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Tavola rotonda sul Testo Unico per i beni e le attività culturali
(Bologna, 16 maggio 2000)

 

Nuova disciplina dei beni culturali e ruolo delle autonomie

di Carla Barbati



Tra i fronti lasciati aperti dal Testo Unico, e perciò suscettibili di un intervento integrativo/correttivo da parte del futuro legislatore, si può annoverare quello relativo alla definizione del ruolo, ossia dei compiti e delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie, nel settore dei beni culturali.

Che le indicazioni procurate sul punto dal Testo Unico scontino una qualche genericità e, per certi aspetti, anche talune laconicità, pare infatti valutazione condivisa. Allo stesso modo, sembra riconosciuto che ciò non possa considerarsi una "mancanza" ascrivibile al solo legislatore, delegato al coordinamento di tutte le disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del provvedimento e di quelle che sarebbero entrate in vigore nei sei mesi successivi (cfr. art. 1, commi 1 e 2 della l. 8 ottobre 1997, n. 352, quando si pensi ai silenzi e alle incertezze del contesto normativo con cui ci si è dovuti misurare.

Certo, si può chiedere se ciò che viene espresso, in proposito, rappresenti il limite massimo delle indicazioni che potevano essere procurate o se, invece, rappresenti il limite minimo o, ancora, se ci si collochi al di sotto di questo limite minimo.

Senza voler qui affrontare direttamente le questioni tecnico-giuridiche, di rilievo più generale, connesse alla valutazione dei limiti della delega, la risposta a questo interrogativo può essere diversa, se si considerano le soluzioni che singole disposizioni hanno accolto con riguardo a taluni, specifici interventi.

In alcuni casi, infatti, il Testo Unico sembra avere detto meno di ciò che avrebbe potuto/dovuto, in quanto non ha colto l'occasione del riordino e del coordinamento per definire aspetti che erano stati lasciati irrisolti dalle precedenti indicazioni legislative (cfr. artt. 39 e 40). In altri ha detto il minimo, limitandosi a ribadire quanto già era stabilito in altre fonti, magari senza tenere conto del nuovo contesto entro cui ciò si andava a collocare (cfr. art. 33) e in altri casi ancora si è invece spinto sino ad accogliere le pur limitate indicazioni fornite sul punto dal d.lg. 112/1998 (cfr. artt. 5 e 7).

Tuttavia, è quando si considera il provvedimento nel suo insieme che pare di poter dire che il limite principale delle scelte operate - considerandone le ricadute sul sistema delle autonomie - risiede forse, e paradossalmente per un testo al quale si imputa di non avere fornito indicazioni sufficientemente definite, più in ciò che in esso si dice, anziché in ciò che in esso non si dice.

L'intero complesso normativo, scaturito dal riordino delle disposizioni precedenti, guarda essenzialmente al ruolo del centro statale e a questo proposito dice molto, forse dice troppo. Esso, come vogliono le scelte normative già adottate, e con le quali si è dovuto misurare, non solo si diffonde a determinare il titolo e gli ambiti di intervento che spettano allo Stato per esercitare quella funzione di tutela dei beni che è ad esso riservata, in forza della l. 59/1997, ma va oltre, riconoscendo il ruolo che lo Stato comunque eserciterà anche in relazione alle altre funzioni ed agli altri compiti che possono avere ad oggetto i beni culturali: quelli per i quali non esiste una riserva allo Stato, ma si profila semmai una situazione di concorrenzialità di competenze tra centro e periferia.

Certo, non è questo - dei beni culturali - l'unico settore, fra quelli che possono e devono essere interessate dalle politiche dei conferimenti volute dalla l. 59 del 1997 e definite dai decreti legislativi di attuazione - in primo luogo dal d.lg. 112/1998 - a non consentire una chiara individuazione del "chi fa che cosa".

Al contrario, l'opzione per la concorrenzialità delle competenze accomuna molte altre materie, e non è detto che rappresenti sempre il limite principale delle soluzioni così accolte. Ciò che caratterizza la disciplina del settore è semmai la scelta, espressa dal Titolo IV, Capo V del d.lg. 112/1998, di affidare la traduzione di questa concorrenzialità a momenti e a sedi concertative successive. Penso alle commissioni regionali per i beni e le attività culturali (art. 154), alla commissione incaricata di individuare quali fra i musei e gli altri beni culturali statali potranno essere trasferiti, quanto a gestione, alle regioni, alle province o ai comuni (art. 150).

Se la scelta per la concorrenzialità è propria anche di altri settori, ci si può allora chiedere perché la mancata definizione del ruolo regionale e locale, nelle politiche che interessano i beni culturali, abbia alimentato riserve e critiche superiori a quelle che hanno interessato gli altri settori: questo sin dalla fase di approvazione della l. 59 del 1997, quando si trattava di definire che cosa riservare alla competenza "speciale" dello Stato. Dibattito che prosegue, ed investe anche le soluzioni di riordino che si sono già pensate, e quelle che si vanno definendo, per l'apparato ministeriale di riferimento.

Perché questo interesse particolare? Perché questa attenzione critica particolare? Domanda che ne sottende un'altra: quali utilità potrebbero derivare dal riconoscimento alle autonomie di un ruolo maggiormente definito, già in sede legislativa?

Per quanto riguarda le utilità, non credo che alla base dei rilievi che vengono formulati da più parti vi sia una petizione di principio o, comunque, una aprioristica idea che le autonomie territoriali non possano che fare bene, magari meglio di quanto possa fare il centro.

Forse, vi è solo l'idea, sottesa a tutti i decentramenti o federalismi - qui le etichette contano sempre meno - che il centro da solo non possa fare meglio.

Per comprendere quali siano le ragioni che possono indurre a questa conclusione, penso occorra andare oltre quelle che sono le specificità e le esigenze dell'area che qui viene in considerazione. I beni culturali non vivono isolati dal resto, non possono cioè essere fatti oggetto di politiche separate, sganciate da altre che agiscono sul contesto nel quale essi si collocano.

Se un problema vi è stato nella passata gestione - lato sensu intesa - dei beni culturali, è stato proprio quello di averli immaginati come ambiti la cui protezione significava esclusione dalla interazione con altri interventi, diversi dalla tutela, da parte di altri soggetti, diversi dal centro statale.

A questo punto, allora, è necessario anche tenere conto dello scenario verso il quale si va. E cioè, se le autonomie si apprestano ad essere i soggetti cui fanno capo la maggior parte delle funzioni e dei compiti amministrativi - in base al principio della loro competenza residuale generale -; se le regioni saranno destinatarie di budget che potranno utilizzare come meglio vogliono; titolari di un'autonomia impositiva che rafforzerà la loro stessa condizione di autonomia; se questo è ciò che sarà, vengono in evidenza tutti i limiti di soluzioni che considerino - in primo luogo - le regioni come soggetti solo eventualmente coinvolti nelle politiche in materia di beni culturali. Tanto più, quando si abbia a mente la diffusione di tali beni sul territorio, la loro idoneità ad essere risorse e a generare risorse che servono al funzionamento complessivo del sistema di cura dei beni stessi.

Il quesito - come dicevo in precedenza - potrebbe essere formulato anche con riguardo ad altri ambiti, per i quali esistono ancora incertezze sul ruolo delle autonomie. Di qui, dunque, l'altra domanda che proponevo: perché queste attenzioni critiche rivolte soprattutto alla mancata definizione dei compiti o delle funzioni delle autonomie con riguardo al settore dei beni culturali?

Probabilmente, perché esistono indicatori che fanno apparire più complessa la soluzione della questione per la materia in esame. Il Testo Unico - già lo accennavo - forse dice troppo con riguardo ai compiti e alle funzioni spettanti al centro statale. Il riconoscimento del ruolo regionale - salvo in alcuni casi - è configurato come esito del ricorso a moduli di cooperazione/collaborazione, a loro volta affidati a sedi e a momenti concertativi. Sedi e momenti, dei quali manca ancora quella implementazione che sola può dare indicazioni utili a capire se e quanto forte sia la volontà di delineare un sistema di interventi in cui si riconoscano competenze e legittimazioni al sistema delle autonomie e utili, inoltre, a declinare il significato che assumerà la cooperazione.

Come è noto, il richiamo a formule di collaborazione e di cooperazione dice molto poco, trattandosi di una formula organizzatoria che riceve i propri tratti dalle applicazioni che se ne fanno. Sono queste prassi che ci dicono se la cooperazione sarà orizzontale - e cioè capace di evocare una pariordinazione dei soggetti, almeno per certe attribuzioni - o se, invece, sarà del tipo, fin qui prevalente nella nostra esperienza, verticale - divenendo strumento per l'esercizio di poteri di coordinamento di una parte, coincidente con il livello di governo superiore, alla quale finisce con lo spettare anche la determinazione unilaterale dei contenuti e del significato della cooperazione.

E qui, di nuovo, intervengono gli indici sintomatici a dire verso quale direzione sembra possa andare questa cooperazione.

Il fatto che non sia stata avviata (se si esclude l'esperienza parallela, ma diversa, della programmazione negoziata e degli accordi di programma già stipulati con Lombardia, Molise e Lazio); il fatto che il testo unico dica molto, troppo, su ciò che spetta al centro statale; il fatto che il riordino dell'apparato ministeriale di riferimento sia stato operando tenendo conto della necessità di attrezzarlo ai compiti che esso sarà chiamato ad esercitare anche al di fuori del territorio della tutela, fanno pensare che poi diventi difficile inserire in questa trama organizzativa e funzionale il riconoscimento del ruolo delle autonomie.

Sembra cioè difficile immaginare che la taglia dell'apparato, sia dal punto di vista delle attività che delle strutture, sia compatibile con il riconoscimento alle regioni di un ruolo che non sia delineato presumendo sempre e comunque la legittimazione primaria del centro (secondo il significato che può appartenere alla sussidiarietà, ma che proprio le riforme del 1997 avrebbero inteso superare).

E di nuovo, è un bene o è un male? Perché alle autonomie dovrebbe essere assegnato un ruolo più definito? Qui ritornano le considerazioni che si facevano sul contesto entro cui andranno a svolgersi le politiche - non di sola tutela - in materia dei beni culturali, ma ritornano anche le ragioni che stanno alla base delle scelte per i decentramenti o i federalismi: il centro fatica a coprire tutte le necessità, ad intervenire ovunque e comunque, specie se le autonomie continuano ad essere e a considerarsi parti solo eventuali o addirittura controparti del sistema.

Un rischio, quest'ultimo - del considerarle controparti - che, tra l'altro, sembra insito nello stesso ricorso a sedi concertative, in presenza di esecutivi regionali molto più forti, come sono quelli scaturiti dalle recenti riforme costituzionali.

Un rischio - di nuovo - che sembra alimentato anche dall'ambito molto ampio assegnato alle funzioni di tutela. Alla base dei rilievi critici formulati nei confronti di una interpretazione estensiva di tali compiti, non vi è infatti l'idea che la tutela dei beni culturali sia stata irragionevolmente e forzatamente riservata a quegli apparati che, al momento, sono i soli a disporre dei saperi professionali e tecnici necessari ad esercitarla e che sono sempre stati e restano, per scelta legislativa, articolazioni del centro.

Semmai, alla base di questi rilievi, vi è principalmente l'idea - che peraltro si può riconoscere accolta anche dagli organi di governo politico dell'apparato ministeriale del settore - che la tutela non risolva, né assorba tutti i possibili interventi in materia di beni culturali.

Meglio, vi è l'idea che la tutela, per assolvere ai propri fini, di salvaguardia del bene nell'interesse storico/artistico che esso possiede, non possa atteggiarsi come insieme di misure meramente conservative, come apposizione di vincoli e restrizioni, ma debba, quantomeno, rendersi compatibile con altre finalità che servono alla stessa tutela: quelle di valorizzazione, fruizione, gestione dei beni secondo criteri e moduli che riconoscano il valore di risorsa propria dei beni stessi e che trovino risorse utili alla loro conservazione.

Sembra allora di poter dire che, per rendere le autonomie parti di questo sistema, e non solo parti eventuali né tantomeno controparti, capaci in quanto tali di sollecitare anche quegli interventi dei privati che sempre più si conviene servono alla stessa conservazione, oltre che alla valorizzazione, dei beni culturali occorra riconoscerle come centri di responsabilità, occorra non solo legittimarle, ma chiamarle ad intervenire.

D'altro canto, si sa che fra le difficoltà maggiori che si sono opposte alla realizzazione del decentramento, vi sono state anche le scelte delle autonomie di non esercitare le competenze, sia pure incerte ed indefinite, di cui già disponevano. Si sa che uno dei problemi del decentramento è il fatto che spesso le autonomie (non tutte, ma molte) abbiano preferito restituire allo Stato ciò che era ad esso restituibile.

Ed allora il compito del futuro legislatore potrebbe anche essere quello di stabilire non solo che cosa le autonomie possono eventualmente fare, ma che cosa devono fare, in veste di parti del sistema, salva la previsione - che già c'è nelle norme - di misure di salvaguardia, sostitutive nel caso esse non facciano.

A questo fine possono, dunque, servire interventi integrativi di quanto è stato sin qui disposto. Interventi che potrebbero trovarsi a dovere assumere una valenza anche correttiva con riferimento alla trama organizzativa e funzionale pensata per il complessivo governo del settore, in quanto e per quanto essa allude ad una autosufficienza del centro, rispetto alla quale sembra difficile immaginare l'attribuzione alle autonomie di un ruolo che non sia configurato in aggiunzione a ciò che già c'è, con tutti i rischi di un sistema che diventerebbe molto affollato e molto complesso.

Il che non è mai un bene, soprattutto quando si consideri che questo affollamento verrebbe a riguardare proprio quei compiti - di valorizzazione, fruizione, gestione - in relazione ai quali si vuole favorire anche un intervento di privati che, lo si può facilmente immaginare, preferiscono sapere chi siano i loro interlocutori, di quali competenze dispongano, quali ne siano i limiti.

A questi fini ed in questo senso, allora, arrivare a definire il "chi fa che cosa" può assumere quel valore positivo che perde quando significhi rigidità nell'assetto delle competenze, ma che invece recupera quando significhi - e questo vale anche per i rapporti interni alla parte pubblica - possibilità di riconoscersi interlocutori e di riconoscere i propri interlocutori.



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