I percorsi della valorizzazione culturale
La Convenzione di Faro. Verso la valorizzazione del patrimonio culturale come bene comune? [*]
di Viviana Di Capua [**]
Sommario: 1. La funzione inclusiva della valorizzazione del patrimonio culturale e i limiti al coinvolgimento dei privati nel Codice dei beni culturali e del paesaggio. - 2. La Convenzione di Faro e la declinazione democratica della funzione di valorizzazione: concepire il patrimonio culturale come bene comune. - 3. Alcune esperienze applicative della Convenzione di Faro in ambito nazionale: dai Friends of Molo San Vincenzo al Comune di Fontecchio. - 4. Riflessioni finali sugli spazi e sulle prospettive future di applicazione della Convenzione di Faro.
The Faro Convention. Towards the enhancement of cultural heritage as a common good?
More than fifty years after the publication of the famous study by Garret Hardin, The Tragedy of the Commons, considered the starting point of the contemporary debate on Commons, the adoption of the Faro Convention gives new impetus to the question by promoting a perspective that recognizes a priority role for the community in the process of identifying, preserving and enhancing cultural heritage. Beyond the problems of definition and the uncertainties of application that the enactment of the national ratification law has generated, the investigation aims to verify whether the Convention outlines the legal conditions (principles, criteria and instruments) for enhancing cultural heritage as a common good. To this end, the argumentative path will focus on the perspective that considers culture and human knowledge as a new form of common resource and will focus on some experiences and applications of the Convention, from which a fruitful interaction with territorial redevelopment interventions has emerged, including interventions on cultural (material) assets in a state of decay or abandonment that tell the story of a community and a territory. The ultimate aim is to demonstrate that, while finding an area of immediate application to material goods, the ultimate aim of the Convention is to be found in the enhancement of the cultural immaterial, thus establishing the legal conditions for a unitary conception of the cultural heritage built around the concepts of recovery, protection and use.
Keywords: Faro Convention; Enhancement of Cultural Heritage; Common Goods.
1. La funzione inclusiva della valorizzazione del patrimonio culturale e i limiti al coinvolgimento dei privati nel Codice dei beni culturali e del paesaggio
Il tema dell’amministrazione condivisa dei beni del patrimonio culturale non è nuovo alla letteratura scientifica giuridica. La partecipazione della collettività allo svolgimento delle attività di interesse generale alimenta, ormai da diverso tempo, il dibattito politico e scientifico nazionale e internazionale.
Tuttavia, l’importanza assunta negli ultimi anni dalla valorizzazione dei beni culturali per la promozione dello sviluppo culturale, sociale ed (anche) economico nazionale, ha rinnovato l’interesse degli studiosi riguardo alle strategie, ai metodi e agli strumenti attraverso cui il coinvolgimento dei privati, nella cornice giuridica del principio di sussidiarietà orizzontale enunciato dall’art. 118, comma 4, Cost., trova concreta attuazione [1]. Se, infatti, la tutela appare una funzione di esclusivo appannaggio pubblico, al contrario, la valorizzazione si presta più fecondamente all’apporto partecipativo dei privati che potrebbero concorrere, traendone al contempo beneficio, dalle attività di utilizzazione, di fruizione pubblica e di promozione della conoscenza del bene culturale, volte allo sviluppo della cultura [2].
La questione si inserisce nel più ampio dibattito sulla valorizzazione economica dei beni culturali, che investe anche il problema della sua compatibilità con le esigenze di tutela e dell’assenza di una cornice giuridica di regole, strumenti e procedure [3]. Si ritiene, infatti, ormai da tempo che l’ambito della valorizzazione non possa essere disgiunto da quello della tutela ma che, al contrario, entrambe siano parte integrante di un sistema di attività rivolte alla realizzazione del compito, derivante dall’art. 9 Cost. [4], di assicurare la promozione e lo sviluppo della cultura sia mediante la tutela dei beni culturali sia attraverso la garanzia di godimento, da parte della collettività, del valore culturale che essi custodiscono [5].
L’art. 6 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, emanato con d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e più volte modificato, individua nella promozione dello sviluppo della cultura la finalità degli interventi di valorizzazione, che si sostanziano nella promozione della conoscenza del patrimonio culturale e nella garanzia delle migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica dello stesso. La disposizione chiarisce la cornice generale entro cui si svolgono i compiti di valorizzazione meglio specificati dal successivo art. 111 laddove si prevede che le attività in questione si sostanziano nella costituzione e nell’organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze e risorse finanziarie o strumentali, per iniziativa pubblica o privata, e dunque in un servizio pubblico preordinato alla diretta soddisfazione delle esigenze dei fruitori [6].
Gli artt. 6 e 111 del Codice si atteggiano a fondamento giuridico della valorizzazione che, peraltro, può essere declinata nelle diverse modalità della valorizzazione culturale e della valorizzazione economica. La prima racchiude le attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale, attraverso interventi diretti sul bene e/o sulle persone, cioè sui destinatari di tali attività [7]. La seconda consiste nell’insieme delle iniziative dirette, da un lato, a incrementare la redditività del patrimonio culturale e, dall’altro, a “sfruttare” il bene culturale per creare ricchezza in un contesto esterno al bene stesso [8].
Ormai da alcuni anni si avverte, infatti, l’esigenza di aprire il sistema organizzativo dei beni culturali di proprietà pubblica a modelli gestionali redditivi, suscettibili di produrre flussi di risorse economiche e ispirati a iniziative di sfruttamento del patrimonio culturale, pur se compatibili con la fruizione pubblica e gratuita dei beni stessi. Nel programma delineato dall’art. 9 Cost., la promozione della persona umana per mezzo della cultura non esclude l’applicazione di metodi di gestione rispettosi del principio del buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e della garanzia dell’equilibrio dei bilanci pubblici (art. 97, comma 1, Cost.) che, sul piano pratico, si traduce nella ricerca di soluzioni e di strumenti finalizzati alla riduzione dei costi e all’aumento delle entrate [9]. Si pensi ai c.d. servizi aggiuntivi o alle sponsorizzazioni ovvero alle concessioni di beni culturali, ecc.
Solo di recente ha trovato un certo seguito, anche a causa della crisi economico-sociale generata dalla pandemia ancora in atto, la prospettiva della valorizzazione come centro catalizzatore dei processi suscettibili di avere ricadute positive sullo sviluppo dei territori di riferimento. Cultura e sviluppo non sono più termini antitetici ma, al contrario, sono parte di un processo virtuoso che, usando il bene culturale come attrattore, stimola nuove e più intense forme di fruizione del patrimonio culturale, richiamando capitali e risorse che alimentano la possibilità di un miglior godimento pubblico [10].
Ne sono emblema i distretti culturali, agglomerati di risorse e di attività culturali con un legame simbolico e intellettuale con una comunità locale e un territorio [11], che rappresentano un interessante tentativo di coniugare valorizzazione economica e valorizzazione culturale, con significative ricadute sulla lotta alle disuguaglianze. Alcuni esempi di distretti culturali vanno dai quartieri culturali metropolitani con un’alta concentrazione di teatri, musei e attività ricreative, a sistemi di produzione localizzata di beni e servizi il cui valore risiede nel piacere estetico e semiotico che trasmettono, come i prodotti artigianali o di moda [12]. La forte connessione con un dato contesto sociale e con la sua evoluzione storica è alla base del vantaggio competitivo per alcuni prodotti tipici di un luogo e carichi di cultura, in quando sono il risultato dell’accumulo di capitale culturale localizzato [13].
Altro esempio virtuoso di sinergia tra valorizzazione economica e valorizzazione culturale è rappresentato dagli interventi di rigenerazione urbana aventi ad oggetto i beni culturali, talvolta in stato di degrado o abbandono [14]. Sotto un profilo giuridico, l’impiego dei beni culturali nelle operazioni di rigenerazione urbana è stato possibile grazie all’ampiezza della nozione di valorizzazione di cui all’art. 6 del Codice, comprendente anche “la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati”.
Il rinnovo delle aree degradate o abbandonate è funzionale a garantire il pieno sviluppo della persona umana anche ai cittadini residenti in queste aree [15]. Sicché nulla osta all’impiego dei beni culturali per accrescere le possibilità di accesso alla cultura da parte dei membri meno fortunati della collettività e contribuire così al suo progresso culturale.
D’altra parte, la rigenerazione culturale rappresenta uno degli obiettivi prioritari del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), adottato recentemente dal Governo per pianificare la ripresa economica, sociale e culturale del Paese nel periodo post-pandemico [16].
La disciplina codicistica della valorizzazione risente fortemente del regime proprietario, pubblico o privato, del bene culturale sotto i profili dell’iniziativa, della titolarità della funzione e del regime giuridico. Si distingue, innanzitutto, tra la valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica (art. 112) e quella dei beni culturali di proprietà privata (art. 113), con rilevanti conseguenze sulle modalità di regolamentazione della funzione. Nella prima ipotesi, lo Stato, le regioni e gli enti locali assicurano la valorizzazione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura, mentre la valorizzazione degli altri beni pubblici è assicurata compatibilmente con lo svolgimento degli scopi istituzionali cui essi sono destinati.
Nella seconda ipotesi, invece, le attività e le strutture di valorizzazione, a iniziativa privata, di beni culturali di proprietà privata possono beneficiare del sostegno pubblico dello Stato, delle regioni e degli enti locali.
Quanto, poi, al profilo dell’iniziativa, la natura pubblica o privata del soggetto promotore si riverbera sulla qualificazione giuridica delle attività in cui essa si estrinseca che, nel primo caso, sono da ricondurre al servizio pubblico e, nel secondo caso, da collocare nell’ambito delle attività socialmente utili (art. 111).
Infine, la dialettica tra pubblico e privato influenza il regime giuridico, dando luogo a discipline differenziate: ad esempio, le norme sulle forme di gestione si applicano limitatamente alla valorizzazione ad iniziativa pubblica, restando, al contrario, libere le modalità di organizzazione dell’attività a iniziativa privata, che comunque possono beneficiare di sostegno pubblico.
Nel sistema codicistico, la partecipazione del privato alle attività di valorizzazione, in definitiva, si muove all’interno della cornice giuridica costruita sul regime proprietario del bene culturale.
2. La Convenzione di Faro e la declinazione democratica della funzione di valorizzazione: concepire il patrimonio culturale come bene comune
Su questo sfondo si inserisce la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, più comunemente conosciuta come Convenzione di Faro, dal nome della località portoghese dove, il 27 ottobre 2005, si è tenuto il primo incontro di apertura alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa. La Convenzione è stata recentemente ratificata da parte dell’Italia con la legge 1° ottobre 2020, n. 133, che conclude un lungo processo avviato con la sottoscrizione, avvenuta nel 2013, a distanza di quasi sette anni [17].
L’adesione dell’Italia, e la successiva ratifica, hanno suscitato un acceso dibattito nella comunità scientifica, aprendo una frattura tra quanti hanno esaltato i principi della Convenzione e quanti, invece, ne hanno aspramente criticato il contenuto.
Mentre alcuni studiosi si sono entusiasmati per la realizzazione di un paradigm-shift, di un rovesciamento complessivo dell’approccio alla tutela del patrimonio culturale, fondato sull’idea che sia necessario coinvolgere la comunità nella produzione, diffusione e conservazione della cultura come priorità [18], altri invece hanno criticato duramente l’indeterminatezza dell’oggetto, la presenza di alcune confusioni terminologiche e concettuali e la scarsa utilità di una dichiarazione di principi generali di difficile riscontro applicativo [19].
Una lettura attenta dei singoli articoli conferma, in effetti, la presenza di svariate imprecisioni nella traduzione di alcuni termini, che potrebbero finanche dar luogo a fraintendimenti all’atto di applicazione pratica e nei rapporti con la normativa interna: come è stato opportunamente rilevato [20], sarebbe stato più appropriato, da parte del legislatore nazionale, tradurre la locuzione Cultural Heritage presente nel testo della Convenzione con eredità culturale [21], anziché con patrimonio culturale, sia per valorizzare la radice comune latina di heres, sia per evitare plausibili confusioni logico-giuridiche con la nozione di patrimonio culturale vigente nell’ordinamento interno [22].
Al di là delle imprecisioni terminologiche, la Convenzione abbraccia un concetto ampio di valorizzazione che, ai sensi dell’art. 5, lett. b), comprende le attività di “identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione”, e che appare perfettamente coerente con la nozione aperta e dinamica di patrimonio culturale declinata dall’art. 2, lett. a). Quest’ultimo, infatti, si identifica con “un insieme di risorse ereditate dal passato che alcune persone considerano, a prescindere dal regime di proprietà dei beni, come un riflesso e un’espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in continua evoluzione, e comprende tutti gli aspetti dell’ambiente derivanti dall’interazione nel tempo fra le persone e i luoghi”. Quindi, i beni che raccontino la storia di una comunità e di un territorio [23], e che sono facilmente esposti al degrado derivante dal trascorrere del tempo o dagli eventi naturali e che, per questo, si prestano agevolmente agli interventi di rigenerazione urbana.
La previsione forse più innovativa risiede nell’art. 1, lett. b), laddove si attribuisce alla comunità patrimoniale un ruolo prioritario nei processi di individuazione, tutela, valorizzazione, fruizione e gestione di “aspetti specifici del patrimonio culturale che essa, nel quadro dell’azione pubblica, desidera mantenere e trasmettere alle generazioni future”. L’innovazione risiede sia nel riconoscimento di un potere d’iniziativa a soggetti privati nell’individuazione e tutela di alcuni beni del patrimonio culturale particolarmente emblematici della storia di una comunità o di un territorio che, invece, nell’assetto codicistico è dominio esclusivo delle autorità pubbliche, sia nel carattere dinamico e trasversale della comunità patrimoniale. Quest’ultima, infatti, è costituita da un insieme di persone fisiche, anche appartenenti a nazionalità diverse, che si identificano nel valore culturale espresso dalla risorsa e, per questo, decidono di prenderne in carico la valorizzazione e la gestione, divenendo titolari di una funzione pubblica (munus) [24].
L’obiettivo perseguito dalla Convenzione è di assicurare a “chiunque” il riconoscimento e l’esercizio del diritto all’eredità culturale, inteso, ai sensi dell’art. 1, lett. a), come diritto di ogni individuo di essere parte attiva di quel processo virtuoso di individuazione, definizione delle regole d’uso, fruizione, tutela e valorizzazione della risorsa culturale. In questo senso, la Convenzione si pone sulla scia della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che configura finanche un diritto a partecipare alla creazione dei beni culturali e non solo a riceverne i benefici di un godimento o di una fruizione erga omnes [25].
Nel rapporto tra risorsa culturale, gestione endogena e diritti fondamentali instaurato dalla Convenzione, sembra quasi intravedere i principi su cui si fonda la teoria dei “beni comuni” [26]. Poiché sono funzionalmente collegati ai diritti fondamentali e alla loro soddisfazione, i beni comuni richiedono un regime di gestione che, prescindendo dall’appartenenza proprietaria, è volto a garantire le più ampie condizioni di accesso e di fruizione alla collettività e la loro conservazione per le generazioni future [27].
Più in particolare, il modello delineato dalla Convenzione riprende la prospettiva, attraente e suggestiva, che considera la cultura e il sapere umano come una nuova forma di bene comune [28].
La nozione di “bene culturale commune”, che potrebbe essere intesa come un’evoluzione del più tradizionale concetto di distretto culturale, “refer[s] to culture expressed and shared by a community [that] can be generally recognized as system of intellectual resources that have an idiosyncratic nature [...] indissolubly dependent on both the evolving conditions of time and the spatial contexts in which human relations take place” [29]. Alcuni esempi sono l’immagine di una città, una lingua locale, un movimento artistico, le tradizioni delle comunità indigene, ecc.
Rispetto ai beni comuni, i beni culturali comuni presentano una “carrying capacity” infinita, poiché “consuming culture does not reduce its total amount for others” [30].
Essi rappresentano la sintesi di tre dimensioni, la “cultura”, lo “spazio” e la “comunità”, e si identificano con le diverse forme di espressione culturale prodotte da una comunità in un determinato contesto spazio-temporale. La dimensione culturale, che indica i caratteri della risorsa, può assumere significati diversi a seconda che la sua estensione sia locale o globale (si pensi, rispettivamente, ai dialetti e alle conoscenze scientifiche globali). La dimensione spaziale identifica il contesto ambientale derivante dalla interazione tra lo spazio fisico e i membri della comunità (ad esempio, un terroir per la produzione di un vino). La comunità, costruita su una dimensione identitaria e simbolica, si fonda sulla coesione dei suoi membri e sul loro coinvolgimento nel processo culturale [31].
Si tratta di una categoria che oltrepassa la tradizionale - e, secondo autorevole dottrina, ormai superata [32] - dicotomia tra beni culturali materiali e immateriali.
Le risorse culturali comuni tendono a coinvolgere due “dilemmi sociali”, situazioni nelle quali un comportamento individuale razionale genera irrazionalità collettiva.
Il primo è uno dei classici problemi dei beni pubblici e deriva dal comportamento degli individui che cercano di trarre vantaggio dal godimento della risorsa senza, tuttavia, contribuire ai costi di conservazione.
Il secondo riguarda la precarietà della risorsa culturale che potrebbe renderne difficoltosa la trasmissione alle generazioni future [33]: la mancanza di nuove idee o eventuali conflitti interni alla comunità sullo sviluppo della cultura ostacola il processo di accrescimento dello stock di capitale culturale (o, come si dice in ambito sociologico, di capitale simbolico) già accumulato, senza il quale la cultura tende a diventare stazionaria, priva di quella forza dinamica necessaria a tramandarla ai posteri [34].
I problemi principali dei beni culturali comuni oscillano, in sintesi, dall’esaurimento dovuto all’uso eccessivo, nel caso delle risorse materiali, alla sottoproduzione di input culturali, nel caso di quelle immateriali.
Il modello delineato dalla Convenzione di Faro si presta molto bene a gestire i beni appartenenti al patrimonio culturale come se fossero beni comuni, poiché valorizza l’attitudine di tali beni a soddisfare diritti fondamentali della persona e si orienta verso regimi di governance che prescindono dal regime proprietario e che, tendenzialmente, siano estranei alle logiche del mercato.
La Convenzione interviene, inoltre, a correggere uno dei “dilemmi sociali” in cui può incorrere la gestione della risorsa culturale comune, consistente nella sottoproduzione di input culturali. Aprendo alla comunità i processi di individuazione dei beni che presentano interesse culturale, si dovrebbe favorire, in questo modo, l’accrescimento dello stock di capitale già accumulato, di per sé ostacolato dal riconoscimento in via esclusiva alle autorità pubbliche del potere di identificare ciò che presenta interesse culturale al fine di sottoporlo a tutela.
La promozione di strategie virtuose di collaborazione tra queste e la comunità ha anche lo scopo di evitare che la risorsa culturale sia sfruttata senza che gli utilizzatori contribuiscano ai costi di mantenimento, risolvendo così anche l’ulteriore dilemma. Tra gli obiettivi della Convenzione vi è, infatti, il riconoscimento di una responsabilità individuale e collettiva nei confronti del patrimonio culturale, che integra il secondo presupposto giuridico per la gestione endogena della risorsa (art. 1, lett. b)).
Si potrebbe ipotizzare che le comunità patrimoniali, destinatarie della funzione pubblica di tutela e di valorizzazione, siano anche incaricate del delicato “compito di mediazione” tra autorità pubbliche e collettività, ponendosi come portavoce delle istanze provenienti dal basso circa l’individuazione delle risorse del patrimonio culturale funzionali a soddisfare bisogni primari della persona e, per questo, sottoposte ad accesso generalizzato.
L’attuazione della Convenzione è demandata ad alcuni strumenti operativi.
Il Faro Convention Action Plan, una piattaforma digitale che riunisce autorità pubbliche, studiosi e cittadini con l’obiettivo di proporre azioni concrete e monitorarne l’applicazione attraverso la trasmissione di conoscenze e di competenze, è concepito per tradurre in pratica i principi della Convenzione.
Tra i vari strumenti applicativi [35], grande importanza riveste il Faro Convention Network, una piattaforma digitale cui le comunità patrimoniali possono affiliarsi dopo aver compiuto tutte le tappe previste dal Faro Process [36], e costituire un Plan of Action per autovalutare e monitorare nel tempo, con le proprie iniziative rispetto ai principi della Convenzione. Più in particolare, attraverso il Self-Assessment e l’Action of Plan le comunità possono, rispettivamente, procedere ad una propria autovalutazione e monitorare i risultati derivanti dalla gestione della risorsa comune. Il processo di valutazione, ispirato ad una serie di principi [37], dovrebbe essere inclusivo e svolgersi in un contesto in cui tutti possano esprimere le proprie opinioni, indipendentemente, dalle dimensioni della rappresentanza [38]. I criteri consentono di valutare la “quantità” e la “qualità” dell’impegno partecipativo degli attori (comunità patrimoniali, autorità pubbliche, settore privato e facilitatori) al processo di individuazione, gestione e valorizzazione della risorsa culturale comune [39]. In questo modo, è possibile monitorare i risultati raggiunti, valutare l’impegno delle parti e intervenire laddove necessario.
3. Alcune esperienze applicative della Convenzione di Faro in ambito nazionale: dai Friends of Molo San Vincenzo al Comune di Fontecchio
L’Ufficio di Venezia del Consiglio d’Europa raccoglie e monitora le esperienze applicative della Convenzione di Faro e, attraverso la Rete Faro Italia, nata su ispirazione del Faro Convention Network, favorisce il dialogo tra le comunità patrimoniali, al fine di favorire lo scambio di informazioni e di strategie legate all’attuazione dei principi enunciati dalla Convenzione.
Un’esperienza applicativa che si ritiene utile analizzare è rappresentata dalla comunità patrimoniale dei Friends of Molo San Vincenzo [40], nata nel 2015 con l’obiettivo di valorizzare il Molo San Vincenzo e le altre infrastrutture e architetture identitarie presenti nel Porto di Napoli [41].
Il Molo San Vincenzo, principale difesa foranea del Porto di Napoli, presenta un importante valore storico-culturale e paesaggistico-architettonico e, per molti anni, ha versato in uno stato generale di abbandono e di chiusura, poiché interdetto al pubblico dalla Marina Militare. La parte iniziale del Molo è sottoposta alla competenza della Marina Militare, mentre quella che va dall’eliporto in poi a quella dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale (AdSP). Nel corso degli anni, diverse iniziative sono rimaste inattuate a causa dell’assenza di una convergenza di obiettivi e di intenti.
La comunità dei Friends of Molo San Vincenzo viene costituita con lo scopo di valorizzare il Molo, sia attraverso il recupero della sua funzione di struttura marittima, sia mediante la realizzazione di uno spazio pubblico sul mare, in collaborazione con autorità pubbliche, comunità e operatori del settore marittimo. Nel 2012, durante il Convegno “Il Mare e la Città”, organizzato dal gruppo di ricerca del CNR, è emerso il tema del Molo San Vincenzo: il CNR IRISS e la Community of Psicology Lab dell’Università di Napoli Federico II hanno “adottato” il Molo come caso studio cui applicare le ricerche derivanti dall’interazione urbanistica-psicologia di comunità e, successivamente, l’ANIAI Campania, associazione di ingegneri e di architetti, ha creato la comunità patrimoniale dei Friends of Molo San Vincenzo. Dopo una iniziale reticenza, la Marina Militare, il Comune di Napoli e l’AdSP hanno successivamente aderito al progetto, collaborando all’organizzazione di eventi e di manifestazioni, insieme ad altre associazioni (Lega Navale, Vivoanapoli, INU Campania, CdO Campania, Fondazione San Gennaro, ecc.).
Grazie al contributo dei ricercatori, parte attiva dei Friends of Molo San Vincenzo, sono stati applicati i principi e i criteri previsti dalla Convenzione, funzionali a creare le condizioni per la valorizzazione comunitaria del Molo. La costruzione dell’arena di azione è stata resa possibile grazie alla creazione di occasioni per far conoscere e fruire il Molo San Vincenzo alla comunità urbana, coinvolgendo autorità pubbliche, imprenditori, studiosi e cittadini per la costruzione della rete e per renderli parte attiva del processo di rigenerazione.
L’applicazione dei criteri del Faro Convention Network ha consentito di valutare l’impegno profuso da ciascun attore al processo di valorizzazione della risorsa, individuando i punti critici e le azioni future da intraprendere. Senza entrare nel dettaglio, riguardo a Who? Presence and engagement, si è riscontrato, ad esempio, un risultato buono della comunità patrimoniale e dei facilitatori, medio del settore privato e sufficiente delle autorità pubbliche, dato, quest’ultimo, imputabile ad una partecipazione percepita ancora come frammentaria; relativamente ad How? Criteria for implementation, la valutazione per i criteri Consensus on an expanded common vision of heritage, Willingness of all stakeholders to cooperate (local authority and civil society) ed A defined common interest of a heritage-led action, ha mostrato un buon risultato della comunità patrimoniale, medio del settore privato e sufficiente delle autorità pubbliche, che rivela l’assenza di un dialogo costruttivo e di una visione comune sul futuro del Molo [42]. Alcuni soggetti istituzionali hanno aderito alle iniziative (Marina Militare, Comune di Napoli e AdSP) o hanno intrapreso azioni per il recupero del Molo (AdSP) ma non sono riusciti a tradurre la cooperazione nella definizione di un percorso di valorizzazione comune; altri invece (Ente preposto alla tutela del patrimonio architettonico) non sono stati attivamente coinvolti [43]. Per quanto riguarda le istituzioni private, è mancata la presenza di imprenditori, potenzialmente capaci di mobilitare risorse economiche [44].
Un’altra esperienza virtuosa è quella del Comune di Fontecchio [45] che, nel 2013, con atto del Consiglio comunale deliberato all’unanimità, è stato il primo in Italia ad aderire ai principi della Convenzione di Faro. In realtà, l’attuazione di una strategia di azione basata sull’uso sostenibile del territorio, sul rafforzamento dell’identità locale e sul coinvolgimento attivo dei cittadini nei processi decisionali, era iniziata già alcuni anni prima per affrontare la ricostruzione fisica e la rivitalizzazione sociale ed economica seguita al terremoto del 2009.
Nell’intento di garantire maggiore sicurezza alle abitazioni e, al contempo, conservare il tratto identitario locale, l’Amministrazione comunale ha deciso di inserire nel Piano di Ricostruzione gli esiti di un laboratorio di Village Design Statement o Statuto dei Luoghi, uno strumento di democrazia deliberativa [46]. La strategia è stata ispirata dalla volontà di acquisire o di accrescere la consapevolezza dei significati emozionali e culturali attribuiti ai luoghi, raccontare la storia locale e proporre scelte progettate o da progettare riguardanti un nuovo assetto urbanistico, le direttici di sviluppo economico e sociale in considerazione dei nuovi assetti creati o resi necessari dal terremoto; ciò al fine di delineare le precondizioni plausibili per il ritorno alla vita degli e negli immobili riparati e/o ricostruiti. La finalità ultima è stata coinvolgere gli abitanti nel processo di ricreazione di un senso di comunità e, al contempo, stabilire alcune linee essenziali affinché il progetto di ricostruzione non snaturasse il tessuto culturale e simbolico della zona.
La comunità ha così elaborato il proprio Atlante dei Luoghi, una raccolta comprensibile e condivisa delle diverse letture dell’identità locale, ed il proprio Statuto dei Luoghi, recante le linee guida per lo sviluppo locale ispirate all’Atlante, in seguito adottato dal Consiglio Comunale come strumento di indirizzo per la ricostruzione e per il rilancio socioeconomico del paese [47].
A ciò si è aggiunta l’elaborazione di un progetto di coesione sociale e di rigenerazione urbana, denominato “Casa&Bottega” [48], che prefigurasse soluzioni al problema del sovradimensionamento del patrimonio immobiliare rispetto alle esigenze degli abitanti e a qualsiasi ipotesi di sviluppo. L’idea di fondo è stata ricreare le condizioni per l’esercizio di un’attività economica nel luogo in cui si vive, recuperando e ristrutturando edifici di proprietà pubblica e privata da mettere a disposizione alle giovani coppie, selezionate tramite procedure pubbliche, insieme ad un “pacchetto” comprendente, oltre alla parte “infrastrutturale” (abitazione, spazio per la produzione artigianale, orto sociale, ecc.), anche una serie di servizi (assistenza fiscale, trasporto sostenibile, ecc.) [49].
4. Riflessioni finali sugli spazi e sulle prospettive future di applicazione della Convenzione di Faro
Appare opportuno fissare alcuni punti cardinali minimi della trattazione, attraverso una sintesi ricognitiva dei risultati raggiunti nel percorso di ricerca svolto.
Un primo dato certo è che la Convenzione di Faro, attribuendo alle comunità patrimoniali il potere di individuare e di autogestire le risorse culturali locali, e di definire, insieme alle autorità pubbliche, le regole d’uso, declina il patrimonio culturale come bene comune. In questo modo, perviene ad una soluzione ai dilemmi sociali cui può condurre la gestione delle risorse culturali: riconoscere alle comunità un ruolo propulsivo nella promozione della cultura permette, infatti, di accrescere lo stock di capitale culturale già accumulato, che conferisce alla cultura quella forza dinamica necessaria a tramandarla alle generazioni future, nonché di avviare un processo di responsabilizzazione collettiva circa la conservazione delle risorse culturali e la contribuzione ai costi di mantenimento.
Un secondo dato certo è che le comunità patrimoniali divengono destinatarie della funzione pubblica di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale (munus), ponendosi al contempo come soggetti recettori delle istanze della società civile circa l’individuazione delle risorse culturali funzionali a soddisfare bisogni primari della persona e, per questo, sottoposti alla più ampia fruizione. Le esperienze dei Friends of Molo San Vincenzo e del Comune di Fontecchio mostrano chiaramente quanto le comunità patrimoniali fungano da “punto di raccordo” tra le autorità pubbliche e la società civile, e quanto il loro ruolo sia fondamentale per accumulare capitale culturale da tramandare alle generazioni successive.
La Convenzione rimane, tuttavia, alquanto oscura sul concetto di comunità patrimoniale. Al riguardo, potrebbero ipotizzarsi due alternative: se essa si identifica con tutta la collettività territoriale, il problema concerne la definizione di modelli di partecipazione adeguati e improntati ai principi del giusto procedimento, che consentano agli interessati di esprimere liberamente il proprio punto di vista; se, invece, essa è circoscritta ad una associazione di persone, la questione diviene allora la regolamentazione dei requisiti di qualificazione degli affidatari, degli oneri di trasparenza e di effettiva apertura alla partecipazione, del regime patrimoniale, degli affidamenti pubblici, delle forme di controllo, ecc.
Questi profili non sembrano adeguatamente disciplinati né dal Codice dei beni culturali, né dal Codice del Terzo settore, né dai regolamenti comunali sull’amministrazione condivisa dei beni urbani, né dal Codice dei contratti pubblici [50]. Ad esempio, l’art. 89, comma 17, del d.lgs. n. 117/2017 si limita a prevedere la possibilità di attivare “forme speciali di partenariato” con gli enti del Terzo settore per lo svolgimento di attività di valorizzazione, “selezionati attraverso procedure semplificate”, senza, tuttavia, dettagliare ulteriormente la disciplina, né specificare i requisiti minimi (anche di affidabilità) del contraente privato.
Più in generale, si ha la sensazione che il coinvolgimento dei privati nelle attività di valorizzazione del patrimonio culturale sia da perseguire “a qualsiasi costo”, senza dunque prevedere un corredo di garanzie che consenta al soggetto pubblico di valutare, preliminarmente, le caratteristiche del privato, qualità della prestazione resa e la sua rispondenza all’interesse generale. Occorre in proposito ricordare che i modelli individuati nei regolamenti comunali sull’amministrazione condivisa dei beni urbani sono stati fortemente controversi e, talvolta, finanche portati all’attenzione della magistratura, soprattutto contabile, che iniziato a integrarne la disciplina con una significativa giurisprudenza [51].
La ratifica della Convenzione avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per il legislatore nazionale di colmare le lacune normative nazionali, disciplinando nel dettaglio le modalità di coinvolgimento delle associazioni private nelle attività di valorizzazione dei beni culturali. La scelta di demandare a un decreto ministeriale di futura emanazione, anziché ad un decreto legislativo, l’attuazione dei principi della Convenzione, denota, infatti, la totale mancanza di uno spirito riformatore e la chiara volontà di lasciare inalterati assetti normativi costruiti su equilibri ormai consolidati [52].
Un terzo dato certo è che il contributo delle autorità pubbliche deve essere finalizzato a supportare l’iniziativa della comunità, senza spingersi sino al punto di sostituirsi ad essa o, per converso, di estraniarsi dal circuito collaborativo. L’espressione nel quadro dell’azione pubblica che compare all’art. 2, lett. b), sta proprio a significare che le autorità pubbliche devono “affiancare” e sostenere le iniziative virtuose di promozione della cultura provenienti dalla collettività. I criteri di autovalutazione del Faro Convention Network sono tuttavia, sul punto, piuttosto lacunosi, non specificando né le iniziative che debbano essere intraprese per avviare un percorso di collaborazione, né le modalità con cui delineare obiettivi comuni da perseguire. Anche in questo caso, occorrerà colmare la lacuna normativa, tenendo presente che la rigenerazione territoriale guidata, o anche solo ispirata, da movimenti culturali, è necessariamente plurisoggettiva, e perciò richiede, sul fronte giuridico, strumenti di natura partenariale [53].
Infine, è possibile affermare che Convenzione di Faro non si sovrappone ma si affianca alla normativa interna, poiché persegue la finalità di sostenere le iniziative di tutela e di valorizzazione di quei beni del patrimonio culturale, spesso in stato di abbandono o danneggiati da eventi naturali, che raccontino la storia di un territorio e di una comunità [54].
Qui valga un’ulteriore riflessione. Se è vero che le operazioni di rigenerazione territoriale riguardano prevalentemente la valorizzazione del patrimonio immobiliare, è altrettanto vero che se questa ne rimane la sola spinta e gli elementi culturali ne divengono, perciò, un mero orpello, i rischi dell’insuccesso aumentano in misura esponenziale [55]. Infatti, “la rigenerazione territoriale a driver culturale diviene tale se capovolge la matrice, spostando sui materiali intangibili il focus dell’intervento, i criteri per la selezione dei momenti e dei deuteragonisti partecipativi, i presupposti delle scelte, e operando sugli immobili, sulle infrastrutture, e sulle cose in generale, in termini consequenziali, successivi, derivati, ma innescando anche - e forse soprattutto - attività, impegni, laboriosità, fervore” [56].
Nella prospettiva dell’immateriale sembra andare, del resto, il “diritto al patrimonio culturale”, riconosciuto dalla Convenzione, che avrà ad oggetto non cose materiali su cui appuntare pretese, quanto domanda di prestazioni e di servizi, riguardando percezioni, fruizioni, contatti, esperienze, saperi e conoscenze [57].
Tutto ciò consente di concludere che, pur trovando uno spazio di immediata applicazione ai beni materiali, la finalità ultima della Convenzione sia da ricercare nella valorizzazione dell’immateriale culturale, ponendo, al contempo, le condizioni giuridiche per una considerazione unitaria del patrimonio culturale, costruita sull’intima connessione tra l’uomo e la sua storia.
Note
[*] Ringrazio sinceramente la Dott.ssa Eleonora Giovene di Girasole, Ricercatore in Urbanistica e Politiche per il territorio presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IRISS), per i preziosi suggerimenti ricevuti durante la ricerca. Ringrazio altresì, per i numerosi spunti e suggerimenti ricevuti, la Direzione della Rivista e i revisori anonimi. Rimango, naturalmente, l’unica responsabile per eventuali errori ed omissioni.
[**] Viviana Di Capua, ricercatrice in Istituzioni di diritto pubblico, Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, Via Leopoldo Rodinò, 22, Napoli, viviana.dicapua@unina.it
[1] Sul tema, G. Pastori, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia: situazione in atto e tendenze, in Aedon, 2004, 3; G. Severini, Il patrimonio culturale e il concorso dei privati alla sua valorizzazione, in Riv. giur. ed., 2015, 6, pag. 323 ss.; C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle “difficili sussidiarietà”, in Aedon, 2001, 3.
[2] Sull’importanza della valorizzazione per garantire la conoscenza e la sopravvivenza dei beni culturali, soprattutto immateriali, M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, 2a ed., 2008, pag. 174; S. Fantini, Beni culturali e valorizzazione della componente immateriale, in Aedon, 2014, 1; M. Dugato, Strumenti giuridici per la valorizzazione dei beni culturali immateriali, ivi.
[3] Per una puntuale disamina, anche storica, della tematica della valorizzazione economica dei beni culturali, si rinvia a G. Sciullo, I beni culturali quali risorsa collettiva da tutelare - una spesa, un investimento, in Aedon, 2017, 3; M.C. Cavallaro, I beni culturali tra tutela e valorizzazione economica, in Aedon, 2018, 3; G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, in L’immateriale economico nei beni culturali, (a cura di) G. Morbidelli, A. Bartolini, Torino, 2016, pag. 9 ss.
Per un’analisi delle questioni specifiche della compatibilità con le esigenze di tutela, si vedano le considerazioni di M. Cammelli, L’ordinamento dei beni culturali tra continuità e innovazione, in Aedon, 2017, 3.
[4] Definito “principio chiave” dell’ordinamento nazionale da M. Cammelli, Lo sguardo lungo e la difficile attuazione dell’art. 9 Costituzione, in AIPDA, Annuario 2018. Arte, cultura e ricerca scientifica. Costituzione e amministrazione, Atti del convegno annuale, Reggio Calabria, 4-6 ottobre 2018, Napoli, 2019, pag. 3 ss., pag. 3.
[5] A. Iacopino, Modelli e strumenti per la valorizzazione dei beni culturali. Spunti di riflessione nella prospettiva del risultato amministrativo, Napoli, 2017, pag. 136, che approda ad una ricostruzione della valorizzazione quale nozione unitaria di attività pubblica fondata sulla funzionalizzazione al fine di interesse pubblico, superando così le difficoltà di qualificazione delle singole disposizioni codicistiche in termini di funzione, servizio e attività.
[6] M. Dugato, Fruizione e valorizzazione dei beni culturali come servizio pubblico e servizio privato di utilità pubblica, in Aedon, 2007, 2.
[7] G. Piperata, Cultura e sviluppo economico nella riflessione del giurista, in AIPDA, Annuario 2018, cit., pag. 117 ss., pag. 128; G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, cit., pag. 26, per il quale la valorizzazione ha l’effetto di potenziare il valore culturale e di consentire un apprezzamento migliore o un accesso più ampio al bene.
[8] G. Piperata, Cultura e sviluppo economico nella riflessione del giurista, cit., ivi; G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, cit., pag. 19, secondo cui la disciplina codicistica “solo residualmente dà spazio all’idea della valorizzazione economica, per riferirla al territorio circostante, periferico”.
[9] A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, Bari-Roma, 2019, pag. 9.
[10] G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, cit., pag. 27. Per un’analisi accurata delle diverse dinamiche di interazione tra valorizzazione economica e valorizzazione culturale, S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 7, pag. 673 ss.
[11] W. Santagata, Cultural Districts and Their Role in Developed and Developing Countries, in V. Ginsburg, D. Throsby (eds.), Handbook on the Economics of Art and Culture, Amsterdam, 2006, pag. 1101 ss.
Sul tema dei distretti culturali, più di recente, W. Santagata, La fabbrica della cultura, Bologna, 2007; G.P. Barbetta, M. Cammelli e S. Della Torre (a cura di), Distretti culturali: dalla teoria alla pratica, Bologna, 2013.
[12] D. Throsby, Cultural Capital, in Journal of Cultural Economics, 1999, vol. 23, issue 1-2, pag. 3 ss., pag. 6.
[13] D. Throsby, Cultural Capital, cit., ivi.
[14] Sul rapporto tra rigenerazione urbana e interventi sui beni culturali, G. Manfredi, Rigenerazione urbana e beni culturali, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, (a cura di) F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, 2017, pag. 279 ss.; C. Vitale, Rigenerare per valorizzare. La rigenerazione urbana “gentile” e la riduzione delle disuguaglianze, in Aedon, 2021, 2.
Sulla tematica, più generale, della rigenerazione urbana la letteratura scientifica giuridica è amplissima; senza alcuna pretesa di esaustività, si rinvia ai contributi di E. Chiti, La rigenerazione di spazi e beni pubblici: una nuova funzione amministrativa?, pag. 15 ss.; F. Di Lascio, Spazi urbani e processi di rigenerazione condivisa, pag. 65 ss., tutti pubblicati nel volume di F. Di Lascio, F. Giglioni (a cura di), La rigenerazione di beni e spazi urbani, cit.; ai contributi di M. Cammelli, Re-cycle: pratiche urbane e innovazione amministrativa per ricomporre le città, pag. 53 ss.; G. Piperata, Rigenerare i beni e gli spazi della città: attori, regole e azioni, pag. 21 ss.; F. Cortese, Riuso e rigenerazione tra Stato, Regioni e autonomie locali, pag. 41 ss.; T. Bonetti, La rigenerazione urbana nell’ordinamento giuridico italiano: profili ricostruttivi e questioni aperte, pag. 63 ss.; G. Pagliari, Ripensare lo strumento pianificatorio: dal modello del «controllo» a quello della «coerenza», pag. 79 ss., tutti pubblicati nel volume di E. Fontanari, G. Piperata (a cura di), Agenda RE_CYCLE. Proposte per reinventare la città, Bologna, 2017; al lavoro monografico di A. Giusti, La rigenerazione urbana. Temi, questioni e approcci nell’urbanistica di nuova generazione, Napoli, 2018; nonché ai lavori di L. Ferrara, Programmazione economica e pianificazione territoriale. Brevi riflessioni sulla rigenerazione urbana a partire dagli scritti di G. Abbamonte, in Scritti in memoria di Giuseppe Abbamonte, (a cura di) G. Leone, Tomo II, Napoli, 2019, pag. 611 ss.; G.F. Cartei, Rigenerazione urbana e governo del territorio, in Ist. Fed., 2017, 3, pag. 603 ss.; R. Dipace, La rigenerazione urbana tra programmazione e pianificazione, in Riv. giur. ed., /2014, 5, pag. 237 ss.
[15] R. Dipace, La rigenerazione urbana tra programmazione e pianificazione, cit., pag. 245, cui si rinvia anche per la perimetrazione della nozione di degrado.
[16] Il PNRR prevede lo stanziamento di 6,68 miliardi di euro per il settore “Turismo e Cultura”. Più nello specifico e per quanto d’interesse in questa sede, l’investimento per l’“Attrattività dei borghi” ammonta a 1,02 miliardi di euro e i relativi interventi saranno attuati attraverso il “Piano Nazionale Borghi”, un programma di sostegno allo sviluppo economico/sociale delle zone svantaggiate basato sulla rigenerazione culturale dei piccoli centri e sul rilancio turistico. Si prevederanno, innanzitutto, interventi volti: al recupero del patrimonio storico, alla riqualificazione degli spazi pubblici aperti, alla creazione di piccoli servizi culturali anche a fini turistici. In secondo luogo, sarà favorita la creazione e promozione di nuovi itinerari e visite guidate. Infine, saranno introdotti sostegni finanziari per le attività culturali, creative, turistiche, commerciali, agroalimentari e artigianali, volti a rilanciare le economie locali valorizzando i prodotti, i saperi e le tecniche del territorio (cfr. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, pag. 108 ss., disponibile al sito web: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR_0.pdf).
[17] M. Cammelli, La ratifica della convenzione di Faro: un cammino da avviare, in Aedon, 2020, 3.
Rileva l’atteggiamento reticente del legislatore nazionale nel ratificare la Convenzione, P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, in P.A. Persona e Amministrazione, 2019, 2, pag. 245 ss., pag. 255.
[18] M. Montella, La Convenzione di Faro e la tradizione culturale italiana, in P. Feliciati (a cura di), La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia. Atti del convegno di studi in occasione del 5° anno della rivista (Macerata, 5-6 novembre 2015), in Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, Supplementi 05/2016, pag. 13 ss., pagg. 14-15; L. Pavan-Woolfe, L’azione del Consiglio d’Europa in materia culturale dal 1954 alla Convenzione di Faro, in Il valore del patrimonio culturale per la società e le comunità, (a cura di) L. Pavan-Woolfe, S. Pinton, Padova, 2019, pag. 35 ss., spec. pag. 50; S. Pinton, La Convenzione di Faro: alcuni profili di diritto internazionale, ivi, pag. 73 ss., pag. 75 ss.; A. D’Alessandro, La Convenzione di Faro e il nuovo Action Plan del Consiglio d’Europa per la promozione dei processi partecipativi. I casi di Marsiglia e Venezia, in Citizens of Europe. Culture e diritti, (a cura di) L. Zagato, M. Vecco, Venezia, 2015, pag. 77 ss., pag. 78; R. Spagnuolo Vigorita, Il patrimonio culturale nelle disposizioni del codice dei contratti pubblici e nel codice del Terzo settore, in Munus, 2018, 1, pag. 405 ss., pag. 405-406.
Per una ricostruzione delle tappe del processo di democratizzazione del patrimonio storico e artistico nazionale, che ha portato alla riscrittura della disciplina del settore alla luce dei nuovi valori costituzionali, L. Casini, Beni culturali, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. I, Milano, 2006, pag. 679 ss., ad vocem.
[19] G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro «sul valore del patrimonio culturale per la società»: politically correct vs. tutela dei beni culturali?, in Federalismi.it, 2021, 8, pag. 224 ss.; P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in Federalismi.it, 2017, 4, pag. 1 ss.; A. Gualdani, L’Italia ratifica la convenzione di Faro: quale incidenza nel diritto del patrimonio culturale italiano?, in Aedon, 2020, 3; C. Carmosino, La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, ivi, 2013, 1.
[20] P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), cit., pag. 22.
Per una disamina della nozione di patrimonio culturale nell’ordinamento interno, A. Bartolini, Beni culturali (diritto amministrativo), in Enc. Dir., Ann., vol. VI, Milano, 2013, pag. 93 ss., ad vocem; A.L. Tarasco, Patrimonio culturale. Il patrimonio culturale nel 21° secolo, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti - X Appendice, vol. II, Roma, 2020, pag. 297 ss., ad vocem; Id., Il patrimonio culturale. Concetto problemi confini, Napoli, 2019; G. Sciullo, Patrimonio e beni, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, 2a ed., Bologna, 2020, pag. 37 ss.
[21] Secondo D. Throsby, The Economics of Cultural Policy, Cambridge, 2010, pag. 106, “as its dictionary definition indicates, heritage is something inherited from the past. Attaching the adjective ‘cultural’ defines its scope more precisely, relating it to inherited things that have some cultural significance, where the term ‘cultural’ is used both in its broad anthropological and in its more specific artistic interpretation”.
Per una puntuale disamina del significato di Cultural Heritage nei documenti internazionali, si rinvia a J. Blake, On Defining the Cultural Heritage, in Int. Comp. Law Quart., 2000, vol. 49, n. 1, pag. 61 ss., pag. 69 ss.
[22] Come rilevato da autorevole dottrina: R. Cavallo Perin, Il diritto al bene culturale, in Dir. amm., 2016, 4, pag. 495 ss., pag. 505 (sub nota 44).
[23] Sull’imprescindibilità della conoscenza della storia del patrimonio culturale, oltre che dell’educazione alla sua tutela, per poter affrontare le complesse problematiche legate al patrimonio culturale, L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, 2016, pag. 17.
[24] L’origine etimologica della parola comunità (e di comune) deriva dal latino cum e munus, che indica propriamente chi svolge un medesimo ufficio, ovvero, in senso lato significa svolgere un compito insieme (G. Arena, Introduzione, in Rapporto Labsus 2015. Sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, pag. 8).
[25] O.n.u., Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, Parigi, 10 dicembre 1948 (art. 27); così, R. Cavallo Perin, Il diritto al bene culturale, cit., pag. 504.
[26] L’originale inglese di risorse comuni è Common-Pool Resources (CPRs o Commons). U. Pomarici, Beni comuni, in Id. (a cura di), Atlante di Filosofia del diritto, vol. I, Torino, 2012, pag. 1 ss., pag. 3, che osserva quanto «un ‘alfabeto’ dei beni comuni [appaia] [...] necessario, ma ancora tutto da costruire».
Il punto di avvio del dibattito contemporaneo sull’argomento viene, tradizionalmente, fatto risalire all’articolo di G. Hardin, The Tragedy of the Commons. The population problem has no technical solution; it requires a fundamental extension in morality, in Science, 13 December 1968, vol. 162, pag. 1243 ss., criticato, in seguito, dalla politologa e premio Nobel per l’economia nel 2009 Elinor Ostrom nella sua opera più celebre Governing the Commons. The Evolution of Institution for Collective Action, Cambridge, 1990.
Per una sintesi efficace del dibattito contemporaneo sulle risorse comuni, G. Bravo, Dai pascoli a internet. La teoria delle risorse comuni, in Stato e mercato, 2001, 3, pag. 487 ss.
La ricostruzione esauriente del dibattito nazionale sui beni comuni non rientra fra gli obiettivi di questo contributo. Ci si limita, dunque, a richiamare soltanto alcuni scritti recenti e significativi, per evidenziare la pluralità di opinioni espresse: A. Lucarelli, Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in Quale stato, 2007, pag. 87 ss.; Id., La democrazia dei beni comuni, Roma-Bari, 2013; Id., Beni comuni, in Dig. Disc. Pubbl., Agg., Milano, 2021, pag. 21 ss.; S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, 3a ed., Bologna, 2013; Id., Il diritto di avere diritti, 2a ed., 2015; Id., Il valore dei beni comuni, in La Repubblica, 5 gennaio 2012; U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2011; S. Staiano, «Beni comuni». Categoria ideologicamente estenuata, in Dir. e soc., n. 2016, 3, pag. 415 ss., pag. 416; V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, in Pol. dir., 2014, 1, pag. 3 ss.; G. Arena, C. Iaione (a cura di), L’Italia dei beni comuni, Bari, 2012; G. Arena, I custodi della bellezza. Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e le istituzioni, Milano, 2020; S. Staiano (a cura di), Acqua. Bene pubblico. Risorsa non riproducibile. Fattore di sviluppo, Napoli, 2017; E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Roma-Bari, 2013; R. Briganti, Dimensione costituzionale dei beni comuni tra principi, regole e prassi, in Nomos, 2019, 2; Id., Il diritto all’acqua, Napoli, 2012.
[27] M. Bombardelli, La cura dei beni comuni come via di uscita dalla crisi, in Id. (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi. Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, Trento, 2016, pag. 1 ss., pag. 4; F. Cortese, Che cosa sono i beni comuni?, ivi, pag. 37 ss.
Il legame tra beni comuni e diritti fondamentali ha trovato, peraltro, pieno riconoscimento anche nella giurisprudenza della Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Corte Cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665, sulla quale si veda il commento di F. Cortese, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici?, in Giorn. dir. amm., 2011, 11, che, tuttavia, rileva nella pronuncia una serie di contraddizioni) e in quella della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cedu, sez. II, 23 settembre 2014, Valle Pierimpiè Società Agricola s.p.a. c. Italia, sulla quale si vedano i commenti di M. Greco, Valli da pesca, demanialità marittima ed “espérance légitime” del privato nella giurisprudenza CEDU, in Danno e resp., 2015, 2, pag. 134 ss.).
[28] La letteratura scientifica giuridico-economica internazionale che si è occupata della tematica risale a D. Throsby, Cultural Capital, cit., pag. 3 ss.; C. Hess, Mapping the New Commons, paper presented at “Governing Shared Resources: Connecting Local Experience to Global Challenges”, the 12th Biennial Conference of the International Association for the Study of the Commons, University of Gloucestershire, Cheltenham, England, July 14-18, 2008; M.J. Madison, B.M. Frischmann and K.J. Strandburg, Constructing Commons in the Cultural Environment, in Cornell Law Review, 2010, vol. 95, pag. 657 ss. Più di recente, hanno contribuito allo sviluppo dell’argomento i saggi pubblicati nel volume di E. Bertacchini, G. Bravo, M. Marrelli, W. Santagata (eds.), Cultural Commons. A New Perspective on the Production and Evolution of Cultures, Cheltenham (UK)-Northampton (MA), 2012.
[29] E. Bertacchini, G. Bravo, M. Marrelli, W. Santagata, Defining cultural commons, in E. Bertacchini, G. Bravo, M. Marrelli, W. Santagata (eds.), Cultural Commons, cit., pag. 3, secondo cui “symbols, styles, knowledge, beliefs, rites, customs and techniques all contribute to making different tangible and intangible forms of culture that can be understood as intellectual resources shared, produced and expressed by the members of a community”.
[30] E. Bertacchini, G. Bravo, M. Marrelli, W. Santagata, Defining cultural commons, cit., pag. 5, secondo cui “a cultural tradition, music, or a poem can be consumed, played and listened to without any limit” (pag. 6).
[31] E. Bertacchini, G. Bravo, M. Marrelli, W. Santagata, Defining cultural commons, cit., pag. 6.
[32] A. Bartolini, L’immaterialità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1.
[33] E. Bertacchini, G. Bravo, M. Marrelli, W. Santagata, Defining cultural commons, cit., pag. 6 e 11.
[34] E. Bertacchini, G. Bravo, M. Marrelli, W. Santagata, op ult. cit., pag. 17.
[35] Per una compiuta analisi dei quali si rinvia a L. Pavan-Woolfe, L’azione del Consiglio d’Europa in materia culturale dal 1954 alla Convenzione di Faro, cit., pag. 57 ss.
[36] Per entrare a far parte del Faro Convention Network, la comunità di eredità deve inviare una breve nota esplicativa del rapporto tra l’iniziativa promossa e la Convenzione di Faro al Segretariato del Consiglio d’Europa, che risponderà entro tre settimane dal ricevimento. Ogni comunità di eredità deve condurre un’autovalutazione rispondendo a 12 domande e inviare l’esito della valutazione, che riceverà un feedback entro 4-6 settimane con raccomandazioni utili al piano d’azione. Dopo aver ricevuto il feedback, la comunità dovrebbe fornire al Segretariato una lettera che includa un piano d’azione con l’assunzione di un impegno espresso a partecipare attivamente al Faro Convention Network. Al ricevimento della lettera d’impegno, il CV dell’iniziativa verrà incluso nel sito web del Consiglio d’Europa come membro attivo (https://www.coe.int/en/web/culture-and-heritage/faro-process).
[37] E cioè: “connection to a community and territory determines a sense of belonging; social cohesion is founded on various levels of cooperation and commitment; democracy is practised by engagement of civil society in dialogue and action, through shared responsibilities based on capacities” (https://www.coe.int/en/web/culture-and-heritage/fcn-principles-and-criteria).
[38] Cfr. The Faro Convention Action Plan Handbook 2018-2019, spec. pag. 12.
[39] E sono i seguenti: “Who? Presence of an active civil society (heritage community) that has a common interest in a specific heritage; presence of people who can convey the message (facilitators); engaged and supportive political players in the public sector (local, regional, national institutes and authorities); engaged and supportive stakeholders in the private sector (businesses, non-profit entities, academia, CSOs, NGOs, etc.). How? Consensus on an expanded common vision of heritage; willingness of all stakeholders to cooperate (local authorities and civil society); a defined common interest of a heritage-led action; commitment and capacity for resource mobilisation. What? Readiness of the group to engage in the process of developing diverse narratives based on the people and places; aspirations towards a more democratic socio-economic model; commitment to human rights principles in local development processes (respect for dignity and multiple identities); improved democratic participation and social inclusion of all inhabitants” (https://www.coe.int/en/web/culture-and-heritage/fcn-principles-and-criteria).
[40] Il nome è ispirato ai più noti Friends of High Line di New York, attori del recupero della ferrovia dismessa, oggi trasformata in parco pubblico.
[41] Lo studio è stato condotto da M. Clemente, E. Giovene di Girasole, Gli Amici del Molo San Vincenzo: una comunità patrimoniale per il recupero del molo borbonico nel porto di Napoli, in Il valore del patrimonio culturale per la società e le comunità, cit., pag. 137 ss., pag. 179 ss.; E. Giovene di Girasole, M. Clemente, Processi per la valorizzazione collaborativa dei cultural commons nel Porto di Napoli, in I bacini culturali e la progettazione sociale orientate all’heritage-making, tra politiche giovanili, innovazione sociale, diversità culturali. Il framework del Progetto ABACUS - Attivazione dei Bacini Culturali Siciliani, alla luce della Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa sul valore del Patrimonio culturale per la società, (a cura di) F.R. Cerami, M.L. Scaduto, A. De Tommasi Sesto Fiorentino (FI), 2020, pag. 213 ss.
[42] M. Clemente, E. Giovene di Girasole, Gli Amici del Molo San Vincenzo, cit., pag. 186 ss.
[43] M. Clemente, E. Giovene di Girasole, op. ult. cit., pag. 190.
[44] M. Clemente, E. Giovene di Girasole, op. ult. cit., ivi.
[45] Piccolo Comune di appena 450 abitanti situato tra le montagne dell’Abbruzzo a 30 km di distanza da L’Aquila.
[46] M. Polvani, S. Ciancone, Uno “Statuto dei Luoghi” per Fontecchio. Esperimento di democrazia deliberativa in un Comune terremotato dell’Abbruzzo, in Amministrazioneincamminoluiss.it, 12 maggio 2011, pag. 6 ss.
[47] S. Ciancone, Fontecchio: pensare al patrimonio culturale dopo i disastri naturali, in Il valore del patrimonio culturale per la società e le comunità, cit., pag. 153 ss., pag. 155-156.
[48] La cui denominazione è ispirata alle antiche botteghe, collocate al di sotto del piano abitativo.
[49] La funzione di coesione socio-economica degli istituti di rigenerazione è rilevata e sapientemente argomentata da L. Ferrara, Programmazione economica e pianificazione territoriale, cit., pag. 632, cui si rinvia anche per la ricostruzione del dibattito sull’argomento.
[50] Sulla mancanza di un coordinamento tra le discipline, L. Ferrara, Programmazione economica e pianificazione territoriale, cit., pag. 633; Id., Art. 189, in Codice dei contratti pubblici commentato, (a cura di) L.R. Perfetti, Padova, 2017, pag. 1529 ss., pag. 1535.
[51] Tra le pronunce più significative in tema di responsabilità per danno erariale derivante dall’affidamento di beni urbani secondo i regolamenti comunali sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, cfr. Corte dei conti, sezione Lombardia, 19 gennaio 2017, n. 4; Corte dei conti, sezione Lazio, 18 aprile 2017, n. 77; Corte dei conti, sezione delle autonomie, 24 novembre 2017, n. 26, tutte reperibili all’indirizzo web https://www.labsus.org/category/diritto/giurisprudenza/.
Giova, peraltro, ricordare che sono attualmente pendenti dinnanzi alla Corte dei conti due inchieste per incauto affidamento derivanti dalla decisione del Comune di Napoli di affidare in concessione alcuni beni destinati alla fruizione collettiva - tra cui l’ex Asilo Filangieri del complesso di San Gregorio Armeno - ad alcune associazioni private senza indire una previa gara pubblica né richiedere il versamento di un canone concessorio (cfr. F. Postiglione, Dall’ex Asilo Filangieri all’Opg, doppia inchiesta sui beni comuni. Indagine sugli affidamenti del Comune di Napoli ad associazioni e centri sociali, in Corriere del Mezzogiorno, 17 settembre 2018).
[52] Cfr. art. 3, comma 1, della legge di ratifica (l. n. 133/2020).
[53] P. Forte, Istituzioni culturali e rigenerazione territoriale, in Scritti in onore di Franco Pizzetti, (a cura di) C. Bertolini, T. Cerruti, M. Orofino, A. Poggi, vol. I, Napoli-Torino, 2020, pag. 411 ss., pag. 414, secondo cui, poiché “la rigenerazione [...] è una funzione che riguarda un territorio, che sia una porzione circoscritta di un centro urbano, una città media o piccola, o un’area vasta ma poco urbanizzata”, è più corretto impiegare la dizione “rigenerazione territoriale” in luogo dell’usuale aggettivo “urbana”(pag. 427 e 429).
[54] Sulla necessità di realizzare un congiungimento tra arte e natura che, sovente, trova strenua resistenza nella destinazione produttiva o abitativa del territorio stabilita dal governo locale, S. Cassese, Il futuro della disciplina dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2012, 7, pag. 781 ss., pag. 782.
Tra le recenti iniziative, si segnala la costituzione della Faro Trasimeno, un’associazione senza scopo di lucro di promozione sociale, nata il 15 luglio 2020 con l’obiettivo di riunire un gruppo di cittadini provenienti da diversi comuni situati nell’area del Trasimeno e della Val Nestore per promuovere la Convenzione di Faro e favorirne l’attuazione. Il progetto che l’associazione intende promuovere si fonda sull’idea del bene culturale come risorsa comune, riconoscendo un ruolo prioritario alle persone e alle comunità del territorio, attraverso un coinvolgimento diretto nelle attività di recupero e valorizzazione dell’eredità culturale in cui si identificano. La comunità si concentrerà sul recupero, in futuro, di due importanti complessi culturali ora in evidente stato di abbandono: la ex pomodoraia, patrimonio storico e architettonico di Castiglione del Lago, la Villa Zenobi e il giardino Porcinai, destinato alla coltivazione dei tulipani, una tradizione quasi dimenticata. I dettagli delle iniziative sono disponibili al sito web https://farotrasimeno.org/.
[55] P. Forte, Istituzioni culturali e rigenerazione territoriale, cit., pag. 423.
[56] P. Forte, Istituzioni culturali e rigenerazione territoriale, cit., pagg. 423-424 (corsivo nostro).
[57] Ancora P. Forte, Istituzioni culturali e rigenerazione territoriale, cit., pag. 426.