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Pubblico e privato per la gestione e la valorizzazione dei beni culturali
(Lecce, 30 novembre 2001)

Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà"

di Carla Barbati [*]


Sommario: 1. Una questione "aperta". - 2. Gli interrogativi del contesto. - 3. I "fantasmi" della sussidiarietà verticale. 4. Le nuove "ombre": dopo la revisione costituzionale del titolo V.


1. Una questione "aperta"

Tante sono le questioni "aperte" in materia di beni culturali. Tra queste, un rilievo centrale - apparso ancor più tale in occasione del dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge finanziaria per il 2002 - lo ha assunto il tema delle collaborazioni pubblico-privato per la gestione e per la valorizzazione dei beni culturali.

La questione non è (e non era) "nuova". Al contrario; a partire da quello che può considerarsi il provvedimento più significativo in materia, la legge 14 gennaio 1993, n. 4 (meglio nota come legge Ronchey) [1], si sono succeduti numerosi interventi legislativi con i quali si è ripetutamente dichiarata la volontà di favorire il coinvolgimento dei privati nell'assolvimento di questi compiti che la parte pubblica, da sola, si ritiene non possa garantire efficacemente: sia perché non dispone dei mezzi necessari, sia perché il loro esercizio si tradurrebbe in un appesantimento dell'azione e dell'organizzazione amministrativa, di per sé causa di complicazioni e disfunzioni.

A tale scopo sono stati delineati numerosi, differenti strumenti e indicati diversi percorsi. Oltre alla legge Ronchey, basti ricordare la previsione contenuta nell'art. 10 della legge 8 ottobre 1997, n. 352 con cui si è autorizzato il ministero a costituire un'apposita società per azioni, la Sibec spa, per la promozione e per il sostegno di progetti e altre iniziative di investimento per interventi di restauro, recupero e valorizzazione dei beni culturali [2].

Soprattutto, si deve ricordare l'art. 10 del d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368, istitutivo del ministero per i Beni e le Attività culturali, in cui si è previsto che, "ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali (e ambientali)" il ministero potesse: "a) stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati; b) costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società, secondo modalità e criteri definiti con regolamento emanato ai sensi dell'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 " [3].

Tuttavia, queste indicazioni legislative - alle quali altre se ne potrebbero aggiungere, quando si intendesse fornire un quadro compiuto delle norme intervenute sul tema [4] - si sono prevalentemente risolte in "dichiarazioni di intenti" o in "enunciazioni di indirizzi". Se si esclude, infatti, il caso della legge Ronchey, ad esse non hanno fatto seguito significative implementazioni; talvolta non sono stati neppure adottati i provvedimenti normativi secondari - i regolamenti - necessari a consentire la loro prima attuazione [5].

Molte domande sono perciò rimaste senza risposta, concorrendo a lasciare in una "zona d'ombra" la definizione di aspetti centrali, ai fini della valutazione e della stessa attuazione dei disegni previsti: dalla identificazione di quale sia il privato di cui si intende favorire il coinvolgimento (se quello profit o non profit), alla determinazione delle condizioni, delle modalità e delle finalità di questi interventi (se contenuti negli ambiti classici, ma anche angusti, del mecenatismo o estesi, invece, all'agire imprenditoriale).

2. Gli interrogativi del contesto

Ciò che soprattutto contribuisce a farne una questione "aperta" sono, però, le domande irrisolte del contesto entro cui si collocano questi rapporti e dal quale dipende il loro rendimento, ma dal quale dovrebbe dipendere, ancor prima, la configurazione degli istituti ai quali affidarne la disciplina e lo svolgimento.

Anche il tema del pubblico e del privato, per questo, come per altri settori, non è infatti questione che possa essere definita indipendentemente da "altre", senza tenere conto delle intime connessioni che esistono tra le diverse componenti di ogni sistema complesso e che impediscono di intervenire su una parte senza intervenire sull'altra.

E' questa consapevolezza che rende, tra l'altro, evidente come il problema delle cd. "esternalizzazioni" diventi (sia) il problema non solo del "quanto" pubblico e del "quanto" privato, ma soprattutto del "come" della presenza pubblica. Ogni scelta, in questa direzione, che intenda essere realmente innovativa presuppone, infatti, amministrazioni che si adeguino ai nuovi ruoli ad esse richiesti, per diventare parti di un rapporto con il privato al quale attribuire lo svolgimento di compiti che ragioni di efficienza suggeriscono di sottrarre alla sfera dell'intervento pubblico, come vogliono anche le indicazioni rafforzate contenute oggi nell'art. 29 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per il 2002).

Senza volere approfondire tali temi, il cui svolgimento richiede considerazioni che non possono essere effettuate in questa sede; fra le domande del contesto rimaste senza risposta - o meglio senza adeguata risposta - ve ne è una, in particolare, su cui sembra opportuno portare l'attenzione, specie dopo la revisione del titolo V, parte seconda, della Costituzione, operata dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3: è quella relativa al "se" e al "come" le autonomie territoriali possano perseguire questa medesima soluzione dell'"apertura" ai privati, per i compiti e per le funzioni ad esse spettanti in materia.

Le disposizioni con le quali si è intervenuti sulla questione - e segnatamente quelle prima ricordate - hanno infatti inteso rispondere (o procurare elementi di risposta) ad una unica, prevalente domanda: "se" e "come" l'amministrazione di settore del centro statale potesse "aprire" ai privati.

Questa differente attenzione legislativa potrebbe spiegarsi con il fatto che gli enti locali già disponessero - grazie alla l. 142/1990 e poi al d.lg. 18 agosto 2000, n. 267 - delle formule e degli strumenti per intervenire nel settore, coinvolgendo il privato.

In effetti, anche l'esperienza sembrerebbe autorizzare una simile conclusione. A differenza di quanto è avvenuto per il livello centrale; è presso i livelli del governo locale (comunale e provinciale) che sono già riconoscibili casi di interventi in materia di beni (e di attività) culturali effettuati avvalendosi delle forme di gestione previste per i servizi pubblici locali, di cui quelli "culturali" sono una delle possibili espressioni.

In sostanza, si è in presenza di una situazione che può essere efficacemente descritta, utilizzando un'immagine elaborata di recente da Marco Cammelli: quella che vede una esperienza di "regole senza esternalizzazioni" (riferita al centro statale), contrapposta ad una esperienza di "esternalizzazioni senza regole" (riferita ai livelli del governo locale) [6]; meglio senza regole adeguate né pensate per le specificità del settore [7]. Soprattutto - sembra di poter aggiungere - senza una chiara identificazione delle funzioni e dei compiti che i livelli di governo sub-statali (e il riferimento è non tanto ai minori enti territoriali, quanto alle regioni, nel loro ruolo di "centri propulsivi e di coordinamento del sistema delle autonomie") possono dedurre ad oggetto di rapporti con il privato.

3. I "fantasmi" della sussidiarietà verticale

Sullo sfondo della questione relativa al rapporto pubblico-privato per la gestione e per la valorizzazione dei beni culturali o, più in generale, sullo sfondo della questione relativa alla "sussidiarietà orizzontale" - entro la quale essa si inscrive - è dunque facile scorgere i fantasmi di quelle che, per il settore, sono state (e sono) le vicende della "difficile sussidiarietà verticale".

Che le due direttrici della "sussidiarietà orizzontale" e della "sussidiarietà verticale" siano tra loro connesse è dimostrato, oltre che dalla trama delle riforme di cui sono fra le linee portanti, anche dall'attuale formulazione dell'art. 118 Cost., il cui comma 4 dispone, in termini ancora più espliciti, che tutti i livelli di governo: "stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà".

Il nuovo testo costituzionale conferma, perciò, come la sussidiarietà orizzontale sia istanza che opera nei confronti del pubblico, quale che sia il livello al quale esso si esprime. E' un modulo che si aggiunge e si affianca alla sussidiarietà verticale; che non è alternativo a quest'ultima.

Tanto più questo appare evidente per il settore dei beni culturali, dove le funzioni e i compiti deducibili ad oggetto di interventi dei privati sono i medesimi per i quali è immaginabile un ruolo delle autonomie territoriali.

Come è noto, il disegno del "terzo decentramento", delineato dalla l. 15 marzo 1997, n. 59, si è fondato sull'idea di conferire (attribuire o delegare) alle autonomie tutti i compiti e le funzioni amministrative che non fossero espressamente riservati al centro.

Per la materia in esame, la scelta di imputare solo allo Stato la funzione di tutela dei beni culturali ha perciò condotto il legislatore, delegato all'adozione dei decreti legislativi di attuazione dei conferimenti, ad individuare altre funzioni sulle quali potesse immaginarsi un ruolo delle autonomie.

Di qui l'identificazione, da parte del d.lg. 112/1998, dei compiti di valorizzazione, di gestione dei beni culturali (oltre che di promozione delle attività culturali), configurati come ambiti entro i quali avrebbero potuto esercitarsi le competenze delle autonomie o comunque avrebbero dovuto avviarsi - "di norma" - forme di "cooperazione strutturali e funzionali fra Stato, regioni ed enti locali" (cfr. artt. 148-153 d.lg. 112/1998) [8].

Per questo settore, il d.lg. 112 non ha dunque operato come normativa di conferimenti bensì di riordino organizzativo, tramite la quale si è preferito demandare ad apposite sedi concertative (alle Commissioni regionali previste dagli artt. 154 e 155) la più puntuale definizione del "chi fa che cosa".

Le vicende che hanno fatto seguito sono note. I provvedimenti necessari a dare attuazione a questo disegno ancora attendono di essere adottati [9], ma soprattutto si è omesso di compiere quello che, nel disegno delle riforme, è considerato il passaggio essenziale per la implementazione del decentramento.

E' cioè mancato quel riordino del centro statale e quella ridefinizione delle sue funzioni, in mancanza dei quali nessun effettivo decentramento è possibile.

La novità del disegno tracciato dalle leggi Bassanini consisteva, infatti, proprio in ciò: nella percezione e nel recepimento della consapevolezza - tratta dalle esperienze dei primi due decentramenti del 1972 e del 1977 - che nessun conferimento, nessuno spostamento dell'amministrazione verso il basso, verso il sistema delle autonomie, è possibile se non si riforma il centro.

Un'operazione quest'ultima che, nel percorso delle riforme, avrebbe dovuto seguire i conferimenti, in quanto è possibile riordinare gli apparati centrali solo quando si conoscono quali funzioni e quali compiti non facciano più capo ad esso.

Per il settore dei beni culturali, questo disegno non è stato portato a compimento. Il d.lg. n. 368/1998, di istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali, non soltanto ha preceduto i più ampi interventi di riordino del centro che sarebbero poi confluiti nei decreti legislativi 300 e 303 del 1999, ma soprattutto è stato adottato prima, e indipendentemente, da ogni conferimento [10].

Si è perciò delineato un apparato ministeriale che "guarda a se stesso", senza tenere conto del ruolo che avrebbero potuto (o potrebbero) esercitare le autonomie territoriali; pensato per l'esercizio di tutte le funzioni di amministrazione attiva che possono avere ad oggetto i beni (e le attività) culturali.

Soprattutto, si è delineato un apparato ministeriale pensato per esercitare quella che si conferma come la funzione qualificante del centro statale: la tutela dei beni culturali concepita, già dal d.lg. 112/1998 e poi dal testo unico del 1999, come funzione ad ambito indeterminato, ma anche come funzione indivisibile, riservata al ministero e alle sue articolazioni periferiche, le soprintendenze, salva la possibilità da parte delle regioni di porre in essere azioni volte al perseguimento di tali esigenze, delle quali resta interprete e "giudice" esclusivo il centro statale [11].

In questi termini, il legislatore delegato (il governo) ha interpretato e portato alle sue estreme conseguenze la scelta di riservare allo Stato la tutela dei beni culturali, effettuata dalla l. 59/1997 prima ancora che dalla Costituzione del 1948, il cui art. 9 - e pare opportuno sottolinearlo in un momento in cui sono state espresse tesi diverse - nell'assegnare alla Repubblica la tutela del patrimonio storico - artistico, opera un evidente riferimento allo Stato - ordinamento in tutte le sue articolazioni territoriali e non al solo centro statale.

Si comprende perciò come, così intesa, la tutela dei beni culturali possa diventare il limite conformativo di ogni altra funzione e di ogni altra competenza in materia di beni culturali; oltre che il limite in presenza del quale andranno a definirsi le condizioni e l'estensione dell'intervento privato, ovvero delle cd. "esternalizzazioni".

Di più; in quanto funzione riservata al centro diventa anche il limite che può essere opposto - dall'alto - ad ogni rapporto tra le autonomie e i privati che, con esse, intendano interagire.

Diventa, in altri termini, lo strumento che può fare della "sussidiarietà orizzontale" un modulo alternativo - non parallelo - alla "sussidiarietà verticale".

Questa, d'altro canto, sembra anche la ricaduta più immediata di disposizioni, come quella dell'art. 33 della finanziaria per il 2002, in cui - e con riferimento ai medesimi compiti sui quali possono intervenire le autonomie - il centro si attrezza e si candida a porsi come "l'interlocutore" del privato, senza che vengano adottate o pensate misure per favorire nuovi modelli di rapporto tra le autonomie e i privati.

L'ultima e definitiva formulazione di questa norma - successiva ad un dibattito molto esteso generato dalla sua prima enunciazione - pur avendo ridotto l'ambito assegnato all'intervento di soggetti terzi e pur avendo scelto di identificarli non più e non solo come "privati", ma con la più ambigua e meno connotata locuzione di "soggetti diversi da quelli statali", attenua la valenza alternativa che può assumere l'opzione per la "sussidiarietà orizzontale", ma non risolve la questione dei rapporti che intercorrono fra di essa e la "sussidiarietà verticale".

4. Le nuove "ombre": dopo la revisione costituzionale del titolo V

L'art. 33 della finanziaria per il 2002 non contribuisce dunque a chiudere, né a proporre in termini compiuti, la questione del rapporto pubblico-privato che se, per quanto si è detto, non può essere definita indipendentemente dal contesto entro il quale va a collocarsi, certo non si può considerare questione del solo "centro statale", specie dopo le recenti modifiche costituzionali [12].

L'art. 117 della Costituzione, nel suo comma 3, attribuisce infatti alla competenza legislativa concorrente delle regioni la "valorizzazione dei beni culturali", ossia uno degli ambiti di intervento maggiormente interessati da possibili collaborazioni con il privato.

Alle regioni dovrebbero, dunque, spettare le scelte anche in ordine al "se" e al "come" prevedere il ricorso a moduli che favoriscano il coinvolgimento, in queste attività, di risorse esterne. Scelte, che saranno sottoposte al rispetto dei principi fondamentali posti dalla legge dello Stato, ossia a limiti che potranno essere di diversa intensità, a seconda di cosa si assuma come "principio fondamentale", e che tanto più appaiono da definire quando le regioni intendano usufruire, anche in relazione a questa materia, di quelle "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" previste dal nuovo art. 116, comma 3, della Costituzione.

A questi limiti, propri della legislazione concorrente, si aggiungono altri limiti: "dall'alto". Sono i vincoli che derivano dalla scelta di riservare alla legislazione esclusiva dello Stato la tutela dei beni culturali. Le interferenze tra le due funzioni sono evidenti, come tali rese esplicite dalle norme che sempre subordinano ogni politica di valorizzazione al rispetto delle prioritarie esigenze di tutela. Non minori, peraltro, sebbene non altrettanto dichiarate, sono le dipendenze della tutela dalla valorizzazione, quando si consideri che ogni efficace azione volta alla conservazione del bene difficilmente può prescindere dall'adozione di misure che siano anche di valorizzazione dello stesso.

Tuttavia, anche a voler considerare solo i limiti espliciti, dichiarati, che provengono dalla tutela, è facilmente comprensibile come questi possano continuare a condizionare qualsiasi politica regionale di valorizzazione, sino a comprimere o a rendere incerta l'estensione effettiva delle competenze regionali in materia.

Le aperture costituzionali, rappresentate dalla previsione di forme di intesa e di coordinamento tra Stato e regioni per la tutela dei beni culturali (art. 118, comma 3), oltre che dalla possibilità di attribuire alle regioni interessate, anche per essa, "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" (art. 116, comma 3), non appaiono sufficienti a "liberare" le scelte regionali sino a che non si comprende quale estensione abbia la funzione di tutela. Meglio, sino a che non si comprende fino a che punto essa sia immaginabile come funzione di cui possano farsi interpreti anche le regioni.

Altri limiti, alle scelte regionali, possono poi derivare "dal basso". Secondo il disegno costituzionale, è ai comuni che sono attribuite tutte le funzioni amministrative, salvo quelle che siano conferite a province, città metropolitane, regioni e stato, "sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza" e per "assicurarne l'esercizio unitario" (art. 118, comma 1).

La Costituzione opera, in tal modo, quella che appare un'attribuzione originaria di competenze ai (minori) enti territoriali, temperata dalla possibilità di accedere ad una diversa allocazione delle funzioni, quando queste non possano essere adeguatamente esercitate presso i livelli inferiori di governo.

Anche per la materia in questione, e in particolare per la valorizzazione dei beni culturali, queste "nuove" indicazioni, con le quali si costituzionalizzano scelte in parte già operate dal legislatore ordinario [13], propongono e lasciano aperti diversi interrogativi circa gli assetti delle competenze e, soprattutto, circa l'individuazione dei soggetti legittimati a definirli.

L'appartenenza della "valorizzazione dei beni culturali" alle competenze legislative concorrenti delle regioni potrebbe, infatti, indurre a concludere che spetti alle regioni, con proprie leggi, definire l'allocazione e l'assetto delle funzioni in questa materia, decidendo per l'"eventuale" sottrazione delle corrispondenti attribuzioni ai comuni o, ancor meglio, per la costituzione di forme e di moduli associativi, tra gli enti locali, che favoriscano un loro esercizio più adeguato ed efficace.

Tuttavia, anche su questo esito possono gravare le differenti interpretazioni e conclusioni cui conducono taluni silenzi e talune affermazioni del nuovo testo costituzionale.

In base a quanto dispone l'art. 117, nel suo comma 1, è rimesso alla legislazione esclusiva dello Stato identificare le "funzioni fondamentali" degli enti locali. Una statuizione che, anche a volerla ritenere riferita alle sole funzioni "imprescindibili…e connotanti" i diversi livelli di governo, non elimina la possibilità che la legge dello Stato, per il tramite dei principi fondamentali che è chiamata a porre nei confronti della legislazione concorrente regionale, possa scegliere di conferire agli enti locali altre funzioni, rientranti nelle materie assegnate alla regione, tanto più quando lo Stato sia titolare esclusivo di funzioni - come è appunto la tutela - capaci di orientare e condizionare, nei termini prima sinteticamente ricordati, la misura delle "altre" funzioni [14].

In sostanza, la "valorizzazione dei beni culturali", ovvero l'individuazione delle scelte e dei provvedimenti nei quali può estrinsecarsi l'esercizio delle rispettive competenze, sconta le incertezze che circondano la definizione del ruolo regionale e che, in tutta evidenza, non interessano solo questa materia. Semmai, anche con riferimento ad essa, mostrano tutto il loro spessore, specie quando si ricordi che, al riguardo, non soccorrono neppure le indicazioni del d.lg. 112/1998 - come si è detto - più normativa di riordino organizzativo che di conferimento.

Spazi ulteriori alle possibili scelte regionali, in merito alle forme e ai moduli delle collaborazioni pubblico-privato, non provengono neppure dalle nuove disposizioni che, in base alla l. 448/2001, disciplinano le forme di gestione dei servizi culturali.

All'art. 35, comma 15, della finanziaria per il 2002 si deve l'averli inclusi nell'ambito dei servizi locali - superando in tal modo le incertezze che circondavano questa loro collocazione - oltre all'avere riconosciuto la compatibilità della loro rilevanza "non industriale" con forme di gestione che consentono e, in taluni casi, contemplano il coinvolgimento di "privati" che non siano soltanto quelli non profit.

In apparenza, dunque, si è di fronte ad una previsione che continua ad incentivare l'intervento del privato in ambito locale, più di quanto avvenga a livello statale [15]. Ma al di là di questa lettura, è sempre il "contesto" nel quale essa va a collocarsi - e così le incertezze circa le funzioni di cui dispongono i minori livelli di governo, aggravate da una revisione costituzionale che, pur approvata in precedenza, non sembra avere permeato di sé queste successive scelte legislative - che introduce i limiti più significativi alla sua concreta operatività.

Non solo; è ancora una volta ad una legge dello Stato che viene demandato il compito di tipizzare le modalità tramite le quali gli enti locali potranno intervenire, sottraendo queste scelte al legislatore regionale.

Ricostruire, perciò, alla luce delle indicazioni fornite dagli ultimi interventi legislativi, quale sia la mappa delle competenze in quegli ambiti che possono essere interessati da collaborazioni con il privato, così da identificare quale sia l'interlocutore del "privato" e di quali competenze disponga, non è agevole.

Il rapporto pubblico-privato diventa, in sostanza, il problema dei compiti e delle funzioni di cui i diversi livelli di governo - e fra questi in particolare, le regioni - arriveranno a disporre, degli strumenti di cui potranno avvalersi e dotarsi allo scopo, nell'esercizio di un'autonomia anche organizzatoria che appare funzionale al pieno esercizio delle loro competenze.

Al tempo stesso, il problema delle "esternalizzazioni" in materia di beni culturali diventa - meglio - si conferma come il problema della tutela e della sua definizione. E' noto che la definizione della tutela rientra nell'agenda dei futuri interventi legislativi, in questa direzione sollecitati anche da parte regionale, e che le possibilità aperte dall'art. 116 della Costituzione presuppongono, almeno per le regioni che intendano avvalersi di queste più elevate condizioni di autonomia, una differente configurazione di quali siano i ruoli spettanti al centro statale, nell'esercizio di tale funzione [16].

E' anche da questo - o forse sarebbe meglio dire proprio da questi passaggi - che dipenderanno gli esiti, la portata e soprattutto la valutazione che si può dare della questione pubblico-privato per la gestione e per la valorizzazione dei beni culturali, la cui soluzione non può essere affidata solo a norme come quelle degli artt. 33 e 35 della legge finanziaria per il 2002.



Note

[*] Il testo riproduce - con aggiornamenti - la relazione svolta al convegno "Pubblico e privato per la gestione e per la valorizzazione dei beni culturali", Lecce, 30 novembre 2001.

[1] A questa legge, di conversione, con modificazioni, del d.l. 14 novembre 1992, n. 433, recante Misure urgenti per il funzionamento dei musei statali. Disposizione in materia di biblioteche statali e di archivi di Stato, si deve l'avere previsto, per i musei statali, l'affidamento a soggetti privati o pubblico/privati della gestione dei cd. servizi aggiuntivi, secondo le modalità poi specificate dal regolamento di attuazione dell'art. 4 della suddetta legge.

[2] Cfr. in proposito M. Renna, La Sibec spa tra realtà normativa e prospettive di attuazione, in Aedon 2/1998.

[3] Su questa previsione, cfr. E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero (art. 10 del d.lg. 368/1998), in Aedon 1/1999 e, più di recente, le analisi di N. Rocco di Torrepadula, Le società per la valorizzazione dei beni culturali, in questo numero di Aedon.

[4] In proposito, ci si limita a ricordare, tra i provvedimenti più recenti, ma capaci di incidere in misura significativa sulle collaborazioni pubblico-privato, l'art. 38 della legge 21 novembre 2000, n. 342 (cd. collegato alla finanziaria) su cui cfr. l'analisi di L. Zanetti, Gli strumenti di sostegno alla cultura tra pubblico e privato: il nuovo assetto delle agevolazioni fiscali al mecenatismo culturale, in Aedon 2/2001. Per una compiuta rappresentazione delle misure che contribuiscono a definire i rapporti pubblico/privato in materia di beni (e attività) culturali, cfr. M. Cammelli, Decentramento e outsourcing: il doppio impasse, 2001 (dattiloscritto).

[5] Il riferimento è, in particolare, all'art. 10 del d.lg. 368/1998 di cui si è cercato di offrire una prima attuazione, tramite l'adozione del "regolamento recante disposizioni concernenti la costituzione e la partecipazione a Fondazioni da parte del ministero per i Beni e le Attività culturali", poi oggetto di rilievi da parte della Corte dei Conti che ne hanno, sin qui, ostacolato l'emanazione. Sul regolamento citato, cfr. A. Canuti, Il regolamento attuativo dell'art. 10 d.lg. 368/1998: un primo commento, in Aedon 2/2000.

[6] In questo senso, cfr. M. Cammelli, Decentramento e outsourcing nel settore della cultura: il doppio impass, cit.

[7] Senza voler qui riprendere le analisi critiche di cui è oggetto la tipizzazione delle forme di gestione per i servizi pubblici locali - operata dal legislatore statale - è certo che, per il settore in esame, la rigidità e la tassatività dei moduli previsti hanno reso ancor più complesso e incerto il loro adattamento alle peculiarità dei beni (e delle attività) culturali, dei quali è discussa e comunque da definire la stessa compatibilità con le ragioni e con le formule dell'agire "imprenditoriale". Sui differenti termini in cui la finanziaria per il 2002 affronta tali questioni, assumendo come criterio discretivo la rilevanza "industriale" o "non industriale" dei servizi, cfr. art. 35 della l. 448/2001, su cui v. infra nel testo.

[8] Per una analisi di queste norme, cfr. i commenti di G. Pitruzzella e G. Corso, in Lo Stato autonomista, a cura di G. Falcon, Bologna, 1998, pp. 491 ss.

[9] Una eccezione, peraltro recente, è rappresentata dall'adozione dell'"atto di indirizzo sui criteri tecnico - scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei", da parte della commissione paritetica cui l'art. 150 d.lg. 112/1998 ha affidato l'individuazione dei musei e degli altri beni culturali statali, la cui gestione può essere trasferita alle autonomie territoriali. Su queste vicende, cfr. G. Sciullo, Musei e codecisione delle regole, in Aedon 2/2001 e G. Marchi, Criteri e standard per la gestione dei musei, in Aedon 2/2001. E' di questi giorni, poi, l'avvio delle procedure necessarie alla costituzione delle commissioni regionali per i beni e per le attività culturali.

[10] Sulle vicende e sulle scelte che hanno accompagnato e che connotano il decreto istitutivo del nuovo ministero per i Beni e le Attività culturali, si rinvia agli atti della giornata di studio del 19 marzo 1999 su "L'istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali nel quadro delle riforme amministrative", in Aedon 1/1999.

[11] Sulle scelte operate dal d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, di approvazione del "Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali", cfr. i contributi apparsi nel volume La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, a cura di Marco Cammelli, Bologna, 2000 e gli atti della tavola rotonda su "Il testo unico per i beni culturali e ambientali: una prima valutazione" (Bologna, 16 maggio 2000), in Aedon 2/2000.

[12] Per una prima lettura delle riforme, poi apportate al titolo V della Costituzione, in materia di beni culturali, cfr. G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon 1/2001 e L. Mezzetti, Il percorso delle riforme: le scelte compiute e le scelte da compiere, in Aedon 1/2001.

[13] Il riferimento è alle scelte operate con la l. 59/1997.

[14] Su questo, si rinvia alle osservazioni di R. Bin, La funzione amministrativa, intervento al convegno su "Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione - Primi problemi della sua attuazione", Bologna, 14 gennaio 2002.

[15] Sul punto, si rinvia a E. Bruti Liberati, Pubblico e privato nella gestione dei beni culturali: ancora una disciplina legislativa nel segno dell'ambiguità e del compromesso, in questo numero di Aedon.

[16] Su questi temi, cfr. G. De Giorgi Cezzi Lo statuto dei beni culturali, in questo numero di Aedon.


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