Alla ricerca delle coordinate del patrimonio culturale immateriale
Il bene culturale immateriale come bene giuridico in senso lato
di Alessandro Piazzai [*]
Sommario: 1. Premessa introduttiva: delimitazione dell’indagine. - 2. Il bene culturale immateriale come bene comune. - 3. Verso “uno statuto della proprietà culturale”? Segue uno sguardo sul fronte internazionale. - 4. Il bene culturale immateriale come bene immateriale (diritto d’autore). - 5. La legge 7 ottobre 2024, n. 152: alcune brevi considerazioni. - 6. Una possibile ricostruzione teorica della natura giuridica del bene culturale immateriale. - 7. Il bene culturale immateriale come bene giuridico in senso lato. Conseguenze sulle funzioni esercitate dai pubblici poteri e sui moduli procedimentali.
Il contributo mira ad indagare la natura giuridica del bene culturale immateriale. In particolare, vengono analizzate tre possibili impostazioni ermeneutiche: il bene comune, la c.d. proprietà culturale e il bene immateriale. Nessuna delle tre, tuttavia, chiarisce il vero ubi consistam di questa discussa tipologia di beni; non è peraltro d’ausilio - quantomeno per ora - la legge 7 ottobre 2024 n. 152, recante disposizioni in materia di manifestazioni di rievocazione storica e delega al Governo per l’adozione di norma sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. Sulla scorta degli studi di autorevole dottrina, si prospetta la tesi del bene culturale immateriale come bene giuridico in senso lato, dando atto brevemente delle ripercussioni di tale ricostruzione teorica.
Parole chiave: patrimonio culturale immateriale; natura giuridica; beni comuni; proprietà culturale; bene giuridico “in senso lato”.
The intangible cultural asset as a legal asset in the broad sense
The paper aims to explore the juridical nature of the intangible cultural asset. In particular, it analyses three possible reconstructions: commons, cultural property and intellectual property. These theses do not clarify the real ubi consistam of this discussed typology of assets; not even the new Italian law concerning the safeguard of intangible cultural heritage. Considering the studies of Italian doctrine, it proposes the thesis of the intangible cultural asset as a “juridical asset in a broad sense”, giving briefly the consequences of this theoretical reconstruction.
Keywords: intangible cultural heritage; juridical nature; commons; cultural property; juridical asset “in a broad sense”.
1. Premessa introduttiva: delimitazione dell’indagine
Negli ultimi lustri, nell’ambito della scienza giuridica, si è più volte posta la tematica della “esistenza” [1] dei beni culturali immateriali [2], grazie in particolare all’approvazione della Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale [3] (17 ottobre 2003), della Convenzione (sempre in sede Unesco) sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali [4] (20 ottobre 2005) e, da ultimo, della Convenzione di Faro (27 ottobre 2005) sul valore del patrimonio culturale per la società (nell’ambito dell’organizzazione internazionale denominata Consiglio d’Europa).
In Italia, la ricezione dei documenti forgiati nell’alveo internazionale è sfociata da un lato, negli artt. 7-bis e 52, comma 1-bis del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (c.d. codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), avvenuta rispettivamente con il d.lg. 26 marzo 2008, n. 62 (art. 1, comma 1, lett. c) e d.l. 8 agosto 2013, n. 91, convertito con modificazioni dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112 (art. 2-bis comma 1, lett. a); e dall’altro lato, con la legge 1° ottobre 2020, n. 133: si è trattato di tre importanti novità nel panorama normativo che hanno riacceso la discussione sull’immaterialità [5] (anche economica [6]) del bene culturale, dalla quale sono emerse sia ragioni a sostegno dei nuovi approdi, sia argomentazioni critiche che guardano con sfavore l’“affrancamento” dei beni culturali immateriali.
A sostegno della definitiva emancipazione è intervenuto di recente il legislatore con un’apposita normativa, che assume la forma della legge delega e che suscita particolare interesse, segnatamente perché si colloca al di fuori dell’alveo del codice di settore (si fa ovviamente riferimento al d.lg. n. 42/2004).
La problematica di fondo che investe i beni culturali immateriali è quella della natura giuridica. Ci si potrebbe chiedere infatti se si tratti o no di beni in senso giuridico. Per rispondere al quesito, tuttavia, è necessario soffermarsi sulla natura giuridica del bene culturale materiale, chiedendosi se vi possa essere sovrapposizione tra le due categorie. Solo dopo aver chiarito l’ubi consistam del bene culturale immateriale ci si potrà domandare da una parte, quale possa essere il raggio di azione dei pubblici poteri; e dall’altra parte, le relative implicazioni sui moduli procedimentali con cui di regola la pubblica amministrazione persegue l’interesse pubblico.
È dunque opportuna una breve ricognizione delle impostazioni teoriche circa la natura giuridica del bene culturale materiale. Secondo un primo indirizzo si tratterebbe di un bene d’interesse pubblico [7]: segnatamente in forza della nota ricostruzione di A.M. Sandulli i beni di interesse storico, artistico, archeologico e paletnologico (ed anche i beni che interessino la tutela delle bellezze naturali) “hanno la caratteristica di realizzare essi stessi un interesse pubblico” [8] nonché “di essere soggetti a un particolare regime pubblicistico” [9].
In virtù di altro orientamento si sarebbe invece di fronte ad un bene immateriale [10]: M.S. Giannini, dopo aver affermato che “come bene patrimoniale, la cosa (...) è oggetto di diritti di proprietà, e può esserlo di altri diritti (...); come bene culturale è oggetto di situazioni soggettive attive del potere pubblico (...)” [11], propone la tesi bene culturale come bene immateriale, in quanto “l’essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da queste distinte, nel senso che esse sono supporto fisico ma non bene giuridico” [12].
Già da quest’ultima tesi, pur essendo evidentemente incentrata sulle cose, si preconizzava il superamento della materialità ed invero di lì a poco, tale superamento viene, in qualche modo, confermato dalla tesi di S. Cassese [13], secondo il quale occorre distinguere tra bene culturale-cosa e bene culturale-attività. A proposito di quest’ultima categoria, il giurista campano sottolinea che “diventano importanti altri aspetti: organizzazione scolastica, servizi, biblioteche ecc.” [14].
Merita inoltre menzione la prospettazione di V. Cerulli Irelli in tema di beni culturali in proprietà pubblica: secondo quanto ricostruito dall’autore, questi ultimi sarebbero “in realtà beni in proprietà collettiva appartenenti rispettivamente alla comunità nazionale e alle diverse comunità territoriali, restando il dominio formalmente imputato allo Stato e agli enti territoriali secondo lo schema proprio del regime di imputazione dei diritti collettivi” [15].
Le prime due ricostruzioni e la quarta prendono esclusivamente in esame il bene culturale materiale, in linea ovviamente con l’allora dato positivo vigente (legge 1° giugno 1939, n. 1089 recante la “tutela delle cose d’interesse artistico e storico” e legge 29 giugno 1939, n. 1497 concernente la “protezione delle bellezze naturali”), peraltro non molto differente da quello ora esistente (codice dei Beni culturali e del Paesaggio); soltanto la tesi di Cassese mette in risalto la necessità di andare oltre la materialità (del bene culturale) e prospetta un’evoluzione dell’ambito operativo dei pubblici poteri.
Le tesi sopra enunciate risultano tanto autorevoli quanto risalenti ed inoltre si situano interamente nella prospettiva delle c.d. leggi Bottai. Da qui l’opportunità di indagare sui nuovi approdi sostenuti dalla dottrina ma anche dalla giurisprudenza [16].
Di recente, V. Cerulli Irelli ha propugnato la tesi del bene culturale come bene comune [17], enunciando a supporto di tale assunto il dato normativo vigente, ed in particolare le funzioni (tutela e valorizzazione) che i pubblici poteri vantano su tali beni, legati “al libero sviluppo della personalità” dei consociati. L’autore, una volta affermato tale postulato, è poi pervenuto a stilare le logiche conseguenze della ricostruzione, segnatamente per quanto riguarda gli strumenti di tutela dei beni culturali (aprendo le porte all’azione popolare).
A tale impostazione ermeneutica si giustappone quella sostenuta da L. Casini: quest’ultimo, muovendo dai più risalenti studi di S. Cassese [18], di J.H. Merryman [19] e di S. Pugliatti [20] sul diritto di proprietà (quando si parla di beni non si può escludere la discussione circa il diritto reale per eccellenza, disciplinato peraltro a livello costituzionale nell’ambito della Parte I, Titolo III sui rapporti economici), ha propugnato la necessità di pervenire alla scrittura di uno “statuto della proprietà culturale” [21], che possa far fronte ai profondi cambiamenti succedutisi nell’ambito della tutela del patrimonio culturale (si pensi, ad esempio, al campo della tecnologia).
Se dunque, per quanto concerne il bene culturale materiale, si contendono il campo le suddette tesi (accanto alle quattro tesi più datate si collocano i nuovi approdi di Cerulli Irelli e di Casini), non si riscontra un acceso dibattito circa la natura giuridica del bene culturale immateriale: tale mancanza è ovviamente da imputarsi alla recente (ed ancora incompleta) emancipazione di quest’ultima nozione, di cui invece parla da tempo la dottrina [22], in particolare interrogandosi riguardo l’aspetto definitorio.
Va inoltre rammentato l’indirizzo dottrinale che, all’indomani della emanazione della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa) e al pedissequo d.lg. 31 marzo 1998 [23], n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali), con il quale si interveniva anche in tema di beni e attività culturali (e che comportava ricadute anche negli ordinamenti regionali [24]), propugnava l’esistenza, accanto ai beni culturali materiali e alle attività culturali, dei “beni culturali non materiali” (prendendo le mosse dall’art. 148, comma 1, lett. a) ed in particolare dal seguente disposto: “... e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà”).
Accanto alla presa di posizione della dottrina, giova rammentare un orientamento giurisprudenziale che, dopo aver distinto tra beni culturali materiali mobili (“tutti i beni che possono essere spostati senza pregiudicarne l’integrità ed hanno una loro consistenza materiale con una forma definita e stabile”) e beni culturali materiali immobili (“tutti i beni che sono agganciati e/o incorporati al suolo o che sono stati realizzati per rimanere fissi in un determinato punto, ed hanno una loro consistenza fisica, materiale, con una forma definita e stabile”), definisce i beni culturali immateriali come segue: “tutti quei beni e manifestazioni umane che non hanno una evidenza materiale definita e stabile, ma vengono definiti solo nel momento in cui sono creati e si manifestano” [25]. Tuttavia, se da un lato, è apprezzabile lo sforzo di pervenire ad una ricognizione con annessa definizione delle categorie sopra indicate; dall’altro lato, non si può non rilevare la precarietà della definizione di bene culturale immateriale che viene dapprima inquadrato in negativo e poi in maniera quasi “tautologica”.
2. Il bene culturale immateriale come bene comune
Con precipuo riferimento alla natura giuridica del bene culturale immateriale, si potrebbe anzitutto sostenere la tesi del bene comune [26]. Tuttavia, per verificare se l’apparentamento possa essere funzionale [27], si ritiene opportuna una breve ricostruzione su cosa debba intendersi per bene comune, in quanto tale categoria a livello statuale non è ancora stata positivizzata (ad oggi i beni comuni sono stati disciplinati in due legge regionali: la legge del Lazio 26 giugno 2019, n. 10, denominata “Promozione dell’amministrazione condivisa dei beni comuni” e la legge della Toscana 24 luglio 2020, n. 71, intitolata “Governo collaborativo dei beni comuni e del territorio, per la promozione della sussidiarietà sociale in attuazione degli articoli 4, 58, 59 dello Statuto”).
La locuzione beni comuni [28] si potrebbe anzitutto descrivere come locuzione polisemica e ciò senza dubbio non ha giovato alla causa dei sostenitori in quanto si è pervenuti ad una relativizzazione del concetto (si potrebbe addirittura parlare di inutile abuso). Una delle prospettive in cui inquadrare i beni comuni è quella economica [29], che via via ha assunto connotati anche politici ed, in un certo senso, metagiuridici: come è noto, la moderna scienza economica distingue - sulla base di due criteri fondamentali: escludibilità (“a seconda che, una volta prodotti [i beni], sia o non sia possibile escludere alcuni soggetti dal loro uso, consumo o godimento” [30]) e rivalità (“a seconda che l’uso, il consumo o il godimento di essi da parte di un soggetto limiti la possibilità di uso e consumo da parte di altri” [31]) - i beni in quattro categorie: 1) beni pubblici (non escludibili e non rivali); 2) beni privati (escludibili e rivali); 3) beni di club (escludibili ma non rivali); 4) beni comuni (non escludibili ma rivali).
Quest’ultima categoria è venuta in risalto nel corso del Novecento grazie in particolare a due autori Garrett Hardin [32] ed Elinor Ostrom [33]. Mentre l’ecologo statunitense denunciava la cosiddetta “tragedia dei beni comuni”, rappresentando la scarsità di alcune risorse naturali e proponendo in maniera drastica l’abbandono della libertà di riproduzione da parte dell’uomo, la politologa ed economista statunitense (premio Nobel per l’economia nel 2009) enunciava alcune prospettive di governo dei beni comuni, sostenendo sia la possibilità di soluzioni alternative alla privatizzazione sia il coinvolgimento di istituzione pubbliche nella relativa gestione.
In Italia, l’avvento della suddetta categoria affiora in virtù dell’opera della dottrina [34] fino ad arrivare ai lavori della Commissione Rodotà (anno 2007) e alla giurisprudenza della corte di Cassazione a sezioni unite (anno 2011). La commissione - nominata con decreto del ministro della giustizia il 14 giugno 2007 e diretta dall’illustre civilista di origini calabresi - aveva l’obiettivo di pervenire alla redazione di uno schema di disegno di legge delega per la riforma delle norme sui beni pubblici. Non è questa, tuttavia, la sede per soffermarsi sulla proposta di articolato della commissione se non nei limiti che seguono.
Il collegio presieduto da Rodotà individuò innanzitutto tre tipologie di beni: beni comuni, beni pubblici e beni privati. In particolare, la disciplina riguardo i beni comuni veniva così delineata: “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; né è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe. Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. La disciplina dei beni comuni deve essere coordinata con quella degli usi civici. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque. Salvi i casi di legittimazione per la tutela di altri diritti ed interessi, all’esercizio dell’azione di danni arrecati al bene comune è legittimato in via esclusiva lo Stato. Allo Stato spetta pure l’azione per la riversione dei profitti. I presupposti e le modalità di esercizio delle azioni suddette saranno definiti dal decreto delegato”.
Dalla Commissione Rodotà in poi, l’interesse per i beni comuni si acuisce sempre di più: essi balzano al centro dell’attenzione da una parte, grazie alla pronuncia della Corte di Cassazione (a Sezioni unite) sulle valli da pesca della laguna veneta; e dall’altra, in forza dei referendum del 2011, ed in particolare grazie al secondo quesito sulla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato.
Giova intrattenersi brevemente sulla ricostruzione operata dalla Corte di Cassazione che, riguardo - come si è detto - alle valli da pesca della laguna veneta, argomenta in favore della tesi dei beni comuni, nell’ambito dei quali si prescinde dal titolo di proprietà e ci si sofferma piuttosto sulla loro funzionalità, tanto da essere definiti come quei beni strumentalmente collegati “alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini” [35]. La tesi della Suprema Corte non solo tiene in debita considerazione le disposizioni costituzionali sul diritto di proprietà [36] (“la proprietà è pubblica o privata” [37]; “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” [38]) ma si dilunga in una lettura di queste in combinato disposto con gli artt. 9 e 32 Cost.
Se da una parte, dunque, è possibile riscontrare affinità [39] tra il bene culturale immateriale e il bene comune - sia perché entrambi sono correlati all’esercizio dei diritti fondamentali (o comunque al libero sviluppo della personalità), sia perché richiedono, come sottolineato dalla dottrina [40], una partecipazione attiva dei cittadini (si pensi, a tal proposito, al ruolo delle comunità [41] nell’ambito della Convenzione Unesco 2003 e della Convenzione di Faro 2005) -; dall’altra parte, è altrettanto evidente - come si è già posto in luce - che non vi è una definizione positiva ed univoca del concetto di bene comune. In aggiunta, se si prende le mosse dalla nozione di bene comune propugnata dalla scienza economica, sembrerebbe da escludersi che i beni culturali immateriali vantino la caratteristica della c.d. rivalità (si pensi, ad esempio, alla dieta mediterranea [42], riconosciuta come patrimonio culturale immateriale nel 2010; in questo caso, non si può sostenere che l’uso o il consumo di tale “bene” da parte di un soggetto possa limitare l’uso o il consumo da parte di altri). Il naturale precipitato è che, seppur la prospettiva sia intrigante, diviene probabilmente poco funzionale accostare il bene culturale immateriale al bene comune [43].
Ed infatti, non possono considerarsi d’ausilio le tesi supportate dalla dottrina nonostante la loro indiscussa autorevolezza, così come non dirime la questione quanto stabilito dalla legge regionale del Lazio 26 giugno 2019, n. 10 (“Promozione dell’amministrazione condivisa dei beni comuni”) che, all’art. 2, comma 1, lett. d), per beni comuni intende “i beni, materiali e immateriali, funzionali al benessere individuale e collettivo e agli interessi delle generazioni future e per i quali le amministrazioni e i cittadini si attivano, ai sensi dell’articolo 118, quarto comma, della Costituzione, per garantirne la fruizione collettiva e condividere la responsabilità della cura, della rigenerazione e della gestione in forma condivisa degli stessi”.
Pur apprezzando la distinzione tra beni materiali e immateriali operata dal legislatore regionale, nonché la relativa funzionalizzazione (dei beni) al benessere (individuale e collettivo) e gli interessi delle generazioni future, si deve rilevare la forzata assenza di un coordinamento con la disciplina della proprietà, in quanto materia di competenza esclusiva dello Stato in forza dell’art. 117, comma 2, lett. l). Le stesse considerazioni valgono per la legge regionale della Toscana (legge 24 luglio 2020, n. 71, denominata “Governo collaborativo dei beni comuni e del territorio, per la promozione della sussidiarietà sociale in attuazione degli articoli 4, 58, 59 dello Statuto”), la quale, all’art. 2, comma 1, lett. a), ha definito i beni comuni come segue: “i beni intesi quali beni materiali, immateriale e digitali, che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo, alla coesione sociale e alla vita delle generazioni future, per i quali i cittadini si attivano per garantirne e migliorarne la fruizione collettiva e condividere con l’amministrazione la responsabilità della loro cura, gestione condivisa o rigenerazione”.
In considerazione di quanto sopra esposto, nonostante emergano argomentazioni a favore della tesi del bene culturale immateriale come bene comune, l’evanescenza di questo ultimo concetto non aiuta gli interpreti a percorrere tale strada. E dunque malgrado i molteplici studi che si orientano in tale direzione [44] (che, a ben vedere, non riguardano il bene culturale immateriale), soltanto un intervento del legislatore potrebbe chiarire se l’apparentamento tra bene culturale immateriale e bene comune abbia una qualche fondatezza.
3. Verso “uno statuto della proprietà culturale”? Segue uno sguardo sul fronte internazionale
L’altra impostazione ermeneutica suggerita dagli studi di Lorenzo Casini si condensa nella necessità di forgiare uno nuovo “statuto della proprietà culturale”. Questo ultimo termine era già stato menzionato da altra dottrina [45], proprio per sottolineare il particolare atteggiarsi della proprietà (in specie riguardo ai “limiti” e agli “obblighi” [46]) nell’ambito dei beni culturali.
Come si è già evidenziato, la tesi di Casini prende le mosse dalle (risalenti) opere di S. Cassese, di J.H. Merryman e di S. Pugliatti [47]. Fu proprio quest’ultimo a parlare al plurale di proprietà [48] (e non più di proprietà al singolare): il diramarsi della legislazione speciale (si pensi ad esempio alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150) aveva portato l’autore ad affermare l’esistenza di più tipologie di proprietà, ognuna - ovviamente - con dei propri connotati (laddove andavano comunque a coesistere interesse pubblico e privato).
A ben vedere, lo stesso fenomeno si era già palesato con le due leggi Bottai (legge 1° giugno 1939, n. 1089 recante la “tutela delle cose d’interesse artistico e storico” e legge 29 giugno 1939, n. 1497 concernente la “protezione delle bellezze naturali”) ed è continuato con l’emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42). Ed è proprio dalla continuazione di questo filo conduttore che si denota la persistente attualità del pensiero del giurista siciliano.
L’intento della proposta (di L. Casini) è senz’altro commendevole: pervenire ad una disciplina del diritto di proprietà che, in qualche modo, possa far fronte alle novità che si sono succedute nell’ambito del diritto del patrimonio culturale (“il rapporto tra tutela e fruizione del patrimonio culturale; la dimensione internazionale; le nuove tecnologie” [49]).
Il problema di questa tesi è che al momento risulta una prospettiva in itinere ed infatti non sono stati individuati i tratti salienti di questo statuto della proprietà (culturale). Sempre su questo versante, va sottolineato che altra parte della dottrina (A. Gualdani [50] e M. Timo [51]) ha sostenuto l’esigenza di disegnare un diverso assetto normativo per il patrimonio culturale immateriale o intangibile.
Mentre Gualdani si è pronunciata in favore di una disciplina generale sui beni immateriali, prospettando da un lato “un’elencazione tipologica dei beni intangibili oggetto di salvaguardia” [52] e dall’altro “una nozione a maglie larghe” [53], Timo ha sostenuto due modalità di intervento: la prima è quella di pervenire alla stesura di “una legge quadro sull’intangibilità” [54], da coordinare con il Codice dei beni culturali e del paesaggio; la seconda è quella di stilare un “Codice della cultura” [55], in modo da approdare ad un articolato unitario. Entrambi gli autori - seppur con diverse sfaccettature - convengono sulla necessità di un intervento del legislatore nazionale, così come poi è avvenuto nel 2024.
Nella regolazione internazionale [56] e segnatamente in ambito Unesco, ove peraltro è nata la locuzione “bene culturale” grazie al “Rapporto degli esperti” stilato da George Berlia nel 1949, riguardo alla nozione di patrimonio culturale, si sono giustapposte due filosofie di pensiero: da un parte, quella che propugna il concetto di “cultural property” [57] o di “patrimoine”, che prende le mosse dall’ordinamento francese e che tende a sottolineare la logica proprietaria; dall’altra parte, quella che sostiene la terminologia “cultural heritage” che, di converso, muove dal sistema giuridico anglosassone e mira ad evidenziare l’“idea di trasmissione dei valori e contenuti culturali” [58].
Sempre sul crinale internazionale, inoltre, si è posto l’accento sulla circostanza che il concetto di “cultural heritage” “has itself been imported from other academic disciplines such as antropology and archaeology” [59], dando l’abbrivio all’accoglimento di una nozione ampia di patrimonio culturale. Parimenti, è stata rimarcata l’inadeguatezza del termine “cultural property”, proprio in quanto “too limited to encompass the range of possible elements - both tangible and intangible - which can compromise the cultural elements being described” [60]. Ed infatti, nei documenti più importanti stilati in sede Unesco - Convenzione per la protezione del patrimonio culturale e naturale del 1972 e Convenzione sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 - prevale l’utilizzo del termine cultural heritage, locuzione impiegata peraltro anche nell’ambito del Consiglio d’Europa ed adottata nella Convenzione di Faro del 2005.
Ebbene, sulla base delle osservazioni di cui sopra, i beni culturali immateriali possono farsi rientrare nel concetto di cultural heritage piuttosto che in quello di cultural property, anche se, secondo una parte della dottrina, si tratta concetti più o meno equivalenti [61]. La nozione più lata di patrimonio culturale a cui fa riferimento il termine cultural heritage infatti sembra più incline allo statuto giuridico della suddetta tipologia dei beni. Nondimeno, va sottolineato che i termini impiegati nel diritto internanzionale non sono stati pedissequamente riproposti nell’ordinamento nazionale: come è noto, in tale quadro normativo, si riscontrano le locuzioni di patrimonio culturale e di bene culturale (artt. 2, comma 1 e 2, comma 2 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42).
4. Il bene culturale immateriale come bene immateriale (diritto d’autore)
Un’altra prospettiva - sempre nel solco della disciplina concernente la proprietà - potrebbe essere quella di ricondurre i beni culturali immateriali nell’alveo dei beni immateriali [62] (è comunque discusso che su tali beni possa palesarsi un diritto di proprietà [63]). Tra questi ultimi, secondo autorevole dottrina [64], vi rientrano: 1) “le opere dell’ingegno” [legge 22 aprile 1941, n. 633 recante protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio]; 2) “le invenzioni industriali” [d.lg. 10 febbraio 2005, n. 30, denominato Codice della proprietà industriale]; 3) “creazioni intellettuali che attengono ad una nomenclatura della realtà” [artt. 2563-2574 c.c., riguardanti la ditta, l’insegna e il marchio].
In questo quadro, i beni culturali immateriali potrebbero essere ricondotti nella categoria del diritto d’autore [65], che - come è noto - costituisce una species della più ampia categoria della proprietà intellettuale. La parabola del diritto d’autore - secondo autorevole dottrina [66] - è cominciata in Inghilterra con lo statuto della Regina Anna del 1709, che attribuì per la prima volta agli autori, per quanto concerne le opere letterarie, il c.d. right to copy.
Il diritto d’autore si è poi emancipato grazie al diritto internazionale pattizio ed in particolare alla Convenzione di Berna del 1886, concernente le opere letterarie e artistiche. Si tratta di una materia che presenta sicuramente un minimo comun denominatore con la disciplina del patrimonio culturale per quanto concerne il profilo costituzionale: innanzitutto, per entrambi i rami del diritto, è di rilievo l’art. 9 della Costituzione; in secondo luogo, seppur da diversi punti di vista, nell’uno e nell’altro caso, rileva l’art. 42 Cost. sulla disciplina della proprietà privata (impostazione confermata anche a livello europeo, come si evince dall’art. 17 della Carta di Nizza).
Dopo aver stabilito che l’entità immateriale si identifica in una “pura costruzione del pensiero individuale fissata astrattamente in un momento determinato del divenire dello stesso, contrapposta al suo autore, ai soggetti ai quali si rivolge, nonché all’atto creativo e ciò con caratteri di originaria obiettività” [67], la dottrina enuncia le caratteristiche indefettibili del bene immateriale: 1) necessità di estrinsecazione; 2) trascendenza; 3) circolarità e riproducibilità; 4) indistruttibilità; 5) possibilità di un integrale contemporaneo godimento; 6) insuscettibilità di un immediato godimento economico.
Ebbene, prendendo le mosse dalla definizione di patrimonio culturale immateriale in sede Unesco (“le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”), si nota che le relative manifestazioni di quest’ultimo non presentano tutte le caratteristiche del bene immateriale. Si pensi, ad esempio, alla cosiddetta indistruttibilità, la quale, nonostante sia da intendersi non in senso assoluto [68], non è connotato proprio dei beni culturali immateriali, che possono eclissarsi - e quindi scomparire - per le cause più varie (è senz’altro indubitabile che una prassi possa andare in desuetudine).
A ciò si aggiunga che autorevole dottrina sostiene che i beni culturali immateriali siano privi anche della caratterista della riproducibilità [69], con il naturale precipitato che il bene culturale immateriale non può ricondursi alla categoria più generale dei beni immateriali.
Inoltre, vi è un’ulteriore ragione per cui escludere un eventuale apparentamento tra i beni culturali immateriali e il diritto d’autore ed invero quest’ultimo si connota per una doppia tipologia di tutela: da una parte, la protezione economica, che si riferisce ai diritti di utilizzazione dell’opera; e dall’altra parte, la protezione morale (o personale), che concerne i diritti a difesa della personalità dell’autore. La dicotomia protezione economica-morale non si rinviene infatti nei beni culturali immateriali: si pensi, ad esempio, all’arte campanaria tradizionale, riconosciuta come patrimonio culturale immateriale nel 2024; è assai arduo asserire che i soggetti che la praticano - in questa ipotesi astrattamente individuabili nella Federazione Nazionale Suonatori di campane - possano vantare una duplice protezione, sia a carattere economico, sia morale.
D’altro canto, giova rammentare che la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale redatta in sede Unesco nel 2003 non si occupa di disciplinare i diritti di proprietà intellettuale riguardanti il patrimonio intangibile. La normativa concernente la proprietà intellettuale - come è noto - viene forgiata nell’ambito dell’Organizzazione mondiale della proprietà industriale (World Intellectual Property Organization): su questo fronte, la dottrina [70] ha fatto notare l’inadeguatezza delle disposizioni adottate in sede WIPO per apprestare tutela al patrimonio culturale immateriale (tra i requisiti critici vengono richiamati da un lato quello dell’originalità, e dall’altro, la circostanza che l’autore o l’inventore debbano essere una persona fisica o giuridica).
5. La legge 7 ottobre 2024, n. 152: alcune brevi considerazioni
Come è stato già evidenziato, di recente il legislatore è intervenuto sul tema con la legge 7 ottobre 2024 [71] n. 152, denominata disposizioni in materia di manifestazioni di rievocazione storica e delega al Governo per l’adozione di norme per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.
In linea con l’appellativo della legge, il dato normativo si occupa al capo I (disposizioni in materia di manifestazioni di rievocazione storica) di disciplinare le manifestazioni di rievocazione storica e, al capo II (disposizioni in materia di salvaguardia del patrimonio culturale immateriale), di prevedere una disciplina per il patrimonio culturale immateriale. Il legislatore ha dedicato ampia parte dell’articolato alle manifestazioni di rievocazioni storica, mentre gli articoli concernenti la regolazione del patrimonio culturale immateriale sono solamente due (artt. 10 e 11). Quest’ultimo aspetto desta qualche perplessità in quanto - come è stato autorevolmente sottolineato [72] - le manifestazioni di rievocazione storica sono una species del più ampio genus patrimonio culturale immateriale. In una prospettiva di sistema, probabilmente, sarebbe stato preferibile prima addivenire ad una disciplina del genus piuttosto che principiare da quella della species.
In primo luogo, all’art. 10, rubricato principi relativi al patrimonio culturale immateriale, quest’ultimo viene riconosciuto come “componente del valore identitario e storico per gli individui, le comunità locali e la comunità nazionale”. In secondo luogo, il legislatore individua il patrimonio culturale immateriale nelle prassi, rappresentazioni, espressioni, conoscenze, ecc. che le comunità, i gruppi e gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Si tratta di una “definizione” che riprende quasi alla lettera quanto affermato dalla Convenzione Unesco sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (2003).
All’art. 11, comma 1, rubricato delega al Governo per l’adozione di norme per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, vengono indicate le modalità e le tempistiche dell’esercizio della delega, richiamando conformità tra la (futura) disciplina del patrimonio culturale immateriale ed i documenti stilati a livello internazionale: Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (2003) e Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società (2005).
All’art. 11, comma 2, invece, vengono specificati i principi e i criteri direttivi che il Governo sarà tenuto a rispettare nell’esercizio del relativo potere normativo. Dalla disamina dei principi e dei criteri direttivi, tuttavia, non è specificato come il legislatore debba procedere nella definizione e nell’individuazione del regime giuridico di tali beni.
Inoltre, vi sono una serie di questioni irrisolte demandate ai decreti delegati come, ad esempio, quanto previsto dalla lettera i) dell’art. 11, concernente la razionalizzazione delle competenze e dei procedimenti delle amministrazioni statali in materia di patrimonio culturale immateriale. Si è di fronte ad uno snodo fondamentale circa quest’ultima tipologia di patrimonio culturale in quanto - come è noto -, su questo versante, si sono già mosse le regioni con l’emanazione di apposite leggi. In particolare, la dottrina [73] distingue tra norme regionali organiche e norme regionali che tutelano singole espressioni culturali (queste a loro volta si suddividono in quattro aree tematiche: “norme a tutela di lingue e dialetti”; “norme a tutela di manifestazioni storiche, artistiche o folcloristiche”; “norme a tutela di pratiche agro-alimentari”; “norme a tutela di danze, spettacoli e musiche popolari”).
In altri termini, il legislatore ha semplicemente illustrato un vasto perimetro in cui dovrà muoversi il Governo, con l’auspicio che si possa addivenire ad una normativa organica ed esaustiva ma soprattutto chiarificatrice della vera natura dei beni culturali immateriali. Per il momento, dunque, non rimane che attendere l’esercizio della delega, anche se il legislatore si sta addentrando in una “selva oscura” perché ricondurre i beni culturali immateriali alla categoria dei beni in senso giuridico (sempre ovviamente che decida in tal senso) potrebbe portare con sé una miriade di problemi tecnico-giuridici.
Uno dei nodi più critici è quello del possibile perpetuarsi della logica proprietaria. In questa prospettiva, va infatti sottolineata la difficoltà di attribuire la titolarità di una rappresentazione, di una espressione o di una conoscenza ad un gruppo di individui. Si potrebbe invero ingenerare una tutt’altro che franca contesa tra comunità patrimoniali o addirittura tra enti esponenziali, compresi gli enti pubblici. Detto altrimenti, attribuendo diritti di esclusiva, oltre a sollecitare conflitti, si potrebbe sopire la vivacità delle suddette espressioni, prospettandosi una frizione con la libertà nel campo della cultura e dell’arte, in pieno contrasto con i principi di cui agli artt. 9, comma 1, Cost. e 33, comma 1, Cost.
Alla luce di quanto sopra, si può affermare che, allo stato attuale, dall’esame della legge 7 ottobre 2024, n. 152, non è possibile individuare la vera natura giuridica dei beni culturali immateriali, in attesa che possano essere d’ausilio i decreti delegati del Governo.
6. Una possibile ricostruzione teorica della natura giuridica del bene culturale immateriale
Nei precedenti paragrafi si è dato brevemente atto delle tesi circa la natura giuridica del bene culturale materiale. Si è visto da un lato, che il dibattito risulta tutt’altro che sopito, e dall’altro, l’esistenza di una molteplicità di novità incidenti sulla disciplina del patrimonio culturale che rendono, in qualche modo, necessario tale dibattito.
Successivamente, l’attenzione si è spostata sulla natura giuridica del bene culturale immateriale: si è notato che, nonostante sia sorretta da una pluralità di argomentazioni, la tesi del bene culturale (immateriale) come bene comune si scontra con l’evanescenza di questo concetto ancora privo di un quadro positivo; si è altresì constatato che la tesi di L. Casini, pur commendevole nell’intento (pervenire alla scrittura di uno statuto della proprietà culturale), si esaurisce in una prospettiva in itinere (quantomeno per il momento); si è visto che, anche l’accostamento dei beni culturali immateriali ai beni immateriali (come sopra meglio individuati), non conduce a chiarire l’ubi consistam del c.d. patrimonio intangibile; da ultimo, si è constatato che - quantomeno per ora - la legge 7 ottobre 2024 non risulta d’ausilio per l’individuazione della relativa natura giuridica.
Per provare dunque a far luce su questa misteriosa e sfuggente categoria, è opportuno da un lato prendere le mosse dal dato positivo vigente (art. 810 c.c.), e dall’altro, da una risalente quanto autorevole distinzione propugnata dalla dottrina [74] - quella tra beni giuridici in senso lato e beni giuridici in senso stretto.
Come è noto, l’art. 810 c.c. afferma che: “sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti” (da leggere in combinato disposto con l’art. 832 c.c.). Anzitutto occorre differenziare i beni dalle cose [75]: in particolare, le cose sono ricomprese nella più ampia categoria dei beni. In secondo luogo, come sostiene da tempo autorevole dottrina [76], i consociati non sono titolari di beni bensì di diritti sui beni. In terzo luogo, per quanto riguarda nello specifico il concetto di cosa, va detto che la (più recente) dottrina [77] ritiene superata la concezione di cosa legata interamente alla materialità (ammettendo dunque le c.d. cose immateriali). In quarto luogo, dalla lettura della disposizione sopra enunciata, si evince che caratteristica pregnante della “teoria dei beni” è l’essere essi suscettibili di appropriazione [78]; anche se, per la verità, tale ricostruzione, improntata sulla mera logica proprietaria, viene - a ragione [79] - messa in discussione dalla dottrina [80].
Date le suddette premesse, giova rammentare la nota ricostruzione - alla quale si è prima accennato - che distingue tra beni giuridici [81] in senso lato e beni giuridici in senso stretto. Secondo S. Pugliatti la prima categoria si identifica in quei beni che possono essere “oggetto di tutela” [82]; da ciò tuttavia non scaturisce - in maniera automatica - che essi possano dar vita alla nascita di una situazione giuridica soggettiva in capo ad un soggetto (che dunque potrebbe vantare un diritto soggettivo o interesse legittimo su quel bene); la seconda categoria, invece, viene definita come segue: “sintesi tra il particolare interesse tutelato e la situazione soggettiva predisposta dall’ordinamento giuridico come strumento di tutela destinato ad un soggetto particolare” [83].
Ebbene, tenendo a mente quanto statuito dalla Convenzione Unesco 2003 (che parla di prassi, rappresentazioni, espressioni, conoscenze, ecc.), i beni culturali immateriali potrebbero ricondursi alla categoria (ideata da Pugliatti) dei beni giuridici in senso lato, che dunque, se da una parte risultano meritevoli di tutela in quanto legati ad un interesse (prevalentemente non patrimoniale ovvero immateriale [84], di civiltà) in capo ai consociati, dall’altra, non danno (o comunque non darebbero) vita ad una parallela situazione giuridica soggettiva (di diritto soggettivo o di interesse legittimo). Ed infatti, è assai avventato sostenere che uno o più soggetti (per lo più persone fisiche ma il discorso potrebbe ampliarsi anche alle persone giuridiche) possano vantare diritti - sia assoluti che relativi - nei confronti di prassi, rappresentazioni, ecc. (e questa peculiare problematica rappresenta, probabilmente, una delle motivazioni più incisive [85] per cui si è arrivati così tardi alla stesura di una legge sul patrimonio culturale immateriale).
Una prima argomentazione a sostegno di tale ricostruzione la si rinviene nel dato normativo costituzionale ed in particolare all’art. 9, comma 2, Cost.: ed infatti, partendo dall’assunto che, nell’ambito del patrimonio storico e artistico della Nazione, vi rientrano non solo i beni materiali ma anche quelli immateriali, è evidente che questi ultimi debbano essere “oggetto di tutela” da parte del sistema giuridico, senza la necessaria conseguenza che i consociati possano reclamare per forza di cose diritti di natura esclusiva. D’altro canto, ciò non significa che i consociati siano privi di altre tipologie di diritti: è incontestabile infatti che vi sia un diritto in capo a tutti i soggetti a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità (art. 27 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948; art. 15 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali redatto a New York il 16 dicembre 1966) ed invero sia il Codice (dei beni culturali e dal paesaggio) che la dottrina [86] parlano diffusamente di fruizione e uso [87] dei beni culturali (Parte II, Titolo II, Capo I, artt. 101-110 del d.lg. n 42/2004).
Un secondo argomento lo si ritrova all’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42), il quale, malgrado una non esaustiva ricezione della Convenzione Unesco 2003, ha codificato la tutela delle c.d. espressioni di identità collettiva. In aggiunta a quanto detto, vi sono una pluralità di disposizioni in ambito regionale che riconoscono tali beni come oggetto di tutela. Peraltro, si tratta di particolari forme di tutela [88], in quanto tali beni non si prestano ad essere suscettibili di appropriazione, così come è, invece, per i beni materiali.
Un terzo argomento lo si rinviene nella peculiare declinazione di cultural heritage (eredità culturale), fatta propria della Convenzione di Faro del 2005 e ratificata dall’Italia con la legge 1° ottobre 2020, n. 133, laddove l’accezione di patrimonio culturale si evolve in senso più ampio, così come il concetto di tutela.
Un quarto argomento trapela dal recente indirizzo propugnato dall’Adunanza Plenaria 5/2023, mediante la quale si ammette una “nuova” quanto discutibile forma di tutela - il c.d. vincolo di destinazione d‘uso - anche per i beni che sono espressione di identità culturale collettiva.
Un quinto argomento traspare dalla recente legge 7 ottobre 2024, n. 152, che ha confermato come “oggetto di tutela” da parte del legislatore il patrimonio culturale immateriale.
In considerazione di quanto sopra, si può affermare che i beni culturali immateriali possono considerarsi beni giuridici in senso lato e pertanto una tipologia di beni ai quali non sono correlate situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi o interessi legittimi) ma dei semplici interessi, il cui centro di imputazione - ma non in senso tecnico giuridico [89] - può essere individuato nella comunità o nel gruppo di persone che li riconoscono come facenti parte del proprio patrimonio culturale.
7. Il bene culturale immateriale come bene giuridico in senso lato. Conseguenze sulle funzioni esercitate dai pubblici poteri e sui moduli procedimentali
La tesi del bene culturale immateriale come bene giuridico in senso lato, da intendersi dunque come bene “oggetto di tutela” che non dà tuttavia luogo alla nascita di una posizione soggettiva, comporta una serie di precipitati sulle modalità con cui le Pubbliche Amministrazione espletano le proprie funzioni (tutela, valorizzazione e gestione) nonché sullo strumento per eccellenza nelle loro mani - il procedimento - per perseguire l’interesse pubblico.
Orbene, essendo i beni culturali immateriali non solo “sprovvisti della materia” ma anche e soprattutto caratterizzati dalla circostanza che non possono dar vita a diritti di natura esclusiva benché meno diritti soggettivi ed interessi legittimi, è chiaro, anzitutto, che la Pubblica Amministrazione non potrà agire - come si è già peraltro evidenziato - con i classici e noti poteri ablatori (espropriazione, prelazione, ecc.). I soggetti preposti alla cura dell’interesse pubblico potranno piuttosto riconoscere e censire le componenti del patrimonio intangibile (o, per meglio dire, comporre un catalogo di tali beni); parimenti, potranno adottare forme di organizzazione e di sostegno economico, in grado di poter consentire l’emancipazione di queste forme di espressione culturale.
E’ dunque abbastanza evidente che la tutela e la valorizzazione (ma anche la gestione) abbiano una differente declinazione nell’ambito dei beni culturali immateriali: si denoti in particolare il ridimensionamento del ruolo del ministero della Cultura (e delle relative articolazioni che si situano nella prospettiva top down), perché se è vero che, da un lato, quest’ultimo conserva le proprie prerogative, è altrettanto palese che, dall’altro, nell’ambito di questa materia, sta via via emergendo il ruolo degli enti territoriali (non solo le regioni ma anche i comuni) e delle organizzazione senza scopo di lucro.
Un’ultima breve annotazione riguarda i riflessi della ricostruzione sopra prospettata sul procedimento amministrativo (anche se, forse, sarebbe più corretto parlare di procedimenti amministrativi). In primo luogo, va rammentato che, mentre nell’alveo dei beni culturali materiali, il ministero della Cultura continua a rivestire un ruolo preponderante, così non è per il patrimonio culturale immateriale, in quanto, come è noto, la Convenzione Unesco 2003, ha previsto un ruolo attivo anche per le comunità (o i gruppi si confronti in particolare l’art. 2 par. 1 del documento) in cui il suddetto patrimonio si manifesta, sia per quanto concerne l’individuazione, sia per quanto riguarda la gestione (c.d. bottom up approach); modus operandi quest’ultimo che, peraltro, connota anche le disposizioni adottate con la Convenzione di Faro del 2005 (i due concetti chiave del documento sono invero l’eredità culturale e la comunità di eredità).
In secondo luogo, in forza della circostanza che tale patrimonio ha un elevato radicamento territoriale e locale (si potrebbe parlare di patrimonio di “prossimità”), la ricognizione dei beni culturali immateriali non avviene soltanto per il tramite dell’apparato centrale (ministero della Cultura), ma si estrinseca anche grazie all’opera degli enti territoriali (regioni e comuni) e delle organizzazioni private senza scopo di lucro (in questo ultimo caso, anche attraverso procedure disciplinate dall’autonomia negoziale propria di tali enti).
Note
[*] Alessandro Piazzai, dottore di ricerca in diritto pubblico (curriculum in diritto amministrativo) presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Piazzale Aldo Moro 5, 00185 Roma, alessandro.piazzai@uniroma1.it.
[1] G. Severini, Immaterialità nei beni culturali?, in Aedon, 2014, 1; C. Lamberti, Ma esistono i beni culturali immateriali? (in margine al Convegno di Assisi sui beni culturali immateriali), in Aedon, 2014, 1.
[3] La Convenzione è stata ratificata dall’Italia con la legge 27 settembre 2007, n. 167.
[4] Tale strumento è stato recepito in Italia con la legge 19 febbraio 2007, n. 19.
[5] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1, pag. 26.
[6] Cfr. L’immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli e A. Bartolini, Torino, Giappichelli 2016.
[7] M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Roma, Società editrice del Foro Italiano, 1952, pagg. 222-226. Si veda anche G. Piva, Cose d’arte, in Enc. dir., XI, Milano, Giuffrè, 1962, pag. 119; A. Sandulli, Beni pubblici, in Enc. dir., V, Milano, Giuffrè, 1959, pag. 279; si veda inoltre E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2008, pagg. 204-206; da ultimo, anche M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, il Mulino, 2015, pag. 416. I beni culturali vengono appellati come “beni intrinsecamente di interesse pubblico” anche dalla relazione al codice dei Beni culturali e del Paesaggio. Si rinvia a Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, annotato con la giurisprudenza, a cura di G.N. Carugno, W. Mazzaniti, C. Zucchelli, Milano, Giuffrè, 2006, pag. 88. Più in generale sul tema dei beni di interesse pubblico si rimanda a G. Palma, Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, Jovene, 1971.
[8] A. Sandulli, Beni pubblici, cit., pag. 279. In dottrina vi è anche chi ha ritenuto il bene culturale un “bene speciale”. Si rinvia a L. Casoli, Altre forme di protezione, in Il diritto dei beni culturali e del paesaggio, I beni culturali, (a cura di) E. Follieri, vol. I, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2005, pagg. 155-156.
[9] Ibidem, pag. 279.
[10] M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pag. 26.
[11] Ibidem, pag. 24.
[12] Ibidem, pag. 26.
[13] Così S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in S. Cassese, L’amministrazione dello Stato, Milano, Giuffrè, 1976, pag. 181.
[14] Ibidem, pag. 181.
[16] Sul fronte della giurisprudenza, merita menzione un recente orientamento che - riguardo la natura giuridica del bene culturale - ha mutuato l’impostazione ermeneutica M.S. Giannini (“immaterialità”; “bene materiale oggetto di diritti patrimoniali e valore culturale immateriale oggetto di situazioni soggettive attive dei da parte dei poteri pubblici”). Si rinvia a Cons. giust. amm. per la Regione siciliana, Sezione giurisdizionale, 15 febbraio 2021, n. 107.
[17] V. Cerulli Irelli, Diritto pubblico della proprietà e dei beni, Torino, Giappichelli, 2022, pag. 186 ss.
[19] J.H. Merryman, The Public Interest in Cultural Property, in California Law Review, Vol. 77, n. 2, 1989, pp. 339-364.
[20] S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, Giuffrè, 1954.[21] L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 3, pag. 663.
[22] Si veda A. Bartolini, Beni culturali (diritto amministrativo), in Enc. ir., VI, Milano, Giuffrè, 2013, pag. 111.
[23] Il 1998 è anche l’anno di nascita di Aedon, Rivista di arti e diritto online.
[24] Sul tema si rimanda a G. Marchi, I beni e le attività culturali nelle scelte del legislatore regionale, in Aedon, 2000, 3.
[26] Altra dottrina ha sostenuto la tesi del paesaggio come bene comune. Si rinvia a S. Settis, Il paesaggio bene comune, La scuola di Pitagora, Napoli, 2013.
[27] Parte della dottrina, riguardo al bene culturale materiale, lo ha ritenuto non indispensabile. Si rinvia a S. Mabellini, I beni culturali e lo status di beni comuni: un’assimilazione indispensabile?, in Economia della Cultura, 2017, 1, pagg. 81-94.
[28] La letteratura di riferimento è vastissima. Preme evidenziare i seguenti contributi: F. Marinelli, Beni comuni, in Enc. Dir., VII, Milano, Giuffrè, 2014, pagg. 157-167; A. Lucarelli, Beni comuni, in Dig. disc. pubbl., Aggiornamento, Milano, Wolters Kluwer, 2021, pagg. 21-28; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato: per un diritto dei beni comuni, Verona, Ombre corte, 2012; S. Rodotà, Il terribile diritto, Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, il Mulino, 2013; A. Di Porto, Res in usu publico e beni comuni: il nodo della tutela, Torino, Giappichelli, 2013; A. Lalli, I beni pubblici. Imperativi del mercato e diritti della collettività, Napoli, Jovene, 2015; G. Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, Pisa, Edizioni ETS, 2017; G. Arena, I custodi della bellezza, Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e istituzioni, Touring Club Italiano, Milano, 2020; A. Gambaro, Note in tema di beni comuni, in Aedon, 2013, 1; S. Nespor, L’irresistibile ascesa dei beni comuni, in federalismi.it, 2013, 7, pagg. 1-11; V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, in Pol. dir., 2014, 1, pagg. 3-35; M.T. Caputi Jambrenghi, Note minime su beni comuni e funzione amministrativa, in Costituzionalismo.it, 2017, 1, pagg. 81-113; G. Arena, Dai beni pubblici ai beni comuni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 3, pagg. 647-655; P. Maddalena, Editoriale, Cosa sono i beni comuni e come si difendono, in Ambientediritto.it, 2023, 2, pagg. 15-32. Contro tale prospettazione si segnala E. Vitale, Contro i beni comuni, Una critica illuministica, Roma-Bari, Laterza, 2013.
[29] S. Shavell, Analisi economica del diritto, Torino, Giappichelli, 2004; G. Campa, Economia e finanza pubblica, Novara, Utet (Giuseppe Campa), 2017.
[30] M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 413.
[31] Ibidem, pag. 414.
[32] G. Hardin, The tragedy of the commons, in Science, New Series, Vol. 162, No. 3859 (Dec. 13, 1968), pagg. 1243-1248.
[33] E. Ostrom, Governing the commons: the evolution of institutions for collective action, Cambridge University Press, Cambridge, 1990; di seguito la versione italiana: E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio, 2009.
[35] Cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665.
[37] Così, come è noto, l’art. 42, comma 1 Cost.
[38] Così recita l’art. 42, comma 2, Cost.
[39] Una prima affinità, prendendo le mosse dalla teoria economica, è che entrambe le tipologie di beni (bene culturale immateriale e bene comune) sono insuscettibili di appropriazione, anche se tale caratteristica discende da presupposti diversi.
[41] Come è facile riscontrare, vi è anche un’assonanza semantica tra bene comune e comunità.
[42] La dieta mediterranea è considerata dall’Unesco come elemento transnazionale che comprende, oltre all’Italia, Cipro, Croazia, Grecia, Marocco, Spagna e Portogallo.
[44] V. Di Capua, La Convenzione di Faro. Verso la valorizzazione del patrimonio culturale come bene comune?, in Aedon, 2021, 3, pagg. 162-171.
[45] G. Morbidelli, La proprietà culturale, in Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della disciplina delle situazioni reali (Atti del convegno di Firenze, 8 maggio 2015), Milano, Quaderni della Fondazione del Notariato, 2015, pagg. 15-32.
[46] Così, come è noto, l’art. 832 c.c. rubricato contenuto del diritto.
[47] S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, Giuffrè, 1954.
[49] L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, cit., pagg. 661-663.
[50] A. Gualdani, Primi passi verso una disciplina di settore dei beni immateriali. Il caso del disegno di legge sulle manifestazioni, rievocazioni e giochi storici, in Aedon, 2017, 3; A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, 2019, 1, pagg. 83-93.
[51] M. Timo, L’intangibilità dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2022.
[52] A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, cit., pag. 87.
[53] Ibidem, pag. 87.
[54] M. Timo, L’intangibilità dei beni culturali, cit., pag. 222.
[55] Ibidem, pag. 222.
[56] Per una recente disamina della disciplina internazionale sul patrimonio culturale, si rimanda a L. Casini, Cultural heritage law, Edward Elgar, Cheltenham, UK, Northampton, MA, USA, 2024; F. Francioni, A.F. Vrdoljak, The Oxford Handbook of international cultural heritage Law, Oxford University Press, Oxford, 2020.
[58] Si confronti D. Amirante, Le attività culturali: una nozione da costruire, in I beni e le attività culturali, in Trattato di diritto amministrativo diretto dal Prof. G. Santaniello, (a cura di) S. Cattaneo, A. Catelani, Padova, Cedam, 2002, pag. 743.
[59] Così J. Blake, On defending the cultural heritage, cit., pag. 63.
[60] Ibidem, pag. 66.
[61] M. Frigo, Cultural property v. cultural heritage: A “battle of concepts” in international law?, in International Review of the Red, Vol. 86, n. 854, 2004, pag. 376.
[62] Per alcune nuove riflessioni sul tema dei beni immateriali si rinvia a E. Battelli, Epistemologia dei beni immateriali: inquadramento sistematico e spunti critici, in Giust. civ., 2022, 1, pagg. 49-96.
[63] G.F. Campobasso sostiene che - seppur a determinate condizioni - possa parlarsi di proprietà per i beni immateriali. Si rinvia a G.F. Campobasso, Diritto commerciale 1, Diritto dell’impresa, Wolter Kluwer, Milano, 2009, pag. 163. Vi è chi parla di struttura proprietaria del diritto d’autore. Si rimanda a G. Spedicato, Principi di diritto d’autore, Bologna, il Mulino, 2020, pag. 25. Ne dubitano i seguenti autori: O.T. Scozzafava, Dei beni, Artt. 810-821 c.c., Il codice civile, Commentario, Milano, Giuffrè, 1999, pag. 24; F.S. Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, Napoli, 2012, pag. 58. Riguardo alla proprietà letteraria ne dubita anche F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., pag. 198.
[65] Sul diritto d’autore si vedano quantomeno le seguenti opere: T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, Giuffrè, 1960; M. Are, L’oggetto del diritto d’autore, Milano, Giuffrè, 1963; L. Chimienti, Lineamenti del nuovo diritto d’autore, Milano, Giuffrè, 1997.
[66] Si rimanda a G. Spedicato, Principi di diritto d’autore, cit., pag. 16.
[67] M. Are, Beni immateriali, cit., pag. 250.
[68] Ibidem, pag. 253.
[69] G. Morbidelli, Dei beni culturali immateriali, in Aa.Vv., Scritti in onore di Ernesto Sticchi Damiani, Tomo I, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2018, pag. 573.
[71] L’anno 2024 si è caratterizzato per una serie di importanti interventi normativi nell’ambito del patrimonio culturale. Su questo fronte, si rinvia a G. Piperata, Memoria, identità, celebrazioni e altre novità nella recente legislazione in tema di diritto delle attività e del patrimonio culturale, in Aedon, 2024, 3.
[72] A. Gualdani, La legge in materia di manifestazioni di rievocazione storica e delega al Governo per l’adozione di norme per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale: una prima riflessione, in Aedon, 2024, 3.
[73] P.L. Petrillo, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale. Spunti comparati in La tutela dei beni culturali nell’ordinamento internazionale e nell’Unione Europea, (a cura di) E. Catani, G. Contaldi, F. Marongiu Bonaiuti, Macerata, Eum, 2020, pagg. 130-134.
[74] S. Pugliatti, Beni, in Enc. Dir., V, Milano, Giuffrè, 1959, pagg. 164-189.
[76] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., pag. 197.
[77] E. Battelli, Epistemologia dei beni immateriali: inquadramento sistematico e spunti critici, cit., pag. 65.
[78] Cfr. A. Torrente, P. Schlesinger Manuale di diritto privato, (a cura di F. Anelli, C. Granelli), Milano, Giuffrè, 2015, pag. 186.
[79] Si pensi all’evolversi della società odierna, laddove si assiste ad una costante ascesa del fenomeno denominato dematerializzazione.
[80] Ancora E. Battelli, Epistemologia dei beni immateriali: inquadramento sistematico e spunti critici, cit., pag. 91 ss.
[81] Come è noto, il concetto di bene giuridico assume un ruolo preponderante nell’ambito del diritto penale. Si rinvia a G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale parte generale, Bologna, Zanichelli, 2014, pag. 4-28.
[83] P. Zatti, V. Colussi, op. ult. cit., pag. 174.
[84] M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pagg. 3-38.
[85] A tal proposito, autorevole dottrina ha sostenuto che i beni culturali immateriali non hanno “bisogno di diritto, cioè di vere e proprie norme”. Si rinvia a G. Severini, I confini della tutela: il vincolo di destinazione d’uso, Sul vincolo di destinazione per il bene culturale immobiliare: prime considerazioni su Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5, in Aedon, 2023, 1, pag. 31.
[86] È nota la ricostruzione di M.S. Giannini, il quale sosteneva che il bene culturale fosse un bene pubblico in quanto bene di fruizione. Si rinvia a M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pagg. 3-38. Più di recente la dottrina ha sostenuto l’esistenza di un diritto (fondamentale) alla fruizione del patrimonio culturale. Si rinvia a M. Carcione, Dal riconoscimento dei diritti culturali nell’ordinamento italiano alla fruizione del patrimonio culturale come diritto fondamentale, in Aedon, 2013, 2.
[88] In dottrina - riguardo ai beni demoetnoantropologici - si è parlato anche di tutela “riflessa”, proponendo una serie di specifiche misure per apprestare protezione a tali categorie di beni. Si rinvia a G. D’Elia, I beni culturali immateriali demoetnoantropologici: un’indagine giuridica, in PA Persona e Amministrazione, 2023, 1, pagg. 863-888.
[89] Su questo fronte si rinvia ad una risalente sentenza della giurisprudenza di merito, che riguardava la configurabilità di diritti d’autore sul Palio di Siena. Si tratta della decisione del Tribunale di Milano del 9/11/1992, nella quale viene affermato che: “il Palio di Siena è pubblico evento risalente al XIII secolo, dunque appartenente al patrimonio storico, artistico e folcloristico della nazione, senza che chicchessia possa vantare diritti esclusivi di sorta su di esso”.