I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche - Atti Convegno Assisi (25-27 ottobre 2012)
La sponsorizzazione dei beni culturali
Sommario: 1. Ancora sui beni culturali immateriali. - 2. Aspetti della sponsorizzazione concernente interventi su beni culturali. - 3. Cenni sulle esperienze applicative.
The Sponsorship of Cultural Heritage
Connecting with the previous reports, the Author calls
into question the existence of a discipline concerning sponsorship of cultural
heritage, giving relevance to the intangible status of the good subject of the
sponsorship. Author underlines how the examples that are meant to demonstrate
the existence in the italian law of intangible cultural goods - identified
especially as the object of the UNESCO Convention on the Intangible Cultural
Heritage and territorial trademark rules set in the Code of industrial property
- are not coherent with standard of the national regulation on the cultural
heritage, still based on the submission of a good to a Public Authority that,
to ensure its public use, considers restrictions on rights of use and disposal
of the owner, possessor or holder (that could be summed up with the notions of
"vincolo" and "tutela"). Author also sketches out the main
features that sponsorship discipline takes on when it concerns actions on
cultural heritage due to the predominance of conservative needs (as for art.
120 of the Code of cultural heritage and landscape, that considers a
compatibility check about sponsorship, to be carried out on the basis of a very
extensive standard, encompassing the use or even the identity value of the
restricted good); and the need for Public Authority, while choosing the
sponsor, to respect rules for public tenders (as set in artt. 26, 27 and 199-bis of the Code of public contracts,
including articulated provisions and regulations concerning planning and
selection of activities that could be sponsored and the adoption of operational
guide-lines apt to coordinate the above-mentioned compatibility check with the
management of processes on activities award).
Keywords: Intangible Cultural Heritage; Compatibility Check; Activities that Could be Sponsored; Sponsor Selection.
1. Ancora sui beni culturali immateriali
Mi permetto di uscire dal tema dell'intervento assegnatomi perché mi sembra conduca in un vicolo cieco. Si lega al tema della sessione, ma fatica a trovare un appiglio di diritto positivo se riferito al tema generale di questo convegno: i "Beni immateriali". Non sono stato capace di trovare una disciplina della sponsorizzazione dei beni culturali che dia rilevanza alla immaterialità del bene oggetto di sponsorizzazione. Se prescindiamo dall'esistenza di una cosa, la sponsorizzazione dei beni culturali non presenta particolarità rispetto a quella che può interessare un bene o un'attività qualsiasi.
Allora, scusandomi se trasformo quella che avrebbe dovuto essere una relazione in un ulteriore commento alle relazioni udite, vorrei insistere sulle criticità del collegamento tra i beni culturali ed il dato dell'immaterialità. Il prof. Bartolini ha evidenziato, da par suo, una serie di spunti normativi a dimostrazione dell'esistenza nel nostro diritto positivo dei beni culturali immateriali, addirittura caratterizzati da un tratto unificante, così da costituire una vera e propria categoria. Questa conclusione trova perplesso anche me. Le considerazioni di Giuseppe Severini, come di consueto, sono state molto brillanti ed incisive. Proverò ad aggiungere qualcosa.
Partendo dal primo esempio che è stato fatto: i beni patrimonio immateriale dell'umanità delle convenzioni Unesco. Al di là della relativa consistenza della casistica finora registrata, mi sembra che per tali beni la salvaguardia, funzione sulla quale la convenzione Unesco è incentrata, e che è attribuita anzitutto agli Stati, ma in generale a tutti i soggetti degli ordinamenti, venga declinata nella promozione, educazione, informazione ed incentivazione "a che le collettività", si legge nel testo, "rinnovino, ripetano, perpetuino delle tradizioni". Mi sfugge la portata coercitiva, ancorché indiretta e assai latamente intesa, della previsione, e siccome sono legato a una concezione antica, secondo la quale non c'è una vera regola giuridica se la sua trasgressione non è giustiziabile né altrimenti sanzionabile, questa mancanza mi mette in difficoltà. I fenomeni considerati dalle convenzioni Unesco hanno sicuramente un significato identitario, anche intuitivamente percepibile, ma mancano gli strumenti di difesa. Mi sembra che l'Unesco attribuisca una certificazione di qualità culturale anche a fenomeni diversi dalle cose, ma poi non metta a disposizione poteri per operarne la salvaguardia, né, a dire il vero, risorse per incentivare i comportamenti che si pongono nel solco delle tradizioni riconosciute. L'applicabilità delle disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio ai beni delle convenzioni Unesco, disposta dall'articolo 7-bis, in quanto espressamente limitata a quelle espressioni di identità culturale collettiva che siano anche rappresentate da "testimonianze materiali", conferma l'insensibilità della disciplina nazionale ai beni immateriali.
Il secondo esempio, quello finora più evidenziato, riguarda la tutela assicurata al marchio territoriale dall'articolo 19, comma 3, del Codice della proprietà industriale.
In questo caso, a parte i problemi di titolarità, non si può sostenere che la salvaguardia difetti di strumenti giuridici. Ma le possibilità di intervento assicurate agli enti territoriali in relazione al marchio da essi registrato, che costituisca anche proiezione di elementi dei rispettivi patrimoni culturali, non sono finalizzate alla salvaguardia di valori culturali. Si tratta invece di difendere l'appetibilità commerciale di un'attività produttiva, essenzialmente legata al turismo, alla filiera agroalimentare o all'artigianato, che presuppone una tradizione, una qualità distintiva, questa sì avente carattere culturale ma che non costituisce l'oggetto della salvaguardia. Quale che sia la situazione geografica e il tipo di componente culturale che dà luogo al marchio, mi sembra che l'ente esponenziale agisca come qualsiasi titolare di un marchio industriale, per curare un interesse economico, presupponendo che del marchio si giovino, quali produttori o lavoratori, imprese e cittadini appartenenti alle collettività di riferimento. Se interviene per inibire o conformare l'utilizzazione abusiva o impropria da parte di terzi, o per ricondurre i consorziati che utilizzano quel marchio all'interno delle regole del disciplinare, lo fa mediante strumenti che non sono pubblicistici. Soprattutto, lo fa per proteggere il mercato, e solo occasionalmente per una finalità di interesse culturale.
Gli altri esempi fatti indicano aneliti non realizzati. Nelle norme organizzative del Ministero per i beni e le attività culturali, come finalità ed ambiti di intervento, effettivamente, troviamo di tutto, anche la salvaguardia dei beni immateriali, ma non mi risulta si svolga una reale attività in questo senso. La definizione generale di bene culturale, come testimonianza materiale avente valore di civiltà, coniata della Commissione Franceschini, nel tradursi in norma ha perso l'aggettivo "materiale", ma la finestra tenuta aperta dall'articolo 4 del testo unico del 1999 per l'introduzione di nuove categorie di beni culturali eventualmente connotate dall'immaterialità, non è mai stata utilizzata, e l'art. 2 del Codice dei beni culturali lega ormai questa possibilità ad "altre cose".
Accomunando questi esempi dell'esistenza giuridica del bene culturale immateriale, mi sembra manchi il paradigma della disciplina nazionale della materia, che ha ormai più un secolo. Quello che si fonda sull'esistenza di cose, soggette a poteri e comportamenti delle Amministrazioni pubbliche, finalizzati a perpetuarne l'esistenza ed a mantenerle nell'ambito di applicazione della legge italiana, in quanto espressive di valori culturali. Il bene culturale può avere un proprietario privato o pubblico, ma in ogni caso è un bene di interesse pubblico, una forma di proprietà fortemente funzionalizzata ad uno scopo che consiste nel contribuire alla promozione della cultura, alla difesa del senso di identità di tutti noi, e che si consegue garantendo, nei modi in cui per ciascun bene ciò sia possibile e opportuno, la fruizione pubblica del bene (e la sua valorizzazione, intesa dal Codice come prospettiva incrementale, per quantità ed articolazione, di tale fruizione).
I poteri e comportamenti evidenziati si riassumono con l'espressione "tutela". Se non c'è possibilità giuridica di tutela, se la normativa non prevede quello che con una sintesi verbale viene comunemente definito "vincolo", vale a dire una limitazione delle facoltà di godimento e disposizione che ordinariamente spetterebbero al titolare di diritti reali o di godimento in relazione al bene, nulla ci garantisce che il bene conservi la sua consistenza materiale e possa continuare ad esprimere nel tempo i valori culturali che gli si riconoscono; vale a dire, manca il presupposto per poter disciplinare e praticare fruizione pubblica e valorizzazione.
Il significato della tutela e la destinazione del patrimonio culturale alla pubblica fruizione, come disciplinati dal Codice in attuazione dell'articolo 9, secondo comma, della Costituzione, segna una netta distinzione rispetto all'esempio normativamente più consistente di bene culturale immateriale che ci viene proposto. Il marchio territoriale si elabora e si registra per comunicare ai consumatori un messaggio: il prodotto che si realizza in questo territorio ha un'alta qualità e deve avere un prezzo adeguato, quello che viene da un altro contesto, anche se presentato con nomi ed etichette somiglianti e suggestivi, ha una diversa qualità e quindi non può avere lo stesso prezzo. La difesa del marchio comporta un'esclusione dall'utilizzazione di connotati distintivi positivi. Al contrario, il bene culturale assolve ad una finalità inclusiva, renderlo fruibile nelle forme più articolate possibili al maggior numero di persone possibile. In un certo senso appartiene a tutti e da tutti, nel rispetto della disponibilità e delle esigenze del proprietario, deve poter essere ammirato, conosciuto, studiato, consumato (non in senso materiale, evidentemente), nelle forme sempre più penetranti e per certi versi anche preoccupanti, che tecnologia e costume sociale ci propongono.
Rispetto alle tradizioni identitarie, un'accezione dei beni culturali comprensiva del bene culturale immateriale non mi sembra possa avere un gran significato pratico. Probabilmente, perché si tratta di attività culturali, ma non di beni. L'art. 9, comma primo, della Costituzione, che garantisce la promozione della cultura, e l'articolo 21, comma primo, che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero in tutte le sue espressioni, impediscono (salva la tutela del diritto d'autore, rimessa alla volontà del titolare) che le manifestazioni culturali siano costrette nel solco della tradizione e che la loro rappresentazione sia vietata se non rispetta un testo, uno spartito, una qualsiasi forma ritenuta necessaria e immodificabile.
Per tornare all'esempio più vicino di una tradizione aspirante ad entrare nel patrimonio immateriale dell'umanità, la Corsa dei Ceri di Gubbio: nessun potere pubblico potrebbe imporre alla comunità eugubina ed alle sue organizzazioni storiche di continuare a realizzare la manifestazione contro la loro volontà, e se a qualcuno venisse in mente di organizzare la corsa con modalità diverse, rendendola più "competitiva", magari con la possibilità che i ceri di San Giorgio e Sant'Antonio sorpassino all'ingresso in basilica quello di Sant'Ubaldo, è più che probabile che l'iniziativa fallirebbe miseramente dal punto di vista sociale e dell'appeal mediatico, ma altrimenti sarebbe problematico trovare un potere pubblico in grado di inibire una simile eretica evoluzione.
Quelli che definiamo beni culturali immateriali sono di regola attività, incentivabili ma non "tutelabili". Un ultimo esempio, riferito a qualcosa che tutti i ragazzi italiani fino alla mia generazione conoscevano ed alla quale perciò è difficile negare, nel suo piccolo, un valore identitario. "La vispa Teresa avea tra l'erbetta al volo sorpresa gentil farfalletta e tutta giuliva, stringendola viva, gridava a distesa: l'ho presa, l'ho presa!", è l'inizio de "La farfalletta", filastrocca destinata all'infanzia pubblicata nel 1870 dall'insegnante milanese Luigi Sailer, che racconta di una bambina la quale acquista consapevolezza della propria responsabilità. La filastrocca dà un messaggio morale: la bimba, quando la farfalla le fa capire che è ingiusto e privo di senso tenerla costretta, apre la mano e quella vola via. Era quasi dimenticata, allorché Trilussa, famoso poeta romanesco, alla fine della prima guerra mondiale ha scritto: "La vispa Teresa allungata da Trilussa". Con un atto di deliberata violenza, stravolgendo il messaggio del componimento, Trilussa aggiunge molte strofe e fa diventare Teresa, ormai cresciuta... "Se questa è la storia che i bimbi di un anno sanno a memoria, pochissimi sanno che cosa le accadde quand'era ventenne"... una bella ragazza che cerca di elevarsi socialmente concedendo le proprie grazie, e ovviamente finisce male. Se si è tramandata la filastrocca, probabilmente, il merito è di Trilussa, che l'ha riesumata e stravolta, altrimenti sarebbe caduta nel dimenticatoio. Allora, se ci fosse stato un potere pubblico abilitato o addirittura tenuto ad intervenire per tutelare la filastrocca, la Vispa Teresa non sarebbe sopravvissuta nella memoria e non avremmo avuto la significativa aggiunta di Trilussa.
2. Aspetti della sponsorizzazione concernente interventi su beni culturali
Finalmente, qualche accenno al tema assegnatomi, cercando di legarlo al tema dell'immaterialità.
Con il contratto di sponsorizzazione, il soggetto che ha la disponibilità di un bene o di un'attività, lo sponsee, si obbliga, a fronte di una prestazione, finanziaria o tecnica, dello sponsor, a consentire a quest'ultimo di associare il proprio nome, marchio, immagine, attività o prodotto al bene o all'attività sponsorizzati.
Le particolarità che la disciplina della sponsorizzazione assume quando essa si collega ad un bene culturale rispondono a due esigenze. La prima, generale, è che la sponsorizzazione, per quanto opportuna in vista della concreta realizzazione di un intervento di tutela o di valorizzazione del bene culturale, non si ponga essa stessa in contrasto con la tutela. La seconda è quella di rispettare, nella scelta dello sponsor, le regole dell'evidenza pubblica, a tutela della concorrenza e comunque dell'imparzialità e del buon andamento dell'attività amministrativa, e riguarda i casi in cui lo sponsee sia una Amministrazione pubblica - frequenti, vuoi per la consistenza del patrimonio culturale in mano pubblica, vuoi per la cronica carenza di risorse che l'affligge.
L'utilità direttamente assicurata allo sponsor non è materiale, ma, riguarda appunto un collegamento, ancorché temporaneo e strumentale, con un intervento che riguardi beni culturali, che diventa economicamente rilevante per il significato positivo e la ricaduta promozionale nei confronti dei consumatori, e costituisce una delle manifestazioni - anche se lontana dalla missione fondamentale attribuita dalla Costituzione al patrimonio culturale - di quella componente immateriale dei beni culturali, così ben evidenziata nella relazione di Stefano Fantini. In quali istituti si traducono le due esigenze alla base della disciplina di settore? La compatibilità della sponsorizzazione con la tutela del bene, viene assicurata dall'articolo 120, che sottintende l'applicazione degli articoli 20 e 21, del Codice, prevedendo che in ogni caso, a monte della sponsorizzazione, vi sia una valutazione, che si traduce in un provvedimento autorizzatorio che conforma i contenuti del contratto stipulando. La "verifica di compatibilità" prevista dall'articolo 120 ha un parametro assai vasto. Riprendendo uno spunto della relazione del prof. Bartolini, non credo che il valore immateriale del bene culturale sfugga all'intervento dell'autorità di tutela. L'applicabilità degli articoli 20, sugli interventi vietati riguardo ai beni culturali, comprendenti l'adibizione ad "usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione", e 21, che, espressamente ai fini dell'eventuale attivazione dei poteri di vigilanza e repressione correlati al predetto divieto, sottopone all'obbligo di comunicazione "il mutamento di destinazione d'uso" del bene, consentono di affermare che tutti gli aspetti della sponsorizzazione siano oggetto di valutazione preventiva. Infatti, associare un bene culturale a una campagna di marketing è una forma evoluta di "uso" del bene, come tale soggetta ad un penetrante potere discrezionale di autorizzazione da parte delle Soprintendenze. Se poi consideriamo il parametro di questa valutazione di compatibilità, "il carattere artistico o storico, l'aspetto o il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare", sembra ancora più chiara l'estensione della portata applicativa della norma: i lemmi, tipici delle prime normative del settore, esprimono la radice dell'interesse culturale che giustifica la stessa qualificazione della cosa come bene culturale. E richiedono una valutazione che va oltre la conservazione del supporto materico del bene, ciò che costituisce l'aspetto più scontato, per riguardare direttamente l'immagine del bene, nella sua più evidente portata estetico-percettiva, ma anche il suo significato identitario, magari in un contesto allargato e riferito al paesaggio, all'ambiente che il bene è in grado di evocare o riassumere. In pratica, occorre evitare che l'utilizzazione da parte dello sponsor trasmodi in una forma di appropriazione ideale, sottraendo ad un bene, che per definizione appartiene a tutti, valore identitario.
Per quanto concerne le specificità legate alla disciplina dell'evidenza pubblica, fino a qualche mese fa, la sponsorizzazione pura, cioè meramente finanziaria, quale contratto "attivo" che genera introiti e non costi per l'Amministrazione pubblica, è stata considerata tra i contratti esclusi dalla disciplina a tutela della concorrenza e del mercato. Mentre quella tecnica risultava disciplinata soltanto dagli articoli 26 e 27 del Codice dei contratti pubblici, che prevedono nella scelta dello sponsor tecnico - quello che assume l'obbligo di eseguire la prestazione a proprie cura e spese - l'applicazione dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità del Trattato europeo e - essenzialmente, a garanzia della qualità dell'intervento di restauro - l'applicazione delle disposizioni dettate dal Codice in materia di requisiti di qualificazione del progettista e dell'esecutore. Una disciplina a maglie larghe, il cui significato era soprattutto quello di togliere dubbi sulla generale legittimità del ricorso alla sponsorizzazione, e non è un caso che la disposizione costituisca in sostanza una generalizzazione delle previsioni riguardanti la sponsorizzazione dei lavori sui beni culturali contenute nell'art. 2 del d.lgs. 30/2004.
Ad opera del d.l. 5 del 2012, è stato introdotto nel Codice dei contratti l'articolo 199-bis, che ha introdotto una soglia di valore di 40.000 euro per l'applicabilità della disciplina delle sponsorizzazione di lavori, servizi e forniture, ha esteso la sua applicazione, a quanto sembra, anche alle sponsorizzazioni pure, ed ha dettato articolate disposizioni sulla programmazione e selezione degli interventi sponsorizzabili e sulla individuazione dello sponsor, prevedendo che con decreto ministeriale vengano stabilite "norme tecniche e linee guida applicative" sia di dette disposizioni che di quelle contenute nell'articolo 120 del Codice di settore. L'articolo 199-bis recepisce dunque un'esigenza di coordinamento tra l'esercizio della verifica di compatibilità in funzione di tutela, e la gestione delle procedure di affidamento. Le direttive ministeriali sono chiamate ad articolare regole di condotta per le Amministrazioni pubbliche, vincolanti essenzialmente per quelle del Ministero per i beni e le attività culturali, nella duplice veste di autorità di tutela e di stazioni appaltanti.
D'altra parte, la generale esigenza di razionalizzazione dell'attività che presiede alla novità legislativa, risponde, oltre che ai canoni costituzionali del buon andamento, anche al principio della conservazione programmata recepito dall'articolo 29 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Fino ad oggi, cosa spesso è accaduto? Che le sponsorizzazioni, oltre che poche rispetto alle necessità e disponibilità esistenti, sono state occasionali e per lo più frutto di una proposta dell'operatore privato che l'Amministrazione, in carenza di risorse e in situazione di difficoltà a far fronte anche alle necessità ordinarie dei beni affidati alle sue cure, accettava in modo acritico. Si è voluto invertire la tendenza, da un lato assicurando un collegamento con la programmazione, che è istituto generale del diritto dei contratti pubblici e dovrebbe razionalizzare l'impiego delle risorse pubbliche, stabilendo priorità e sincronie con la maturazione progettuale e le disponibilità finanziarie, esigenze nel caso dei beni culturali avvertibili soprattutto in relazione alla urgenza degli interventi conservativi; dall'altro, avvisare gli operatori economici delle opportunità che, nel triennio e nell'anno, con il programma e l'elenco annuale, le stazioni appaltanti intendono proporre, così permettendo agli aspiranti sponsor di orientare gli investimenti, secondo una logica di convenienza imprenditoriale. Nella relazione di accompagnamento, con un poco d'enfasi, questo cambiamento è stato definito come una "rivoluzione copernicana", e mi sembra ci sia del vero. Il risultato atteso è quello di individuare, nel quadro della programmazione generale degli interventi, quali di essi, per contingenze finanziarie, operative, manageriali etc., in quel momento necessitino di un aiuto da parte dello sponsor privato, e con quale priorità; e di sollecitare poi il mercato a farsi avanti con le opportune proposte, sulla base di regole di confronto concorrenziale precise ed univoche, ritagliate su dette esigenze preventivamente individuate. Ciò comporterà per le Amministrazioni emancipazione e assai maggiori responsabilità, a fronte di una forte aspettativa di aumentare le risorse disponibili ed ottimizzarne l'impiego.
3. Cenni sulle esperienze applicative
Le esperienze di sponsorizzazioni più significative degli ultimi anni hanno contribuito alla nascita delle nuove disposizioni, soprattutto evidenziando insidie e pericoli da evitare. Il caso più eclatante è la sponsorizzazione dei restauri del Colosseo, di cui tutti quanto meno avrete letto sui giornali. E' una vicenda complessa, che conferma la fondamentale importanza di stabilire previamente, in modo dettagliato, le regole del confronto concorrenziale tra gli operatori economici interessati alla sponsorizzazione; soprattutto: quali utilità connesse all'intervento sponsorizzato potrà concedere l'Amministrazione all'interno del ventaglio delle possibilità di associare l'intervento sul bene culturale allo sponsor, e con quali criteri si valuteranno le offerte pervenute; in breve, il punto di equilibrio tra l'interesse pubblico culturale e quello economico dello sponsor. Se l'Amministrazione sa di cosa ha bisogno e cosa può ottenere dal privato, e lo indica chiaramente nel bando, e prima ancora, per quanto possibile, in sede di programmazione, il resto diventa un'operazione eminentemente tecnica. Per confortare questa asserzione, ricordo che in esito all'avviso pubblico di selezione dello sponsor del Colosseo è pervenuta una manifestazione di interesse (definirla un'offerta sarebbe eccessivo) da parte di una delle più importanti compagnie aeree, in ordine alla utilizzazione, anche in senso fisico, del monumento per pubblicizzare la propria attività. Provando a dare un contenuto concreto ad una simile idea, consideriamo che ricaduta mediatica e che spinta promozionale avrebbe potuto avere uno schermo gigantesco sulle arcate del Colosseo, per pubblicizzare i voli, le offerte last minute, ma anche qualsiasi altra merce, visualizzabile su tutti gli smartphone e i pc del mondo. L'avviso opportunamente escludeva ogni utilizzazione pubblicitaria al di sopra delle recinzioni di cantiere, perché contrastante con la dignità, con il decoro, con il valore identitario universale di un monumento unico, e quindi la proposta è stata ritenuta inammissibile.
Ci sono infine, in misura crescente nonostante la crisi, fenomeni di finanziamento di interventi sui beni culturali, da parte di privati, rispetto ai quali è difficile stabilire se ci si trovi in presenza di sponsorizzazioni. Viene in rilievo la distinzione fra sponsorizzazioni e liberalità, ancorché modali, cioè legate alla previsione di un onere per il beneficiario. Un esempio recente di elargizione è quella che, sempre a Roma, grazie alla generosità di un industriale giapponese, permetterà di restaurare le facciate della Piramide di Caio Cestio. Si è discusso su quale fosse la forma di ringraziamento consentita alla Soprintendenza nei confronti del finanziatore, che non facesse varcare il confine della sponsorizzazione, oltre il quale vi sarebbe stata la necessità di applicare per la scelta del finanziatore le regole dell'evidenza pubblica. Ciò, tenuto conto che il soggetto che elargiva le somme necessarie al restauro, non era una fondazione culturale, non era un semplice mecenate, ma qualcuno che vendeva dei prodotti anche in Italia. Si è deciso che una targa opportunamente collocata, non troppo in evidenza ma visibile solo a chi accede al monumento, mantenesse l'operazione al di qua del confine.