costumi atavici hanno ad oggetto le attività o meglio testimonianze di antiche e sentite attività pratiche ma non cose. La promozione, valorizzazione e tutela pone in primis il problema di individuare i beni culturali, complicato sia dall'evanescenza e precarietà di molti di essi, caratteristica della cultura sia dalla difficoltà di differenziare quelli "veri e propri", soggetti a riserva di legge, da quelli definibili "di tipo leggero", propri di una nozione più "aperta" di bene culturale.
L'attribuzione di un valore immateriale ai beni culturali si è articolata attraverso tre sottotitoli la cui summa rappresenta l'obiettivo della ricerca: la possibilità di attribuire un "valore economico all'immateriale" e di utilizzarlo sul mercato. Non poteva mancare una panoramica sull'utilizzo e sulle modalità di tutela dei beni immateriali della pubblica Amministrazione. Possono apparire, a prima vista obiettivi poco nobili oppure i consueti mezzi per rimpinguare le casse, specie locali, affette da crisi oramai insanabili ma non è così. Ogni entità, materiale o immateriale è tale solo se diffusa: vive nella realtà secondo l'utilità che piò offrire, a livello individuale o collettivo. Conservare senza utilizzazione è nonsenso allora tanto vale diffondere, anche l'immateriale stando attenti però che la diffusione non significhi banalizzazione e volgarizzazione e preludio alla distruzione. E questo forse è stato il significato vero del convegno di Assisi.
2. La necessità di uno statuto comune. La cultura come espressione di civiltà
La difficoltà e l'insufficienza dell'individuazione dei beni culturali immateriali costituisce il tratto comune delle relazioni di Antonio Bartolini e Giuseppe Severini.
Nell'una si avverte la necessità di condurre a sistema il valore immateriale dei beni culturali tramite uno "statuto" unitario che ne procedimentalizzi l'uso e la tutela senza deprimerne la differenziazione. Fondante la necessità è la prevalenza, nel bene culturale, della materialità sull'immaterialità, obliterata solo in apparenza dal concetto di "testimonianza avente valore di civiltà" nella definizione contenuta nel d.lgs. n. 112/1998 sul "federalismo amministrativo" ma fatta nuovamente propria dal vigente Codice dei beni culturali: tali sono i beni mobili e immobili che la legge individua quali testimonianze di civiltà anche quando recepisce le Convenzioni Unesco, nell'apprestare tutela ai soli beni culturali immateriali avente un supporto materiale.
Punto centrale del problema è perciò stabilire se il valore immateriale, presente anche nei beni culturali materiali, rappresenti il tratto giuridicamente unificante di una vera e propria categoria che preveda nel bene culturale "una testimonianza di civiltà", a prescindere dall'esistenza di un substrato.
Nonostante la scarsa attenzione della burocrazia ministeriale al valore immateriale dei beni, la tradizione giuridica ha salvaguardato la memoria dei fatti umani e dei loro accadimenti: memoria da intendere modernamente come testimonianza di civiltà e, prima di tutto, a mo' di valore immateriale la cui conservazione deve essere garantita dalla legge indipendentemente dal supporto che la contiene (forme rappresentative orali / involucri rappresentativi materiali). Mentre la conservazione è rimasta priva di espressa disciplina, l'utilità immateriale dei beni culturali è stata regolamentata nel Codice ma in maniera incoerente perché diretta a "tutelare il valore immateriale compenetrato nella res mediante ordini di rimessa in pristino o interdittive di attività materiali", senza alcuna misura diretta a tutelare il valore immateriale in sé e per sé.
La tutela dell'immaterialità postula perciò l'esistenza di uno "statuto giuridico minimo unitario", la cui formazione è affidata ai giudici, ai legislatori e ai professori: statuto la cui esistenza implica la certezza della nozione teorica di "bene culturale immateriale" ancora al guado fra le esitazioni del legislatore nazionale e le spinte degli organismi internazionali per l'efficace tutela alla immaterialità dei beni culturali. L'insufficienza dell'individuazione rende difficile conciliare il valore immateriale dei beni culturali con l'utilizzo dell'immaterialità a fini economici e di contemperare l'utilità che lo sponsor si propone con la necessità di non creare un danno all'immagine del bene culturale secondo le valutazioni dell'ente pubblico.
La sponsorizzazione presenta tuttora troppi lati deboli: l'atipicità del contratto, la libertà delle parti nel regolamento degli interessi, la mancanza di poteri reali dell'ente pubblico (il Mibact) deputato alla tutela del valore immateriale. Sul piano positivo, la mancanza nel Codice di misure di tutela del valore immateriale può essere ovviata solo con il giusto procedimento di verifica della compatibilità di qualsivoglia intervento sponsorizzato con il diritto (civico) all'immagine ed al decoro del valore immateriale del bene, limitando autoritativamente l'autonomia delle parti in relazione all'appartenenza "universale" della cultura.
La "cultura" intesa come "espressione di una civiltà" nella componente immateriale delle cose è accentuata nell'altra relazione su tema. E' cultura ogni espressione d'identità collettiva: è immaterialità del bene l'utilizzazione singolare del patrimonio culturale la cui appartenenza è, in principio, indifferenziata nella collettività. E' la "giuridicità connessa all'uso" che attribuisce "valore reale" al bene immateriale facendolo uscire dalla concettualizzazione.
Con l'introduzione del criterio di "giuridicità" nell'ambito dell'immateriale, il novero dei beni culturali previsto dal Codice si amplia senza limite: la giuridicità è il modo in cui alla cultura è riconosciuto un valore che può essere collettivo (e non economico) se appartiene e tutti oppure individuale (e/o economico) se appartenente a qualcuno. La varietà dei mezzi con cui si manifesta l'appartenenza spaziano fra il patrimonio culturale e i beni culturali veri e propri e dipende dalla dilatazione, forse eccessiva che, grazie alle scienze sociali, ha assunto oggi la parola "culturale" sino a diventare pervasiva. Tutto è cultura se si propende per l'idea orizzontale della stessa, per cui ogni cultura è l'espressione di un'intera civiltà, con le inevitabili insidie di banalizzazione e il rischio di scadimento connesso all'impossibilità di una nozione giuridica unitaria, quand'anche aperta, di bene culturale.
Riconoscendo l'esistenza nei beni immateriali di un quid commune con i beni culturali, individuato nelle "espressioni di identità culturale collettiva", il legislatore ha incluso nel "patrimonio culturale" qualsiasi bene che presenti i caratteri di realità e di normatività, incluso anche l'immateriale. Resta aperto l'interrogativo della portata del patrimonio culturale: se restringerla alle cose reali previste dalla legge o se ampliarla sino all'"immateriale", secondo l'idea "orizzontale" di cultura, per cui la cultura è l'espressione di un'intera civiltà e quindi d'identità collettiva: il rischio è di dissolvere la gestione della cultura nella gestione di tutt'intera la vita sociale. Su quest'incertezza s'innesta il tema della culturalizzazione del marchio e dell'impossibilità di appropriazione per ciò che è indistinto, se comune a tutti: che il diritto alla registrazione di elementi grafici distintivi il patrimonio culturale dei Comuni sia contenuto nel Codice della proprietà industriale non comporta appropriazione del bene immateriale ma imputazione del simbolo in capo all'ente territoriale, senza che con questo sia sottratto dal patrimonio territoriale in capo alla collettività intesa come comunanza indistinta.
2.1. La valorizzazione della componente immateriale
A categorizzazioni altrettanto complesse si richiamano Stefano Fantini e Marco Dugato, senza dimenticare il rilievo che nel Codice assume il riconoscimento della materialità, la problematica affrontata è quella della valorizzazione e della fruizione della componente immateriale della cultura, in assenza di una specifica disciplina normativa.
Nel Codice, la valorizzazione si identifica con la fruizione del bene, nei suoi diversi aspetti materiali tutte le volte in cui il proprietario intenda ricavarne una utilità. Muovendo da questo presupposto, la prima relazione esamina le ipotesi in cui l'oggetto di valorizzazione e fruizione sia privo di un sostrato materiale, come si verifica nella registrazione dei marchi da parte delle pp.aa., relativi ad elementi tratti dal loro patrimonio culturale o storico-artistico oppure nei contratti di sponsorizzazione, intesi come fonte di diritti e di obblighi fra il privato e l'amministrazione tenuta a destinare il danaro o il materiale che ottiene in cambio al perseguimento di obiettivi d'interesse culturale.
Delle sponsorizzazioni è evidenziata la valorizzazione del profilo immateriale del bene culturale quando oggetto del contratto sia un facere come si verifica nella "sponsorizzazione indiretta" o nella "sponsorizzazione tecnica" prevista dal codice dei contratti pubblici (art. 199-bis). Della registrazione del marchio recante elementi grafici distintivi, tratti del patrimonio culturale degli enti pubblici, è sottolineata l'idoneità a consentirne lo sfruttamento a fini commerciali, a condizione che i proventi siano destinati ad attività istituzionali o alla copertura di eventuali disavanzi pregressi. Del marchio è chiarito che esso non è un "bene culturale immateriale" ma un "bene immateriale rappresentativo di beni culturali materiali o immateriali": è così superato il dubbio di compatibilità del diritto di esclusiva derivante dalla registrazione del marchio con la regola della fruibilità collettiva del bene culturale.
Quanto ai beni culturali, è evidenziato come il Codice, prevedendo l'uso individuale ma richiedendo un titolo abilitativo, renda compatibile la fruizione del bene da parte della collettività con l'esclusiva derivante dalla registrazione, qualora investa un bene della pubblica amministrazione: l'uso individuale del bene culturale può così essere concesso ai singoli richiedenti per finalità compatibili con la sua destinazione (art. 106), ammettendone quindi l'uso strumentale e precario nonché la riproduzione contro corrispettivo (artt. 107 e 108). Quanto alla valorizzazione-fruizione dei beni culturali, ne è valorizzata l'importanza dei siti web e degli altri strumenti di connettività, considerati come "non-luogo" per fruire del contenuto digitalizzato delle opere d'arte a fini individuali senza snaturarne il carattere collettivo.
L'immissione in rete di contenuti culturali importa che gli stessi divengano multimediali o virtuali perdendo il collegamento con il substrato materiale: diviene tecnicamente possibile la globalizzazione dei contenuti culturali sradicati dalla realtà spaziale e ne è agevolata la fruizione perché passa al di fuori dei confini del tempo dello spazio. Da queste nuove possibilità discende la smaterializzazione della gran parte dei beni culturali ma anche l'esigenza di ridefinire lo stato giuridico dei diritti di proprietà intellettuale una volta perduto il parametro della lex rei sitae.
Parallela ad essa è la necessità di tutelare i titolari dei diritti, anche patrimoniali, sui contenuti culturali, siano questi gli autori, siano questi i soggetti e le strutture che detengono e producono i contenuti culturali: problematico rimane il limite in cui tale tutela risulta meritevole di apprezzamento a fronte dell'interesse alla fruizione della platea dei consumatori. La globalizzazione sradica la cultura dalla realtà spaziale ma esige il ripensamento della tutela dei beni culturali immateriali con soluzioni diverse dalle attuali ristrette al "doppio binario" del dritto interno e del diritto internazionale e comunitario. Connessa alla tutela è la problematica della valorizzazione, ossia della promozione della conoscenza del bene culturale, introdotta nel nostro ordinamento dal correttivo al Codice del 2008. L'introduzione nei beni culturali di entità "volatili" - perché prive di substrato materiale corporeo - come sono le espressioni di identità collettiva ha prodotto l'ampliamento del concetto d'immaterialità ma reso contemporaneamente più pressante la necessità di individuare quelli che, fra i beni, sono effettivamente espressione della cultura intangibile.
La difficoltà di conciliare i concetti di tutela, valorizzazione e fruizione dei beni culturali è stata accentuata particolarmente nell'altra relazione che ha posto l'accento sull'artificiosità della struttura codicistica perché, più che ad esigenze proprie dei beni culturali, risponde all'esigenza di conservare la ripartizione di competenze legislative dettata dall'articolo 117 Cost.
Nei beni culturali immateriali, da trattare come entità autonome e non come proiezioni immateriali di beni culturali materiali, valorizzazione e tutela devono essere considerate separatamente tutte le volte in cui sia possibile realizzare un "bene culturale immateriale" tramite l'insieme di una "rete di beni culturali materiali" strumentali all'individuazione del primo.
La tutela comporta l'individuazione di un interesse e di un soggetto unico cui imputare la legittimità dei comportamenti mentre la valorizzazione può anche essere imputabile a diversi soggetti esponenziali portatori di interessi in conflitto con la tutela. Diversamente dalla valorizzazione, è la tutela del bene culturale che risponde all'interesse generale della collettività. E in questo senso deve muovere la qualificazione giuridica dell'immaterialità. Esistono beni culturali che hanno un valore assoluto non regolabile da norme giuridiche e la cui tutela richiede notevole attenzione quando si tratti di valorizzarne la fruizione individuale: entrambe non possono essere lasciate unicamente nelle mani di un solo soggetto privato. In questo quadro si collocano gli eventi culturali che caratterizzano le città e che è difficile imputare, sempre e in ogni caso, all'ente locale piuttosto che alla collettività nel suo insieme. In merito all'opportunità, sotto l'aspetto economico, di associare determinati eventi e/o di nomi di città a beni immateriali, ne è stata sottolineata la pericolosità perché il loro valore simbolico può essere travolto dagli eventi sfavorevoli a cui è associato il bene artistico o il nome della città. Nell'individuare il bene da valorizzare, è necessario seguire tre regole: la prima è che il bene immateriale culturale è in realtà una rete e cioè una proiezione a rete di più beni culturali, a volte materiali e immateriali; la seconda è che il bene non appartiene esclusivamente all'ente titolare della rappresentanza istituzionale della collettività stanziata sul territorio; la terza è la necessità di regolare giuridicamente la valorizzazione. L'accordo spontaneo fra soggetto pubblico e privato può rappresentare un giusto compromesso per valorizzare la componente immateriale del bene culturale.
2.2. La sponsorizzazione dei beni culturali
La difficoltà di conciliare la sponsorizzazione con la tutela, intesa l'una come modalità organizzativa e strumentale e l'altra come finalizzazione all'uso consapevole del bene e alla non alterazione delle caratteristiche, è stata al centro delle relazioni di Pierfrancesco Ungari e Giuseppe Manfredi.
Il primo ha differenziato la diversità di tutela fra i beni culturali e quelli paesaggistici nei contratti di sponsorizzazione. I beni che rappresentano "patrimonio immateriale dell'umanità" sono privi di tutela connessa alla giustiziabilità dei comportamenti trasgressivi perché non conformi a tradizioni riconosciute. Di questa categoria di beni le convenzioni Unesco individuano la portata nella "promozione, educazione, informazione ed incentivazione a che le collettività rinnovino, ripetano, perpetuino delle tradizioni" senza però specificare i poteri per operarne la salvaguardia. Nel Codice la limitazione della tutela ai beni che siano anche rappresentati da "testimonianze materiali", conferma l'insensibilità della disciplina nazionale alla salvaguardia dei beni soltanto immateriali. La ristrettezza dell'area di tutela dell'immaterialità è percettibile nel marchio territoriale e nei contratti di sponsorizzazione. I poteri esercitati dagli enti sono finalizzati alla difesa dell'appetibilità commerciale dell'attività produttiva raffigurata nel marchio e non alla salvaguardia di valori culturali. Quando l'utilità assicurata riguarda la ricaduta promozionale nei confronti dei consumatori, come avviene nel contratto di sponsorizzazione, la salvaguardia s'incentra nel collegamento, temporaneo e strumentale, fra l'intervento riguardante il bene culturale e la sua componente immateriale. Nella sponsorizzazione collegata ad un bene culturale devono essere soddisfatte due esigenze: che l'attività dello sponsor non contrasti con le caratteristiche del bene e che sia osservata l'evidenza pubblica nella scelta dello sponsor. I poteri di vigilanza e repressione sono finalizzati ad evitare il mutamento di destinazione d'uso del bene e il loro esercizio travalica la conservazione del supporto "materico" del bene, per riguardare direttamente l'immagine, sia nella portata estetico-percettiva sia nel suo significato identitario, in un contesto allargato e riferito al paesaggio, all'ambiente che il bene è in grado di evocare o riassumere. Finalità della salvaguardia è di evitare che l'utilizzazione da parte dello sponsor trasmodi in una forma di appropriazione ideale, sottraendo ad un bene il suo valore identitario e ne qualifica l'appartenenza collettiva.
Il secondo riconduce le sponsorizzazioni all'esigenza di assicurare introiti alla finanza statale e ne ripercorre l'evoluzione normativa, sino al Codice dei contratti pubblici che rinvia alle disposizioni comunitarie per la scelta dello sponsor e per i requisiti di qualificazione dei progettisti e degli esecutori del contratto. Le sponsorizzazioni sono perciò soggette alle due regole dei contratti cd "esclusi": il rispetto dei principi di economicità, trasparenza e proporzionalità e l'invito ad almeno cinque concorrenti, ma solo se ciò sia compatibile con l'oggetto del contratto. Con l'emendamento al Codice dei contratti seguito al Correttivo 2008 al Codice dei beni culturali le sponsorizzazioni (sia tecniche sia di finanziamento) sono state inserite nella programmazione economica triennale delle esigenze economiche delle amministrazioni e ne è stata disciplinata la modalità di ricerca dello sponsor con una tale puntigliosità tale da soffocare il naturale dinamismo del mercato senza soddisfare reali esigenze di giustizia per la limitata sindacabilità dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Più coerente è perciò una maggiore libertà di mercato specie nel settore dei beni culturali che avrebbe maggior bisogno di ottenere risorse. Dall'antinomia fra la libertà del mercato e la "iperregolazione" dei beni culturali è probabilmente dipeso lo scarsissimo successo delle sponsorizzazioni cui si può ovviare soltanto con una maggiore libertà degli operatori.
Dall'insieme degli interventi è tangibile la difficoltà di individuare l'immaterialità alla stregua di caratteristica unitaria che nei beni culturali e artistici sia concepibile distintamente dalla cosa. Dalla "cultura", intesa come "qualsiasi cosa che caratterizzi l'identità di un territorio, di una città o di un paese" e dal "bene culturale" considerato come "testimonianza di civiltà", quel che emerge non è il "valore immateriale dei beni culturali" come entità suscettibile di autonoma categorizzazione e tutela ma come un qualcosa di strumentale a un autonomo bene giuridico (segni distintivi) o atto negoziale (sponsorizzazione), da cui un soggetto pubblico o privato tragga una qualsiasi utilità. Lo stesso intento di salvaguardare la rimembranza e la memoria dei fatti umani e dei loro accadimenti rimane a sé stante e non emerge a livello ordinamentale se disgiunto da un substrato materiale che ne indichi la rilevanza a livello della generalità.
3. Il confronto con il Codice della proprietà industriale
Sotto l'aspetto della valorizzazione e della tutela, la connessione dei beni culturali con cose che li incorporano appare più evidente nell'utilizzo dei beni immateriali della Pubblica Amministrazione, considerato dall'angolo visuale della tutela offerta dal Codice della proprietà industriale nelle relazioni di Giuseppe Caforio e Cesare Galli. Comune ad entrambe è l'adattamento in schemi normativi rigidi di beni materiali la cui rilevanza generale è fonte del loro valore immateriale: adattamento necessario sia per la multiformità delle realtà locali sia per l'opportunità di impedire "fughe in avanti" da parte di amministratori poco accorti da cui lo stesso valore immateriale del bene potrebbe risultare compromesso.
3.1. Marchi geografici e pubblicità ingannevole
Degli effetti per la pubblica amministrazione della titolarità di segni distintivi propri dell'attività imprenditoriale senza essere imprenditore si è occupata la prima relazione.
Chiunque può registrare un marchio e lo può utilizzare senza essere impresa: il nome di un comune, di una provincia, di una regione o di un luogo particolare, una volta registrati, possono esseri ceduti a un produttore o un'impresa a fini commerciali dietro pagamento di una royalty che deve ricadere a vantaggio della collettività.
Questa è la regola "liberalizzata": resta da accertare sino a che punto l'ente possa cedere, in via anche non esclusiva, un segno caratteristico che appartiene al patrimonio della comunità e sino a che punto l'associazione generalizzata del nome di una città o di un territorio con un bene di consumo non sia pregiudizievole per altri produttori dello stesso bene o non costituisca pubblicità ingannevole.
Per tutelare contesti locali di particolare rinomanza, è stata affacciata la De.Comma (Denominazione Comunale): la "denominazione" certifica, in cambio di una royalty, che l'impresa o il prodotto abbia avuto dal comune l'autorizzazione all'utilizzo dell'elemento identificativo di quel luogo (sia lo stesso luogo o un elemento identificativo del patrimonio storico). All'ente locale che incassa la royalty spetta di vigilare che lo stesso elemento identificativo non sia usato da terzi. Ai vantaggi dei marchi collettivi, specie se territoriali o geografici, si contrappongono regole e svantaggi. La regola è che il marchio non deve essere decettivo, cioè ingannevole, anche quando è legato a un ente pubblico: sulla spendibilità di ciò che appartiene al patrimonio degli enti territoriali, prevale la tutela del consumatore, nei cui confronti il marchio non deve creare inganno. Lo svantaggio consiste nella ripercussione dei fatti negativi che possono travolgere la fama della località nell'immaginario collettivo, com'è avvenuto per il metanolo, che, diversi anni fa, ha distrutto moltissime aziende pugliesi, per l'associazione estremamente negativa al vino prodotto in quel territorio. Situazioni di questo tipo possono essere prevenute con marchi collettivi e disciplinari, con la vigilanza e il controllo dell'ente territoriale che eviti, quanto più è possibile utilizzi impropri se non illegittimi o addirittura penalmente rilevanti, del marchio contenente toponimi o denominazioni di comuni o di altri enti.
3.2. I toponimi tra tutele, volgarizzazione e diritti consolidati
Le difficoltà di tutelare il marchio quando riporta la denominazione di una città o di una località sono state illustrate nell'altra relazione sul marchio geografico, presente nella legge marchi. Nella sua vicenda evolutiva, il marchio geografico è stato prima sottoposto alla regola dei marchi collettivi, che garantisce la posizione di radicamento con il territorio di ciascun prodotto: regola, attenuata poi in favore della "percezione del pubblico" che è la misura della tutela nel mercato. La stessa "regola della percezione" è stata resa applicabile ai toponimi usati come marchio collettivo che garantiscono la provenienza di un prodotto: il marchio deve perciò essere concesso a tutti coloro che rispettino un determinato disciplinare. Oltre che nei marchi collettivi, situazioni di contatto fra la titolarità del marchio in capo al privato e quella del soggetto pubblico si riscontrano nelle "denominazioni" di origine "controllata" o "protetta", che esprimono la qualità di un prodotto tramite il richiamo toponomastico configurato dal collegamento fra il luogo e le sue tipicità.
3.3. Il forcing e la regola dell'essential facility
Nuova e particolare è l'applicazione all'ente pubblico dell'obbligo di far accedere altri alla propria risorsa a carico del titolare del diritto di privativa. Al titolare della privativa è possibile imporre l'obbligo di contrarre in presenza di circostanze eccezionali, ovvero in presenza di alcune condizioni che consentirebbero l'applicazione della regola dell'essential facility: questa consiste nella possibilità di accedere alla rete di propagazione altrui, se necessaria per una determinata attività e non vi sia altro modo per esercitarla. La problematica coinvolge quella - di più ampio spessore - dell'assimilazione del titolare del diritto di privativa al monopolista vero e proprio e tocca il profilo del forcing, consistente nel dovere del titolare del diritto di proprietà industriale di mettere a disposizione dei terzi le proprie risorse in presenza di specifici presupposti. Muovendo dall'equiparazione del forcing all'esproprio, si ipotizza la possibilità di espropriare i marchi e di concedere l'accesso forzoso a facilities essenziali se ciò sia necessario per agevolare il mercato nel suo insieme. Per i beni immateriali le regole antitrust non sono tassative come per quelli tangibili e nei loro confronti l'interesse alla tutela del diritto di proprietà intellettuale è meno stringente di quello alla tutela della libera concorrenza. L'applicazione del forcing ai beni immateriali della pubblica amministrazione è sicuramente avveniristico ma dimostra la loro possibilità di essere, almeno concettualmente, dilatati all'infinito.
Non è facile, a distanza di un anno tracciare delle conclusioni: nel tempo le impressioni diluiscono e le certezze delle tesi, all'apparenza inattaccabili, si dematerializzano, un po' come l'immateriale oggetto del Convegno.
Fra le impressioni al momento, la più forte è stata quella suscitata dalla relazione Severini incentrata sulle singole manifestazioni dell'immaterialità scevra da ogni sistematizzazione. L'immateriale è l'in sé della cultura, dell'arte e della tradizione. Sull'utilizzo per finalità economiche prevale la fruizione collettiva, nel significato di "godimento per finalità non economiche" (a Gubbio, la Festa dei Ceri è di nessuno ed essendo di nessuno è di tutti).
Alle stesse conclusioni giunge, "a posteriori", Morbidelli muovendo dall'esistenza dell'"immateriale" insito in ogni bene culturale: la nozione, teorizzata dal Giannini per i soli beni culturali, è dilatata in misura pari alla "diffusione, molteplicità, variegatezza" dei beni, individuati dalla "comunità in cui germinano e di cui custodiscono elementi valorali".
Comune alla maggior parte degli interventi è l'identificazione dell'immaterialità con il "valore ideale" che origina da determinate "cose" del mondo esterno e l'attribuzione di un valore economico al valore ideale. L'immaterialità diviene in questo modo un bene intangibile, non visibile ma virtuale, il cui utilizzo può essere trasferito ad un soggetto individuato e sottratto alla collettività nel suo insieme, alla quale appartiene di principio. In tal senso l'immaterialità è l'adeguamento alle nuove tecnologie di diffusione del sapere, dei principi di "garanzia di conservazione" e di "possibilità di fruizione pubblica" già presenti nella legge n. 1089 del 1939, che già allora permettevano l'utilizzazione del bene culturale in senso economico nel rispetto della sua destinazione.
Dalla novità di questa fenomenologia originano nuovi problemi, la necessità di regole comuni (Bartolini), l'adeguamento alla globalizzazione della diffusione (Fantini), l'individuazione di modalità di utilizzo che non ne alterino la valenza (Ungari), l'assoggettamento dell'idealità alle esigenze di cassa degli enti e l'immancabile affacciarsi della concorrenza (Manfredi). Seguono a ruota gli strumenti di tutela dalla De.Comma (Caforio), al marchio collettivo / geografico (Galli), fino a mezzi ancor più sofisticati come il forcing degli industrialisti.
Ci si può chiedere a questo punto che cosa sia l'immaterialità della cultura quando diventa bene. Che sia qualcosa di diverso dalle nozioni tradizionale è indubitabile; tre argomenti ad hominem: in nessuna delle relazioni è fatto cenno alla demanialità, segno dello scadere dell'importanza della figura del proprietario di fronte alle modalità di utilizzo dell'immaterialità del bene; non è mai stato menzionato l'ambiente perché espunto dai beni assimilati a quelli culturali, il posto dei "beni paesaggistici" è stato definitivamente preso dal "paesaggio" integrato nel novero dei beni culturali al pari delle cose di interesse artistico e storico.
L'immaterialità bypassa la "promozione dello sviluppo della cultura" e la "tutela del paesaggio e del patrimonio artistico e storico" dell'art. 9 Cost. perché è essa stessa tale: astrae dall'oggettività del bene "ridotto" ad immagine da utilizzare come veicolo di propagazione di un prodotto sul mercato. Più che caratteristica del bene culturale, l'immaterialità diventa strumento di circolazione e di diffusione del prodotto cui è associata l'immagine: lo stesso criterio è percepito anche dalla legge di delega alla redazione del Codice che menziona espressamente "la riorganizzazione dei servizi offerti anche attraverso la concessione a soggetti diversi dallo Stato". Rispetto all'astrattezza dell'immaterialità, la concessione diviene fonte di equivoco: la sua rigidità non permette il trasferimento di entità volatili, con le certezze che il mercato richiede.
E' il momento di rispondere alla domanda inziale: ma esistono i beni culturali immateriali? Sicuramente sì e non solo culturali. Tale è qualsiasi cosa sia in grado di giungere allo spirito e suscitare emozioni personali, non importa che sopraggiungano al cospetto di una tela, nell'assistere a una manifestazione, alla vista di un paesaggio: la legge deve garantirne il rispetto e la conservazione e se da questo sia possibile trarre un corrispettivo economico poco importa ...
Note
[1] Adottate a Parigi il 3 novembre 2003 il 20 ottobre 2005 aventi ad oggetto la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e, con esso, ogni forma di espressione culturale.