Le modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio
dopo i decreti legislativi 62 e 63 del 2008 / Beni culturali
La tutela: gli artt. 1-15
Sommario: 1. Generalità. - 2. Le modifiche 'per riconsiderazione'. - 3. Le modifiche 'per sopravvenienza'.
Le ulteriori disposizioni integrative e correttive al Codice dei beni culturali e del paesaggio contenute sia nei decreti legislativi 26 marzo 2008, nn. 62 e 63, che nelle Relazioni illustrative ai relativi schemi [1] sono motivate in base ad esigenze varie (puntuale ottemperanza degli accordi internazionali, definizione di una più stringente disciplina di salvaguardia ecc.), paiono riconducibili a due tipi fondamentali di modifiche, qualificabili rispettivamente come modifiche 'per riconsiderazione' e modifiche 'per sopravvenienza': le une derivanti da una nuova considerazione del testo normativo in vista di una sua più precisa o più chiara formulazione (a queste appartengono i non pochi interventi di drafting operati), le altre discendenti dall'esigenza di aggiornare il testo alla luce di dati (specie normativi) intervenuti successivamente alla sua emanazione.
Ad ogni modo a tali tipi sono riportabili le modifiche interessanti gli articoli dall'1 al 15 del d.lg. 62/2008, che qui si esaminano, modifiche che per lo più concernono la disciplina della funzione di tutela (l'unica eccezione essendo costituita da quella relativa all'art. 6, comma 1, in cui la precisazione dei contenuti della valorizzazione in tema di beni paesaggistici è ora riferita, più correttamente, al paesaggio (entità normativa che ormai comprende certamente i beni paesaggistici, senza però esaurirsi in essi, cfr. Parte III del Codice). Più in dettaglio, ad essere toccati dalle modifiche sono i profili della tutela relativi ai soggetti destinatari e agli oggetti della disciplina.
Di seguito tali modifiche verranno prese in esame secondo la partizione appena enunciata. Fin d'ora va detto che complessivamente esse, pur non potendo qualificarsi inutili o inopportune, presentano un'incidenza ridotta sulla preesistente normativa.
2. Le modifiche 'per riconsiderazione'
Sicuramente quanto appena affermato vale per i numerosi interventi di drafting operati. E' questo il caso di quello relativo all'art. 10, comma 2, lett. c), dove la dizione "raccolte che assolvono alle funzioni delle biblioteche" sostituisce quella di "raccolte delle biblioteche", per indicare talune raccolte (ad es. delle biblioteche popolari) escluse dal novero dei beni culturali, dell'intervento concernente il comma 4, lett. b), dello stesso articolo, in cui al "carattere ... di pregio" - richiesto come requisito per la qualificazione come beni culturali delle cose di interesse numismatico - è stato espunta la precisazione "anche storico", e con tutta evidenza degli interventi riguardanti il comma 3, lett. e), ancora dell'art. 10 ("rivestano" in luogo di "rivestono"), l'art. 11, rubrica ("cose" in luogo di "beni") e varie lettere del comma 1 (sostituzione della locuzione "di cui all' [o agli] articolo[i]" con quella "a termini dell' [o degli] articolo[i]", nonché l'art. 14, comma 5 (il riferimento alla "legge 7 agosto 1990, n. 241" muta in quello alla "legge in materia di procedimento amministrativo".
Lo stesso è da dirsi per talune variazioni non di drafting, ma egualmente di indole fondamentalmente formale. Così la precisazione contenuta nel nuovo art. 5, comma 6, secondo la quale le funzioni amministrative di tutela vanno esercitate dallo Stato e dalle regioni "in modo che sia sempre assicurato un livello di governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite", che nulla aggiunge in termini di principio a quanto già desumibile dall'art. 4, comma 1, ma al più conferisce un'ulteriore base normativa al potere di indirizzo e vigilanza e a quello sostitutivo previsti dal comma 7 dello stesso art. 5 in capo allo Stato nei confronti delle regioni.
Così l'indicazione inserita nell'art. 6, comma 1, secondo cui la valorizzazione è volta ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio culturale "anche da parte delle persone diversamente abili", che pare un mero tributo alla terminologia politically correct.
Così, infine, la puntualizzazione contenuta dall'art. 11, comma 1-bis, secondo la quale per le cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela "resta ferma l'applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 12 e 13, qualora sussistano i presupposti e le condizioni stabiliti dall'art. 10" (in sostanza la possibilità che tali cose siano assoggettate al regime generale di tutela), o quella inserita nell'art. 10, comma 3, lett. e), per la quale le collezioni ivi menzionate costituiscono beni culturali previa dichiarazione ex art. 13, sempre che esse "non siano ricompresse fra quelle indicate al comma 2" (per le quali non occorre alla dichiarazione): in ambedue i casi non sembra che sia stato aggiunto alcunché rispetto a quanto era possibile desumere dalla precedente versione degli artt. 11 e 10.
Per rinvenire variazioni di una qualche innovatività sostanziale occorre rifarsi a quella dell'art. 10, comma 3, lett. d), in cui il novero dei c.d. beni culturali per relationem è stato allargato alle cose caratterizzate dal riferimento con la storia "della scienza, della tecnica, dell'industria", oppure a quella dell'art. 12, comma 8, che precisa che l'archivio informatico, nel quale confluiscono le schede descrittive degli immobili di proprietà dello Stato oggetto di verifica con esito positivo nonché i relativi atti di verifica, va "conservato presso il ministero", oppure a quella dell'art. 15, comma 2-bis, secondo cui "dei beni dichiarati il ministero forma e conserva un apposito elenco, anche su supporto informatico".
3. Le modifiche 'per sopravvenienza'
Maggiore interesse presentano le modifiche dettate da fattori intervenuti dopo l'emanazione del Codice e delle disposizioni integrative e correttive del 2006.
Anzitutto si tratta dell'inserimento dell'art. 7-bis, concernente le "espressioni di identità culturale collettiva" oggetto delle Convenzioni Unesco adottate a Parigi il 17 ottobre 2003 [2] e il 20 ottobre 2005, ratificate e rese esecutive in Italia rispettivamente dalla legge 27 settembre 2007, n. 167, e dalla legge 19 febbraio 2007, n. 19: la prima volta alla salvaguardia del "patrimonio culturale immateriale", la seconda diretta alla protezione e promozione delle "diversità delle espressioni culturali".
Con l'art. 7-bis si stabilisce che le espressioni di identità culturale collettiva sono assoggettabili alle disposizioni del Codice "qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10".
La formula impiegata appare felice nel collegare la disciplina del Codice agli impegni assunti dal nostro Paese con gli atti di ratifica ed esecuzione delle due Convenzioni. Per un verso, le espressioni di identità culturale collettiva, che nelle Convenzioni hanno o possono avere natura immateriale (cfr. artt. 1 e 2 Convenzione del 2003 e art. 3 Convenzione del 2005) sono ricondotte all'ambito di applicazione del Codice - che considera come beni culturali solo le cose materiali [3] - quando appunto "siano rappresentate da testimonianze materiali".
Per altro verso, non si amplia il novero dei beni culturali tradizionali aprendolo alle cose che presentano un mero interesse di 'identità culturale collettiva', richiedendosi che devono sussistere "i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'art. 10" (che definisce i beni culturali). In sintesi, alle espressioni di identità culturale collettiva viene estesa la disciplina del Codice purché dette espressioni abbiano un substrato materiale e questo presenti un interesse artistico, storico, archeologico e etnoantropologico.
Più 'intrigante' (verrebbe da dire) è la modifica apportata all'art. 1, comma 5, e all'art. 10, comma 1, (come pure, peraltro, all'art. 30, comma 2, e all'art. 56, comma 1, lett. b), e comma 2, lett. b)), ove alla dizione "privati proprietari, possessori o detentori" oppure "persone giuridiche private senza fine di lucro" è stata aggiunta la precisazione "ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti".
Come indica la Relazione illustrativa [4], con la modifica si è inteso "rimediare ad una lacuna di disciplina, evidenziata dal Consiglio di Stato in sede consultiva". Nel parere reso il 17 gennaio 2007 con riguardo al ricorso straordinario n. 10379/2004, la Sezione II, riprendendo una posizione espressa dalla Sezione I (parere n. 1338/2000 del 14 febbraio 2001), ritenne che "gli enti ecclesiastici non possono qualificarsi come 'persone giuridiche private senza fini di lucro'". Con l'art. 4 della legge 20 maggio 1985, n. 222 - secondo il quale "Gli enti ecclesiastici che hanno la personalità giuridica nell'ordinamento dello Stato assumono la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti" - il legislatore avrebbe, infatti, inteso chiarire definitivamente che gli enti della Chiesa cattolica, una volta ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica dallo Stato, "altro non sono, per l'appunto, che 'enti ecclesiastici civilmente riconosciuti'". Essi, pertanto, non sarebbero "né privati, né pubblici, ma enti di un'autonoma organizzazione confessionale, ai quali lo Stato si è limitato a riconoscere la personalità giuridica".
Da questa premessa la Sezione II desunse come corollario che a detti enti non potessero applicarsi le disposizioni contenute nell'art. 55 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, e nell'art. 21 del d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, dettate per le "persone giuridiche private senza fini di lucro", con la conseguenza che gli atti di alienazione di beni culturali da essi compiuti non richiedessero la autorizzazione preventiva ivi prevista.
Non è questa sicuramente la sede per un'approfondita analisi della natura giuridica degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, ma sia consentito esporre un'impressione di perplessità sull'orientamento appena ricordato.
Per un verso, la formula dell'art. 4, interpretata alla luce del sistema complessivo introdotto dalla l. 22/1985 sulla scia delle disposizioni concordatarie e pattizie del 1984-1985, non ha impedito alla dottrina e alla giurisprudenza di parlare per gli enti ecclesiastici di "personalità giuridica civile" [5] e di assegnare alla giurisdizione ordinaria le controversie di lavoro che li vedessero parte [6]. E ciò (paradossalmente) in linea con la posizione espressa dallo stesso Consiglio di Stato con riguardo alla disciplina dei requisiti necessari per il riconoscimento da parte dell'autorità governativa degli enti in questione, disciplina nella cui interpretazione si è privilegiato il profilo della assoggettabilità degli enti al diritto comune su quello della loro 'specialità' [7].
Per altro verso, e con riferimento specifico al regime dei beni culturali degli enti ecclesiastici che qui interessa, la posizione del Consiglio di Stato non consente di sfuggire in definitiva alla strettoia del tertium non datur: se gli enti ecclesiastici (una volta riconosciuti dall'ordinamento statuale) non sono né enti pubblici né enti privati, la disciplina codicistica dettata per i beni culturali degli uni e degli altri enti certamente non troverà applicazione 'in via diretta', ma ciò non escluderà che l'interprete, costretto dal principio di completezza del sistema giuridico, ricorra all'istituto dell'analogia e riconduca 'in via indiretta' i beni culturali degli enti ecclesiastici alla disciplina codicistica, più esattamente, per ragioni di affinità sostanziale dei soggetti titolari, a quella dettata per i beni culturali delle persone giuridiche private senza fini di lucro.
Ad ogni modo, con la modifica sopra richiamata il legislatore delegato ha inteso rispondere all'indicazione del Consiglio di Stato, peraltro alla fine ricorrendo all'integrazione delle disposizioni citate, non con la formula "enti ed istituti legalmente riconosciuti" - formula questa presente nella legge 1° giugno 1939, n. 1089, e ripresa nello schema originario del decreto correttivo - ma con quella "ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti", che sicuramente dissipa in linea di fatto la ragione dei rilievi del Consiglio di Stato, ma che tiene ferma in linea di principio la considerazione, presente nel TU del 1999 e nelle precedenti versioni del Codice Urbani, degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti quali persone giuridiche private senza fine di lucro [8].
Ovviamente l''allineamento' alla posizione del Consiglio di Stato ha costretto il legislatore delegato a giustificare la modifica introdotta alla luce del limite, postogli dalla legge di delega, di legiferare "senza determinare ulteriori restrizioni alla proprietà privata" (art. 10, comma 2, lett. d), legge 6 luglio 2002, n. 137, e succ. mod.). La Relazione illustrativa si diffonde sul punto [9]. La soluzione normativa prevalsa su quella inizialmente avanzata fuga ogni dubbio in proposito, risultando di mero chiarimento di un disposto normativo già vigente.
Note
[1] Tali Relazioni sono contenute in Senato della Repubblica - XV Legislatura, Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare n. 217 e Atto del Governo sottoposto a parere parlamentare n. 218, ambedue del 12 febbraio 2008.
[2] Nel d.lg. 62/2008 e nella Relazione illustrativa del relativo schema (Atto n. 217, cit., 7) tale Convenzione è erroneamente indicata del 3 novembre 2003.
[3] Sia consentito rinviare a G. Sciullo, I beni, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, Il Mulino, 2006, 3.
[4] Atto n. 217, cit., 2 s.
[5] G. Pastori, Riconoscimento degli enti ecclesiastici e Consiglio di Stato, in Dir. amm., 1996, 159 s.
[6] Cass. civ. Sez. Un., 2 aprile 1990, n. 2656.
[7] Cfr. C. Cardia, Riconoscimento degli enti ecclesiastici e Consiglio di Stato, in Dir. amm., 1996, 113 ss.
[8] Invero, il significato della formula prescelta alla fine risulta di mera specificazione: almeno agli effetti della disciplina codicistica, le persone giuridiche private senza fine di lucro annoverano anche gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
[9] Atto n. 217, cit., 4 s.