Sommario: 1. Il d.m. 27 novembre 2001 e lo schema di regolamento del 1999. - 2. Le nuove "esternalizzazioni" nella legge finanziaria per il 2002. - 3. Il favore normativo verso la fondazione per la gestione dei beni culturali. - 4. Tipologie di fondazioni private utilizzate nel settore culturale. - 5. Il modello della fondazione di partecipazione. - 6. La natura giuridica soltanto formalmente privata della fondazione.
1. Il d.m. 27 novembre 2001 e lo schema di regolamento del 1999
In seguito alla registrazione della corte dei Conti, è in corso di pubblicazione sulla gazzetta ufficiale il decreto del ministro per i Beni e le attività culturali adottato il 27 novembre 2001, recante il regolamento sulla costituzione e partecipazione a fondazioni da parte del ministero, a norma dell'art. 10 del d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368.
Il decreto ripropone sostanzialmente lo schema di regolamento approvato dal consiglio dei ministri nella scorsa legislatura [1], dallo stesso differenziandosi sotto due profili: l'eliminazione dei contributi pubblici tra le fonti di finanziamento (cfr. le due versioni dell'art. 11, primo comma), e la mancata previsione della possibilità per la fondazione di costituire società di capitali o di parteciparvi, a differenza di quanto stabilito nella precedente versione del decreto, che ammetteva le due ipotesi e subordinava la loro realizzazione al rilascio dell'autorizzazione ministeriale.
Per il resto non si riscontrano significativi discostamenti tra i due testi, salvo voler accentuare il rilievo terminologico e attribuire valore all'omessa previsione della "adeguata (...) fruizione pubblica" accanto alla "adeguata conservazione" dei beni culturali conferiti nell'elencazione degli obiettivi cui è finalizzato il conferimento in uso dei beni culturali (cfr. le due versioni dell'art. 2, secondo comma, lett. a). Ma la questione pare agevolmente risolvibile se si pone mente al seguito della stessa disposizione, che recupera l'obiettivo della fruizione pubblica auspicandone il "miglioramento (...) garantendo(ne) nel contempo l'adeguata conservazione" (art. 2, secondo comma, lett. b).
Assume invece rilievo il rinvio, prima mancante, alle disposizioni del codice civile per "la definizione di ogni altro rapporto giuridico con le fondazioni", laddove il riferimento riguarda il ministero e la sorte dei beni dallo stesso conferiti, chiarito comunque che in caso di estinzione della fondazione, i beni culturali concessi in uso ritornano nella disponibilità ministeriale (art. 2, terzo comma).
Ciò premesso, il commento al decreto non può non riprendere alcune osservazioni a suo tempo formulate riguardo allo schema originario, cui in parte si fa rinvio [2], ed in più deve chiarire le ragioni che giustificano le differenze appena segnalate tra il testo definitivo e quello precedente, specie considerando gli effetti della più recente disciplina legislativa sulle "esternalizzazioni" nel settore culturale.
2. Le nuove "esternalizzazioni" nella legge finanziaria per il 2002
Conviene iniziare proprio dalle più recenti riforme.
E' noto che la l. 28 dicembre 2001, n. 448, di accompagnamento alla legge finanziaria per il 2002, ha dettato tre disposizioni rilevanti per la gestione dei beni e dei servizi culturali: l'art. 33, sui "Servizi per i beni culturali", l'art. 35, con "Norme in materia di servizi pubblici locali", e l'art. 29, sulle "Misure di efficienza delle pubbliche amministrazioni" [3]. D'interesse, nel quadro complessivo dell'intervento, è altresì l'art. 11, che ridisegna nuovamente la disciplina delle fondazioni bancarie e sostanzialmente le ripubblicizza, incidendo anche sugli ambiti di attività e sul ruolo assunto nel settore no profit [4].
Le prime due disposizioni richiamate riguardano espressamente i beni e servizi culturali, la terza ha carattere generale. La prima riguarda lo Stato, ed in particolare gli strumenti a disposizione del ministero per i Beni e le attività culturali, ma delinea un modello che pare estensibile anche agli altri enti territoriali; la seconda riguarda i servizi pubblici locali, in particolare quelli privi di rilevanza industriale; la terza ha portata generale e riguarda tutte le amministrazioni di cui al d.lg. n. 165 del 2001 (testo unico del pubblico impiego).
Se si concentra l'attenzione sull'art. 33, che qui più interessa, si nota che la disposizione interpreta estensivamente quanto già si poteva desumere dall'art. 10 del d.lg. n. 368 del 1998, che prevedeva per il ministero la possibilità di concludere accordi con altre amministrazioni e con privati, e la possibilità di costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni, società (ed in questa ipotesi prevedeva la possibilità di conferire in uso i beni) [5]. L'art. 10 prevedeva che accordi e forme associative fossero finalizzati ad un efficace esercizio delle funzioni ministeriali, specialmente quelle di valorizzazione.
La disposizione introdotta con la finanziaria ammette anche la concessione a "soggetti diversi da quelli statali" della gestione di servizi per migliorare la fruizione e la valorizzazione (cioè i compiti di cui all'art. 152, comma terzo, d.lg. 112 del 1998).
E' una novità? Durante i lavori preparatori la formula era sicuramente più netta, e lasciava prevedere il trasferimento dell'intera attività di valorizzazione ai privati. Dal tenore attuale e definitivo si è argomentato che la concessione possa riguardare soltanto i servizi aggiuntivi, e cioè quelli già previsti dalla legge Ronchey e poi aggiornati dal testo unico. Se così fosse, non ci sarebbe alcun bisogno di tale previsione. Pare invece che anche la formula restrittiva lasci aperta la possibilità di accordi esternalizzatori estesi alle attività di gestione di cui all'art. 150, quarto comma, d.lg. 112 del 1998. Il miglioramento della fruizione e della valorizzazione, in effetti, ben può riguardare anche gli interventi di manutenzione, di sicurezza, di integrità dei beni e di sviluppo delle raccolte museali (lett. b) dell'art. 150, quarto comma, cit.), insomma interventi di gestione orientati alla tutela ed alla valorizzazione. Poiché chi valorizza gestisce, anche le attività di gestione appena menzionate potrebbero dunque essere esternalizzate.
Può sorgere il dubbio se si tratti di gestione di beni o di servizi, visto che la nuova lett. b-bis) aggiunta all'art. 10 del d. lg. 20 ottobre 1998, n. 368 parla di "beni conferiti in gestione": pare una formula ibrida, perché o si trasferisce la gestione o si conferiscono i beni al patrimonio di una nuova organizzazione, ma in questo caso si tratta della diversa ipotesi di cui alla originaria lett. b). Pare comunque che la concessione d'uso del bene possa essere prevista dall'accordo, quando è strumentale alla gestione complessiva del bene trasferita con l'accordo.
La disposizione che sembra permettere maggiori ambiti di manovra è quella di carattere più generale, l'art. 29, che autorizza tutte le amministrazioni di cui al d.lg. 165 del 2001, anche in deroga alle vigenti disposizioni, a:
1) costituire, nel rispetto delle condizioni di economicità, soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi svolti in precedenza;
2) attribuire a soggetti di diritto privato già esistenti, attraverso gara pubblica, lo svolgimento degli stessi servizi.
Nel secondo caso è favorito il trasferimento di beni a favore dei soggetti diritto privato mediante l'applicazione del regime tributario agevolato di cui all'art. 90 della legge n. 388 del 2000 [6].
Qui è prevista la gara pubblica, a differenza dell'affidamento dei servizi culturali locali: la differenza va ravvisata nella natura giuridica dei soggetti affidatari, che sono "enti morali" a livello locale, mentre qui possono anche essere enti profit [7].
Se si riprende però lo schema dell'art. 10 del d.lg. 368 del 1998, che può rappresentare la specificazione nel settore culturale della previsione in esame, non bisogna dimenticare la fungibilità dei modelli societario, fondazionale e associativo che quella disposizione fin dall'inizio prospettava. Ma il modello societario destava preoccupazioni, ignorando che da tempo il nostro ordinamento prevede società non lucrative (ed in Francia nessun dubbio è mai stato sollevato sulla possibilità di gestire musei e beni culturali tramite società ad economia mista, Sem), e quello associativo poteva servire, si riteneva, soltanto se unito alla previsione di un patrimonio vincolato ad uno scopo.
Di qui la preferenza per la fondazione di partecipazione, o "in compartecipazione", modello atipico in grado di unire i due elementi, all'interno del quale deve essere riconosciuto un ruolo di controllo all'ente pubblico che conferisce i beni, non troppo penetrante per non scoraggiare l'intervento dei soggetti privati [8].
Questi ultimi, del resto, se conferiscono beni al fondo di dotazione, debbono conoscere quale sarà la loro destinazione in caso di estinzione della fondazione, correndo il rischio che si applichi la disciplina civilistica sulla devoluzione ad altri enti con finalità affini. Si può suggerire, in linea con un orientamento giurisprudenziale, l'opportunità di una previsione statutaria che renda possibile il recupero del bene, specie allorquando si tratta di enti no profit.
3. Il favore normativo verso la fondazione per la gestione dei beni culturali
Fin dalla sua entrata in vigore si è sostenuto che tra gli strumenti giuridici annoverati dall'art. 10 del d. lg. 368 del 1998 il più funzionale all'attività di gestione dei beni culturali è la fondazione, mentre la società di capitali si addice ad attività di carattere imprenditoriale finalizzate ad acquisire risorse finanziarie, e l'associazione può essere utilizzata per la esternalizzazione di attività strumentali rispetto alla gestione del bene o per l'erogazione di attività di promozione culturale [9].
Si è tuttavia più recentemente notato che il modello societario, inteso come società di capitali, non solo rappresenta la forma giuridica più utilizzata per l'esternalizzazione nel settore culturale, ma in più può assumere un ruolo importante nella valorizzazione dei beni culturali, ruolo che non è incompatibile in via assoluta con la realizzazione del profitto [10]. Ciò significa che la società di capitali non deve essere costretta al mero compito dell'acquisizione di risorse finanziarie, posto che nessuna previsione normativa impone di ricondurre e limitare l'attività a quella di una società finanziaria [11].
Né contro il ricorso alle società miste costituite e/o partecipate dal ministero si può addurre la necessità di attivare procedimenti di evidenza pubblica per la scelta del socio, alla stessa stregua di quanto previsto per le società miste locali [12]. Se infatti si considera la natura speciale della disciplina dettata per le società miste locali e, soprattutto, si applica la regola del rapporto fiduciario che caratterizza il contratto di società, non si vede per quali ragioni si debba derogare a tale regola quando non vi sia una espressa disposizione in senso contrario, come appunto avviene nel caso delle società miste locali [13].
Comunque sia, il regolamento in esame si è limitato a disciplinare le fondazioni, mantenendo quel significativo discostamento dalle previsioni della norma di indirizzo che, come si è visto, si riferiva anche ad associazioni e società [14].
4. Tipologie di fondazioni private utilizzate nel settore culturale
Il modello della fondazione privata nel settore culturale ha finora assunto diverse connotazioni: esistono infatti fondazioni finanziarie, che provvedono al finanziamento di progetti e attività in ambito culturale, di mostre e di eventi culturali; fondazioni di fruizione, che costituiscono e/o gestiscono istituzioni culturali, in particolar modo musei di medie o piccole dimensioni, e fondazioni di intervento, che realizzano direttamente infrastrutture ed erogano attività (ad esempio i centri di ricerca specializzati o i laboratori di studio) [15].
L'evoluzione degli istituti nel settore culturale ha comportato una trasformazione delle stesse organizzazioni fondazionali in formule ibride, organizzative e gestionali, secondo le peculiarità dell'attività prestata e delle finalità perseguite. Le piccole fondazioni, con un esiguo patrimonio, consentono di misurare il fenomeno come comportamento sociale dei singoli; mentre le grandi fondazioni, forti di cospicui patrimoni finalizzati a scopi di ampia portata, inducono a considerazioni di tipo strutturale sulla natura di soggetti sociali riconoscibili e di fonti non legate né allo Stato né al mercato.
Si è così ipotizzata l'utilizzazione del modello fondazionale anche da parte del ministero per la gestione dei beni culturali: se si pensa alla asserita necessità di un controllo pubblico sulle attività di gestione dei beni di proprietà statale, è facile immaginare che difficilmente l'amministrazione preferirà concedere a terzi, nelle forme esaminate, l'intera gestione del bene, scegliendo piuttosto di partecipare a strutture miste. Tra queste, la fondazione garantisce la perpetuità del legame tra patrimonio e scopo, e la congruità del patrimonio in merito agli scopi, esclusa la finalità lucrativa propria degli organismi societari [16]. Proprio per tali ragioni rischia tuttavia di non essere attirare i conferimenti di finanziatori privati [17].
La fondazione si presta inoltre ad essere utilizzata all'esito della eventuale trasformazione degli istituti museali di interesse nazionale. Tale veste giuridica potrebbe rappresentare la nuova forma gestionale di una determinata rete museale dislocata sul territorio, laddove si voglia mantenere un potere di controllo, da parte del ministero, sull'attività di soggetti che solo apparentemente potrebbero considerarsi privatizzati [18].
5. Il modello della fondazione di partecipazione
La privatizzazione formale conseguente all'utilizzazione dello strumento fondazionale, salutata favorevolmente alla stessa stregua dell'utilizzazione di strumenti di diritto privato nella gestione di servizi pubblici a livello nazionale ed a livello locale, è tuttavia molto cauta, ed assegna al ministero un ruolo forte [19].
Se l'esternalizzazione può consentire una maggiore trasparenza e distinzione di responsabilità tra politici e amministratori [20], sotto altro profilo, nel caso di erogazione di un servizio pubblico, è possibile che comporti la coincidenza tra soggetto titolare del servizio ed ente gestore, laddove l'ente pubblico nella maggior parte dei casi è destinato ad assumere il ruolo di fondatore e di prevalente finanziatore nella fase di costituzione del patrimonio [21].
La c.d. "fondazione di partecipazione" è caratterizzata da "un'equilibrata sintesi dell'elemento personale, proprio delle associazioni, e dell'elemento patrimoniale, tipicamente presente nelle fondazioni" [22]. Si tratta di una struttura aperta, anche se non è univoco il riferimento ad una base associativa diffusa, nell'ambito della quale i sostenitori che sopraggiungono dopo la costituzione sono distinti dai fondatori e sono rappresentati nell'organo assembleare della fondazione [23].
La fondazione "con personalità giuridica di diritto privato", secondo l'art. 1 del regolamento in esame, aggiunge al modello delineato dal codice civile una serie di previsioni in ordine alle competenze ministeriali. Anzitutto le finalità della fondazione mirano al più efficace esercizio delle funzioni ministeriali, cioè delle attività di gestione e di valorizzazione dei beni culturali, e della promozione delle attività culturali. Se ci si sofferma sui compiti di gestione del bene, si può rilevare che l'effettiva autonomia della fondazione richiede, oltre al conferimento del bene stesso al patrimonio fondazionale ed al conseguente distacco da quello del fondatore, anche il riconoscimento agli organi della fondazione di una piena potestà decisionale in ordine alle modalità di gestione del bene [24].
Nell'assenza di una puntuale definizione nel codice civile, l'originaria costruzione della figura della fondazione si concentrava sulla centralità dell'aspetto patrimoniale, sull'universitas bonorum destinata ad uno scopo [25], e da tale centralità si traeva il corollario del distacco dell'ente dal fondatore e della configurazione degli organi come servente, in contrapposizione al ruolo fondamentale loro accordato all'interno dell'associazione [26].
Quel modello è stato superato dalla prassi statutaria, che ha progressivamente concentrato l'attenzione sull'organizzazione collettiva che si avvale del patrimonio per realizzare lo scopo, come da tempo è stato rilevato proprio con riferimento alle fondazioni culturali [27]. Così, se in generale si è constatata l'immanenza della figura del fondatore nella vita della fondazione, nella particolare tipologia di fondazione in esame, il ministero, che nella gran parte dei casi rivestirà il ruolo di fondatore, non potrà evitare di assumere altresì funzioni di regolazione e di vigilanza sull'attività della stessa struttura, posto che l'oggetto da perseguire per statuto è l'efficace esercizio delle proprie competenze istituzionali e, in determinati casi, l'erogazione di un servizio pubblico (si pensi, appunto, alla gestione di un bene culturale e all'erogazione delle attività connesse).
Nel regolamento in esame sono previsti addirittura sei organi fondazionali, che durano in carica quattro anni e possono essere confermati una sola volta, identificati nel presidente, nell'organo di indirizzo, che nomina (e revoca) gli organi di amministrazione e di consulenza scientifica, nell'organo di controllo e nell'eventuale organo assembleare, composto dai partecipanti alla fondazione diversi dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali, con il compito di designare i propri rappresentanti negli altri organi della persona giuridica e di formulare periodicamente proposte e pareri circa le attività della fondazione. Il sistema delle nomine è "a cascata", sia per i fondatori pubblici, che designano i loro rappresentanti nell'organo di indirizzo che, a sua volta, nomina i componenti degli organi di amministrazione e di consulenza scientifica, sia per i fondatori privati, per i quali è prevista in via preliminare l'ulteriore fase della nomina dell'organo assembleare, che nomina i rappresentanti nell'organo di indirizzo [28].
Oltre al ruolo di fondatore ed al ruolo di autorità governativa preposta dal codice civile al controllo sulle fondazioni di diritto privato [29], al ministero sono riconosciuti veri e propri poteri di gestione dell'attività della fondazione, tra i quali l'adozione di atti a contenuto generale che individuano le modalità di partecipazione dei privati, i requisiti soggettivi dei membri degli organi della fondazione e le relative cause di incompatibilità, le ipotesi di conflitto di interessi, e la definizione dei parametri di "sana e prudente gestione". Ciò conferma che la fiducia riposta in Italia nel modello della fondazione mista o di partecipazione è subordinata al riconoscimento di un effettivo ruolo di gestione del ministero, che conferisce beni culturali al patrimonio dell'ente e seleziona i privati che garantiscano, soprattutto sotto il profilo finanziario, il raggiungimento dei risultati di gestione stabiliti [30].
La disparità tra il ruolo del ministero fondatore ed il ruolo dei fondatori privati è ancor più evidente in relazione alla natura ed alla destinazione dei conferimenti al patrimonio dell'ente: il primo può partecipare al patrimonio fondazionale "mediante il conferimento - in uso e non in proprietà - dei beni culturali che ha in consegna", i secondi, così come gli altri enti pubblici che intendono partecipare alla fondazione, possono conferire altri beni culturali oppure risorse finanziarie serventi a garantire un'adeguata conservazione (e fruizione pubblica) dei beni culturali conferiti.
Quando si tratta di beni di proprietà frazionata in capo a diversi enti territoriali, il ministero può conferire i beni allo scopo di bilanciare il conferimento degli altri partecipanti alla fondazione, per integrare le attività di gestione e di valorizzazione, incrementando nel territorio di riferimento i servizi offerti al pubblico, migliorandone la qualità e realizzando economie di gestione. Posto che il conferimento del bene da parte del ministero è in concessione d'uso, nell'eventualità dell'estinzione della fondazione lo stesso bene è destinato a ritornare nella disponibilità ministeriale, mentre la sorte dei beni conferiti da altri soggetti è rimessa ad apposite previsioni statutarie, in mancanza delle quali l'art. 31 cod. civ. prevede che l'autorità governativa possa disporre la loro devoluzione ad altri enti che hanno fini analoghi [31]. E' comunque aperto il confronto sul margine di autonomia riconosciuta al fondatore circa la devoluzione dei beni residui, tra la tesi che ammette clausole che ne prevedono il recupero e la posizione più rigida che ritiene tali clausole incompatibili con lo scopo di pubblica utilità che informa l'attività della fondazione (cd. criterio del non distribution constrain), derogabile nell'ipotesi in cui lo stesso fondatore persegua fini analoghi a quelli dell'ente estinto [32].
L'integrale gestione del bene culturale affidata alla fondazione può includere altresì l'affidamento dei servizi accessori di cui al d.lg. 490 del 1999, cioè quelli elencati dalla versione aggiornata della l. n. 4 del 1993 (cd. legge Ronchey), ammettendo solo due occasioni di rinnovo dell'affidamento quadriennale.
Se non è dubitabile che la fondazione operi senza scopo di lucro [33], e dunque la scelta dei partner privati sia sottratta alle procedure di evidenza pubblica, potevano sorgere dubbi sulla possibilità per lo stesso ente di costituire o partecipare a società di capitali che svolgono in via strumentale ed esclusiva attività dirette al perseguimento degli scopi statutari [34]. Il precedente schema di regolamento ammetteva quella possibilità, considerando che ormai la giurisprudenza ha ammesso l'esercizio di attività speculative in via strumentale al perseguimento dello scopo statutario, mentre gli aspetti problematici riguardano l'applicabilità dello statuto dell'imprenditore commerciale [35].
Secondo un risalente orientamento di pensiero, quando l'attività economica ha carattere accessorio rispetto all'attività istituzionale dell'ente, la fondazione non potrebbe assumere la qualificazione imprenditoriale, per mancanza del requisito della professionalità, che sarebbe invece ravvisabile nell'attività non economica dell'ente [36], ma in senso contrario si può sostenere che in base all'art. 2082 cod. civ., se la professionalità richiede che l'iniziativa economica sia abituale e non occasionale, ciò non significa che l'attività imprenditoriale debba essere l'attività esclusiva o principale del soggetto agente [37]. A ciò va aggiunto il problema delle responsabilità connesse all'esercizio delle attività in forma imprenditoriale, ed la delicata questione in ordine alla relativa assunzione da parte dell'ente pubblico non economico [38]. Diverso è il caso della cd. "fondazione di impresa", dove l'intersezione con l'attività economica riguarda non più l'attività esercitata in via strumentale al perseguimento della finalità statutaria, ma integra lo scopo stesso della fondazione [39].
Con riferimento alle fondazioni partecipate dal ministero tale ultima evenienza deve essere esclusa. Secondo lo schema originario del regolamento, era prevista la costituzione/partecipazione a società di capitali statutariamente impegnate ad erogare i servizi accessori. Quella soluzione avrebbe sollevato problemi in ordine alla necessità di attivare procedure di evidenza pubblica per la scelta dei soci privati, alla stessa stregua di quanto avviene per le società miste locali che abbiano costituito una nuova società partecipata da uno o più soggetti privati [40].
Come si è detto in apertura, il testo definitivo del regolamento non prevede più la possibilità per la fondazione di costituire o partecipare a società di capitali: la possibilità di esternalizzare una serie rilevante di attività riconducibili alla gestione dei beni culturali prevista dall'art. 33 della l. 448 del 2001 dovrebbe infatti consentire al ministero di seguire quella procedura anziché costituire la fondazione e, in seconda istanza, partecipare ad una società di capitali.
La fondazione persegue l'autofinanziamento e comunque provvede ai suoi compiti mediante contributi ed assegnazioni di soggetti privati, mentre non sono più previsti, come si è notato, i contributi pubblici. Il sistema delle agevolazioni fiscali dovrebbe favorire il finanziamento privato, e pare anzi potersi affermare, sulla base dell'impianto normativo descritto, che i privati, almeno le imprese commerciali, probabilmente preferiranno erogare finanziamenti anziché legarsi strutturalmente alla fondazione.
6. La natura giuridica soltanto formalmente privata della fondazione
Per concludere va ricordato che l'inquadramento giuridico delle fondazioni culturali ha sollecitato riflessioni dottrinali già con riguardo alla distinzione tra persone giuridiche pubbliche e private. Nel richiamare le elaborazioni teoriche sulla cd. "amministrazione sociale" [41], è utile sottolineare che, mentre nessun dubbio ha accompagnato l'inquadramento tra gli enti privati delle società commerciali, soggette a vigilanza governativa, diversa sorte era toccata alle persone giuridiche "con scopi altruistici o ideali".
All'inizio del '900 si rilevava infatti la coincidenza tra enti pubblici e soggetti che erogavano un servizio pubblico [42], ma tale classificazione era agevole in un contesto nel quale ogni attività amministrativa si limitava ad una funzione di polizia, diretta a prevenire i pericoli contro l'incolumità sociale [43]. Allorquando si è sviluppata nello Stato un'altra "specie di funzioni (...) diretta a promuovere l'incremento del benessere della società", non è stato più possibile definire il servizio pubblico in ragione della sua natura intrinseca, potendo gli stessi scopi essere perseguiti da privati o da pubbliche autorità nel campo sociale [44].
In tale contesto era emersa la questione della riconducibilità dei cd. "corpi morali" al regime di diritto pubblico, e, se da un lato si era riconosciuto che "tutti i corpi morali vivono in ultima analisi sotto un regime di diritto pubblico, perché il loro riconoscimento è ispirato a concetti di interesse pubblico", dall'altro si era ritenuto "esagerato affermare che ogni volta che vi è questo interesse di natura ideale o altruistica, vi è un ente pubblico in tutta la estensione del termine, paragonabile allo Stato od agli enti autarchici territoriali, poiché in tal modo si giungerebbe ad un assorbimento troppo grande del diritto privato nel pubblico, che nell'attuale momento storico non è giustificato" [45].
Così le fondazioni a scopo di risparmio, di credito o di previdenza sollevavano "gravi dubbi se esse dalla pura sfera del diritto privato non trapassino in quella del pubblico", posto che le stesse "ottenuto il guadagno, o ne formano una massa di rispetto per garantire sempre meglio coloro che ricorrono ai loro servizi, o ne destinano l'eccedenza ad altri scopi di pubblica utilità". E tra gli stessi enti "di carattere dubbio" erano altresì annoverati "gli enti d'istruzione e d'arte, con scopi meramente ideali che ridondano di regola a vantaggio dell'intera società" [46].
La prospettata teoria non riteneva sufficiente il criterio dello scopo perseguito, e riteneva pubblico ogni ente che fosse costituito dallo Stato o "munito di poteri di imperio verso i terzi", o ancora assoggettato a "continua vigilanza od a coattiva fusione o trasformazione".
Invero, come veniva del resto ammesso dalla dottrina, era il fine perseguito a stabilire il discrimine, ed infatti, a fronte della eccezione che si poteva muovere al requisito della soggezione alla vigilanza statale, si replicava che, sebbene questa operasse anche nei confronti delle persone private, in tali casi, a differenza di quanto avveniva riguardo agli enti pubblici, essa aveva un contenuto molto ristretto, posto che "le funzioni dell'ente privato sono diverse da quelle dell'ente pubblico" [47].
I criteri che all'inizio del '900 servivano a definire il carattere pubblico dell'ente tendono a coincidere con quelli oggi stabiliti dall'ordinamento comunitario per "snidare la pubblicità reale" di organismi che solo apparentemente sembrano privati. Il che, in ultima analisi, induce a svalutare il dato meramente formale, e a precisare che, nel caso di fondazioni di diritto privato a prevalente partecipazione pubblica, non si può invocare un fenomeno di sostanziale privatizzazione [48], ma la semplice utilizzazione da parte della pubblica amministrazione di strumenti di diritto privato, aperti alla partecipazione di soggetti terzi, per garantire la soddisfazione degli interessi pubblici di riferimento.
[1] Approvato in data 26 novembre 1999, e riportato in Aedon, n. 2/2000, ed ivi il commento di A. Canuti, Il regolamento attuativo dell'art. 10 d. lg. 368/1998: un primo commento.
[2] Oltre al commento di A. Canuti, di cui alla nota precedente, cfr. S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, 330 ss.
[3] Si richiamano in particolare le osservazioni di M. Cammelli, Buscar oriente e tornar occidente (ovvero: i beni culturali nella finanziaria 2002), e di E. Bruti Liberati, Pubblico e privato nella gestione dei beni culturali: ancora una disciplina legislativa nel segno dell'ambiguità e del compromesso, entrambi in Aedon, n. 3/2001.
[4] Suscita infine perplessità la riforma delle fondazioni bancarie, il cui legame con gli enti territoriali è stato decisamente potenziato, ed i cui ambiti di intervento spaziano in settori prima nemmeno immaginabili (basti pensare alla prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica). Forse si è dilatata notevolmente l'area dei settori sociali: ad es. in materia di sicurezza pubblica. Cfr. S. Foà, voce Sicurezza pubblica, in Dig. disc. pubbl., vol. XIV (1999). Si può concordare con chi ha affermato che le fondazioni bancarie così ridisegnate sottraggono aree di intervento ai privati, in aperto contrasto con il principio di sussidiarietà orizzontale ormai costituzionalizzato. Altro problema riguarda i settori ammessi ed i settori rilevanti, con riferimento ai quali è difficile comprendere in quale modo si possa accordare preferenza ai "settori a maggiore rilevanza sociale" e soprattutto quali siano: i beni culturali potrebbero essere sacrificati da una lettura troppo rigida delle nuove previsioni.
[5] E' da tempo risolta in senso affermativo la controversia teorica e giurisprudenziale in ordine al potere degli enti pubblici di costituire associazioni o fondazioni di diritto privato. Sul tema, già R. Ferrara, Brevi note sul potere degli enti pubblici di costituire associazioni di diritto privato, estratto da Foro it., 1980, IV, 4 ss.
[6] Tale disposizione, dedicata alle sperimentazioni gestionali, prevede infatti che il trasferimento di beni non dia luogo, ai fini delle imposte sui redditi, a realizzo o distribuzione di plusvalenze, ricavi e minusvalenze, compreso il valore di avviamento, e non costituisce presupposto per la tassazione di sopravvenienze attive nei confronti del cessionario, ed inoltre non è soggetto ad alcuna imposta sui trasferimenti né comporta obbligo di affrancare riserve e fondi in sospensione d'imposta.
[7] La previsione dedicata ai servizi pubblici locali ha un impatto innovatore molto limitato e decisamente sottodimensionato rispetto al disegno di legge presentato nella scorsa legislatura. Nel precedente disegno di legge si prevedeva infatti l'affidamento diretto di attività e servizi culturali ad associazioni e fondazioni private che già operavano nel settore e che offrivano adeguate garanzie statutarie sul perseguimento dell'interesse pubblico. L'attuale previsione mantiene un comma riservato ai servizi culturali (perché poi distinguerli dagli altri servizi "non industriali"?), ma limita l'affidamento diretto alle sole associazioni e fondazioni costituite o partecipate dall'ente territoriale. La previsione precedentemente ipotizzata configurava a ben vedere una concessione di servizio, e non prevedeva una fase di evidenza pubblica per la scelta del concessionario (ma non esiste ormai anche un "mercato" del no profit?). Debbono poi sempre sussistere ragioni tecniche, economiche o di opportunità sociale a sostegno della scelta di esternalizzazione. La nuova disposizione rischia di limitare l'intervento dei privati, specie se, sulla falsariga della bozza di regolamento per le fondazioni statali, all'ente pubblico sono affidate praticamente tutte le decisioni sulla vita dell'ente. Del resto, se l'amministrazione non disponesse del potere di controllo, limiterebbe sicuramente i conferimenti, sapendo di perdere la titolarità dei beni conferiti. Ne conseguirebbe la sottocapitalizzazione della fondazione.
[8] Il modello è preferito anche nella prassi applicativa: ad esempio nella regione Piemonte sta per essere utilizzato sia per la gestione di musei nazionali (museo egizio), sia regionali (museo di scienze naturali), sia comunali (fondazione Torino musei).
[9] Cfr. E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero (art. 10 del d.lg. 368/1998), in Aedon, n. 1/1999.
[10] N. Rocco di Torrepadula, Le società per la valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, n. 3/2001.
[11] N. Rocco di Torrepadula, Le società per la valorizzazione dei beni culturali, cit.
[12] Sulle società per azioni miste per l'erogazione dei servizi pubblici locali a rilevanza imprenditoriale si rimanda a M. Cammelli, La società per azioni a partecipazione pubblica locale, in AA.VV., Servizi pubblici locali e nuove forme di amministrazione, Atti del XLI Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Milano, 1997, 125 ss., ed ivi richiami bibliografici. Con riferimento al servizio pubblico ambientale, P. Fimiani, Le società miste nel servizio pubblico ambientale, Milano, 1998, spec. 191 ss., con riferimento ai servizi sociali in materia ambientale, e in particolare alle società per i lavori socialmente utili e alla gestione delle aree naturali protette come servizio pubblico.
[13] Si veda, per lo sviluppo di tale ipotesi, E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero, cit., che tuttavia mantiene qualche perplessità in ordine alla estensione della disciplina dettata dalla l. n. 142 del 1990 (oggi dal d.lg. n. 267 del 2000) alle società miste statali. Con riferimento ai rapporti tra i soci delle costituende società miste statali, si può allora auspicare il mantenimento della disciplina dettata dal codice civile riguardo alle società di capitali, per evitare i vincoli pubblici che sulla carta minano, ad esempio, la struttura della Sibec s.p.a. ancor prima della sua costituzione.
[14] A. Canuti, Il regolamento attuativo, cit.
[15] Per uno studio sulle fondazioni di diritto privato nel settore culturale, D. Vittoria, Le fondazioni culturali e il consiglio di amministrazione, in Riv. dir. comm., 1975, I, 316 ss.
[16] Così E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero, cit.
[17] G. Franchi Scarselli, Sul disegno di gestire i servizi culturali tramite associazioni e fondazioni, in Aedon, 3/2000.
[18] A livello regionale, è il caso di ricordare l'ipotesi di lavoro formulata dalla regione Piemonte nell'ottobre 1996, che ha concepito un'agenzia, per la gestione delle residenze e delle collezioni reali regionali, con forma giuridica di fondazione, in vista di un protocollo d'intesa tra regione e ministero per i Beni culturali. La stessa agenzia doveva essere aperta all'adesione di fondazioni bancarie, camera di commercio, Ordine mauriziano e comune di Torino.
[19] M. Trimarchi, Privatizzare la cultura in Italia: obiettivi, vincoli ed effetti, in Economia della cultura, 1997, 178 ss.; A. Canuti, Il regolamento attuativo, cit., che attribuisce forte valenza innovativa alla sola privatizzazione formale, in sé considerata e non come momento prodromico rispetto ad una più radicale privatizzazione sostanziale.
[20] Critica la asserita coincidenza tra privatizzazione formale e depoliticizzazione A. Detheridge, Bello statuto, meglio non applicarlo, in Il sole 24 ore.com, 2000.
[21] Così, con riferimento alle fondazioni di partecipazione a livello locale, G. Franchi Scarselli, Sul disegno di gestire i servizi culturali, cit.
[22] E. Bellezza, F. Florian, Le fondazioni nel terzo millennio, Firenze, 1998, 63 ss. Sulla riqualificazione della forma associativa, G. Iorio, Le fondazioni, Milano, 1997, 24, ed ivi ulteriori richiami bibliografici. Sulla distinzione tra associazioni e fondazioni, P. Rescigno, voce Fondazione. C) Diritto civile, in Enc. dir., vol. XVII (1968), 790 ss.; F. Galgano, Delle persone giuridiche, in Commentario al codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1969, 68 ss.; Id., Le associazioni, le fondazioni, i comitati, Padova, 1987; A. Predieri, Sull'ammodernamento della disciplina delle fondazioni e istituzioni culturali di diritto privato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, 1117 ss. Anche nell'esperienza degli Stati Uniti, cui spesso gli studi sulle fondazioni fanno riferimento, si distingue un modello più tradizionale, la corporate, con uno statuto legato ad un lascito ed un importante patrimonio da gestire, e le più recenti community foundations, che operano in un determinato territorio con uno statuto più flessibile che prevede l'intervento di più soggetti e finanziamenti, e ricevono a livello di legislazione fiscale un trattamento preferenziale rispetto alle private foundations. Va detto che negli Stati Uniti, ed in genere nei paesi di common law, la fondazione rientra nella più ampia categoria delle non profit organizations, e può assumere la forma giuridica del trust, nella specie del charitable trust. In letteratura, G. Ponzanelli, voce Fondazione in diritto comparato, in Digesto disc. priv., sez. civ., vol. VIII (1992), 367 ss.; D. Guzzi, Le fondazioni: perché crearle e come gestirle: un confronto fra la realtà italiana e quella statunitense, Milano, 1995; Fondazione Giovanni Agnelli, Per conoscere le fondazioni: i mondi delle fondazioni in Italia e all'estero, Torino, 1997. Sulla sostanziale differenza tra esperienza statunitense e prospettata utilizzazione italiana delle fondazioni di partecipazione, cfr. A. Detheridge, Bello statuto, meglio non applicarlo, cit., secondo cui "il pensiero di fondo che ha motivato l'attuale fiducia nella formula delle fondazioni in Italia è di segno opposto rispetto a quello americano. Non c'è motivazione filantropica in quanto tutte le istituzioni che s'intende unire o trasformare in fondazione sono di proprietà pubblica e rimarranno di proprietà pubblica perché di beni inalienabili si tratta. La ragione che motiva la trasformazione in fondazione è una speranza, o meglio una scommessa: che la gestione privatizzata in regime di diritto privato possa meglio amministrare un bene pubblico nell'interesse del pubblico".
[23] A. Canuti, Il regolamento attuativo, cit.
[24] A. Canuti, Il regolamento attuativo, cit.
[25] Nel diritto romano non è mai stato considerato persona giuridica il patrimonio destinato ad uno scopo, ma si è considerato che il patrimonio fosse attribuito ad un'entità giuridica, persona fisica o corporazione, con l'onere di destinarlo e di gestirlo per realizzare quel determinato fine; sicché proprietaria del patrimonio e titolare dei rapporti giuridici a questo inerenti era considerata la persona fisica o la corporazione, cui il patrimonio era affidato. Nel tardo diritto imperiale era discussa la figura delle piae causae, che individuava lasciti destinati a scopi di beneficenza o di culto. Secondo alcuni, il patrimonio sarebbe stato attribuito sempre ad una persona giuridica, perché lo destinasse al fine di carità o di culto; secondo altri, influenzati dal concetto moderno di fondazione, la protezione giuridica sarebbe stata assicurata al patrimonio senza necessità di un titolare dei beni, mediante l'amministrazione autonoma del patrimonio per mezzo di un oeconomus sotto la sorveglianza del Vescovo per attuare lo scopo voluto dall'autore della liberalità. Per un approfondimento, E. Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Roma, 1988, 115 ss., spec. 122 ss. Per una recente ricostruzione dell'evoluzione dell'istituto, dall'origine romanistica, L. Filippini (a cura di), Economia delle fondazioni: dalle piae causae alle fondazioni bancarie, Bologna, 2000, passim.
[26] A. Fusaro, voce Fondazione, in Digesto disc. priv., sez. civ., vol. VIII (1992), 359; F. Galgano, voce Fondazione. I) Diritto civile, in Enc. giur., vol. IVX (1989).
[27] D. Vittoria, Le fondazioni culturali ed il consiglio di amministrazione. Evoluzione della prassi statutaria e prospettive della tecnica fondazionale, in Riv. dir. comm., 1975, 298 ss.; A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, 54 ss.; D. Guzzi, Le fondazioni. Perché crearle e come gestirle, Milano, 1995, 15 ss.
[28] Critica il carattere eccessivamente macchinoso del sistema delle nomine A. Canuti, Il regolamento attuativo, cit., secondo cui "nell'ambito dei requisiti di imparzialità e competenza individuati dal ministero, non è chiaro per quale motivo non possa essere attribuita direttamente ai fondatori la nomina non solo dei loro rappresentanti negli organi di controllo e di indirizzo, ma anche in quelli di amministrazione e di consulenza scientifica".
[29] In base all'art. 25 cod. civ. Nella scienza giusprivatistica l'affidamento del controllo all'autorità governativa veniva in un primo momento giustificato in ragione della assenza di "un congegno interno alla struttura dell'ente (cioè l'assemblea) che consenta una correzione o una regolarizzazione della gestione": così F. Ferrara sr., con note di F. Ferrara jr., Le persone giuridiche, in Trattato Vassalli, II ed., ristampa, Torino, 1958, 353. Sul contenuto del controllo, e sulla sua limitazione alla legittimità della gestione o, secondo un'altra teoria, sulla sua estensione al merito delle scelte effettuate dagli amministratori, si veda la ricostruzione del dibattito dottrinale in G. Iorio, Le fondazioni, cit., 304, ed ivi richiami bibliografici. Secondo F. Galgano, Delle persone giuridiche, cit., 341, i poteri di controllo di cui all'art. 25 cod. civ., dandosi carico degli interessi propri dell'ente, configurerebbero una competenza ascrivibile all'area dell'"amministrazione pubblica del diritto privato".
[30] Sicché i privati saranno destinati ad assumere più un ruolo di sponsor che di effettiva partecipazione alla gestione: A. Canuti, Il regolamento attuativo, cit.; A. Detheridge, Bello statuto, meglio non applicarlo, cit.
[31] Dalla sussistenza di tale rischio, fortemente disincentivante per i privati, si è argomentato che i privati interverranno nella maggior parte dei casi mediante il conferimento di risorse finanziarie: A. Canuti, Il regolamento attuativo, cit.
[32] Per una ricostruzione del dibattito dottrinale, con richiami bibliografici, A. Fusaro, op. ult. cit., 366.
[33] L'art. 11, quarto comma, della bozza di regolamento dispone infatti: "La fondazione non può in alcun caso distribuire o assegnare quote di utili, di patrimonio ovvero qualsiasi altra forma di utilità economica".
[34] In tal senso espressamente dispone l'art. 11, secondo comma, della bozza di regolamento in esame.
[35] Per una ricostruzione del dibattito dottrinale, con ampi richiami bibliografici, G. Iorio, Le fondazioni, cit., 229 ss., e 239 ss., ed ivi anche una rassegna giurisprudenziale; A. Fusaro, L'associazione non riconosciuta. Modelli normativi ed esperienze atipiche, Padova, 1991, 130 ss. L'opinione contraria, ma minoritaria, alla compatibilità tra scopo statutario della fondazione ed esercizio dell'attività di impresa è propugnata da C.M. Bianca, Diritto civile, vol. I, La norma giuridica. I soggetti, Milano, 1990, 315. L'ipotesi è studiata, dal versante societario, da G. Marasà, Le "società" senza scopo di lucro, Milano, 1984.
[36] Così già E. Zanelli, La nozione di oggetto sociale, Milano, 1962, 108 ss., criticamente richiamato da G. Iorio, Le fondazioni, cit., 238.
[37] G. Iorio, Le fondazioni, cit.
[38] G. Franchi Scarselli, Sul disegno di gestire i servizi culturali, cit., con riferimento alle fondazioni di partecipazione costituite dagli enti locali per l'erogazione di servizi culturali.
[39] L'ipotesi, affermatasi nella prassi, ha imposto di ridefinire gli scopi delle fondazioni, ammettendo la sufficienza del suo carattere non individuale, ed in certi casi addirittura rimuovendo tale preclusione. Così A. Fusaro, Fondazione, cit., 363.
[40] In via dubitativa, A. Canuti, Il regolamento attuativo, cit.
[41] S. Foà, La gestione dei beni culturali, cit., 163 ss.
[42] Si ricorda la dottrina tradizionale: Santi Romano, Principi di diritto amministrativo, Milano, III ed., 1912, 176 ss.; nella dottrina francese M. Hauriou, Précis de droit administratif, Paris, X ed., 1921, 303 ss.
[43] S. Foà, voce Sicurezza pubblica, cit.
[44] Così C. Vitta, Le persone giuridiche pubbliche in Francia e in Italia, Modena, 1928, 18 ss.
[45] C. Vitta, Le persone giuridiche pubbliche, cit., 18 ss. ma anche 5 ss., ove si ricorda che in Francia, accanto agli enti pubblici, dottrina e giurisprudenza hanno individuato la categoria degli enti di "utilità pubblica", che sono associazioni o fondazioni di origine privata, che gestiscono servizi di interesse pubblico. L'Autore, richiamando la citata opera di Hauriou, ricorda che tali organizzazioni "non sono erette in servizi pubblici, per quanto sovente l'autorità amministrativa le sussidi e talora si avvalga anche pei suoi fini dell'opera da esse prestata"; esse godono di "una posizione privilegiata" che consegue al riconoscimento di una "personalità più completa" rispetto a quella accordata in genere alle associazioni, proprio perché si tratta di "enti che appaiono specialmente interessanti o che inspirino particolare fiducia". "Tale la categoria di questi enti che sembrano intermedi fra i pubblici ed i privati. Tuttavia, volendosi decidere a classificarli esattamente dal lato giuridico, bisogna convenire coi moderni e migliori autori francesi che gli enti stessi, pur stando sui confini della pubblicità, sono realmente persone giuridiche private". L'Autore conclude che "(...) il vero punto di passaggio fra il diritto privato ed il pubblico si trova anche in Francia non fra le società di lucro e gli stabilimenti di pubblica utilità, ma fra questi ultimi e gli enti pubblici".
[46] C. Vitta, Le persone giuridiche pubbliche, cit., 23 ss.
[47] Ancora C. Vitta, Le persone giuridiche pubbliche, cit., 33.
[48] Su cui, con riferimento ai servizi pubblici locali, G. Sanviti, Le privatizzazioni nell'ambito dei servizi pubblici locali, in Dir. econ., 1999, 675 ss.