Sommario: 1. Introduzione: le fondazioni nel processo di managerializzazione delle organizzazioni culturali. - 2. Un fenomeno internazionale, con varianti nazionali. - 3. Il caso Italia, ovvero l'insufficienza dei processi di modernizzazione centrale e negli enti locali in logica manageriale. - 4. Eccessi e abusi della retorica manageriale. - 5. Cautele e problemi di implementazione della trasformazione in fondazione. - 6. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione: le fondazioni nel processo di managerializzazione delle organizzazioni culturali
Uno degli elementi che ha accompagnato lo sviluppo del dibattito sull'economia dei beni e delle attività culturali in Italia negli ultimi anni è il processo di trasformazione istituzionale in fondazioni (si pensi a tutto il comparto della lirica, o al caso della Biennale, o al numero crescente di esperienze nel comparto museale) [1], vera e propria forma privilegiata nel processo di managerializzazione delle istituzioni culturali - o, con termine ancora più ambiguo e carico di fraintendimenti, di "aziendalizzazione".
Scopo di questo articolo è approfondire la comprensione di tale processo, sia in termini di pressioni e cause, sia di modalità con cui tende a caratterizzarsi, sia di rischi potenziali impliciti. Una maggiore comprensione di questi aspetti (senza tacere di tensioni e fallimenti, e cercando di individuare alcune possibili cautele da adottare) si dimostra davvero necessaria per ridurre i rischi di un simile processo di trasformazione, che al di là degli aspetti pur importanti di natura istituzionale coinvolge il modo stesso di esistere e sopravvivere di queste organizzazioni.
La prospettiva qui adottata è quella manageriale, di provenienza management studies, seppure in forma critica e modesta in senso epistemologico, non arrogante. L'attenzione è focalizzata sulla logica gestionale, e sugli impatti organizzativi e gestionali dei processi di cambiamento istituzionale. Si ritiene infatti necessario stemperare una certa illusione di managing by law che rischia di caratterizzare il dibattito nel nostro paese, riallacciando specificità nostrane - e fra tutte la tendenziale preferenza accordata alla forma fondazione nei processi di trasformazione istituzionale delle organizzazioni cultuali in qualche modo connesse alla pubblica amministrazione - a processi di più largo respiro, indagandone in modo diretto e articolato gli effetti sulla "gestione" con gli strumenti propri delle conoscenze appunto gestionali.
Più che una riflessione astratta, una simile analisi richiede la veloce rivisitazione di una serie importante di esperienze empiriche e di ricerca sul campo - sia italiana che internazionale, in via qualitativa e senza alcuna velleità di rappresentatività - per verificare la capacità di impatto diretto e fisiologico di una impostazione teorico-metodologica che soggiace a questa tendenza, forse non sempre con livelli di consistenza interna e consapevolezza adeguati.
Dopo aver precisato alcuni caratteri comuni a livello internazionale dei processi di managerializzazione, nel terzo paragrafo si approfondiscono alcune peculiarità italiane e alcuni dei motivi che potrebbero spiegare la "moda" della trasformazione in fondazione. Nel quarto paragrafo si rendono espliciti alcuni possibili errori e rischi di questa tendenza anche in logica manageriale. Nel quinto paragrafo, rivisitando uno studio svolto sul processo di trasformazione in fondazione dei musei civici milanesi si individuano alcuni suggerimenti per un approccio "moderato" e cauto a questo processo di trasformazione, per chiudere infine con alcune osservazioni conclusive.
2. Un fenomeno internazionale, con varianti nazionali
Se la "moda" delle fondazioni assume in Italia in questi anni una diffusione incrementale difficilmente riscontrabile altrove, quello che può comunque evidenziarsi a livello internazionale è un processo generalizzato di riforma delle amministrazioni statali nella direzione di enucleare entità dotate di propria autonomia e accountability. Si tratta di una trasformazione per certi versi "epocale", che costituisce - piaccia o non piaccia, e forse soprattutto qualora non piaccia - un punto difficilmente reversibile rispetto alle amministrazioni pubbliche degli anni '60-'70, e che tende a venir individuata a livello internazionale come New Public Management [2].
La letteratura in merito è sterminata per quanto concerne la sanità, posto il peso economico del settore, proprio per questo oggetto di interventi di ristrutturazione da maggior tempo; molto meno per quanto riguarda il comparto culturale, dove comunque processi analoghi sono riscontrabili (dal Louvre ai musei nazionali inglesi, per non dire delle esperienze olandese e tedesca) [3].
In via generale simili processi di ristrutturazione istituzionale possono avere due diverse motivazioni, anche con riferimento al comparto culturale:
La prima motivazione è quella che più facilmente finisce sulle prime pagine dei giornali, sia nelle forme seducenti di soluzioni più o meno miracolistiche, sia nelle forme anche radicali di critica (si pensi ai "Talibani a Roma" di Settis) [6].
La seconda è invece a mio avviso molto più interessante per diverse ragioni, anche se più difficile e sottile a comprendersi, e perciò stesso meno "spendibile" in termini di politica-spettacolo, proprio perché si focalizza sulle specificità del discorso manageriale, su condizioni d'azione (al limite a parità di risorse), a convenienze di strutture di governance che consentano di indirizzare attenzione e azione da parte di chi deve gestire. Il discorso viene così riportato sulla responsabilità gestionale di enti che possano/debbano essere oggetto di compiuta rendicontazione (nel senso più ampio del termine inglese di accountability), e quindi sull'efficienza ed efficacia dell'azione dei gestori (evito di proposito il termine manager) rispetto ai compiti direi statutari di queste organizzazioni. In questo caso è improprio parlare di privatizzazione [7], trattandosi piuttosto di tentativi di "de-statizzazione", di "uscita dal settore pubblico", nel senso di emancipazione dall'insieme imprevedibile di regole ed eccessi di regole che tendenzialmente caratterizzano la natura pubblica [8].
Sul piano empirico le due motivazioni (risparmio vs. responsabilizzazione, e dunque privatizzazione vs. de-statizzazione) tendono a restare non di rado confuse, con possibilità di forti distorsioni e aspettative mal riposte [9].
Certo è curioso scoprire che nel corso del 2003 nella Cina pur sempre socialista il governo centrale stia tentando di riportare sotto controllo la situazione del Museo delle terrecotte di Xi'an dopo che una riforma eccessivamente liberista nel 1998 aveva dato luogo - oltre che alla attesa riduzione effettiva della spesa dal centro e a condizioni di autonomia gestionale impensabili nel nostro paese - anche a eccessi di sfruttamento commerciale, col tentativo di incrementare l'aerea di scavi al fine di massimizzare le entrate che poi venivano sottratte a una destinazione di conservazione dello stesso sito o al recupero di altri siti della provincia meno ricchi in quanto a minor attrazione spettacolare [10].
Ma l'esempio più emblematico nel comparto culturale di tale confusione resta il caso del British Museum [11] in cui la conflittualità del tentativo più che opinabile di taglio selvaggio dei costi (con una riduzione del 25-33% del personale) affiancata al più recente esperimento fallimentare di struttura duale (con un managing director a fianco del direttore storico) rischiano di mettere in ombra uno dei più importanti elementi in tema di innovazione istituzionale e di strutture di governance, vale a dire la responsabilizzazione dell'ente su un finanziamento in unica soluzione (one block grant) da parte governativa quale più matura espressione del cosiddetto arm's lenght principle proprio del mondo anglosassone [12].
3. Il caso Italia, ovvero l'insufficienza dei processi di modernizzazione centrale e negli enti locali in logica manageriale
Alla luce di queste premesse si può forse meglio comprendere la moda delle fondazioni nel comparto culturale italiano. Una mistura - chissà con quale prevalenza nei singoli casi - tra riduzione del finanziamento pubblico e forme di de-statizzazione.
Sulla legittimità dell'una o dell'altra delle due direzioni non si vuole qui questionare: certo la chiarificazione degli obiettivi di un processo di trasformazione istituzionale in termini di risparmio o condizioni di gestione sarebbe indispensabile elemento di trasparenza; personalmente, come studioso di management trovo particolarmente interessante il fenomeno della de-statizzazione in sé, e su questo mi concentro.
Lascio ai colleghi giuristi il compito di spiegare in via comparata perché in Italia sia la fondazione la forma prevalente nei processi di de-statizzazione rispetto a quanto accade in altri paesi, ammesso che questo sia il caso, e come questo si ricolleghi ai processi di trasformazione propri del dibattito sui beni e le attività culturali e alla riforma dell'amministrazione centrale e ministeriale all'interno del discorso giuridico [13]. Quello che interessa qui segnalare è che la moda-fondazione si configura nel caso della trasformazione di istituzioni culturali di provenienza pubblica come risposta alla povertà delle riforme ministeriali in senso manageriale, e ai limiti e alle contraddizioni di forme di innovazione gestionale negli enti locali:
Da questo punto di vista più che (oltre che a) una difficoltà culturale nel dialogo tra dimensione professionale (curatoriale-estetica-scientifica) ed economica, la questione del management delle organizzazioni culturali si pone come conflitto delle logiche di azione curatoriale e manageriale rispetto alle caratteristiche di funzionamento della pubblica amministrazione nostrana.
Al di là di molti esempi che si potrebbero dare e in altra sede forniti, c'è un ulteriore aspetto che è opportuno segnalare, e che caratterizza l'intervento pubblico nel nostro paese: vale a dire la pervasività del carattere "pubblico", il suo configurarsi irresistibilmente pubblico in senso articolato e multiforme, con una serie di unanticipated consequences che tendono ad emergere immediatamente. Aspetto forse molto semplice da spiegare in chiave giuridica, ma non per questo meno problematico sul piano operativo.
Una azione mirata di riconsiderazione del carattere "pubblico" si dimostra in questa situazione estremamente difficile: non si riesce ad esempio a presidiare il carattere pubblico di una collezione con riferimento alle azioni possibili e necessarie sulla sua integrità e condizioni, senza che questo comporti che chi se ne occupi acquisisca le prerogative proprie del dipendente pubblico (con tutto ciò che questo comporta, dalle modalità di assunzione alla mobilità, ecc.), che i rapporti coi potenziali utenti assumano i caratteri del pubblico, o che l'organizzazione complessiva sia costretta ad adottare condizioni di funzionamento e norme che sul piano più generale condizionano quella o questa classe di enti pubblici, nel contesto di sovrapproduzione di norme che caratterizza la pubblica amministrazione italiana [19].
Questo spiega poi le difficoltà a trovare vie di uscita "ragionevoli" e soluzioni praticabili rispetto ai problemi e alle condizioni di gestione:
Da questo punto i vista, proprio a partire da una posizione di assoluta concordanza sul piano del discorso museologico e conservativo, e sottoscrivendo a pieno i primi nove punti del "Decalogo per il nuovo codice" firmato da prestigiosi rappresentanti dell'Accademia dei Lincei [21], non si può non rimanere sconcertati dell'ultimo punto [22] e dalla incapacità a pensare a soluzioni intermedie tra logica selvaggia di privatizzazione e statalismo. Che Pompei abbia 16 tra archeologi, architetti e storici dell'arte su 711 dipendenti non è il frutto inesorabile di una concezione che si riallaccia ai primi nove punti del decalogo suddetto, ma è una situazione comunque assurda (di mis-management, come spesso cita la stampa internazionale) [23], legata alla mancanza di attenzione - in qualche caso anche da parte dei professionals - degli aspetti organizzativi e istituzionali. I "compiti primari e insostituibili della pubblica amministrazione" vanno certo preservati, ma per fare questo si potrebbe in effetti giocare più coraggiosamente su modalità e soluzioni istituzionali varie [24], tra cui appunto le fondazioni, ad esempio mantenendo il carattere pubblico del bene, ma non la sua produzione [25].
Certo resta un compito arduo: quello di de-statizzare ciò che non serve abbia carattere pubblico, mantenendo comunque "i compiti primari e insostituibili". Il che comporta un disegno non facile delle soluzioni operative, statuarie, procedurali.
4. Eccessi e abusi della retorica manageriale
Uno dei pericoli principali in questa situazione è paradossalmente l'eccesso di fiducia e di aspettative che in generale il linguaggio aziendale presenta, con possibili errori e distorsioni gravidi di conseguenze.
Rimandando ad altra sede la descrizione della vera e propria "overdose di management" che ha evidenziato l'esperienza recente del British Museum [26], mi limito qui a riprendere innanzitutto alcune emergenze dell'analisi dei processi di trasformazione in fondazione degli ex enti lirici di uno studio condotto col collega Sicca:
"Se il management è innanzitutto questione di indirizzare l'attenzione, lo stesso sistema complesso e faragginoso di punteggi su cui si basa la ripartizione del Fus sembra distogliere l'attenzione dei vertici da aspetti più centrali nel loro lavoro e nell'economia dei risultatati che questo può produrre (in effetti si ha talvolta l'impressione che soprintendenti e direttori amministrativi diventino esperti di conti e algoritmi). Di più: l'enfasi sulle percentuali che caratterizza tutto il meccanismo di ripartizione del Fus è in questo senso folle, se il fine era garantire la prevedibilità ai fini della gestione in logica appunto manageriale: se infatti poi lo stanziamento complessivo (e lo stesso stanziamento alla singola fondazione in valori assoluti) viene ridefinito, resta poco alla programmabilità, se non una generica consolazione che anche gli altri 12 enti hanno avuto un danno simile. Nel merito [con riferimento al Teatro comunale di Bologna], quello strano e asimmetrico processo di taglio di risorse che abbiamo descritto come thatcherismo all'italiana (taglio di risorse finanziarie ma mantenimento delle risorse umane) rappresenta tutto fuorché una logica di responsabilizzazione dei vertici delle organizzazioni liriche: semplicemente si tolgono risorse finanziarie senza togliere risorse umane per evitare conflitti a livello aggregato, ma scaricando in questo modo a livello di singola organizzazione l'impossibilità di effettiva azione. (...) Nella effettiva applicazione della legge poi, l'impressione è quella di una trasformazione tutta nominalistica del ruolo del Soprintendente, lasciato in una sorta di 'giochi senza frontiere', di esercizio di abilità gestionali, e comunque in una situazione di solitudine professionale: solo a inventare chissà che, senza aiuto di norma o di processo di legittimazione a scoprire questioni di efficienza e organizzazione del lavoro (con problemi di produttività e organizzazione non risolti, con sindacalismo corporativo da settore pubblico che rimane). In questo quadro stupisce il ruolo passivo (nella legge in sé e nel caso da noi esaminato forse ancora di più) che assume il consiglio di amministrazione, in una situazione che potrebbe definirsi di 'monocrazia senza professionalità gestionale', e dove cultura e matrici diverse da quella puramente estetica non vengono apportate se pure potenzialmente esistenti nel consiglio, che continua a giocare un ruolo meramente di controllo. Se l'efficienza non è affatto indirizzata, e la struttura di governance non sembra di particolare aiuto a chi deve decidere, colpisce poi l'effetto perverso che tutto il meccanismo alla fine produce, orientando le singole organizzazioni verso un aumento della produzione in modo da poter acquisire 'punti' e quindi maggiori stanziamenti. Cioè non solo la complessiva impalcatura non costringe a comportamenti singolarmente e collettivamente più razionali, ma piuttosto fa sì che cresca la pressione - già storicamente consistente perché alimentata da valori professionali e identità distintive - ad aumentare la produzione senza pensare a usi più intensivi della distribuzione dell'opera lirica. Ma infine, forse più di tutti colpisce l'asimmetria nei processi di responsabilizzazione tra centro e periferia, tra amministrazione centrale e fondazioni. Il caso dello stanziamento del Fus 2002 ridotto a gennaio, a bilanci preventivi già approvati dai consigli di amministrazione delle singole fondazioni rappresenta un elemento dirompente di falsa delega e responsabilizzazione, che va ben al di là di mettere in difficoltà la programmabilità che la trasformazione doveva invece incentivare. Il fatto è che il gioco resta non equo, ove il centro si può tirare indietro e rimangiarsi la parola data, con l'effetto veramente bizzarro che invece di portare nel pubblico (gli ex enti) logiche del privato, si portano nel privato (le Fondazioni) logiche del pubblico (di politiche aggiornate in termini reali in funzione delle complessive esigenze del bilancio pubblico)" [27].
Da studioso di management non sono tanto sorpreso dagli esiti in sé della riforma delle fondazioni liriche, quanto dal fatto che questi esiti siano il frutto di una riforma disegnata, argomentata e sbandierata con logica di management. Ma al di là degli effetti perversi di questa esperienza ("alla faccia del management"), su un piano generale e con riferimento anche a altre iniziative e sperimentazioni, va sottolineata la difficoltà di trovare soluzioni efficaci che consentano una effettiva coerenza tra assetto istituzionale e caratteristiche della gestione, e che soprattutto consentano di disegnare organizzazioni sostenibili anche in presenza di attività - come è il caso prevalente, in tutto il mondo - che presentano comunque un margine diretto di contribuzione (incassi da biglietti e dagli utenti meno costi, anche solo diretti o variabili) estremamente contenuto o più verosimilmente negativo (con una incidenza del cosiddetto earned income pari al 30.6% nella media dei musei americani secondo Valentino, al 23.3% per i musei d'arte secondo Hoeltzel, entrambi su fonti Aam) [28].
A tal riguardo chi scrive ha maturato una decisa preferenza per la fondazione di gestione, che presenta alcuni vantaggi non irrilevanti, o almeno minimizza alcuni rischi.
L'enfasi su costi di gestione corrente, sull'eventuale (e probabile) sbilancio diretto di gestione corrente e sul contributo dei soci in via sistematica a coprire questo sbilancio è precondizione indispensabile per quei processi di responsabilizzazione economica che possono essere attuati dalle trasformazioni istituzionali in oggetto, nel senso di reali processi di "managerializzazone".
Certo poi è indispensabile evitare "errori" banali ma non per questo meno dirompenti, come quello ad esempio di una definizione del periodo di mandato di soprintendenti/direttori/consiglio di amministrazione che non ricalca l'esercizio amministrativo (è il caso della Fondazione del Teatro comunale di Bologna - di tutte le fondazioni liriche? - ma anche del Mic di Faenza, e chissà di quanti altri; non è scevro da questo rischio lo stesso regolamento per le fondazioni ministeriali, d.m. 27 novembre 2001, n. 491, all'art. 4), col risultato che il primo e l'ultimo anno del mandato l'entità presenta un bilancio di cui non è possibile individuare una chiara responsabilità (in quanto risultato in parte del nuovo e in parte del vecchio soprintendente/direttore/consiglio di amministrazione), secondo le logiche proprie e qui sì ineliminabili del discorso manageriale. Errore certo banale, ma emblematico della difficoltà a comprendere il significato manageriale e organizzativo di trasformazioni spesso viste in senso esclusivamente monodisciplinare (giuridico). Per non dire poi (e tacendo i nomi) di processi di trasformazione istituzionale non accompagnati da un business plan, il che rende impossibile evidenziare le esigenze di cui sopra.
5. Cautele e problemi di implementazione della trasformazione in fondazione
Pur con tutte le critiche sopra riportate, la trasformazione in fondazione è soluzione estremamente promettente, che vale la pena di approfondire, con attenzione a una serie di cautele. A questo proposito in questo paragrafo si riprendono alcuni tratti essenziali di uno studio di fattibilità sulla trasformazione in fondazione dei musei civici di Milano condotto nel 2000 [35]. Si tratta di uno studio, che non ha ancora dato luogo ad una effettiva decisione operativa, che potrebbe poi essere attuata nel futuro con modifiche al limite significative rispetto alla analisi qui proposta: è comunque rispetto a quella elaborazione originaria che si fa riferimento come riflessione metodologica di più generale portata.
Innanzitutto va sottolineato che l'istruttoria viene accompagnata da tre documenti fortemente interrelati, che qui verranno analizzati nelle loro implicazioni gestionali: lo statuto della fondazione, il contratto di servizio, il business plan (pudicamente italianizzato in "documento tecnico finanziario").
Quanto allo statuto, basti ai nostri fini sottolineare alcuni aspetti principali: si tratta di fondazione in partecipazione, con scopo di valorizzazione di opere e patrimoni dei musei civici milanesi, "garantendone la gestione, la fruizione e l'apertura al pubblico". Nel patrimonio della fondazione entrano di conseguenza i beni e le opere dei singoli musei, che restano in capo al comune, e che vengono forniti in uso. Lo statuto rimanda poi a un contratto di servizio tra Comune e Fondazione che "disciplina i criteri e gli standard qualitativi e economici della gestione dei musei", che ha la funzione di dettagliare in modo preciso e trasparente i termini del mandato di gestione della Fondazione. Viene individuato un fondo di gestione costituito dal trasferimento annuo da parte del Comune oltre che da altri introiti privati, rendite e contributi, predisponendo altresì gli obblighi di rendicontazione. Vengono infine individuati gli organi (consiglio di indirizzo, consiglio di amministrazione, nonché presidente, sovrintendente, collegio dei direttori e collegio dei revisori), e come di consueto le regole del loro funzionamento, con la garanzia di un controllo maggioritario dell'ente fondatore principale, il Comune.
Documento di importanza cruciale si dimostra poi il contratto di servizio o convenzione, la cui bozza non è ancora approvata formalmente e resa pubblica, per cui mi limito dunque a segnalare in via sintetica alcuni punti cruciali, sempre come "studio" nel senso sopra precisato.
In prospettiva manageriale, uno degli elementi di primaria importanza della convenzione è innanzitutto la definizione dell'aerea di conferimento. Trattandosi di fondazione di gestione, la determinazione del perimetro di conferimento (quali musei vengono affidati alla Fondazione) è cruciale in prospettiva manageriale. Infatti se la Fondazione dovrà poi garantire livelli adeguati di prestazione, in logica di responsabilizzazione economica ne segue che solo gli istituti museali già operativi possano essere oggetto di trasferimento. Per nuove istituzioni in corso di progettazione e allestimento infatti - ad esempio un nuovo museo ancora da progettare in dettaglio - sarebbe impossibile determinare livelli di costo e ricavo su cui il vertice della Fondazione dovrebbe impegnarsi. D'altra parte, le risorse già disponibili ora per la gestione degli istituti già operanti sono necessarie - salvo possibile verifica - per la gestione di quegli istituti, su cui l'apparato professionale dei musei civici può/deve assumere responsabilità di gestione. Il conferimento alla Fondazione di un museo ancora in corso di definizione rappresenterebbe un elemento di estrema confusione, potenzialmente in grado di scardinare i processi di responsabilizzazione economica sia della direzione della Fondazione, sia della controparte politica. Potrebbe darsi che il/i nuovi musei richiedano una mole consistente di risorse, e in caso di conferimento la Fondazione sarebbe di fatto costretta ad assumere la responsabilità della gestione al buio (col rischio di fallimenti sulla gestione del nuovo museo, o di sottrazione implicita, strisciante e non programmata delle risorse delle attuali istituzioni per finanziare i fabbisogni emergenti del nuovo museo). Viceversa, separando ciò che è operativo da ciò che è progetto politico, si rende possibile una duplice responsabilizzazione:
Sempre in tema di convenzione, sotto il profilo amministrativo si possono individuare alcune importanti innovazioni. Se da un punto di vista civilistico il bilancio resta in capo alla Fondazione in via unitaria (definitivamente abbandonando i caratteri della contabilità pubblica), sul piano organizzativo e metodologico la convenzione precisa che la Fondazione presenterà il conto economico articolato a livello di singolo museo, sia a preventivo che a consuntivo, proprio al fine di garantire una forte responsabilizzazione gestionale in via diretta al singolo museo.
Vengono poi definiti gli obblighi a carico della Fondazione, nonché alcune regole di rendicontazione anche con riferimento a obiettivi di carattere qualitativo, all'interno di un sistema di indicatori da predisporsi. E' interessante notare come qui si eviti l'arbitrarietà della mancanza di un qualsiasi elemento di riferimento, senza però ricorrere a una soluzione meccanicistica in tema di standard di prestazione, delineando semplicemente le aree di responsabilità di cui si dovrà tenere/dare conto, comprese le aree di gestione delle risorse umane e finanziarie [36] (rispetto alle quali gli stessi "standard museali" approvati con d.m. del 10 maggio 2001 risultano in larga parte non rilevanti e spesso latitanti) [37].
Si rinuncia poi a qualsiasi tentativo di valorizzazione dei beni in uso, coerentemente al carattere di fondazione di gestione, che non interviene sulle proprietà di singole collezioni o oggetti, e ci si focalizza piuttosto sulla necessità di pervenire ad un preciso inventario dei beni in uso.
In termini sostanziali, l'art. 5 della Convenzione definisce poi il contributo economico annuo a carico del comune, rimandando al business plan (documento allegato e che costituisce parte integrante della convenzione) per una esplicitazione delle ipotesi retrostanti la determinazione di tale contributo. Si tratta - a tutti gli effetti a regime - di una soluzione simile al one-block grant inglese, che lascerà ai vertici della Fondazione la possibilità di articolare l'uso di risorse e attività secondo ampi margini di libertà, fatto salvo comunque il raggiungimento degli obiettivi di gestione secondo le logiche di controllo sopra esposte (e fatto salvo un periodo transitorio per quanto riguarda il trasferimento delle risorse umane).
Una attenzione particolare merita dunque il business plan, pur senza la possibilità di entrare nel merito dei valori, e focalizzando l'attenzione solamente sulle logiche e metodologie impiegate. Innanzitutto la determinazione del contributo annuo a carico del Comune "tiene conto di alcuni caratteri di fondo dell'attività dei musei quali la natura composita delle attività (preservazione, studio, sviluppo e presentazione delle collezioni) e i connessi caratteri di costi di capacità che la contraddistinguono (con prevalenza di costi tendenzialmente poco sensibili al volume delle attività). Ma soprattutto, posto che lo scopo della nuova struttura istituzionale prevista è quella di attivare processi di responsabilizzazione economica della gestione, la situazione di partenza determina un trasferimento a favore della Fondazione (a carico del Comune e di altri soci) che riproduca la effettiva spesa odierna, all'interno di una struttura però autonoma e che dovrà rendere conto di quanto speso, finanziando ulteriori sviluppi dei livelli di efficacia con risorse aggiuntive reperite autonomamente e/o con risparmi connessi a recuperi di efficienza". In altri termini, se lo scopo principale della trasformazione è quello della definizione di una nuova struttura di governance, tanto vale - per maggiore chiarezza e credibilità - determinare il valore del contributo comunale dalla Fondazione che si caratterizza come soluzione di "indifferenza finanziaria" rispetto alle risorse attualmente fornite ai musei dal Comune, senza tagli di risorse striscianti (se tagli devono esserci che siano espliciti).
La decisione di non prendere in considerazione potenziali recuperi di efficienza non è dovuta a distrazione, né a presunzione di assenza di inefficienze: piuttosto è una questione di credibilità e "trust", rassicurando curatori e addetti che non esiste un fine nascosto di taglio di risorse; è comunque funzionale rispetto al futuro, lasciando incentivi diretti alla Fondazione quando costituita per porre mano a questi potenziali recuperi di efficienza, trattenendone i benefici; è una sorta di atteggiamento prudenziale, a fronte delle difficoltà di determinare effettivamente - e secondo un gioco equo - l'attuale assorbimento di risorse.
Data la pressione del tempo e delle scadenze infatti, piuttosto che porre in essere ex novo un processo di pianificazione strategica il cui esito finale sarebbe stato il business plan, evitando soluzioni meccanicistiche l'unica strada possibile era quella di partire dai risultati economici già disponibili di contabilità analitica, e tenendo presente gli impatti possibili dei processi decisionali già attivati in altre sedi (Peg e simili). Sotto il profilo tecnico, l'approccio utilizzato nel disegno del business plan presenta diversi elementi di interesse. Vengono infatti evidenziati alcuni passaggi, con problemi e criticità specifici, per rendere esplicito il sistema di ipotesi su cui si basa il processo di delega manageriale:
1. Un primo livello è la ricostruzione dei costi attualmente evidenziati: relativamente alle voci che già comparivano nei prospetti di rendicontazione dell'Assessorato con riferimento ai musei, si trattava di verificarne la congruità e di prevederne l'evoluzione per il periodo in esame. Due sono i limiti di questi valori, che rendono necessarie le integrazioni di cui ai punti successivi:
- si tratta di valori storici che presentano spesso 12-18 mesi di ritardo, il che in un periodo di processo decisionale molto dinamico rischia di costituire una informazione pericolosamente datata;
- si tratta di informazioni che derivano da un sistema interno di contabilità analitica, che per sua natura deve normalmente procedere a semplificazioni e compromessi, che però nel caso di un processo simile di esternalizzazione possono generare errori informativi non accettabili.
2. Un secondo livello attiene a quelli che per semplicità espositiva vengono denominati i costi nascosti: si tratta di costi connessi a servizi forniti in economia al Settore cultura da altri uffici e servizi del Comune, e che non venivano normalmente imputati in via contabile al Settore. Sono però risorse che in effetti fino ad allora venivano messe a disposizione dei Musei civici, e che in ipotesi di costituzione della Fondazione dei musei occorreva sommare ai costi esplicitamente evidenziati, pena un effettivo taglio di risorse. In questo caso la difficoltà era quella di individuare voci di spesa connessa alla propria attività ma localizzate in altri centri di spesa, tentandone una valutazione di prima grandezza.
3. Un terzo livello riguardava costi in via di formazione, vale a dire costi connessi a decisioni già prese, e quindi non imputabili alla responsabilità degli organi direttivi della nuova Fondazione, ma che per i tempi di latenza tra presa della decisione e effettiva implementazione non erano individuabili nei rendiconti a consuntivo e spesso neanche a preventivo. Se la logica che si persegue è quella della responsabilizzazione, occorre allora integrare il dato storico con gli impatti "latenti" di decisioni già prese ma la cui responsabilità non è dunque ascrivibile ai vertici della nuova Fondazione (vale a dire attività e costi che anche "a bocce ferme" si manifesterebbero nel futuro, per larga parte costi connessi a trasferimenti o aperture di sedi temporanee in attesa di soluzioni definitive).
4. La stessa costituzione del nuovo ente presenta costi emergenti che vanno assommati alle risorse reali già conferite all'insieme dei Musei civici; ai costi della nuova struttura centrale andranno peraltro sottratti costi eliminabili in seguito alla costituzione della Fondazione stessa. Da una parte sarebbe illusorio pensare che una nuova struttura non presenti costi di funzionamento specifici (la tenuta della contabilità, le spese generali e societarie, il sistema informativo, ecc.). D'altra parte su questo livello si concentrano una serie di pressioni e tensioni, in primo luogo in tema di definizione degli organici (e del contratto) del personale che viene trasferito alla Fondazione e/o che verrà integrato a partire dalla nuova situazione, o viceversa dei risparmi effettivamente conseguibili per il Comune in termini di costi effettivamente eliminabili relativamente al personale che non fosse più necessario [38].
5. L'ultimo livello riguardava i ricavi imputabili alla Fondazione, nell'ipotesi che ricavi fino ad allora a vario titolo connessi ai musei civici verranno poi effettivamente girati alla Fondazione. Anche in questo caso un atteggiamento prudenziale e incentivante per la vita futura della Fondazione ha suggerito di riprendere meramente i dati di introiti già riscontrabili in passato dalle singole istituzioni (si ricorda che i musei milanesi sono a ingresso gratuito, decisione che non veniva in sede di business plan messa in discussione).
In sintesi, da un punto di vista metodologico, e con una forte attenzione agli aspetti organizzativo-istituzionali oltre che infornativi, la struttura del business plan evidenzia due grandezze importanti:
- da una parte il costo tendenziale dell'area di conferimento (ossia dei musei che saranno conferiti e della parte di direzione non rivolta ad aspetti istituzionali dell'Assessorato), qualora si integrino i costi contabilizzati con i costi nascosti e i costi in via di formazione, al netto dei ricavi dei vari musei (come ordine di grandezza, il costo tendenziale rappresenta il 121% del costo contabilizzato); si tratta di costi che - a seguito di decisioni già prese nel passato - comunque si manifesterebbero nel futuro a parità di condizioni attuali (continuando la gestione in economia dei musei), non intervenendo con un taglio di ricorse su decisioni già prese nel passato e quindi non riconducibili al management della nuova entità in corso di costituzione;
- dall'altra i costi emergenti della Fondazione, cioè i costi incrementali connessi alla decisione se attivare o meno la nuova entità. A tale fine si devono sommare i costi generali, i costi del personale della nuova struttura, al netto di quanto già compreso nei calcoli del costo tendenziale (per un ulteriore 11%).
Il costo totale della nuova struttura è dunque superiore del 32% rispetto a i valori contabili di partenza. Il che vuol dire che le attenzioni introdotte, mirando ad una puntuale ricostruzione in ipotesi di mera trasformazione di struttura di governance, hanno evitato un taglio occulto del 32%, che avrebbe verosimilmente arrecato pregiudizio alla stessa sostenibilità della fondazione (il contributo così delineato veniva poi adeguato al recupero dell'inflazione onde evitare comunque un taglio in termini reali).
Certo, in questo senso non c'è economizzazione: del resto è inutile illudersi che l'esternalizzazione porti sempre e comunque a risparmi in sé e per sé. Piuttosto si tratta di recuperare livelli di efficacia nel servizio che spesso vengono a degradarsi nelle amministrazioni pubbliche (si veda il concetto di hidden deficit nella già citata esperienza del British Museum). E in effetti, la struttura di calcolo proposta si caratterizza dunque per un forte orientamento alla responsabilizzazione economica delle varie parti in gioco, secondo logiche manageriali:
- il Comune, nella propria veste di "azionista", potrà ridurre il peso dell'onere attuale in relazione alla capacità di coinvolgere altri soggetti nella compagine societaria; potrà altresì ridurre i costi suoi propri in relazione alla riqualificazione della spesa per quella parte che resta in carico all'Assessorato [39];
- secondo le logiche proprie di un sistema incentivante, incrementi di risorse che la Fondazione sarà in grado di reperire su singoli progetti - così come eventuali recuperi di efficienza - andranno a diretto beneficio della Fondazione, e a miglioramento dell'efficacia gestionale e del servizio fornito, su cui peraltro il Comune, attraverso i meccanismi individuati dalla Convenzione, avrà modo di svolgere un controllo in via articolata.
In questo articolo ho cercato di rileggere in chiave manageriale la diffusione delle fondazioni nel comparto culturale come parte del più generale processo di managerializzazione delle organizzazioni artistiche e del settore pubblico.
Tra le diverse finalità possibili nei processi di trasformazione della pubblica amministrazione ho focalizzato l'attenzione sulla de-statizzazione piuttosto che sulla privatizzazione, sugli aspetti di responsabilizzazione gestionale più che di economizzazione, per una serie articolata di motivi:
In questa prospettiva la de-statizzazione costituisce una vera e propria emancipazione dai vincoli e regole autoreferenziali di una pubblica amministrazione che fatica a trovare forme incisive di modernizzazione: soluzione in logica di autonomia pur mantenendo un nocciolo duro di carattere pubblico del bene culturale (non solo derivante dal controllo degli enti pubblici o dello Stato circa buona parte delle fondazioni in questione, ma anche dalle regole ad hoc definite - o meglio: da definirsi - fisiologicamente e funzionalmente dalla convenzione che è bene accompagni l'istituzione della fondazione).
Certo se "l'uscita dal pubblico" può dunque essere vista come elemento di emancipazione e liberazione anche con riferimento alla logica, ai valori e al lavoro professionale e curatoriale, si dimostra situazione ad alto rischio: una non attenta definizione di risorse e condizioni nel momento della de-statizzazione potrebbe compromettere pesantemente la vita futura della nuova organizzazione (come sempre i divorzi mal gestiti hanno pesanti implicazioni nel lungo periodo).
La de-statizzazione, e in particolare la trasformazione in fondazione, deve quindi individuare soluzioni adeguate che garantiscano la sostenibilità nel tempo, con risorse congrue: con verifica di fattibilità all'interno di un business plan "a regime", e con chiara definizione del contributo in conto esercizio a fronte della verosimile insufficienza del margine direttamente conseguibile.
Ciò comunque non basta: oltre alle risorse servono le condizioni per l'azione, tra cui importanza cruciale rivestono le regole di relazione tra fondazione e apparato pubblico, specie nelle fondazioni di gestione (dove la proprietà resta in larga parte di amministrazioni pubbliche), e soprattutto nelle fondazioni in partecipazione (dove piuttosto che i rapporti tra gestione e proprietà spesso le questioni più delicate e le tensioni maggiori riguardano la regolazione degli obblighi tra soci e la composizione della diversità istituzionale dei diversi partecipanti).
Il problema, ancora una volta, è di disciplinare i rapporti tra politica e amministrazione, ridando enfasi ai problemi di gestione corrente, di soluzioni a regime, spesso ben al di fuori degli orizzonti del "ciclo politico" [40]. Da questo punto di vista è bene sottolineare come il processo di responsabilizzazione economica sia un processo a due vie, che certamente impatta sul museo/musei o altri istituti ora gestiti dalla fondazione, ma che deve avere un impatto ben preciso anche sulla amministrazione pubblica che ha attivato la fondazione, modificandone profondamente il ruolo:
[1] Cfr. G. Sciullo, Beni culturali e principi della delega, in Aedon, n. 1/1998; E. Bellezza, F. Florian, Le fondazioni nel terzo millennio, Firenze, 1998; A. Canuti, Il regolamento attuativo dell'art. 10 d.lg. 368/1998: un primo commento, in Aedon, n. 2/2000; S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni costituite e partecipate dal ministero per i Beni e le Attività culturali, in Aedon, n. 1/2002; G. Franchi Scarselli, La gestione dei servizi culturali tramite fondazione, in Aedon, n. 1/2002; G. Urbani, Stato e Fondazioni, in Il Giornale dell'Arte, settembre 2002.
[2] Cfr. I. Lapsley, Research in public sector accounting: an appraisal, in Accounting, Auditing and Accountability Journal, 1988, 1, 1, 21-33; C. Hood, The New Public Management In The 80's: Variations On A Theme, in Accounting Organizations And Society, 1995, 20 (2/3), 93-110; I. Lapsley, F. Mitchell, Accounting and Performance Measurements. Issues in the Private and Public Sectors, Londra, 1996; M. Meneguzzo, Dal new public management alla public governance: il pendolo della ricerca sulla amministrazione pubblica, in Azienda pubblica, n. 1/1997; L. Lindkvist, S. Llewellyn, Accountability, Responsibility and Organisation, in The Scandanavian Journal of Management, Jun 2003; G. Gruening, Origin And Theoretical Basis Of NPM, in International Public Management Journal, 1998, 4, 1, 1-25; H. But, B. Palmer, Value for Money in the Public Sector, Oxford, 2000; S. Gherardi, B. Jacobsson, Managerialese As The Latin Of Our Times: Reforming Italian Public Sector Organizations, in Scandinavian Journal Of Management, 2000, 16, 349-355; F. Panozzo, 2000, Management By Decree. Paradoxes In The Reform Of The Italian Public Sector, in Scandinavian Journal Of Management, 2000, 16, 357-373.
[3] Cfr. P. Di Maggio, Can culture survive the market place?, in Nonprofit enterprise in the art, a cura di P. Di Maggio, Oxford, 1986; A. Wilton, In Museums, is Knowledge at Risk from Commercialism?, in Museum management and curatorship, 1990, 9, 191-195; D. Griffin, Museums: Governance, Management and Government, or why are so many of the apples on the ground so far from the tree, in Museum Management and Curatorship, 1991, n. 10 (3), 293-303; Museums 2000. Politics, people, professional and profit, a cura di P. Boylan, Londra, 1992; A. de Jong, Privatisation and commercialisation of open air museums: opportunity or threat?, Meppel, 1993; O. Bennet, Cultural Policy and the Crisis of legitimacy: Entrepreneurial Answers in the United kingdom, Centre for the study of Cultural Policy, University of Warwick, 1996; Privatization/Désétatisation and Culture. Limitations or opportunities for cultural development in Europe?, a cura di A. van Hemel e N. van der Wielen, Boekman Foundation, Amsterdam, 1997; C. Bodo, Finanziamenti pubblici o privati? Considerazioni sulle strategie di privatizzazione, in Economia della cultura, n. 3/1997, 181-184; M. Linklater, Privatizzazione della cultura: la Gran Bretagna e il patrimonio culturale, in Economia della cultura, n. 3/1997, 185-191; M. Trimarchi, Privatizzare la cultura in Italia: obiettivi, vincoli ed effetti, in Economia della cultura, n. 3/1997, 192-201; A. Leon, La privatizzazione dei beni culturali in Italia, in Economia della cultura, n. 3/1997, 202-207; M. Angioni, La privatizzazione tutta speciale degli olandesi: i nuovi diritti e le nuove responsabilità dei musei, in Il Giornale dell'Arte, gennaio 1998; C. Gordon, Cultural Policy in great Britain: the wheel, the hub and the spokes, in English regional arts board, 10 giugno 1999; A. Mottola Molfino, Musei civici milanesi: una mega fondazione con un bilancio da 50 miliardi, in Il Giornale dell'Arte, dicembre 2000; V. Zolberg, Privatisation: Threat or Promise for the Arts and Humanities?, in International Journal of Cultural Policy, 2000, 7, 1, 9-28; R. Cappelli, Politiche e poietiche per l'arte, Milano, 2002; A. Gombault, Organisational Saga of a Superstar Museum: The Louvre, in International Journal of Arts Mamagement, 2002, 4, 3, 72-84.
[4] Illuminante a questo proposito l'art. 29 della finanziaria 2002, comma 2: "Le amministrazioni di cui al comma 1 possono inoltre ricorrere a forme di autofinanziamento al fine di ridurre progressivamente l'entità degli stanziamenti e dei trasferimenti pubblici a carico del bilancio dello Stato, grazie ad entrate proprie, derivanti dalla cessione dei servizi prodotti o dalla compartecipazione alle spese da parte degli utenti del servizio".
[5] Si veda in merito AA.VV., Alienazione e utilizzazione del demanio storico-artistico nel Dpr 283/2000: una prima lettura, Atti della Giornata di studio (Lecce, 2 dicembre 2000), in Aedon, n. 1/2001. Cfr. anche S. Foà, Patrimonio dello Stato Spa: i compiti, in Aedon, n. 3/2002; P. Pizza, Patrimonio dello Stato Spa: profili di organizzazione e funzionamento, in Aedon, n. 3/2002; A. Brancasi, La cartolarizzazione dei beni pubblici di fronte all'ordinamento comunitario, in Aedon, n. 1/2003; D. Sorace, Cartolarizzazione e regime dei beni pubblici, in Aedon, n. 1/2003.
[6] S. Settis, Italia S.p.A., Torino, 2002.
[7] In tal senso cfr. anche G. Sciullo, La Biennale di Venezia come società di cultura, in Aedon, n. 1/1998; A. Canuti, Il regolamento attuativo dell'art. 10 d.lg. 368/1998, cit.; A. Mottola Molfino, Musei civici milanesi, cit.; S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni, cit.
[8] Il termine "de-statizzazione" era stato usato nel famoso convegno di Amsterdam nel giugno 1997 su Privatization/Désétatisation and Culture. Limitations or opportunities for cultural development in Europe? (i cui atti si vedano in Privatization/Désétatisation and Culture, cit.), ma è stato poi sfortunatamente sostituito in italiano dal più banale termine "privatizzazione" (cfr. AA.VV., La privatizzazione culturale in Europa, in Economia della cultura, n. 3/1997, 178 ss.).
[9] Il che vale anche con riferimento alla stessa finanziaria 2002, in aggiunta ad altri profili di problematicità emersi nel generale dibattito (per tutti cfr. M. Cammelli, Il nuovo Titolo V della Costituzione e la finanziaria 2002: note, in Aedon, n. 1/2002; G. Piperata, I modelli di organizzazione dei servizi culturali: novità, false innovazioni e conferme, in Aedon, n. 1/2002; G. Sciullo, I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002, in Aedon, n. 1/2002).
[10] Prof. Liu Shuguang (Direttore dell'Ufficio Gestionale dell'Amministrazione di Stato per i Beni Culturali, Repubblica Popolare Cinese), China's National Archaeological Park. The new experiment of Qinshihuang's mausoleum (Terracotta Army) management plan, conferenza tenuta il 13 giugno 2003 nell'ambito del corso di laurea specialistica Gioca (Gestione e innovazione delle organizzazioni culturali e artistiche), Università di Bologna.
[11] L. Zan, Management knowledge - maneggiare con cura. L'introduzione di forme di managerialismo nella storia del British Museum, in Studi Organizzativi, n. 3/2000, 5-51.
[12] The UK Cultural Sector: Profile and Policy Issues, a cura di S. Selwood, Londra, 2001.
[13] M. Cammelli, Un passaggio chiave del federalismo amministrativo: il riordino dell'amministrazione periferica dello Stato, in Aedon, n. 2/1998; M. Cammelli, Il Testo Unico, il commento e... ciò che resta da fare, in Aedon, n. 2/2000, M. Cammelli, Decentramento e outsourcing nel settore della cultura: il doppio impasse, in Diritto pubblico, 2002, 261-303; G. Sciullo, La Biennale di Venezia come società di cultura, cit.; C. Barbati, Nuova disciplina dei beni culturali e ruolo delle autonomie, in Aedon, n. 2/2000; C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon, n. 3/2001; G. De Giorgi Cezzi, Lo statuto dei beni culturali, in Aedon, n. 3/2001; A. Canuti, Il regolamento attuativo dell'art. 10 d.lg. 368/1998, cit.; S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni, cit.; A. Poggi, Dopo la revisione costituzionale: i beni culturali e gli scogli del "decentramento possibile", in Aedon, n. 1/2002; G. Franchi Scarselli, La gestione dei servizi culturali tramite fondazione, cit.
[14] Conservazione e innovazione nei musei italiani. Management e processi di cambiamento, a cura di L. Zan, Milano, 1999; L. Zan, Autonomia per "governare", in il Sole-24 ore, 20 febbraio 2000; L. Zan, L'autonomia funziona, è il Ministero che non ce la fa, in Il Giornale dell'Arte, dicembre 2000.
[15] Cfr. Il controllo di gestione nelle amministrazioni pubbliche, a cura di L. Anselmi, Rimini, 1997; Responsabilità e trasparenza nella gestione dell'ente locale, a cura di E. Pezzani, Milano, 2000; E. Borgonovi, Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche, Milano, 2001; R. Mussari, Il management pubblico locale: tendenze evolutive, in Il controllo di gestione negli enti locali: progettazione ed attuazione degli strumenti in un contesto di riforma, a cura di A. Lombrano, Rimini, 2001; L. Puddu, Ragioneria pubblica. Il bilancio degli enti locali, Milano, 2001; Dalla contabilità finanziaria alla contabilità economico-patrimoniale negli enti locali, a cura di M. Mulazzani, Milano, 2002.
[16] Conservazione e innovazione nei musei italiani, cit., cap. 3.
[17] Conservazione e innovazione nei musei italiani, cit., cap. 4.
[18] L. Zan, La natura multidimensionale del management dei musei: tra efficacia e efficienza, sostanza e procedura, in Museo contro Museo, a cura di P.A. Valentino e G. Mossetto, Firenze, 2001, 106-130; L. Zan, Autonomia, processi decisionali e controllo nelle istituzioni culturali pubbliche: un meccanismo inceppato?, in Risorse pubbliche per la cultura, a cura di M. Trimarchi, in Economia della Cultura, n. 4/2003 (in corso di pubblicazione).
[19] E' il caso - per chiarire meglio il concetto - dell'università pubblica che è pubblica in tutti i sensi: non solo perché non è costretta ad agire in una logica di tipo privatistico a fronte di finanziamenti pubblici, secondo una impostazione più che legittima di non subordinazione dei processi di produzione scientifica alle esigenze di economicità immediata della singola istituzione, visto le esternalità che genera nel sistema sociale; ma che è poi costretta a gestire le risorse umane con contratti pubblici; a gestire i rapporti con gli utenti sempre con questa logica (il che comporta ad esempio veri e propri concorsi pubblici nel caso di accesso a corsi di laurea a numero chiuso); a soggiacere a norme procedurali e straordinarie proprie del pubblico (ad esempio il blocco delle assunzioni che a parità di altre condizioni - risorse disponibili, budget, ecc. - non riguarderebbe una università che non fosse "pubblica").
[20] Cfr. S. Settis, Italia S.p.A., cit.; R. Cappelli, Politiche e poietiche per l'arte, cit.; S. Dell'Orso, Altro che musei. La questione dei beni culturali in Italia, Roma-Bari, 2002.
[21] Decalogo per il nuovo Codice, appello dei soci dell'Accademia dei Lincei, in Il Sole-24 ore, 20 luglio 2003.
[22] "10. La necessità di assicurare efficienza ed economicità della tutela e della fruizione, ricorrendo a imprese private soltanto per i servizi aggiuntivi, che non compromettano in alcun modo i compiti primari e insostituibili della pubblica amministrazione" (enfasi aggiunta).
[23] A. Gumbel, Better off buried. Pompei crumble as sleaze takes hold, in Indipendent on Sunday, 25 gennaio 1998
[24] Si possono individuare alcuni errori teorici della posizione di radicale resistenza, che le ricerche di economia pubblica discutono da lungo tempo (per tutti cfr. G. Brosio, Economia e finanza pubblica, Roma, 1988; I. Mazza, I. Rizzo, Scelte collettive e beni culturali, in Museo contro Museo, cit.):
- da una parte pensare che la gestione diretta sia l'unico modo possibile di azione economica dello Stato (si può infatti indirizzare l'attività economica via regolazione piuttosto che via gestione diretta);
- d'altra parte si può evidenziare una certa reificazione delle organizzazioni, concepite come realtà monolitica piuttosto che come insieme di operazioni (transactions) che individualmente - piuttosto che a livello aggregato e una volta per tutte - possono essere oggetto di scelta di "make or buy", di internalizzazione o esternalizzazione;
- fenomeni di market failure e di organizational failure rendono poi il tutto meno semplicistico.
[25] Cfr. il significativo titolo di Offerta privata di beni pubblici, a cura di W. Santagata, Bologna, 1991; cfr. anche F. Panozzo, Dalla produzione alla regolazione. L'evoluzione dell'intervento pubblico nell'economia, Padova, 2000.
[26] L. Zan, Management knowledge - maneggiare con cura, cit.
[27] L.M. Sicca, L. Zan, Alla faccia del management. La retorica del management nei processi di trasformazione degli enti lirici in fondazioni, in Fondazioni liriche tra cambiamento istituzionale e innovazione gestionale, a cura di M. De Carlo, Milano, 2003 (in corso di pubblicazione).
[28] P.A. Valentino, La trasformazione dei musei negli anni '90, in Museo contro Museo, cit.; A. Hoeltzel, Accounting practices and performance indicators of American museums, preprint Biblioteca W. Bigiavi, Università di Bologna, n. 195, 2003; American Association of Museums (Aam), Museum Financial Information. A Report from the National Survey, Washington DC, 1999.
[29] G.D. Carnagie, P.W. Wolnizer, Enabling accountability in museums, in Accounting, Auditing & Accountability Journal, 1996, 9, 5, 84-99; P. Rentschler, B. Potter, Accountability versus artistic development: the case for non-profit museums and performing arts organizations, in Accounting, Auditing & Accountability Journal, 1996, 9, 5, 100-113; J. Carman, G.D. Carnagie, P.W. Wolnizer, Is archaeological valuation an accounting matter?, in Antiquity, 1998, n. 73, 143-148.
[30] G. Brunetti, F. Buttignon, La relazioni di stima del patrimonio netto iniziale delle fondazioni liriche, in La valutazione delle aziende, settembre 2001.
[31] G. Sciullo, La Biennale di Venezia come società di cultura, cit.; M. Mongiello, A. Moretti, The brand value, as invisible asset, for cultural organisation: the case of La Biennale di Venezia, paper presentato al workshop Eiasm su Managing Cultural Organisation, Londra, gennaio 2001; F. Bernabè, Ci vuole un patrimonio, in Il Giornale dell'Arte, settembre 2002.
[32] Ad esempio nello stato patrimoniale 2001 queste immobilizzazioni immateriali incidono nel caso del Comunale di Bologna per il 70% dell'attivo, e nel caso della Biennale per il 67,2%. Parallelamente, nel caso del Comunale il patrimonio indivisibile rappresenta il 95,3% del patrimonio netto, mentre nel caso della Biennale praticamente l'intero patrimonio netto - il 99,98% - è costituito dalla riserva di trasformazione.
[33] L. Dal Pozzolo, L. Zan, Studio per la riorganizzazione e lo sviluppo del nuovo Museo egizio di Torino. Assetto organizzativo e risorse umane. Analisi, valutazione e sostenibilità dei costi di gestione. Modelli di governance, in Ires Piemonte, Progetto di ricerca finalizzato al rinnovamento del Museo egizio di Torino, Torino, 2003.
[34] "L'autonomia economica, in particolare, deve essere garantita nonostante la situazione, difficilmente modificabile, di non autosufficienza delle risorse economiche prodotte dall'attività museale. Ciò significa, in altri termini, un duplice impegno dei partner istituzionali nel sostenere economicamente l'attività del museo, ed allo stesso tempo nel consentirne una gestione economica autonoma, centrata sulle attività e sui programmi decisi dagli organi di gestione, governo ed indirizzo del museo. Fin da subito appare di cruciale importanza definire in modo chiaro, non ambiguo e trasparente il sistema di conferimento delle risorse per il normale esercizio finanziario, per la gestione ordinaria, e le relative responsabilità di sostegno economico, in modo nettamente distinto dagli investimenti necessari per l'adeguamento della sede e per la realizzazione del nuovo Museo egizio. Nonostante gli investimenti per un riallestimento e per un nuovo museo siano consistenti in termini di volumi economici da rendere disponibili in breve tempo, la partita decisiva si gioca su di una dotazione di risorse per la gestione corrente certa, adeguata, programmabile ed affidabile, anno per anno, che corrisponda ad una struttura di governance ad essa coerente" (Museo egizio di Torino: verso un modello di gestione e di governance, in Culturalweb, 1° luglio 2003).
[35] Per una prima illustrazione dell'intervento, cui hanno partecipato il notaio Enrico Bellezza e il Dr. Antongiulio Bua, cfr. S. Carruba, Il museo sposa la fondazione, in il Sole-24 ore, 5 marzo 2000; A. Mottola Molfino, Fondazione e città: come possono migliorare la vita, in Il Giornale dell'Arte, Aprile 2002 (comprensivo di un estratto dello statuto).
[36] L. Zan, La natura multidimensionale del management dei musei, cit., 127-128: "Il sistema di indicatori delle prestazioni dovrà essere in rado di evidenziare una serie articolata di risultati in cui si sostanzia l'attività museale, con il requisito minimo di un miglioramento nelle seguenti aree che comunque fin d'ora la Fondazione si impegna a perseguire:
- il valore estetico-scientifico delle collezioni, il loro sviluppo e la loro conservazione;
- lo sviluppo continuo delle procedure e delle pratiche connesse alla valorizzazione delle collezioni (raccolta, acquisizione, documentazione, conservazione);
- la soddisfazione di diversi segmenti di pubblico servito (visitatori, scuole e comunità scientifica);
- lo sviluppo di procedure opportune di programmazione e monitoraggio delle iniziative espositive, didattiche, di prestito di opere;
- il mantenimento di una adeguata composizione quali-quantitativa del personale, con particolare riferimento alle figure a più alto contenuto professionale, coerentemente con i livelli di efficacia ed efficienza concordati;
- lo sviluppo delle risorse finanziarie autonomamente reperite sul mercato e il miglioramento delle strutture di costo, coerentemente con i livelli di efficacia ed efficienza concordati;
- l'introduzione e sviluppo di pratiche e procedure di gestione delle risorse umane e finanziarie adeguate".
[37] Con una lettura un po' più cattiva di quella di G. Marchi, Criteri e standard per la gestione dei musei, in Aedon, n. 2/2001.
[38] Se non erro la discussione con le organizzazioni sindacali intorno al 2001 verteva su un possibile mantenimento dello status di dipendente comunale per chi optasse - comunque su base volontaria - per il passaggio alla Fondazione. Nel lungo termine comunque, " a regime" , le risorse verrebbero governate in totale autonomia dalla Fondazione.
[39] Dopo l'approvazione della finanziaria 2002 - se ben interpreto la rilevanza dell'articolo 29 su "Misure di efficienza delle pubbliche amministrazioni" (cfr. M. Cammelli, Il nuovo Titolo V della Costituzione e la finanziaria 2002: note, cit.; G. Sciullo, I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002, cit.) - queste due possibilità diventano in realtà un obbligo: ai sensi dell'art. 29 infatti è possibile per le pubbliche amministrazioni e gli enti finanziati dallo Stato istituire "soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, svolti in precedenza" ma alla "condizione di ottenere conseguenti economie di gestione". In tal senso i costi emergenti della Fondazione perlomeno dovrebbe essere coperti col ricorso a fonti alternative.
[40] Come osserva in via radicale A. Mottola Molfino, Musei civici milanesi, cit., 49, "[n]on si dica dunque che far gestire i musei a una fondazione significa 'privatizzarli': piuttosto significa liberarli dai condizionamenti che in 50 anni li hanno resi campiello privato, a gestione personalistica, di assessori e politici".
[41] R. De Hoog, Potenzialità e limiti del contracting-out, in Il welfare mix, a cura di V. Ascoli e S. Pasquinelli, Milano, 1993.
[42] M. Cammelli, Decentramento e outsourcing nel settore della cultura, cit.