Sommario: Premessa. - 1. Il modello della fondazione di partecipazione rimane tuttora atipico. - 2. Segue: l'opinione del Giudice amministrativo. - 3. Sulla coerenza formale e l'operatività concreta di gestire i servizi culturali tramite (associazioni e) fondazioni. - 4. Le questioni irrisolte. - 5. Conclusioni.
La legge finanziaria 2002, nel riformare la disciplina dei servizi pubblici locali, ha come noto previsto che quelli culturali (e del tempo libero) possano fra l'altro venire gestiti da associazioni e fondazioni costituite o partecipate dagli enti locali [1]. Tale previsione recupera, sia pure con modificazioni, quella contenuta nel c.d. d.d.l. servizi della scorsa Legislatura che si è già avuto occasione di commentare vuoi nella prospettiva di considerare de jure condendo la coerenza del modello fondazionale (nella sua configurazione tipica) nel più complessivo sistema del governo locale, vuoi in quella di manifestare considerazioni di perplessità jure condito sulla legittimità di quella sua configurazione particolare, già applicata da taluni enti locali, nota quale fondazione di partecipazione [2].
Qui ci proponiamo, alla luce dell'intervenuta produzione normativa (composta altresì dalla nuova disciplina sul riconoscimento della personalità giuridica agli enti del Libro I del codice civile), anzitutto di ribadire che tale "modello" particolare rimane tuttora extra ordinem, e quindi di aggiungere qualche ulteriore considerazione al convincimento che quello tipico (che pertanto resta il solo autorizzato) non si mostra nemmeno ora così felice o concretamente idoneo allo scopo di gestire quei servizi come potrebbe forse ritenersi.
Per evidenti ragioni la presente analisi sarà condotta per lo più rinviando alle (più articolate) considerazioni già svolte in quel primo commento.
1. Il modello della fondazione di partecipazione rimane tuttora atipico
Il fatto che la legge autorizzi gli enti locali a servirsi di "associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate", non può lasciar concludere che abbia tipizzato, e dunque introdotto nell'ordinamento, quel "modello" di fondazione c.d. di partecipazione che si connota, in sintesi, per la circostanza di coniugare l'elemento personale proprio delle associazioni a quello patrimoniale proprio delle fondazioni. E cioè di non possedere carattere associativo, in quanto costituito per la destinazione di un patrimonio a un dato scopo, e nemmeno implicare la separazione fra la volontà del soggetto fondante e la sua diretta capacità di concorrere ad amministrarlo.
L'appeal di tale costruzione risiede nell'ammettere di associare uno o più fondatori (nel campo che ci riguarda, di fatto pubblici o in via del tutto prevalente pubblici [3]) per la gestione di un patrimonio che si pretende rimanga loro collettivamente proprio e, suo tramite, soddisfare uno scopo di pubblica utilità (il servizio pubblico culturale) che peraltro non sarebbe ad essi esterno, in quanto cristallizzato nella volontà del o dei fondatori, bensì dinamicamente aggiornabile in relazione a ciò che concretamente richiede la sua valorizzazione secondo la volontà dell'organo che lo amministra.
E così di prevedere che, malgrado si tratti di gestire un patrimonio, i soggetti che lo conferiscono possano amministrarlo con le prerogative dei componenti un'associazione. La qual cosa consente di superare l'elemento caratteristico della fondazione, che immancabilmente richiede il distacco fra la volontà del fondatore e quella degli amministratori chiamata a realizzarla (e cioè di superare l'ostacolo alla diffusione del modello fondazionale da parte dell'ente locale, che non troppo facilmente potrebbe accogliere il risultato sia di cedere con atto liberale del patrimonio a un seggetto terzo che di non potersi poi inserire nella sua gestione; come naturale e necessario al caso del testatore, del donatore-benefattore ecc.). Ma non solo. Posto che il patrimonio conferito (dai fondatori, pubblici e privati) difficilmente si dimostra effettivamente "adeguato" alla misura idonea per trarne una rendita finanziaria sufficiente a conseguire lo scopo fondazionale (e cioè a pagare la corrente gestione dei servizi culturali) [4], si finiva per ammettere che talune spese fisse (personale, utenze e manutenzione) rimanessero a carico dell'ente locale e soprattutto per prevedere la costituzione di un fondo alimentato in parte preponderante da trasferimenti correnti altrettanto pubblici.
Tale assetto, nei fatti che qui interessano, si è tradotto nella capacità dell'ente locale di esportare la gestione di attività culturali di sua titolarità fuori dalle regole del diritto pubblico senza pagare il prezzo tanto di un adeguato conferimento patrimoniale quanto della rinuncia ad amministrarle a briglia corta. In breve, di derogare la vigente configurazione sia dell'ordinamento pubblico che di quello privato.
La giustificazione, se così può dirsi in sintesi, di tali deroghe starebbe non solo nell'opportunità di conferire una maggiore stabilità e valorizzazione ai servizi culturali locali atomizzandone la gestione da quella complessivamente riguardante la vita dell'Ente territoriale (la qual cosa potrebbe essere in buona parte ottenuta ricorrendo al modello dell'istituzione), ma nel poterla condurre con gli strumenti del diritto civile (nel presupposto, formalmente decisivo ma sostanzialmente non persuasivo, che l'apporto di capitale privato agevoli detta valorizzazione e dunque bilanci il sacrificio alle regole dell'evidenza pubblica).
Da qui, come si comprende, l'interesse degli addetti al settore, la fortuna del "modello" già nella prassi del vecchio regime dei spl e soprattutto l'auspicio di vederlo formalmente autorizzato nel nuovo che andava riformandosi. D'altra parte, è ovvio, chi non potrebbe auspicare di gestire un servizio pubblico in tali termini ?
Detta costruzione, come si comprende facilmente, non integra il mero adeguamento dei modelli civilistici, ma una nuova, distinta tipologia di persona collettiva non commerciale. Com'era del resto ben chiaro agli stessi Autori che l'hanno avanzata (non a caso, quale "fondazione del terzo millennio"), posto che curano di sostenerne la validità non in forza di un'interpretazione evolutiva delle norme del Capo II del Libro I del codice (per l'appunto dedicate ad associazioni e fondazioni), ma più a monte e direttamente nell'art. 12 c.c. (intitolato "Persone giuridiche private") laddove prevede che accanto a quelle due tipiche e nominate figure possono acquisire la personalità giuridica anche "le altre istituzioni di carattere privato".
Oltre al fatto che l'art. 12 cit. è stato nel frattempo abrogato e che quella espressione - ripresa con la formula di "altre persone giuridiche private" - essendo ora contenuta in una fonte secondaria (l'art. 1 del d.p.r. n. 361 del 2000) rende più lontana l'ipotesi di saperla autonomamente innovare l'ordinamento, rimane comunque diffusa in dottrina l'opinione che tale inciso, ancorché legale, non abilitasse simili commistioni salvo non trovassero sanzione in un'espressa previsione di legge (generando dei modelli di diritto speciale quali le fondazioni bancarie o quelle del decreto Veltroni e altre ancora, ben note, che integrano per l'appunto dei nominati ordinamenti particolari [5]).
Da qui, in breve, sembra agevole ribadire che, così come nel d.d.l. servizi cit., anche nella formula positiva della recente legge finanziaria manchino gli elementi sufficienti a lasciar affermare che tale costruzione abbia suo tramite ricevuto l'indispensabile riconoscimento normativo per assurgere a modello generale. In conclusione, con il termine di "partecipate" utilizzato dal comma 4 dell'art. 113-bis cit. si deve meramente intendere che l'Ente locale possa non solo costituire da sé solo, ma altresì concorrere con altri a costituire, aderendo al sottostante negozio, una fondazione tipica [6].
2. Segue: l'opinione del Giudice amministrativo
Questa lettura [7], fondata sulla pretesa tipicità dei modelli organizzativi che permea il nostro (come ogni altro) ordinamento, ha trovato riscontro in un recente parere del Consiglio di Stato, chiamato in causa dal Ministero della sanità sulla (da lui accesamente contestata) legittimità delle modifiche statutarie deliberate dall'Associazione "Centro per la lotta contro l'infarto" intese a trasformarla per l'appunto in fondazione di partecipazione [8].
Malgrado riguardi una fattispecie che evidentemente ricade fuori dal contesto che qui ci occupa (in quanto non destinata a gestire servizi pubblici locali, anche se aventi una matrice statutariamente definita culturale), sembra utile farne cenno nella prospettiva di evidenziare che, così come la letteratura privatistica, anche quella pubblicistica non mostra sinora segni di apertura alla legittimità di quella costruzione.
Ebbene, al par. n. 2 di quel parere si trova innanzitutto sostenuto che "il modello può essere soltanto quello dell'associazione o della fondazione" dovendosi ritenere che l'espressione di cui all'art. 12 c.c. vada riferita alla possibilità di riconoscimento dei comitati. Quindi, dopo avere ammesso che "i fondatori ben possono essere una pluralità di soggetti" si ricorda però che gli eventuali apporti successivi "non possono mai comportare una modifica dei soggetti fondatori", cui osta la lettera del codice laddove tutela la volontà dei fondatori originari e "la natura stessa della fondazione che, una volta divenuta "patrimonio" riconosciuto, si distacca dall'elemento personalistico che ne ha determinato nascita e che, rispetto ad essa, diviene un fatto storico immodificabile di cui è solo possibile una diversa modulazione gestoria".
E se pure subito più sotto si ammette che "i fondatori ben possono ... prevedere che ingenti apporti patrimoniali o di lavoro o di volontariato successivi alla nascita dell'ente attribuiscano a coloro che li forniscono taluni poteri, nell'ambito dell'organizzazione dell'ente, anche ai fini del rinnovo degli organi di amministrazione ... ", ciò trova limite all'ipotesi di "dare vita ad enti diversi, nei quali l'elemento personalistico e quello patrimoniale confluiscano in un genus diverso sia dall'associazione che dalla fondazione..." così componendo una prospettiva per la quale "sarebbe necessario un intervento del Legislatore che disciplinasse i vari risvolti della nuova tipologia sotto i diversi profili della modificabilità degli scopi della fondazione, dei diritti degli associati, delle responsabilità degli amministratori nei loro confronti, della vigilanza dell'autorità governativa e della partecipazione ad essi di enti e amministrazioni pubbliche conseguendosi, com'è agevole intuire, l'inserzione nel nostro ordinamento di entità presenti in altri ordinamenti ma del tutto estranei allo stato alla nostra tradizione giuridica" (ovvero le fondazioni fiduciarie tipiche all'esperienza anglosassone).
Può infine aggiungersi che la suddetta fattispecie si riferiva al caso di un ente costituito fra soli soggetti privati; rispetto al quale l'intervento del Ministero della sanità si motivava cioè solo in quanto amministrazione competente per settore ai fini della verifica delle condizioni per il riconoscimento amministrativo-discrezionale previsto dall'originario sistema del codice civile, ora interamente sostituito da quello di tipo normativo recato dal d.p.r. n. 361 del 2000 cit. [9]. Lo segnaliamo in quanto siamo portati a ritenere che le censure di quel medesimo Giudice avrebbero assunto ulteriore ricchezza argomentativa e diverse conseguenze accessorie ove fosse stato chiamato o venisse in futuro chiamato a valutare la legittimità di quegli analoghi modelli, già riconosciuti (tutti però, non reputiamo a caso, da Autorità regionali) e dunque operativi, costituiti da enti pubblici territoriali per la gestione di servizi pubblici locali. Su di essi e sui diversi limiti che ci sembrano connotarli si rinvia peraltro al commento cit. [10].
3. Sulla coerenza formale e l'operatività concreta di gestire i servizi culturali tramite (associazioni e) fondazioni
Ritenendo di potere confermare che, anche a seguito delle recenti riforme, il "modello" della fondazione di partecipazione non abbia tuttora ricevuto ingresso nell'ordinamento (pubblico e privato, né vada confuso con i modelli di diritto speciale, costituiti con atti aventi forza e valore di legge, che operano in campo culturale tramite configurazioni organizzative in parte simili - e comunque mai eguali - a quella di partecipazione), resta chiaro che è da ora viceversa ammesso all'azione degli enti locali il ricorso ai modelli tipici tanto dell'associazione che della fondazione.
Nella prospettiva di eseguire qualche ulteriore annotazione sulla loro fruibilità è utile premettere una rapida ricognizione del contesto che contempla quella ammissibilità e dunque ne abilita il concreto ricorso. Più che ribadire le difficoltà degli specifici caratteri del modello fondazionale con l'ordinamento degli enti locali, a nostro avviso tuttora intatte e alle quali dunque si rinvia, vorremmo cioè qui tentare di riassumerle entro il quadro, più complessivo, della rinnovata disciplina dei servizi pubblici locali.
3.1. Considerazioni preliminari sul nuovo impianto disciplinare dei servizi pubblici locali
Una prima lettura della riforma svolta dall'art. 35 cit. lascia subito intravedere che essa tanto restringe il campo delle forme gestionali ammesse per l'esercizio di quelli aventi rilevanza industriale quanto, viceversa, estende quello dei servizi che sono privi di tale rilievo. A meglio vedere si nota che la sua portata non incide solamente l'ambito tipologico di quelle forme, con la conseguenza di variare il raggio della potestà locale nel selezionarle per il caso concreto; ma che suo tramite, più radicalmente, viene per così dire rotta l'unitaria impostazione che dal 1990 dirigeva la complessiva organizzazione di questi servizi.
Quei due campi risultano ora definitivamente separati, acquisendo ciascuno una connotazione a tal punto distintiva da rendere improduttivo tentare di recuperarne i segni unitari: in breve, entrambi hanno acquisito un'autonomia disciplinare (e diremmo altresì scientifica) tale da doverli conoscere separatamente.
Questo risultato costituisce l'esito di una riforma che ha inciso innovativamente di gran lunga più la regolamentazione dei servizi industriali [11] che non quella dei servizi sociali; è infatti soprattutto la disciplina dei primi ad essersi allontanata dall'impianto del 1990, cui quella dei secondi rimane più aderente, con il risultato di comporre un ordinamento quasi completamente autonomo da quello, più complessivo, degli enti locali offerto (per lo più) dal t.u. Tale maggiore aderenza, salvo il campo dei servizi culturali, va colta quale risultato della scarsa attenzione che il Legislatore ha obiettivamente riservato, nei diversi progetti di riforma che si sono rincorsi nel tempo, per l'appunto al tema della gestione dei servizi sociali [12]; il cui nuovo assetto emerge quindi più per una sorta di passiva deduzione da quello, assai rinnovato, dei servizi industriali che non da un disegno riformatore volto a raccogliere le difficoltà che ne hanno interessato l'applicazione nel primo decennio e così imprimervi nuove energie.
La stessa dizione di servizi "privi di rilevanza industriale" attesta più che una attiva pre-qualificazione normativa il segno di uno sguardo condotto con il metro della residualità: non riuscendo a connettere nuovi rapporti causali fra le funzioni dei servizi sociali e le forme organizzative deputate a gestirli per realizzarle, il Legislatore si astiene dall'optare; e così ammette gli enti locali al ricorso di tutti i modelli tipici che già conosce, aggiungendo - con una riserva di campo oggettuale a questo punto incomprensibile - anche quelli dell'associazione e della fondazione (posto che se ne avesse effettivamente colto l'intrinseco pregio non trova giustificazione la volontà di limitarne il ricorso alla sola gestione dei servizi culturali e del tempo libero).
Il canone della tipicità dei modelli rimane dunque senza dubbio formalmente salvo (come dimostra la suddetta limitazione dei modelli del Libro I c.c. a quei due soli tipi di servizio), ma sostanzialmente svuotato di significato. Più di promuovere una data, generale funzionalizzazione allo sviluppo delle comunità locali esso sembra infatti dissolversi nella pretesa volontà del centro di continuare a regolare questioni di interesse della periferia che poco conosce; nelle quali poco vuole entrare per non urtarla; e che in fondo poco lo riguardano in quanto sottratte dall'esigenza di saperle risolte in termini coerenti al diritto comunitario. Ciò senz'altro tenendo conto, come si accennerà più sotto, che l'ambito di applicazione del regime dei servizi pubblici locali sociali o non industriali si è nel tempo drasticamente ridotto causa l'entrata in vigore di una serie di provvedimenti settoriali (statali e regionali) che ne hanno disciplinato l'esercizio tramite altre, distinte forme di gestione.
La giustapposizione fra industriali e non trae dunque motivo dall'esigenza di riclassificare i primi e così dirigere con più forza l'erogazione di servizi la cui più efficace produzione implica (secondo il Legislatore) l'utilizzo degli strumenti giuridici dell'ente commerciale, e dunque della società. Ma nel derivare dall'osservazione di quella sola tipologia di servizi essa finisce per rendere inadeguata la classificazione di tutti gli altri: nel senso che li assume per un elemento (il mancato rilievo industriale) non solo privo di significato per il diritto pubblico (e dunque immisurabile se non, come un tempo, con il metro della residualità rispetto all'elenco normativo di quelli industriali che dovrà essere compilato in via regolamentare [13]), ma soprattutto incapace di cogliere ciò che a nostro avviso dovrebbe preliminarmente distinguere l'elezione di un modello rispetto agli altri: ovverosia l'autosufficienza economica della sua gestione.
Non basta cioè accontentarsi della soluzione di riconoscere positivamente che ciò che residua dai servizi che il Governo dichiarerà essere industriali (tramite il reg. cit.) potrà d'ora innanzi essere gestito tramite la forma che l'Ente locale caso per caso riterrà più adeguata ai propri interessi, così spaziando dalla gestione diretta alla società di capitali: e quindi, al limite, di lamentarla contraddittoria per la ragione che la riforma da un lato conforma rigidamente la scelta del modello gestorio ad unum (la società circa quelli industriali) mentre dall'altro la lascia aperta ex multis. Malgrado tale distonia susciti effettivamente qualche allarme, nel senso che scopre elaborazioni di diversa intensità e dunque forse distinto pregio nella sottostante volontà di conoscerle per riformarle in entrambi i lati, si potrebbe infatti replicare che il Legislatore in fondo semplifica, liberando la responsabile scelta dei (tanto strutturalmente diversi) Enti locali da maglie rivelatesi troppo strette e quindi inefficaci.
La qual cosa è senz'altro vera, ma insufficiente se colta isolatamente; ovvero mancando di connetterla al più complessivo ordinamento delle autonomie nel quale continua a insistere anche quello dei servizi pubblici non industriali (mentre la regolamentazione di quelli aventi tale carattere ha assunto specificità tali, come si accennava, da comporne uno ormai completamente autonomo).
Se la disciplina dei servizi industriali integra un corpo normativo ormai a sé stante (con la conseguenza di potersi dubitare della loro intatta matrice di pubblici "locali" in quanto sottostanti le distinte politiche del governo locale) in quella dei servizi che tali non sono tuttora si ritrova - e dunque occorre avere la cura di evitare di rompere - quell'originario filo conduttore che ne articola l'esercizio in uno spirito di pretesa coerenza alle forme dell'autonomia locale tracciate nel 1990, dalla l. n. 142 e successive modificazioni, e ora rinforzate dalla riforma del Titolo V Cost. Per quanto concerne il tema dei servizi l'impianto di quelle forme (l'ordinamento degli enti locali) per così dire "vive" ancora sostanzialmente inalterato proprio nel campo, che qui ci occupa, di quelli privi di rilievo industriali.
Va ora detto, altrettanto velocemente, quali sono gli elementi essenziali di tali forme e quali gli istituti che una troppo schematica importazione dal campo dei servizi industriali a quelli che tali non sono rischia a nostro avviso di rompere quel filo o comunque di non risolvere adeguatamente le questioni che agitano la gestione dei servizi culturali.
3.2. Segue: con specifico riguardo ai poteri di regolazione dell'ente locale circa i servizi privi di rilievo industriale
A questo fine è opportuno accennare alle caratteristiche della disciplina dei servizi pubblici locali quale era sancita nella legge del 1990 sino alla presente riforma. Abolite le categorie dei servizi obbligatori e facoltativi [14], si riservava al singolo ente locale territoriale la potestà di qualificare una sua data attività spl in quanto rivolta a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile della propria comunità in un dato contesto di mercato; e quindi ad organizzarne l'esercizio tramite l'elezione di quel modello gestionale che meglio si confacesse alle sue intrinseche caratteristiche (imprenditoriali o meno) in relazione ai fini e agli obiettivi di risultato concretamente perseguiti.
Il momento saliente di tale impostazione stava, come noto, nell'imprimere in capo al singolo ente la responsabilità di dirigere le proprie politiche di sviluppo entro il quadro di una riconosciuta autonomia (politica) che trovava limite (giuridico) nella pretesa di svolgere quella elezione nell'ambito di taluni modelli tipizzati [15]. Di questo sistema dunque riluceva, più di ogni altro, il dato di affidare al governo dell'ente locale, dichiarato a fini generali, la potestà di regolare le proprie scelte nella ponderazione dei vari interessi coinvolti entro confini piuttosto ampi, comunque concepiti nella direzione di mantenere ben salda detta potestà anche laddove si fosse optato per il modello gestionale la cui veste formale ne presuppone una naturale compressione in quanto soggetto non solo distinto (l'azienda) ma avente personalità di diritto privato (la società per azioni maggioritaria). In breve, la delimitazione della scelta a quei modelli tipici (anche quello societario si distingue dalle figure civilistiche) corrispondeva all'intenzione di separare la regolazione dalla gestione, ma senza con questo allontanare le leve della prima alla potestà locale: la capacità regolativa di fonte comunale, spec. consiliare, era infatti tratteggiata in termini uniformi per tutti i modelli variando invece, a misura di ciascuno di essi, l'intensità delle relazioni attraverso le quali gli organi locali avrebbero potuto dirigerne o solo orientarne la gestione in ragione, grosso modo, del prevalere vuoi di più forti vincoli strumentali (gestione diretta, istituzione e azienda) vuoi tecnici ecc. (concessione) vuoi infine economico-giuridici (la società, in quanto da un lato proiettata al coinvolgimento del mercato privato e dall'altro obbligata al rispetto del diritto comunitario della concorrenza).
La misura strutturale di tale intensità, in altri termini, traeva ragione dalla capacità del singolo spl di stare sul mercato autonomamente e quindi di potere allontanarsi dalle tutele del diritto pubblico per entrare, con progressiva coerenza (dall'istituzione all'azienda e infine alla società), nel più responsabilizzato alveo del diritto privato. L'Ente locale non era del resto giuridicamente obbligato a esercitare dei spl, quanto piuttosto politicamente impegnato a saperne erogate le prestazioni che ne compongono il contenuto materiale e cioè, come si è poi colto diffusamente in un secondo tempo sull'onda della sussidiarietà, ad inserirle nell'economia di un mercato che aveva il compito di far crescere o creare.
L'elemento che sin dall'origine ha viziato l'emersione di tale processo è probabilmente stato - accanto alla mancata realizzazione del c.d. riordino territoriale [16] - quello di non leggere con il dovuto dinamismo non solo il telaio dei modelli elencati dalla l. n. 142 ma le più radicali relazioni che finalisticamente li proiettavano nei rapporti pubblico-privato [17]. Si è in sostanza privilegiata la più comoda stabilità della parcellizzata struttura pubblica allo sforzo di accompagnare il sorgere di nuovi mercati opportunamente regolati per la tutela di interessi pubblici (nella possibile convinzione che ciò ne assicurasse la dovuta politicità rispetto allo sviluppo della comunità locale quando invero è per lo più, quanto meno in epoca di risorse scarse, il contrario).
In ognuna di tali forme gestionali la potestà di regolazione locale - dalla scelta del modello alla definizione delle regole sulla sua organizzazione e funzionamento, alla determinazione delle tariffe e soprattutto all'approvazione dei suoi atti fondamentali - rimaneva cioè immancabilmente e permanentemente in capo all'ente locale, così conclamando tanto l'unitarietà del governo locale quanto quella sua nuova responsabilità che la legge sulle autonomie gli aveva attribuito. Da qui, come altrettanto ben noto, deriva la (preferenza per la) teoria sulla natura soggettiva del servizio pubblico locale e quindi il riconoscimento di una riserva di amministrazione nella sua gestione salvo il limite di rispettare la tipicità, e dunque tassatività, dei modelli elencati dalla legge.
Poco a poco, e ora ci pare definitivamente, tale assetto si è ribaltato, sia pure con caratteristiche distinte a seconda si guardino i servizi industriali o non: anche limitando l'attenzione a questi ultimi, non è difficile scorgere che l'accennata tipicità sfuma con il parallelo sopravvento di impostazioni oggettive. Ma soprattutto, e questo ci pare essere il punto, evapora l'accennato impianto teso a riservare salde potestà (inizialmente) qualificatorie e (successivamente) regolative al governo locale. Il Comune rimane formalmente, vieppiù con la riforma del Titolo V, ente a fini generali ma l'espansione delle sue proprie politiche viene frenata riposizionando il raggio della tassatività dei fattori a sua disposizione: in altri termini, divengono sempre più tipici i servizi (in senso materiale, quali prestazioni da erogare secondo criteri e livelli eterodeterminati) e parallelamente tanto strette le maglie delle forme di gestione per esercitare quelli industriali che viceversa allargate, avvicinandosi all'atipicità, quelle per la gestione dei servizi sociali. Ovvero quelle situazioni la cui debole copertura finanziaria e le istanze del terzo settore suggeriscono (al Legislatore) di ammettere soluzioni assai più flessibili, di esternalizzazioni senza regole [18]. Ciò si comprende considerando non solo i presenti servizi culturali, ma anche e soprattutto quelli socio-assistenziali disciplinati dalla l. n. 328 del 2000 (che notoriamente occupano il maggior spazio delle prestazioni di servizio sociale di competenza locale).
Tende dunque innanzitutto a scomparire la suddetta potestà qualificatoria (taluni servizi pre-acquisiscono in via normativa il nomen e la qualità oggettiva di industriali mentre a taluni altri, quelli culturali e del tempo libero, si aprono forme di gestione dedicate); e quindi ad allentarsi il circuito della riserva di regolazione che dal 1990 si voleva mantenere ben saldo nelle mani dell'organo consiliare (e comunque comunali). La rinuncia ai vincoli di quel circuito nella gestione dei servizi non industriali passa evidentemente attraverso la capacità di potere realizzare degli assetti assai più strutturati ed esterni che non prima, con la conseguenza di ridurre il raggio delle politiche comunali nella dinamica ponderazione dei diversi interessi che rimane chiamato a tutelare.
La qual cosa costituisce lo scoperto obiettivo che anima le istanze sottese all'introduzione dei modelli di diritto privato, e dunque tanto delle società che degli enti del Libro I c.c. Nell'obiettivo di conferire efficienza ed economicità all'erogazione di taluni servizi - ovvero, in sintesi, di darvi stabilità - occorreva conciliare la loro titolarità pubblica dai condizionamenti delle mutevoli sintesi dell'indirizzo politico in cui aveva titolo di esprimersi concretamente. Occorreva dunque limitare le manifestazioni del suddetto, ampio potere regolativo locale a solo taluni atti originari, di costituzione e avvio del modello gestionale prescelto. In breve, occorreva allontanarsi con ancora più spinta dall'esperienza delle aziende municipalizzate e delle gestioni dirette, e dunque dai compromessi che una perdurante politicità della regolazione consiliare tuttora consentiva.
Se in un primo tempo tale istanza ha riguardato per lo più i servizi imprenditoriali si è presto estesa anche a quelli sociali, dapprima facoltizzando l'imputazione alla competenza giuntale dei c.d. atti fondamentali delle istituzioni [19], e quindi trovando una generale chiave di volta nell'istituto del contratto di servizio. Che - al di là di offrire risposta alle questioni sollevate dal sopravvenuto diritto comunitario, spec. con la figura dell'appalto pubblico di servizi, relativamente all'assetto del modello societario [20] - ha per quanto qui conta prodotto l'effetto di sottrarre, diremmo istituzionalmente, al Consiglio dell'ente locale quella perdurante potestà regolatrice la vita delle strutture di servizio che la l. n. 142 confermava essere, pur rispetto alla conduzione dei soli fatti maggiori, momento costitutivo dell'autonomia locale.
La portata e le conseguenze legate all'affermazione di tale istituto (il contratto di servizio) erano peraltro legate all'adeguamento del modello societario (e in parte aziendale), in quanto chiamato a gestire servizi industriali entro contesti di mercato e vincoli giuridici notoriamente assai diversi da quelli implicati per la gestione di quelli sociali, in quanto finanziariamente condizionati da consistenti trasferimenti di risorse pubblico-locali.
Non di meno, la sua applicazione - che costituisce l'odierno perno delle correnti relazioni fra l'ente locale e l'organismo chiamato a gestirne i suoi servizi - viene ora confermata in via generalizzata per il caso di tutte le forme di gestione dei servizi non-industriali elencate dall'art. 113-bis salvo quella in economia (ai sensi del suo comma 5), marcandone l'esternalità all'Ente locale.
Da qui, ricapitolando, ci pare possibile criticare la suddetta distinzione fra servizi industriali e non. Ovvero, meglio, sostenere che le limitazioni che produce alla potestà regolativa dell'ente locale trovano giustificazione nell'erogazione di servizi - industriali o meno - la cui gestione risulti obiettivamente capace di autofinanziarsi e dunque di assicurare quanto meno esercizi in pareggio; mentre viceversa non la trovano allorquando coinvolgono l'erogazione di servizi "sociali" in quanto la loro produzione implica strutturalmente consistenti conferimenti finanziari da parte dell'ente che, avendone la titolarità, ne conosce in partenza una gestione passiva. E che quindi proprio per questo non può mancare di autorizzare anno dopo anno (piuttosto che affidarla a un atto negoziale che il Consiglio delibera una tantum, sovente recante valori praticamente lasciati in bianco grazie ai consueti meccanismi di rimando a successivi atti esecutivi, vincolando tanto il bilancio nel tempo quanto il dinamico bilanciamento nella tutela degli interessi di cui è titolare) [21].
L'affievolimento delle potestà regolative dell'ente locale si giustifica in nome della sua indiretta (tramite la società o l'azienda) riqualificazione quale ente di produzione (e cioè di imprenditore). E non invece quando, a ben vedere, mantiene le tipiche caratteristiche sostanziali dell'ente di spesa (trasferendo a soggetti formalmente terzi, quali sono le associazioni e le fondazioni, risorse pubbliche). Tale criterio, a nostro sommesso avviso, dovrebbe invero assurgere a principio generale anche nel campo dell'azione delle società, posto che una sua comoda lettura formalistica abilita frequentemente la stipula di contratti di servizio che impegnano l'ente locale a trasferirgli correntemente risorse relativamente ingentissime, mostrandone i difficili rapporti fra capitalizzazione e mezzi propri (questo profilo, ci sembra poco esplorato dalla dottrina giuridica, lascia comprendere perché non si persegue ancora il risultato di parificare il modello societario pubblico a quello civilistico, posto che ciò determinerebbe de plano la conseguenza di vietare simili conferimenti se non tramite formali ricapitalizzazioni, decretando tanto la passività delle sottostanti gestioni con altra visibilità politica quanto la riespansione delle competenze consiliari nell'autorizzarle).
Dal punto di vista della coerenza alla legge sulle autonomie ci sembra dunque quanto meno ingannevole l'aver voluto distinguere fra servizi industriali o meno, in quanto l'elemento abilitante la sottoesposizione delle politiche comunali rimane l'autosufficienza finanziaria; con altre parole, non ci sembra temerario immaginare (e dunque temere) che servizi aventi un'impronta materialmente sociale, in quanto volutamente o necessariamente erogati in forma antieconomica, vengano d'ora innanzi esercitati tramite modelli che implicano autonome gestioni di tipo imprenditoriale (salvo la ricerca del lucro soggettivo) le quali però riusciranno a sopravvivere solo grazie a correnti trasferimenti finanziari di origine pubblica.
Il nostro timore è di stampo retorico posto che evidentemente - si consenta - è proprio questo l'obiettivo cui si mira (vieppiù tramite l'introduzione dei modelli del Libro I c.c. per la gestione dei servizi culturali). Un obiettivo che certo vanta dei pregi, in quanto tende a stabilizzare e a uniformare l'offerta professionale di servizi altrimenti sin troppo esposta alle variabili politiche locali, anche laddove lo Stato riuscisse effettivamente a stabilirne i distinti "livelli essenziali". E che dunque si mostra coerente alla proiezione finalistica recata nella supernorma disposta all'art. 3 Cost. Per quanto riguarda i servizi culturali, oltre a concorrere ad attuare l'art. 9 Cost. a fini per così dire interni, si potrebbe forse arrivare a sostenere che la volontà di dedicarvi appositi modelli gestionali corrisponda a delle politiche nazionali volte ad assecondare le condizioni utili allo sviluppo economico del Paese tramite l'offerta di più ramificate ed efficienti attrattive al turismo culturale; dunque a scelte macroeconomiche che travalicano il piano della tutela di interessi locali o ad altre ragioni analogamente legittime in quanto rimesse all'imperscrutabile volontà del Legislatore (statale e regionale).
Ma ciò determinerebbe la chiara conseguenza di uscire dal campo dei spl, e quindi altresì dell'ordinamento delle autonomie, per entrare poco alla volta entro un nuovo, riservato circuito [22].
Ora, siccome così non viene ancora dichiarato, ci sembra di poter temere che il risultato corrispondente a quell'obiettivo rischia di pagare un prezzo non indifferente all'autonomia e alla società locale, così come è e rimane tuttora concepita dal diritto positivo. Si vuole cioè sussurrare che la possibile proliferazione delle strutture locali per l'erogazione di detti servizi tanto dotate di sempre più ampie autonomie gestionali quanto finanziariamente non-autosufficienti implica delle conseguenze che vanno chiaramente oltre la questione relativa all'ordinamento dei spl (riflettendosi, come noto, sul più complessivo assetto del governo locale). In tal senso, l'avere stralciato la riforma dei spl da quella riguardante la l. n. 142 (poi confluita nel t.u.) e soprattutto il non avere, a questo punto, preso atto dell'autonomia disciplinare dei servizi industriali da quelli che tali non sono favorisce letture per così dire pericolosamente disorganiche e di scarsa efficacia nel tempo: nel settore dei servizi sociali o non industriali non è infatti il modello giuridico (e cioè le vantate agevolazioni che, si dice, offre il diritto privato) a incidere decisivamente sulla loro qualità, bensì la misura degli investimenti pubblici che vi si vogliono o, meglio, possono concretamente riservare.
Ne segue che l'apertura ai modelli del Libro I c.c. non rappresenta, al di là delle specifiche difficoltà per avviarli e condurli in termini coerenti agli ordinamenti delle autonomie e civile, un risultato particolarmente significativo nella proiezione di meglio tutelare l'offerta dei servizi culturali pubblici locali all'interno di un traffico giuridico già caotico. Ma piuttosto, ci spingiamo a dire guardando oltre quella parziale dimensione, la disponibilità in capo agli enti locali di uno strumento di cui potrebbero facilmente non cogliere l'effettiva rigidità, finendo a breve termine - sempre che riescano a farlo decollare (e cioè a dotarlo di un "adeguato" patrimonio, come ci sembra possibile in rare eccezioni) - per invischiarsi in controversie di ardua composizione (anche tenendo conto che lo scopo fondazionale è perpetuo) e sicuro danno alla continuità del servizio.
Occorre non di meno prendere atto, con realismo, che l'assetto (concettuale più ancora che disciplinare) immaginato dal Legislatore della l. n. 142 per la gestione dei servizi sociali o non industriali non è riuscito ad offrire risposte adeguate. La qual cosa trova riflesso, per quanto qui conta accennare, nella scarsa fruizione del modello dell'istituzione. Ciò è vero, ma nella misura in cui se ne valuti l'insuccesso in un'ottica estesa a coglierne tutte le ragioni: e cioè non solo quelle, di stampo prettamente giuridico, legate alla sua impermeabilità nel gestire servizi nella titolarità di più Amministrazioni; nel mancare di godere di una sua autonoma dotazione organica di personale ecc., ma soprattutto in quella di subire i condizionamenti finanziari e dunque, indirettamente, di indirizzo progettuale da parte dell'ente locale da cui deriva (connessi alla mancata personalità e dunque autonomia patrimoniale). Ove se ne concordi - come pure ci sembra indiscutibile - ne segue agevolmente che nemmeno il modello della fondazione potrà aspirare a maggior successo. Anzi, può pensarsi che la sua maggiore autonomia dall'ente locale determini a breve termine nei suoi amministratori vuoi l'iniziale tendenza di "scaricarvi" il peso dell'onere di sapersi a questo punto autofinanziare, parallelamente diminuendo la misura dello storico bilancio culturale (e cioè delle risorse dedicate alla cultura nel bilancio locale) vuoi viceversa, nei successivi mandati, il sorgere del sospetto di vedersi legati a un soggetto sin troppo "autonomo" per garantire coerenza alle proprie politiche, così innescando traumatiche soluzioni di continuità alla programmata gestione del servizio. Tali processi, che tuttora grosso modo corrispondono all'azione di analoghe esperienze nel campo dei servizi socio-assistenziali, percorrono del resto notoriamente la nostra storia senza che occorra qui cercare di meglio ricordarli.
Dovrebbe allora chiedersi, al di là dell'alinea della presente legge finanziaria, quali elementi sono effettivamente mutati dall'epoca in cui si vietava agli enti pubblici di costituire o partecipare gli enti collettivi del Libro I c.c. [23], e cioè di rispondere, fra le altre, alle domande sulla legittimazione posseduta dall'ente privato gestore di servizi pubblici erogati (in larga parte) grazie a denaro pubblico; sulla possibilità di storicizzare in via amministrativa un dato interesse pubblico tramite la costituzione o l'adesione dell'ente locale a una struttura privata, connotata dalla perpetuità dello scopo e deputata a realizzare meri fini di utilità sociale, che per di più presuppone di essere idoneamente patrimonializzata (mediante procedure superabili, ma certamente non agevoli [24]); e cioè in sostanza, come si è già ricordato, di costituire un soggetto non molto dissimile dall'ente pubblico economico di "vecchia" generazione che però, in quanto privato, è abilitato a prescindere dalle regole di trasparenza e di evidenza pubblica (valevoli solo al momento dell'affidamento del servizio, sia pure sulla base di una innominata quanto sconosciuta normativa "di settore"), salvo rientrarvi con evidenti difficoltà di sistema quale "organismo di diritto pubblico" laddove poi goda di risorse pubbliche. In breve, a noi sembra ancora, componendo una figura ibrida [25].
Se a queste e alle altre più puntuali domande (già rappresentate negli anteriori commenti, cui rinviamo) che suscita l'avvento della mano ruvida del Legislatore noi non siamo in grado di offrire una risposta soddisfacente, vorremmo infine indicare la condizione tecnico-giuridica che, a nostro avviso, ne potrebbe consentire il complessivo superamento. E cioè quella di rinunciare a credere di potere riqualificare il sistema nazionale dei servizi culturali locali mediante la previsione di saperli gestiti mediante dedicati modelli interpolati fra quelli conosciuti dall'ordinamento delle autonomie per l'esercizio dei servizi pubblici locali: queste scorciatoie hanno il fiato corto. Occorre, al contrario, sottrarli legalmente da quella natura e quindi, tramite un'armonica disciplina, avviare più coordinati percorsi organizzativi e funzionali che sappiano nel tempo assicurare migliori successi [26]: svolgere cioè quella medesima politica pubblica che presiede, ad es., i nuovi rapporti fra le autonomie locali e l'erogazione dei servizi socio-assistenziali che sta alla base della l. n. 328 cit. (ma la medesima impostazione può facilmente rintracciarsi, anche nella legislazione regionale, in numerosi altri ambiti, quali quelli dell'istruzione, dei trasporti, dell'energia, della sanità ecc.).
Dire se tale operazione sia condivisibile o meno (rispetto a quanto chiede direttamente di sacrificare sul piano del riconoscimento delle autonomie e del riparto delle risorse pubbliche, ora anche rispetto al nuovo Titolo V Cost.) attiene al campo di politiche del diritto che in parte non ci competono e in altra non è possibile cercare qui di affrontare. Va piuttosto segnalato che analoghe operazioni, in diversi settori (ultimo dei quali, come si è accennato, quello dei servizi industriali) stanno percorrendo la riforma dell'ordinamento locale assai più profondamente di quanto non lasci intravedere il suo t.u., determinando il progressivo superamento del d.d.l. n. 112 e cioè il ritorno alle antiche leve di un'uniforme regolazione di settore, rispetto alla quale l'ente locale tende a riassumere la più leggera veste dell'Amministrazione strumentale la loro esecuzione.
[1] Ci riferiamo all'art. 35 della l. 28 dicembre 2001, n. 448 (Finanziaria 2002), che riforma il d.lg. 18 agosto 2000, n. 276 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) interpolandovi fra l'altro l'art. 113-bis (intitolato "Gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale"), il cui comma 4 dispone che "Gli enti locali possono procedere all'affidamento diretto dei servizi culturali e del tempo libero anche ad associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate". Mentre il d.d.l. servizi della scorsa Legislatura (Senato n. 4014 e quindi Camera n. 7042) li ammetteva a procedere "limitatamente ai servizi a carattere culturale, con affidamento diretto ad associazioni o fondazioni che, per la loro disciplina statutaria, garantiscono partecipazione, imparzialità e trasparenza nella gestione del servizio".
[2] Cfr. Sul disegno di gestire i servizi culturali tramite associazioni e fondazioni, in questa Rivista, 2000, n. 3.
[3] Nel quadro di tale impianto il coinvolgimento dei privati troverebbe spazio o già all'origine, quali co-fondatori (la qual cosa, nelle esperienze sinora avviate, non ha peraltro avuto successo) ovvero e di norma (qui sì con qualche, pur sinora modesto, successo) quali soci benemeriti, partecipanti e simili in quanto disponibili a versare un contributo, una tantum o annuale, idoneo ad alimentare non il patrimonio quanto il fondo di gestione corrente; si tratta in sostanza di quelle figure, altrove per lo più denominate quali "Amici di ...", le quali qui, ove statutariamente previsto, verrebbero coinvolte nell'amministrazione della fondazione in quanto costituite in un'assemblea cui si riservano taluni poteri decisori (quando, si ricorda, le fondazioni sono per loro natura sprovviste di quell'organo e dunque delle garanzie che affida circa il controllo sul rispetto della volontà del fondatore dai possibili pregiudizi connessi all'azione irresponsabile o disonesta degli amministratori).
[4] Ipotizzando ottimisticamente una rendita da capitale pari al dieci per cento del suo valore, ne deriva che la gestione di un servizio culturale comunale di un miliardo di lire al netto delle entrate per ricavi tariffari, sponsorizzazioni ecc. richiede di godere di un patrimonio di circa venti miliardi, considerando non solo l'esigenza di mantenerne invariato il valore nel tempo ma soprattutto l'incidenza dei costi organizzativi (personale, utenze, manutenzione ecc.).
[5] Di cui questa Rivista ha dato puntualmente conto, e fra cui sta ora anche lo speciale modello di fondazione per la gestione di beni e attività culturali di titolarità statale disciplinato dal recente d.m. 27 novembre 2001 (di cui può leggersi il testo in questo stesso suo numero). Anch'esso speciale visti, ad es., i penetranti poteri di indirizzo e controllo che si riservano al Ministero.
[6] Può ritenersi che l'utilizzo della formula "costituite o partecipate" dettata al comma 4 risponda, per ricercata sistematicità, alla volontà di riprendere quella, analoga, utilizzata poco più sopra, al comma 1, lett. c), con riguardo al ricorso del modello societario. Rimane comunque tuttora fermo che le modificazioni dello statuto e dell'atto costitutivo di una fondazione non possano, a differenza del caso delle associazioni, essere assunte senza l'autorizzazione dell'autorità governativa. E benché ammesso nella prassi, si discute sulla legittimità di modifiche volte a variare la compagine del o dei soggetti fondatori originari ad altri disponibili in un secondo tempo (come si vedrà poco più sotto, il Consiglio di Stato lo nega con sicurezza); lo si avverte per accennare che l'espressione di "partecipate" potrebbe svolgere la funzione di facoltizzare tali aperture, e cioè di autorizzare gli enti locali non solo ad aderire a fondazioni già costituite nella meno impegnativa qualità di soggetti che si vincolano, sulla base di un atto convenzionale, a partecipare alle sue attività affidandogli, per un tempo delimitato, la gestione di propri servizi, ma assumendo la formale veste di fondatori.
[7] Cui aderisce, in dottrina, S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, 359.
[8] Cons. Stato, Comm. spec., parere 20 dicembre 2000, n. 288/2000, in Cons. St., 2001, n. 2, I, 490. Dal tenore e dalla lettera del parere si evince in più passi che il modello di fondazione esaminato avesse le caratteristiche formali di quello di partecipazione sopra sinteticamente descritto. Dobbiamo peraltro avvertire di non avere avuto modo di consultarne lo Statuto per averne certezza. Non deve invece stupire il fatto di vedere intervenire nel procedimento di riconoscimento un Ministero e quindi il Consiglio di Stato con soluzioni interpretative di simile "chiusura" quando analoghe strutture lo avevano già ottenuto da tempo: non siamo cioè innanzi ad un'inversione giurisprudenziale, ma crediamo alla sua prima lettura curiale in quanto tutte le fondazioni "di partecipazione" costituite a noi note hanno percorso la via del riconoscimento regionale.
[9] Per il cui commento v. M.V. De Giorgi, La riforma del procedimento per l'attribuzione della personalità giuridica agli enti regolati nel primo libro, in Le nuove leggi civili commentate, 2000, n. 6, 1322 nonché più sinteticamente G. Ponzanelli, La nuova disciplina sul riconoscimento della personalità giuridica degli enti del libro primo del codice civile, in Foro it., 2001, n. 2, V, 46.
[10] V. spec. par. 4 ss.
[11] Sulla cui disamina può vedersi l'analitico commento di M. Dugato, I servizi pubblici degli Enti locali, in Giorn. dir. amm., 2002, n, 2, 18 ss.
[12] Sia pure nei limitati sensi che si esporranno; per altro rimangono cioè intatte le perplessità avanzate da C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in questa Rivista, 2001, n. 3.
[13] Ai sensi del comma 16 dell'art. 35 cit.
[14] Che vengono dunque ora reintrodotte nel lato dei servizi industriali, ricomponendo un ponte - interrotto dalla l. n. 142 del 1990 - la cui prima arcata risale al t.u. del 1925 se non anche alla legge Giolitti del 1904.
[15] Si rinvia qui, amplius, a G. Piperata, Tipicità e funzionalizzazione nell'organizzazione pubblica, il caso dei servizi pubblici locali, in corso di pubblicazione.
[16] Forse non solo per caso la l. n. 142 inseriva la disciplina sui spl giusto in mezzo a quella dedicata al c.d. riordino territoriale (disponendo dapprima quella sulle aree metropolitane e quindi quella sulle forme associative, che tramite l'edificazione di una compatta rete di unioni, comunità montane e possibilmente fusioni avrebbe dovuto parimenti concorrere a respingere i rischi di inaccettabili frammentazioni al riconoscimento della nuova autonomia locale). In argomento si consenta rinviare al nostro I progetti di riordino territoriale: esperienze regionali a confronto, in Aut. loc. e servizi sociali, 2001, n. 3, 413.
[17] Mancando di applicare, ad es., il c.d. redditometro di cui al d.l.vo n. 109 del 1998 (come successivamente modificato dal d.l.vo n. 130 del 2000) cui pure dovrebbero agganciarsi tutti i servizi alla persona.
[18] L'espressione, ripresa da C. Barbati, op. cit., è di M. Cammelli in Decentramento e outsoursing nel settore della cultura: il doppio impass, 2001, dattiloscritto,
[19] Individuati dalla l. n. 95 del 1995, ed ora ripresi all'art. 114, comma 8, t.u.e.l.
[20] Ripercorre con efficacia l'andamento di queste vicende, con ampi richiami bibliografici, M. Dugato, L'origine della crisi del concetto di servizio pubblico locale, in Giorn. dir. amm., 2002, n. 1, 24 ss.
[21] Per un diverso avviso, nel quadro di una complessiva attestazione di bontà dell'assetto delineato dalla riforma, v. E. Bruti Liberati, Pubblico e privato nella gestione dei beni culturali: ancora una disciplina legislativa nel segno dell'ambiguità e del compromesso, in questa Rivista, 2001, n. 3, par. 3.
[22] Nel quale, come già ora, si crede peraltro finirebbero poi per prevalere intercettando le scarse risorse disponibili, non tanto comunali quanto piuttosto regionali, per lo più le istituzioni più prestigiose e politicamente "forti".
[23] Oltre ai riferimenti indicati nel nostro Sul disegno, v. S. Foà, op. cit., 360-361 e così anche R. Ferrara, Brevi note sul potere degli enti pubblici di costituire associazioni di diritto privato, in Foro it., 1980, IV, spec. 12 ss.
[24] In quanto si immagina che implichino, accanto ai diritti d'uso di beni mobili e immobili, per risultare patrimonialmente "adeguate" la cessione di beni presumibilmente in larga parte soggetti ai severi vincoli recentemente rinforzati dal d.p.r. n. 283 del 2000, di cui possono vedersi i diversi commenti riportati in questa Rivista, 2001, n. 1 e da ultimo, in giurisprudenza, Cons. stato, sez. VI, 8 febbraio 2000, n. 678, in Urbanistica e appalti, 2000, n. 5, 567.
[25] Non riguardando l'ambito delle presenti note ci limitiamo a dire che il modello dell'associazione (qui certamente riconosciuta) pone minori problematiche, ad incominciare dalla mancata pretesa di un suo proprio patrimonio e dalla disponibilità di un organo assembleare capace di materializzarne lo scopo con ben altra flessibilità del modello fondazionale. Tali sue favorevoli caratteristiche la lasciano però maggiormente esposta ai timori dell'instabilità che ci si propone, con la fondazione, per l'appunto di superare. Più che altro per il caso di realtà minori può infine notarsi che tale modello potrebbe venire utilizzato per superare il vincolo della soggettività mono-locale che connota quello dell'istituzione o la preclusione all'ingresso di privati in quello dell'azienda consortile, consentendo per l'appunto l'associazione di due o più enti pubblici con altri soggetti privati (ferme restando le suesposte limitazioni circa conferimenti correnti ecc.).
[26] Tenendo conto degli sforzi elaborativi compiuti, sia pure non sempre con successo, dagli altri ordinamenti europei aventi la nostra medesima tradizione giuridica; sui quali v. S. FOA', op. cit., 362 e M.V. De Giorgi, op. cit., 1326.