Intorno ai beni comuni
Note in tema di beni comuni
Notes about Common Goods
Dealing with the commons is a fashionable subjects in nowadays Italian legal literature; the article is a critical review of this trend. It point out that an analysis of the nature of the specific common involved is logically preliminary to the choice of the legal attribution. It point out further that the present legal categories of public resources law has lost its meaning; the idea of common resources is thus promising in order to provide a new foundation of open access to a common pool of assets both material and immaterial. The relevant field of discussion is of course Intellectual Property. In the last centuries academic investigations have paved the way to a incredible increase of public knowledge; this common pool of ideas is now under the way of a new kind of enclosures. The conception of commons can provide a promising doctrine to challenge the privatization of common knowledge.
La tematica dei beni comuni così come esposta e presentata in due recenti volumi - quello curato da Maria Rosaria Marella [1] e il libro-manifesto di Ugo Mattei [2] - sembra svolgersi su due direttrici.
La prima considera le situazioni che richiamano la tematica del comune da un punto di vista oggettivo ed infatti elenca, ma il termine elenco qui è abusivo, un certo insieme di beni quali: l'aria, le acque dolci, il paesaggio, l'ambiente, le conoscenze scientifiche, il linguaggio umano, i linguaggi macchina.
La seconda assume un profilo soggettivo e si rivolge a pratiche comunitarie le quali si svolgono: nello spazio urbano, nello spazio della democrazia, o nello spazio del lavoro ed in quello alla salute e linguisticamente si sintetizzano in modo accattivante nelle dizioni: la città bene comune, la democrazia bene comune, il lavoro bene comune, la salute bene comune. Ciò che dovrebbe connettere queste pratiche comunitarie che si collocano in ambiti disparati, connotati spazialmente, politicamente, o finalisticamente è la freccia vettoriale della solidarietà e dell'eguaglianza il cui perseguimento sembra esigere una destrutturazione forte delle forme di organizzazione attuali nelle quali si riconosce il rischio di produrre esiti inegualitarii ed escludenti.
Il problema al riguardo non è quello della evidente eterogeneità dei referenti, quanto quello della presenza di elementi di divergenza tra i due poli del discorso. Il primo elemento di divergenza si coglie mettendo in rilevo che il discorso sui beni comuni del primo tipo è sensato a condizione di poter evitare il prodursi della tragedy of the commons [3], ma come è indicato negli studi della Ostrom [4], e come del resto è ovvio [5], riguardo a beni ad uso rivale, si può uscire dalla tragedy of the commons solo mediante le istituzioni di una comunità organizzata. Pertanto la destrutturazione delle istituzioni comunitarie per tema che esse veicolino forti ineguaglianze, che è il leit-motiv della seconda parte del discorso sui beni comuni, conduce a ricadere nella tragedia dei comuni e ciò rischia privare di serietà la prima.
Vi è anche da osservare che le prassi di gestione partecipata che si muovano nella direzione della eguaglianza e della solidarietà universali non riescono ad inglobare le obbligazioni delle persone presenti verso le generazioni future e così contraddicono il nucleo valoriale forte della teoria dei beni comuni del primo tipo. In una comunità partecipata in senso egualitario, ma istituzionalmente destrutturata quanto ai limiti del potere sui beni, la preservazione degli interessi dei soggetti venturi è affidata infatti ai vincoli morali sentiti dai presenti, anziché alle regole che costoro si impongono attraverso le istituzioni. L'idea di surrogare il sistema di incentivi e disincentivi creato da un ordinamento giuridico con vincoli morali addotti dalla (ri)educazione, corrisponde ad una idea molto ricorrente nella storia, specie quella delle idee religiose, idea che però speravamo sinceramente di esserci lasciata alle spalle dopo i disastri che ha causato nel XX secolo.
Perciò in questa sede limiterò le mie povere osservazioni al discorso sui beni comuni che segue la prima direttrice.
Al riguardo osservo come nell'elenco dei beni potenzialmente comuni redatto da Maria Rosaria Marella nel volume da lei curato si collochino beni corporali e beni incorporali. Le acque interne sono indubbiamente corporali e rispetto all'ambiente si fa molta fatica a seguire l'indicazione della nostra Corte costituzionale [6] che lo ha definito un bene immateriale; del resto è ormai imposto dal lessico giuridico europeo il riferirsi all'ambiente come ad una somma di risorse ambientali misurabili e quindi dotate di una robusta fisicità [7]. Indubbiamente incorporali sono invece beni come le conoscenze scientifiche ed i saperi tradizionali ed i linguaggi.
Ci si può chiedere quindi quali tratti uniformi possano presentare beni così disparati per poter essere collocati nella stessa categoria dei beni comuni. Temo che si sceglie la strada di dissolvere la nozione tradizionale di bene come sintesi delle vecchie categoria delle res corporales ed incorporales, per seguire invece la prospettiva in cui la parola bene indica solo risorse che siano l'epicentro di relazioni sociali si ricade nel solito dilemma tra individualismo e solidarietà comunitaria senza aver la possibilità di dire alcunché di nuovo rispetto ciò che è stato detto nei secoli XVIII e XIX. Si può anche rileggere Pierre-Joseph Proudhon, ma ripeterlo o parafrasarlo mi sembra futile, almeno se a ciò si aggancia la pretesa di essere ascoltati.
Piuttosto si possono mettere in luce i caratteri ontologici di certi tipi di beni per individuarne il regime di appartenenza più appropriato. Infatti parliamo di beni e quindi anche di beni comuni perché si assume che i beni non sono ontologicamente tutti eguali tra loro. Il principio di differenziazione precede ogni discorso sui beni.
Né mi parrebbe sensato sostenere che non esistono criteri naturalistici di differenziazione e che ogni differenziazione dipende da scelte politiche circa le relazioni sociali che vogliamo istituire sui beni [8]. Ciò infatti significherebbe negare ogni rilevanza alla esperienza storica [9], la quale invita a riflettere sul dato di fatto per cui i fiumi non sono mai stato considerati beni eguali agli alberi né le abitazioni eguali alle taverne e che - se mi si permette lo scherzo - i prodotti della cultura sono stati sempre accuratamente differenziati da quelli dell'agricoltura. Il che esime dall'ulteriore osservazione per cui non sembra lecito utilizzare un approccio al tema dei beni che prescinda dalla distinzione tra beni ad uso rivale e beni ad uso non rivale; distinzione che costituisce l'unico sicuro apporto arrecato dalla scienza economica allo studio delle situazioni di appartenenza [10].
Ancora peggiore mi pare poi la ipotesi di abbandonare la dicotomia soggetto oggetto in modo da rendere più libero il discorso. Francamente qui mi pare si trascuri anche ciò che non è lecito trascurare, oltre la storia si sorvola anche sulla struttura profonda dei linguaggi umani, si ignorano i risultati conoscitivi addotti da non poche scienze dell'uomo che ci indicano come la coscienza di sé e la coscienza della permanenza degli oggetti sono datità imprescindibili per l'analisi delle caratteristiche proprie della mente umana.
In realtà una ontologia dei beni è propedeutica ad una analisi dei beni comuni. Categoria alla quale si deve riconoscere il merito di avanzare ragioni per preservare situazioni di appartenenza alla collettività che le categoria tradizionale dei beni pubblici non è più in grado di offrire. Opportunamente, dunque, il libro curato da Maria Rosaria è intitolato "Oltre il pubblico ed il privato", con i beni comuni relegati nel sottotitolo.
La ragione di ciò mi pare possa essere individuata nel dato storico per cui al tempo presente la nozione di beni pubblici nelle sua varie sottocategorie di beni patrimoniali, patrimoniali disponibili ed indisponibili, sembra aver smarrito la possibilità di dotarsi di un fondamento razionale e tale smarrimento è avvenuto nel periodo storico in cui la appartenenza individuale, grazie alle teorizzazioni di Garret Harding, Herold Demsetz, Hernando De Soto e tanti altri, rivendicava orgogliosamente la primazia della razionalità in ambito globale.
L'ondata delle privatizzazioni del patrimonio pubblico visto come insieme improduttivo che è stata una caratteristica degli ultimi lustri, si spiega anche in riferimento alla diversa robustezza teorica degli argomenti con cui sono state sostenute le tesi favorevoli alle appartenenze individuali rispetto a quelli che dovevano sorreggere la preferibilità delle forme di appartenenza non individuale. In questo senso il movimento di idee a favore dei beni comuni, pur con le pecche e le lacune teoriche tipiche di tutti i movimenti di idee allo stato nascente, sembra invertire una tendenza che dura da parecchi anni.
Sotto questo profilo mi pare che in relazione ai beni comuni il tema cruciale non sia tanto il patrimonio pubblico, anche perché si tratta di tema che necessariamente si incrocia con quello del debito pubblico, ma sia collegato al tema dell'ambiente ed a quello della conoscenza.
Non vi è bisogno di grandi sforzi dimostrativi per rilevare come le risorse ambientali sono più appropriatamente classificate come beni comuni, piuttosto che come beni pubblici (che possano essere beni individuali, mi pare escluso a priori, perché connotare una risorsa come ambientalmente rilevante significa metterne in rilievo gli effetti esterni rispetto alla proprietà individuale) piuttosto occorre chiarire in modo esauriente il rapporto risorsa ambientale - bene ambiente. In simile direzione tuttavia non si incontra una tematica relativa alle situazioni di appartenenza, quanto piuttosto una tematica relativa alle connessioni naturalistiche tra beni che debbono trovare un riflesso nella conformazione delle situazioni di appartenenza che l'ordinamento assegna su ciascuno di essi. Si tratta quindi di un tipo di analisi che, al di là del troppo facile inizio, trascende il discorso relativo ai modelli di assegnazione delle situazioni di appartenenza, ovvero il tipo di discorso in cui si svolge la tematica dei beni.
Vi è invece bisogno di un approfondimento basilare per quanto riguarda la conoscenza e la Intellectual Property (IP) in generale.
I beni che vengono ascritti alla incerta categoria della IP non presentano caratteristiche ontologiche che consentano una scelta univoca della forma di appartenenza appropriata.
Al riguardo mi limito ad osservare che nei decenni che ci stanno immediatamente alle spalle si è assistito a livello di diritto positivo ad un dilagare inarrestabile del modello proprietario. Fonti molteplici, ma soprattutto fonti internazionali ed europee, nonché autodisciplinari, hanno esteso il beneficio della esclusività al design, alla creazione pubblicitaria, alle banche dati, ai format. Parallelamente vi è stata una espansione delle tutele della IP, specie sotto il profilo del prolungamento della durata della esclusività, ma anche mediante una dilatazione della efficacia monopolistica dei marchi celebri.
Da anni il dibattito ruota attorno a tre argomenti che sono stati esposti, senza successo, per contrastare il dilagare del modello proprietario. Il primo si basa sul carattere non rivale del godimento degli oggetti della IP (argomento giuridico-economico, il jus excludendi non è correlato al godimento del bene); il secondo, si fonda sull'osservazione che un prodotto della IP incorpora una grande porzione di lavoro comune (argomento etico lockiano, rivolto in senso inverso); il terzo si fonda sull'asserzione che sistemi aperti consentono un continuo processo di adattamento, sviluppo e miglioramento, contribuendo così ad un sapere diffuso e generale, mentre il modello proprietario comporta rischi di impoverimento tecnico e di colonizzazione culturale (argomento utilitarista).
A dire il vero mi sembra che questo sforzo argomentativo non sia riuscito a superare sul piano della persuasività quelli contrari che si fondano sulla necessità di assicurare autonomia e libertà agli autori di nuove idee (argomento antico, ma collegabile alla new property di Charles Reich) e, soprattutto di remunerare gli investimenti in attività di studio e di ricerca (argomento economico che aggira il problema del carattere non rivale del bene "arte e conoscenza", sostenendo che sono invece beni rivali quelli che vengono impiegati per produrre arte e conoscenza).
Probabilmente ha nuociuto alla persuasività dei tre argomenti solitamente addotti per propugnare il mantenimento dell'assetto comunitario del mondo delle idee, certe contaminazioni con argomentazioni ingenue e poco attente ai problemi della modernità. Ad esempio: nel movimento open source ed in quello open content, si fa spesso riferimento alla economia o all'etica del dono [11], per modellizzare il quale ci si rifà ad esperienze che vengono rintracciate sempre più a ritroso nella storia: dall'alto medievo al paleolitico superiore. Ciò significa che non si è riflettuto abbastanza perché è profondamente antistorico immaginare di poter trarre dalle società arcaiche modelli promettenti per regolare l'esplosione della creatività e l'enorme ampliamento dei saperi che si è verificato dopo la rivoluzione industriale. In fin dei conti nei 30 mila anni del paleolitico superiore le invenzioni sono state soltanto 4 [12].
Caso mai il punto di riferimento poteva essere the Theory of Moral Sentiments di Adam Smith, che almeno ha almeno tre vantaggi: il poter essere facilmente riconciliata con i dati dell'antropologia evoluzionistica [13]; il non costringere ad condurre un assalto frontale all'utilitarismo dominante, perché lo si può sconfiggere sul suo terreno; il poter essere comprovata da modelli di condotta altruistica attuali e non da quelli del paleolitico.
In ogni caso, riterrei che l'argomento per cui la produzione di nuove conoscenze richiede forti investimenti, ossia il consumo di beni ad uso rivale, e che perciò tali investimenti debbono essere remunerati in modo da bilanciare il rischio di non scoprire alcunché di nuovo, non sia suffragato da dati empirici convincenti, quanto piuttosto da una estesa attività di propaganda. In effetti si può indicare come esempio contrario, il modello della ricerca scientifica accademica. Si tratta di un modello in una certa misura ambiguo, perché formalmente quasi tutti i prodotti delle ricerca accademica sono protetti da copy right. Tuttavia se si adotta una approccio funzionale per giustificare la presenza del copy right, inteso nel suo contenuto economico, come incentivo alla produzione scientifica di marca accademica, ci si avvede subito che l'argomento è poco realistico, anzi si risolve in una pura finzione.
Ben pochi accademici traggono dai diritti di autore una parte in qualche modo significativa del loro reddito [14]. In ambito biomedico, è normale che gli autori, o meglio le strutture in cui operano, partecipino ai costi di edizione. Il reddito è quindi negativo. Tuttavia il numero di pubblicazioni in tale campo è in vertiginosa crescita. In campo biomedico, ma non solo, si è pubblicato più nel XX secolo che in tutti i secoli precedenti.
L'incentivo evidentemente sta altrove. Esso è normalmente collegato con guadagni non monetari, quali essenzialmente: la reputazione scientifica degli autori ed il correlato progresso di rango. In altri termini, la struttura delle università e dei centri di ricerca appare maggiormente correlata sotto il profilo causale al progresso delle conoscenze pubbliche di quanto non sia il copy right.
Ciò potrebbe indicare che non è necessario attendere una palingenesi, quale è quella promessa dal diffondersi della etica del dono, per poter avere una conoscenza scientifica che si espande in base ad un lavoro collettivo e pubblico. In effetti le nuove idee che vengono divulgate attraverso la pubblicazione di articoli ed opere, di tipo scientifico-accademico sono immediatamente immesse in un discorso pubblico universale: sono immediatamente beni comuni. Un istante di riflessione sulla storia delle idee scientifiche nel XIX e XX secolo conduce però a negare recisamente che la comunione delle conoscenze sia stata un ostacolo alla loro produzione. Ogni persona sensata testimonierà l'opposto. Né mi pare il caso di insistere sulla distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata, perché si tratta di distinzione assai rozza, forse utile alla propaganda cui si accennava, ma certo inutilizzabile in sede di seria analisi dell'impresa scientifica.
Certamente può concedersi il verificarsi di situazioni in cui la possibilità di conferire una forma di IP sulle nuove idee costituisce un incentivo razionale che il sistema giuridico deve poter utilizzare, ma la gran parte dei progressi del sapere che si sono verificati negli ultimi due secoli non è dipesa da tale possibilità. La sfera pubblica è ampiamente istituzionalizzata e si possono facilmente conformare le istituzioni in modo che il loro insieme generi un vantaggio collettivo, come ha indicato la scuola del Legal Process.
A me pare che in effetti il terreno di elezione dei beni comuni siano i beni immateriali. Non solo la conoscenza, lato sensu, scientifica merita di rimanere un bene comune, ma anche tutto ciò che si colloca nelle dimensione del simbolico, tenendo presente al riguardo che il campo di applicazione della simbolizzazione non ha limiti e che i suoi prodotto sono a godimento non rivale.
La comunione (positiva) delle scienze e delle arti è oggi sotto attacco e forti sono gli interessi che premono per dare un assetto di proprietà individuale a quello che è stato sino a qui il più vasto campo dei beni comuni e che contrariamente a quanto si rappresenta è in forte espansione.
Mi si consenta infine di evocare, scherzosamente si intende, la mia vecchia passione di storico della strategia militare, per suggerire che la difesa del campo dei beni comuni può essere condotta più efficacemente se si rinuncia a combattere in contemporanea battaglie di retroguardia, già perse in partenza, come quella relativa alla brevettabilità dei farmaci, o a condurre cariche frontali, stile Balaclava, contro ogni forma di istituzione e di ordine giuridico. Per preservare i beni comuni vi è bisogno di istituzioni ben disegnate e di un diritto molto sofisticato e non dei loro opposti.
Note
[1] M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, Ombre Corte, 2012.
[2] U. Mattei, Beni comuni; un manifesto, Bari, Laterza, 2011.
[3] Il riferimento è ovviamente a The Tragedy of the Commons, di Garrett Hardin, in Science, 162(1968), pagg. 1243-1248. In tema cfr. anche il saggio di L. Coccoli e G. Ficarelli, The Tragedy of the Connons. Guida ad una lettura critica, in M.R. Marella, op cit., pag. 61, nonché quello di G. Dallera, La teoria economica oltre la tragedia dei beni comuni, ivi, pag. 88 che riporta la bibliografia essenziale sul tema.
[4] V. E. Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, 1990.
[5] Ricordo spesso la distinzione su cui insistette Pufendorf tra communio positiva e communio negativa. Infatti gli autori della scuola del diritto naturale, tra cui Grozio ed Hobbes, avevano immaginato la primitiva comunione universale come communio negativa, ossia come un universale diritto di accesso alle risorse privo di ulteriori regole. Pufendorf ricorda che nelle fonti giustinianee la communio è positiva ossia è una situazione di comproprietà ben provvista di regole di organizzazione. Nella letteratura attuale la communio positiva di Pufendorf è denominata Common Property Regime ed i suoi oggetti Beni di club, ma il concetto è il medesimo. L'apporto essenziale della Ostrom è consistito nello spostare l'attenzione dalla prospettiva del regime dei beni comuni, come è essenzialmente nella comunione romanistica, ma anche nella tenancy in common, alle strutture di gestione dei beni comuni pervenendo ad una assai migliore articolazione del discorso; ma in tal modo la necessità che la comunità dei fruitori delle risorse comuni si organizzazioni istituzionalmente ne risulta fortemente sottolineata.
[6] V. Corte cost. 30 dicembre 1987 n. 641, in www.cortecostituzionale.it.
[7] Cfr. essenzialmente la Direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004 ed i lavori preparatori ad essa.
[8] In parte questo approccio ricorre tra coloro che partendo dalla nozione di risorsa rilevano come l'abbondanza o la scarsità di risorse dipende anche dalle tecniche di uso e di distribuzione delle risorse e non solo dalla loro naturale abbondanza o scarsità. Il punto di confine tra la indubbia sensatezza di questa osservazione ed il suo svolgersi in direzioni non ragionevoli si travalica nel momento in cui dimenticando che quello evidenziato è un rapporto per cui l'utilità di una risorsa è in funzione vettoriale di tecniche di gestione e di quantità disponibili, si trascura del tutto il codominio della funzione in esame.
[9] A mio avviso infatti non è necessario fondare, o rifondare, una ontologia filosofica. È sufficiente richiamare la possibilità di un approccio ontologico e richiamare la esperienza propria delle scienze giuridiche in riferimento ai modi di pervenire ad una tassonomia dei beni. Nelle esperienze giuridiche infatti si manifesta una sapienza che rimane sempre soggetta al vaglio della critica, ma che merita comunque più attenzione di quanto l'antistoricismo di marca americana consideri.
[10] Sul punto mi permetto di rinviare ad A. Gambaro, I beni, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, P. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 2012.
[11] Cfr. ex multis, F. Brezzi e M.T. Russo, Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011.
[12] In compenso l'uomo di Neanderthal è stato probabilmente sterminato.
[13] La nozione di simpaty su cui ragiona Smith può infatti essere trasposta in termini di tensione tra egoismo genico individuale (ciascuno si ingegna a propagare i propri geni) ed altruismo cooperativo di gruppo (ciascuno protegge il successo genetico del gruppo di cui fa parte). In prospettiva evoluzionistica tale tensione si risolve in una posizione dialettica tra successo individuale e successo del gruppo perché quest'ultimo ha bisogno di altruismo e non di egoismo individuale come dimostra tutta la storia evolutiva degli animali eusociali su cui ha fin troppo insistito Edward Osborne Wilson.
[14] L'eccezione è rappresentata da opere di divulgazione scientifica, o da opere di narrativa. A ben vedere tuttavia nessuna delle due fa parte del genere: opera scientifica, nel senso che non mirano ad accrescere il sapere.