Sommario: 1. La riforma del Titolo V nel settore dei beni culturali: implicazioni e stato di attuazione. - 2. La distinzione tra i concetti di "tutela" e di "valorizzazione" dei beni culturali: il criterio del rapporto tra la previsione normativa e le situazioni soggettive dei destinatari. - 3. (Segue:) Il contenuto della nozione di "valorizzazione": la riconduzione ad essa dell'attività di "gestione". - 4. Il possibile ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali nella valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale.
1. La riforma del Titolo V nel settore dei beni culturali: implicazioni e stato di attuazione
Come è noto, la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione ha suddiviso la materia dei beni culturali, per quanto riguarda la potestà legislativa, in due submaterie - "tutela" e "valorizzazione" - appartenenti l'una alla legislazione esclusiva dello Stato e l'altra alla legislazione concorrente [1]. Conseguentemente, risulta scissa anche la potestà regolamentare, che, ai sensi dell'art. 117, comma 6, Cost., spetta allo Stato nelle sole materie di legislazione esclusiva - e perciò, per quanto qui interessa, nel campo della tutela - mentre per ogni altra materia, ivi inclusa, dunque, la valorizzazione, è attribuita alle regioni. Quanto, invece, al riparto delle funzioni amministrative, nel contesto più generale del principio di sussidiarietà introdotto dall'art. 118 Cost., viene dettata, al comma 3, una disposizione specifica circa la "tutela dei beni culturali", materia in relazione alla quale si dà mandato alla legge statale di disciplinare "forme di intesa e coordinamento" tra lo Stato e le regioni e gli altri enti autonomi territoriali [2].
Il nuovo assetto dato dalla Costituzione alla materia ha reso pressanti, tra le altre, due questioni: a) quella di definire, nel modo più sicuro ed affidabile, le nozioni di "tutela" e di "valorizzazione" ed il loro reciproco confine, perché a tali nozioni ora si accompagnano - come si è appena visto - regimi giuridici costituzionalmente differenziati per quanto riguarda la titolarità e l'esercizio delle potestà legislativa, regolamentare ed amministrativa, e b) quella di delineare, sulla scorta dei criteri posti dall'art. 118 Cost., una corretta allocazione delle funzioni amministrative nei due ambiti così individuati, con più marcata urgenza - come si vedrà - per quello della valorizzazione.
Chi scrive ha già avuto occasione di valutare, in un più ampio lavoro monografico dello scorso anno, le possibili implicazioni della riforma costituzionale nel settore dei beni culturali, anche con riguardo alle due questioni ora riportate [3].
Nuovo alimento al dibattito su tali due questioni giunge ora, però, dalle prime pronunce rese in argomento (in particolare dal parere definitivo del Consiglio di Stato, sez. consultiva per gli atti normativi, 26 agosto 2002, n. 1794/2002 e dalla sentenza della Corte costituzionale, 28 marzo 2003, n. 94), oltre che da talune novità legislative (segnatamente, le modifiche all'art. 10 del d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368 introdotte con l'art. 80, comma 52, dell'ultima legge finanziaria, legge 27 dicembre 2002, n. 289) e da altri rimarchevoli iniziative (come, ad esempio, i vari ricorsi promossi dalle regioni avanti alla Corte costituzionale [4]), tutte puntualmente riportate e documentate da questa Rivista.
Alla luce di questo nuovo interessante materiale, si cercherà pertanto di fornire, qui, qualche ulteriore spunto di riflessione e di aggiornamento rispetto a quanto già argomentato nel lavoro sopra citato.
Va subito osservato, per altro, che i recenti provvedimenti cui si è fatto cenno non conseguono a manifestazioni concrete di volontà di dare corso ad un'attuazione organica della riforma costituzionale nella materia dei beni culturali. Al contrario, si tratta perlopiù di atti di applicazione diretta delle nuove disposizioni costituzionali come forma di reazione a scelte e prese di posizione, specie di organi statali, che sembrano, per taluni versi, considerare irrilevante il mutamento intervenuto.
Ciò può apparire segno di una scarsa propensione all'effettiva messa in opera di quanto prefigurato dal nuovo Titolo V. Ogni giudizio, tuttavia, va opportunamente sospeso almeno fino all'attuazione, da parte del governo, della delega legislativa ricevuta in forza dell'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137. Essa, infatti, ha ad oggetto "il riassetto e (...) la codificazione" della legislazione in materia di beni culturali e contiene, come primo criterio direttivo, proprio quello dell'adeguamento di detta legislazione ai nuovi artt. 117 e 118 Cost. E' da ritenere, dunque, che tale mandato di adeguamento consenta - se non imponga - di rendere operante il quadro delineato dalla riforma costituzionale, attraverso, tra l'altro, una chiara di distinzione tra gli ambiti della tutela e della valorizzazione ed un'allocazione delle competenze rispettosa dei princìpi dettati dall'art. 118 Cost.
2. La distinzione tra i concetti di "tutela" e di "valorizzazione" dei beni culturali: il criterio del rapporto tra la previsione normativa e le situazioni soggettive dei destinatari
La questione definitoria delle espressioni "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali è divenuta, oggi, centrale e ineludibile, perché - come si è detto - è proprio sulla distinzione tra tali concetti che si fondano i peculiari criteri di riparto, dettati dalla riforma costituzionale, delle attribuzioni, non solo normative (legislative e parallelamente regolamentari), ma anche amministrative, dei diversi livelli istituzionali nella materia in questione.
E' auspicabile, inoltre, che si giunga ad una formulazione precisa di entrambe le nozioni (e non solo di una di esse, con riconduzione, in via residuale, all'altra della generalità dei profili non espressamente compresi nella prima). In tal modo, infatti, le distinte sfere di competenza vengono meglio garantite e stabilizzate, perché si pongono barriere positive all'espansione ermeneutica della nozione innominata sul quella nominata (o viceversa, nel caso la nozione nominata venga formulata in modo eccessivamente ampio).
Quanto al possibile contenuto di tali nozioni e all'individuazione del criterio distintivo, va osservato che la menzione della valorizzazione dei beni culturali come ambito materiale differente rispetto alla tutela non è una novità della riforma del Titolo V, ma è presente ormai da qualche tempo nell'ordinamento: già, ad esempio, la prima legge istitutiva del ministero di settore (1974) attribuiva a quest'ultimo il compito di provvedere "alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale del Paese" [5].
Tuttavia, in origine non vi era l'esigenza di una puntuale esplicitazione dei contenuti delle due funzioni, dato che entrambe erano allocate presso il medesimo apparato (il ministero dei Beni culturali, appunto) e non vi era alcuna espressa riserva di competenza, in questo ambito, per le regioni e gli enti locali, se non per quanto riguardava il segmento dei "musei e biblioteche degli enti locali", materia di legislazione concorrente già ai sensi dell'originaria versione dell'art. 117 Cost. Era perciò bastevole asserire, come ebbe a rilevare Giannini [6], che "il contenuto delle due potestà è sufficientemente indicato dai nomi con cui sono individuate".
La necessità giuridica di una più compiuta distinzione concettuale tra le due funzioni è emersa - come si sa - solo in tempi più recenti, ai fini dell'attuazione della delega di cui alla capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59 (c.d. Bassanini I). Questa, infatti, nel demandare al governo l'attuazione del c.d. federalismo amministrativo, inserì tra le funzioni statali di cui non era ammesso il conferimento alle regioni e agli enti locali anche quelle riconducibili alla "tutela dei beni culturali e del patrimonio storico artistico" [7]. Ciò impose al legislatore delegato di specificare in modo esatto i contenuti della funzione di tutela, in ossequio al principio informatore della riforma Bassanini, per cui doveva intendersi devoluto alle regioni e agli enti locali tutto quanto non fosse espressamente (e tassativamente) trattenuto in capo all'amministrazione statale.
E' noto, per altro - e non deve essere ricordato sulle pagine di questa Rivista, che si è occupata profusamente del tema, con vari incisivi contributi dottrinali [8] - che le definizioni offerte al riguardo dal decreto legislativo di attuazione della delega (artt. 148 ss. d.lg. 31 marzo 1998, n. 112) non sono del tutto soddisfacenti. Da un lato esse presentano elementi di ambiguità, dovuti alle reciproche interferenze ed alle sovrapposizioni logiche [9]; dall'altro, l'introduzione, accanto alla tutela e alla valorizzazione, di una terza nozione, quella di "gestione" dei beni culturali, è fonte di ulteriori complicazioni e difficoltà di lettura.
Nondimeno, le nozioni di cui al d.lg. 112/1998 - le quali appartengono pur sempre, allo stato attuale, all'ordinamento in essere - non possono essere trascurate ai fini dell'interpretazione dei concetti di tutela e di valorizzazione che si ritrovano, ora, nel testo della Costituzione. Ciò, se non altro, in ossequio al criterio, sempre privilegiato dalla giurisprudenza costituzionale, in base al quale, nella definizione delle materie ai fini del riparto delle potestà legislative e/o amministrative tra i livelli istituzionali, occorre fare riferimento al significato loro attribuito dall'ordinamento vigente. D'altronde, anche per le materie di legislazione concorrente - e dunque, nella specie, per la valorizzazione - la definizione normativa dei contenuti e dei confini rappresenta una priorità logica rispetto alla stessa determinazione dei princìpi fondamentali, sicché non sembra fondato prescindere dalle nozioni offerte dal legislatore statale o, comunque, escludere la perdurante potestà definitoria dello stesso legislatore statale sul punto.
Nell'uso interpretativo delle nozioni del d.lg. 112/1998 non si potrebbe, per altro, non fare tesoro anche dei giudizi critici cui le stesse sono state sottoposte. Per tale motivo, più che al criterio finalistico adoperato nelle definizioni sintetiche di cui all'art. 148 di tale d.lg. - sul quale maggiormente si sono appuntate, non a torto, le censure della dottrina, proprio per l'obiettiva difficoltà di pervenire, attraverso di esso, a risultati non equivoci - sembra proficuo porre l'accento sul diverso criterio tipologico-contenutistico, impiegato nei successivi articoli del d.lg. stesso (artt. 149, 150 e 152) per l'elencazione analitica dei tipi di compiti e funzioni che rientrano nei distinti ambiti individuati in via sintetica dall'art. 148. Tale criterio poggia sulla natura e sul contenuto obiettivo delle previsioni normative che ineriscono ai beni culturali, più che sulla loro finalità.
Dall'analisi e dal confronto tra i compiti che - alla luce di questo secondo criterio - sono dal legislatore ricondotti alla tutela, ai sensi dell'art. 149 del d.lg. 112/1998, e quelli che, invece, sono qualificati come compiti di valorizzazione, ai sensi del successivo art. 152 del medesimo d.lg., è parso possibile, a chi scrive, fondare il criterio discretivo tra tutela e valorizzazione alla luce del rapporto tra l'interesse pubblico perseguito dalla norma (o dal potere che essa conferisce) e le situazioni soggettive degli amministrati.
In tal modo, possono dirsi norme di tutela quelle che determinano o prefigurano, in senso lato, effetti limitativi della sfera soggettiva dei destinatari, nel presupposto di un contrasto, quanto meno potenziale, tra il libero svolgimento delle situazioni soggettive degli stessi sui beni culturali e l'interesse pubblico a salvaguardarne il valore culturale o, comunque, a consentire un'esplicazione di tale valore più vantaggiosa per la collettività. Sono, invece, norme di valorizzazione quelle che assecondano ed esplicano il valore culturale dei beni cui si riferiscono, attraverso la soddisfazione di situazioni soggettive di terzi convergenti con detto valore [10].
Tale prospettiva interpretativa pare, ora, autorevolmente privilegiata dalla Corte costituzionale, con riguardo, almeno, alle tesi sostenute nella sopra menzionata sentenza n. 94 del 2003.
La sentenza trae origine dall'impugnativa statale di una legge della Regione Lazio (l.r. 6 dicembre 2001, n. 31) sulla tutela dei locali storici, che prevede il censimento di detti locali, la loro inclusione in un elenco regionale e la concessione di contributi per le spese di manutenzione e restauro ed il pagamento dei canoni di locazione.
Il ricorso governativo, facendo applicazione del mero criterio finalistico di individuazione della nozione di "tutela", contestava l'invasione della potestà legislativa esclusiva dello Stato su tale materia. Ed invero, alla luce di questo solo criterio, non sarebbe stato incongruo sostenere che le misure previste dalla legge regionale del Lazio non hanno un'immediata finalità di valorizzazione dei beni cui si riferiscono, quanto piuttosto di loro individuazione e salvaguardia: da un canto, infatti, si prevede una vera e propria classificazione dei locali storici, dall'altro, l'erogazione dei contributi è diretta eminentemente a proteggere tali locali (più che a valorizzarli), allo scopo di scongiurarne il rischio di chiusura.
La questione è affrontata dalla sentenza della Corte costituzionale senza smentire il tradizionale criterio normativo-oggettivo di individuazione del contenuto delle materie, fondato sul rinvio alle definizioni legislative: sono richiamate ed applicate, infatti, le nozioni di cui al d.lg. 112/1998. Di queste nozioni, tuttavia, ed in particolare di quella di "tutela", viene correttamente privilegiato il criterio di lettura tipologico-contenutistico, dando risalto all'elenco di funzioni di cui all'art. 149 di tale d.lg. e sottolineando, di conseguenza, che ricorre una normativa di "tutela" solo allorquando si sia in presenza di forme di "qualificazione" dei beni culturali, tali da determinare la "speciale conformazione del loro regime giuridico" (punto 4.1 delle considerazioni in diritto).
In applicazione di tale criterio, è agevole per la Corte dare atto che la legge laziale non ha effetti conformativi delle situazioni soggettive dei destinatari delle sue disposizioni. L'unico apparente effetto restrittivo della normativa in questione - ossia il vincolo decennale sulla destinazione d'uso del locale per il quale è stato concesso il contributo e sul mantenimento dei caratteri salienti degli arredi e della conformazione degli spazi (cfr. art. 7, l.r. cit.) - sorge, in realtà, solo con il consenso del beneficiario del contributo (ed altresì previo assenso del proprietario del locale, se diverso dal beneficiario) e può in qualunque momento essere rimosso su iniziativa degli interessati, attraverso la restituzione del contributo erogato.
Poiché la disposizioni in questione non generano limiti alla sfera giuridica degli interessati, se non con il loro consenso durevole nel tempo, la Corte esclude che possa trattarsi di norme di tutela invasive della potestà legislativa riservata allo Stato; e ciò sebbene non manchi, nella legge impugnata, l'evidente intento di "riconoscere, conservare e proteggere" i beni culturali, secondo la nozione finalistica di tutela di cui all'art. 148, lett. c), del d.lg. 112/1998.
Sembra dunque acclarato, dopo l'importante avallo interpretativo della Corte costituzionale, che il proprium della legislazione di tutela risiede sì nel perseguimento di finalità di individuazione, protezione e conservazione dei beni culturali, ma solo attraverso misure che danno vita, unilateralmente, a vincoli conformativi della proprietà. In ogni altro caso, pare invece fondato ritenere che si sia in presenza di norme di valorizzazione.
3. (Segue:) Il contenuto della nozione di "valorizzazione": la riconduzione ad essa dell'attività di "gestione"
Sempre con riferimento all'individuazione del contenuto delle nozioni di cui si discorre, sembra ormai acquisito, alla luce delle più recenti prese di posizione in argomento, anche dottrinali, che il concetto di "gestione", nonostante sia menzionato come segmento separato dell'azione pubblica nel campo dei beni culturali dall'art. 148, lett. d) del d.lg. 112/1998, debba essere opportunamente ricondotto, ai fini dell'applicazione della riforma costituzionale, nell'ambito della "valorizzazione".
A tale conclusione si giunge confutando le altre due soluzioni astrattamente prospettabili: vale a dire a) la considerazione della "gestione" dei beni culturali come submateria autonoma rispetto a quelle nominate dalla riforma costituzionale ovvero b) la riconduzione della "gestione" all'altra submateria nominata, id est alla "tutela".
La prima di tali soluzioni porterebbe a considerare la gestione dei beni culturali, in quanto non menzionata nei commi 2 e 3 dell'art. 117 Cost. come materia rimessa alla potestà legislativa generale-residuale delle regioni ai sensi del successivo comma 4 del medesimo articolo.
Tale tesi, inizialmente prospettata in dottrina, seppure in termini dubitativi e problematici [11], è stata disattesa dal sopramenzionato parere definitivo del Consiglio di Stato n. 1794/2002 nel quale si è sottolineato (al punto 3.3.3) che la scarsa autonomia concettuale della nozione di "gestione" dei beni culturali non consente di trattarla, nel contesto della riforma costituzionale, come sfera a sé stante.
Pur mancando ancora, sul punto, la parola decisiva della Corte costituzionale, è importante evidenziare che anche i più recenti interventi dottrinali in argomento appaiono propensi ad aderire a quest'ultima impostazione. Si è scritto, ad esempio, che anche nei settori diversi dalla tutela dei beni culturali vi sono comunque "esigenze di unitarietà o di cittadinanza sociale da salvaguardare", sicché l'attribuzione di potestà esclusiva alle regioni sul punto non parrebbe giustificata, e si osservato che il meccanismo per ottenere, da parte delle regioni, esclusività di competenza in queste materie è solo quello prefigurato dall'art. 116, ultimo comma, Cost. [12]; ancora, si è rilevato che, se si dovesse ritenere lo Stato abilitato a dettare princìpi fondamentali in materia di valorizzazione, ma non di gestione, ciò condurrebbe ad esiti di "dubbio fondamento concettuale" [13].
D'altra parte, sono le stesse regioni che, nei ricorsi alla Corte costituzionale a difesa della propria sfera di competenza, sembrano aver configurato anche il segmento della gestione dei beni culturali come materia di legislazione concorrente: i ricorsi, difatti, contestano le norme di legge statale non perché asseritamente invasive di una sfera di esclusiva competenza regionale, ma perché non si limiterebbero, ad avviso delle regioni, a dettare i princìpi fondamentali della materia stessa [14].
Va detto, altresì, che, in ambito costituzionale, le materie non possono essere interpretate in modo tale da moltiplicarne la frammentazione, salvo che ciò non sia strettamente necessario e giustificato. Posto che tale necessità, nel caso di specie, non sembra ricorrere, è da ritenere - in mancanza di valide e preminenti ragioni per affermare il contrario - che la suddivisione, operata dalla riforma del Titolo V, tra tutela e valorizzazione dei beni culturali, abbia una portata esaustiva della materia, sicché un'eventuale pretesa delle regioni di invocare, sull'ambito della gestione, la propria competenza legislativa generale-residuale sarebbe priva di un ragionevole fondamento logico.
Si consideri, infine, che l'art. 117, comma 3, Cost. include in modo espresso, tra le materie di competenza legislativa concorrente, la "promozione e organizzazione di attività culturali": anche da questo punto di vista sembra difficile ritenere che, mentre risulta testualmente assoggettata ai princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato l'organizzazione di attività che potrebbero avere un carattere anche estemporaneo (uno spettacolo, un concerto), non lo sia, invece, la gestione dei beni culturali, che rappresenta un'attività senz'altro contrassegnata dai caratteri della stabilità e permanenza, con un impatto ben più significativo sull'assetto organizzativo dell'amministrazione di quanto possa averlo una singola manifestazione culturale.
La seconda alternativa interpretativa sopra accennata - ossia quella di ricondurre la gestione all'ambito della tutela - è stata sostenuta dal ministero, segnatamente con riguardo ai beni culturali in consegna al medesimo, nel procedimento che ha dato luogo al suindicato parere n. 1794/2002. La tesi ministeriale aveva lo scopo di dare fondamento alla potestà regolamentare statale (in quanto la stessa sarebbe stata, in tal modo, esercitata in una materia di legislazione esclusiva); ciò al fine di superare il vaglio preventivo del Consiglio di Stato su uno schema di regolamento predisposto dal ministero per disciplinarne la partecipazione a società per la gestione di beni culturali [15]. Secondo la tesi in questione [16], la gestione dei beni culturali sarebbe da ricondurre alla tutela, almeno nella misura in cui, attraverso di essa, si perseguono obiettivi di tutela dei beni gestiti: in sintesi, i beni culturali si gestiscono non solo per valorizzarli, ma anche (ed ancor prima) per tutelarli, sicché ogni atto di gestione finalizzato alla tutela rientrerebbe nella funzione pubblica di tutela.
In realtà, la gestione, così intesa, si identifica, ad avviso di chi scrive, con l'attività di amministrazione materiale dei beni culturali, la quale include ogni decisione che ne concerne l'uso, la manutenzione o il restauro nonché la costituzione di diritti di terzi e così via: insomma, l'insieme delle facoltà di godimento comprese nel diritto di proprietà, pubblica o privata che sia [17].
Detta attività, tuttavia, non sembra costituire, essa stessa, espressione della funzione di tutela, ma è, piuttosto, l'oggetto passivo su cui insistono le potestà di tutela. In altre parole, la gestione dei beni culturali non è, di per sé, un'attività di tutela, ma il suo esercizio è condizionato dalla sussistenza della funzione pubblica di tutela, ossia dalla previsione normativa di potestà pubbliche conformative, allocate presso il ministero per i Beni e le Attività culturali, preordinate a garantire l'interesse pubblico alla tutela del patrimonio culturale (ciò diversamente da quanto accade per i beni privi di interesse culturale, per i quali la gestione proprietaria è un'attività in massima parte libera).
La differenza tra gestione e tutela è evidente per i beni culturali appartenenti a soggetti (anche pubblici) diversi dal ministero, per i quali la gestione non può che spettare ai soggetti stessi, in quanto dispongono dei beni, mentre la titolarità dei poteri di tutela è sempre riservata al ministero. Anche quando la gestione esplicata dal titolare del bene si attenga perfettamente alle esigenze della tutela e se ne indirizzi volutamente al rispetto, nondimeno detta attività non può giuridicamente qualificarsi come esercizio della funzione pubblica di tutela, perché questa funzione è imputa ed allocata dalla legge presso un solo e ben individuato apparato amministrativo (il ministero per i Beni e le Attività culturali).
Per i beni in consegna al ministero, i due aspetti, invece, si confondono, perché il ministero è, ad un tempo, sia il soggetto gestore del bene sia il soggetto tenuto a garantirne istituzionalmente le esigenze di tutela, in quanto titolare della relativa funzione pubblica. Ciò non significa, tuttavia, che i due aspetti non siano, in termini dogmatici, concettualmente distinguibili, né che possa essere qualificata come tutela quella stessa attività (id est la gestione, da parte del ministero, dei beni culturali di cui ha la disponibilità), che, quando viene svolta da altri soggetti con riguardo a beni in loro disponibilità, di sicuro non potrebbe essere definita come tale.
Certamente, la gestione dei beni culturali da parte del ministero, per le capacità tecniche e la vocazione istituzionale di tale apparato, è da presumere rispettosa in re ipsa delle esigenze della tutela. Tale attività di gestione non sembra, però, concettualmente appartenere, per quanto sinora osservato, all'area della tutela in senso stretto. Anche con riguardo alla gestione, svolta dallo stesso ministero, dei beni culturali che esso ha in consegna, la tutela rappresenta difatti - come osservato dal parere del Consiglio di Stato (al punto 3.3.2) - un prius logico, nel senso che tale gestione non può comunque svolgersi in contrasto con le necessità inderogabili della tutela.
Con ciò non si vuol dire, come è ovvio, che anche sulla gestione dei beni culturali svolta in via diretta sui beni in consegna, il ministero possa o debba esercitare i propri poteri amministrativi di tutela in senso tecnico-giuridico: si tratta di un'eventualità neppure concepibile, posto che i provvedimenti amministrativi possono avere per destinatari solo figure soggettive in posizione di alterità rispetto all'amministrazione che li emana.
Sembra chiaro, tuttavia, che il ministero non può compiere gli atti di gestione dei beni che ha in consegna (id est le scelte circa le destinazioni d'uso, le manutenzioni, i restauri, la costituzione di diritti di terzi, la stessa eventuale alienazione ecc.) senza avere prioritariamente e preventivamente valutato, nel suo stesso seno, la compatibilità di tali atti con le esigenze della tutela, di cui il ministero medesimo è, in prima persona, istituzionalmente responsabile. Pur nell'unitarietà sostanziale dell'attività ora descritta, i due momenti logici - della positiva valutazione, in via preventiva, del rispetto delle esigenze della tutela e della conseguente decisione di assumere e compiere gli atti di gestione - sono ontologicamente separati.
Ciò pare dimostrare che l'attività di gestione dei beni culturali svolta dal ministero con riguardo ai beni che esso ha in consegna non è riconducibile all'ambito materiale della "tutela". A tale ambito sembra appartenere, difatti, solo l'indispensabile, ma distinto, presupposto logico-giuridico della gestione, vale a dire la preventiva valutazione del rispetto delle esigenze della tutela; valutazione che il ministero necessariamente compie in ogni caso, ma che non risulta esplicitata in atti formali ed autonomi, in quanto sottintesa al conseguente atto di gestione.
Tale aspetto appare colto dal parere del Consiglio di Stato in esame, laddove, vagliando l'ammissibilità del trapasso a società partecipate dal ministero di quella che la bozza di regolamento definiva "gestione" dei beni culturali, si osserva come detto trapasso non potrebbe riguardare "quel prius indispensabile costituito dalla tutela in senso proprio" (punto 3.3.2). Nulla osta, cioè - sembra voler concludere il parere - dal punto di vista dell'esercizio della funzione di tutela, all'affidamento a terzi della gestione dei beni culturali in consegna al ministero; detto affidamento a soggetti distinti dal ministero fa, difatti, riemergere in modo pieno e formale - nella sua alterità concettuale e giuridica rispetto all'attività di gestione - la potestà di tutela spettante al ministero, alla quale gli atti di gestione compiuti dal terzo non potrebbero in alcun modo dirsi sottratti.
Ora, se si accetta, secondo la lettura qui proposta, che la gestione dei beni culturali da parte del ministero non ha come scopo la loro tutela, ma deve avere luogo nel rispetto delle esigenze della loro tutela, pare lecito e ragionevole concludere che tale gestione appartiene, concettualmente, all'ambito materiale della "valorizzazione", essendo a ciò strumentalmente finalizzata.
Ed infatti, a differenza dei beni culturali di proprietà privata, per i quali non sussiste, in capo ai relativi proprietari, alcun obbligo normativamente imposto di gestione finalizzata alla valorizzazione, la proprietà pubblica dei beni culturali e, dunque, la loro gestione, in tanto si giustificano, in quanto dei beni stessi sia assicurata la valorizzazione, facendone strumenti di promozione dello sviluppo culturale.
Ciò deve dirsi, come è noto, anche nella prospettiva della lettura unitaria dell'art. 9 Cost., in base alla quale la tutela del patrimonio storico e artistico, che il comma 2 pone quale compito fondamentale della Repubblica, non può intendersi in modo soltanto fine a se stessa, ma deve rappresentare uno strumento per promuovere lo sviluppo culturale della popolazione, che è parimenti compito della Repubblica ai sensi del comma 1 [18].
Massimamente, nella sfera statale, tale obbligo di valorizzazione sussiste per i beni culturali di cui dispone il ministero (musei, archivi, biblioteche, aree archeologiche, siti monumentali), relativamente ai quali la consegna al ministero non può che presupporre la loro destinazione istituzionale alla valorizzazione e, segnatamente, a quel profilo qualificato della valorizzazione rappresentato dalla fruizione da parte della collettività (ciò a differenza di altri beni del demanio culturale statale, come, ad esempio, gli edifici di interesse storico - artistico adibiti a sede di uffici pubblici, per i quali l'apertura al pubblico può darsi solo compatibilmente con l'assolvimento delle finalità istituzionali cui i beni stessi sono destinati).
In altre parole, per i beni in questione è l'intera gestione, ossia l'insieme degli atti di amministrazione, a dover essere istituzionalmente orientata alla valorizzazione, purché in modo concretamente compatibile con le esigenze della loro tutela. Sembra perciò confermato che la gestione, avendo come proprio scopo la valorizzazione, rientra in tale ambito materiale, mentre il rispetto delle esigenze della tutela rappresenta una condizione prioritaria posta al perseguimento, attraverso la gestione, delle finalità della valorizzazione.
4. Il possibile ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali nella valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale
La riconduzione, dogmaticamente corretta, dell'attività di gestione dei beni culturali di appartenenza pubblica all'ambito della valorizzazione ha indotto, però, a prese di posizione troppo nette, tendenti ad escludere, in materia, ogni ruolo statale diverso dalla determinazione, con legge, dei princìpi fondamentali della materia ai sensi dell'art. 117, comma 3, Cost.
In sostanza, secondo un certo indirizzo, le fonti normative statali non potrebbero disciplinare nel dettaglio le modalità, anche organizzative, di valorizzazione dei beni culturali; e questo neppure con riguardo al patrimonio di appartenenza statale. Ciò non potrebbe avere luogo con leggi statali di dettaglio: così, per lo meno, hanno prospettato le regioni, impugnando avanti alla Corte costituzionale l'art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che riguarda la concessione a terzi di compiti relativi alla valorizzazione e alla fruizione pubblica del patrimonio culturale con esclusivo riferimento a beni nella disponibilità del ministero [19]. Tanto meno si potrebbe provvedere con fonti secondarie statali, secondo quanto argomentato dal Consiglio di Stato, nel parere più volte citato, che aveva ad oggetto uno schema di regolamento ministeriale concernente la gestione a mezzo di società partecipate dal ministero di servizi inerenti alla valorizzazione di beni culturali di appartenenza statale.
Corollario implicito di queste affermazioni è l'inammissibilità, altresì, di ogni perdurante (o rinnovata) attribuzione di competenza amministrativa allo Stato, e, per esso, al ministero, con riguardo alla valorizzazione dei beni culturali statali. Non solo, cioè, sarebbe da considerare illegittimo ogni ulteriore intervento normativo statale (diverso dalla predisposizione dei princìpi fondamentali della materia), ma, giocoforza, non residuerebbe più alcuno spazio nemmeno per un'azione amministrativa statale nella materia de qua, sicché occorrerebbe porsi il problema del trasferimento alle regioni e agli altri enti territoriali di qualsivoglia funzione sinora esercitata dall'amministrazione statale e, segnatamente, dal ministero, nell'ambito di cui si discorre.
Tali esiti interpretativi non sembrano, a chi scrive, pienamente convincenti. Sebbene il punto non sia stato ancora trattato funditus in dottrina, pare, difatti, ragionevole ritenere che il legislatore statale, nel dettare i princìpi fondamentali delle materie di legislazione concorrente, possa riservare all'amministrazione statale l'esercizio di determinate funzioni amministrative allorché ricorrano i presupposti di cui all'art. 118, comma 1, Cost., ossia in tutti i casi in cui siano obiettivamente ravvisabili esigenze di esercizio unitario della funzione non frazionabili a livello locale [20].
Ciò sembra potersi dire, perché, nell'ottica della riforma costituzionale, l'inserimento di una materia tra quelle di legislazione concorrente presuppone comunque la sussistenza, sulla materia stessa, di profili di interesse nazionale; diversamente, la materia sarebbe lasciata alla legislazione regionale generale - residuale. Detti interessi, per altro, non solo legittimano, come espressamente prevede l'art. 117, comma 3, Cost., il potere del legislatore statale di dettare i princìpi fondamentali della materia per indirizzare la legislazione regionale, ma possono, altresì, più facilmente consentire di configurare, nella sfera amministrativa, esigenze di esercizio unitario a livello centrale, che giustificano la persistente allocazione (da prevedere nella legislazione statale di principio) di determinati compiti, anche puntuali, in capo all'amministrazione statale, ai sensi dell'art. 118, comma 1, Cost.
Non va dimenticato, in proposito, che l'art. 118, comma 1, Cost., nel dettare il criterio allocativo delle funzioni amministrative, supera il parallelismo tra potestà legislativa e potestà amministrativa, prevedendo, per qualsiasi materia, l'applicazione del principio di sussidiarietà. Ciò sembra permettere, sussistendone le esigenze, l'attrazione allo Stato di talune funzioni, per assicurarne l'esercizio unitario a livello nazionale, anche in materie comprese tra quelle di legislazione concorrente. Correttamente, poi, l'individuazione di dette funzioni sembra poter avere luogo attraverso la determinazione dei princìpi fondamentali della materia da parte del legislatore statale: detta individuazione, infatti, rappresenta essa stessa un principio, valendo a fissare la soglia delle esigenze unitarie di dimensione nazionale, non valicabile dalle leggi regionali nella definizione e nell'attribuzione in sede locale delle funzioni nella materia considerata.
Per gli ambiti di legislazione concorrente relativamente ai quali, attraverso i princìpi fondamentali, vi sia stata un'individuazione di competenze amministrative dello Stato, non parrebbe neppure ragionevole, infine, contestare la sussistenza della potestà normativa statale (legislativa e, parallelamente, regolamentare) necessaria a disciplinare l'esercizio di tali competenze. In proposito sembra sufficiente richiamare la riserva di potestà legislativa statale in materia di organizzazione amministrativa e di contabilità statali, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. e) e g), Cost. Pare logico, d'altronde, ritenere che, ogniqualvolta sussista una competenza amministrativa statale, il suo esercizio debba poter essere regolato uniformemente da un'unica fonte statale e non possa essere sottoposto a molteplici e disparate normative di provenienza regionale.
Quanto sinora argomentato, per altro, vale quando sia effettivamente dimostrato ed acclarato che la perdurante allocazione di funzioni in capo all'amministrazione statale risponda ad esigenze unitarie. Nel caso di specie, pertanto, la conferma, in capo al ministero, di funzioni di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza statale [21] non potrebbe prescindere da una valutazione circa la necessità che detta funzione sia svolta a livello centrale, anziché locale, con riguardo, in particolare, alla soddisfazione dell'interesse pubblico alla fruizione dei beni medesimi.
Occorre evitare cioè, ad avviso di chi scrive, il rischio di cadere nell'eccesso opposto, ritenendo che - nonostante la costituzionalizzazione del principio sussidiarietà, il quale impone la necessaria corrispondenza tra l'azione esplicata da ciascun pubblico potere e la dimensione dell'interesse che lo stesso impersona - permanga invariata la competenza del ministero a svolgere, per intero, la funzione di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale.
Ad una tale conclusione giunge, invece, chi ritiene che la funzione di gestione dei beni culturali pubblici in vista della loro valorizzazione trovi il proprio esclusivo titolo legittimante nella situazione dominicale, ossia discenda dal diritto di proprietà, per modo che ciascun soggetto pubblico ha titolo a valorizzare i beni culturali di cui dispone. Secondo questa impostazione, non potrebbe sostenersi, nonostante il mutamento del criterio allocativo delle funzioni amministrative, che il ministero abbia perso la competenza a valorizzare l'intero patrimonio culturale di appartenenza statale che ha in consegna, perché il profilo dominicale dei beni è autonomo e si discosta da quello dell'esercizio delle funzioni amministrative.
A ciò sembra potersi replicare, tuttavia, che la titolarità del diritto di proprietà in capo agli enti pubblici non è un presupposto, ma una conseguenza dell'attribuzione di competenza amministrativa, nel senso che il diritto di proprietà pubblica non si giustifica ex se, ma solo in quanto mezzo di perseguimento dei fini di interesse pubblico imputati agli enti proprietari.
Pertanto, l'appartenenza statale dei beni culturali non sembra poter costituire, di per sé, una ragione sufficiente a perpetuare l'esercizio della funzione di valorizzazione in capo al ministero, per lo meno ogniqualvolta non emerga che detto esercizio risponde ad obiettive esigenze unitarie di rilevanza nazionale. In altre parole, non è la proprietà statale a far sorgere e a giustificare, in modo automatico, l'esercizio della funzione di valorizzazione del bene culturale da parte del ministero, ma è la perdurante, e legittima, allocazione in capo al ministero della funzione di valorizzazione, in conformità all'art. 118, comma 1, Cost., che consente la legittima permanenza della proprietà del bene in capo allo Stato.
Laddove non sia obiettivamente riscontrabile l'esigenza di svolgere a livello centrale la funzione di valorizzazione del bene culturale di appartenenza statale, sembra invece necessario ritenere che tale funzione debba essere imputata, in forza dell'art. 118, comma 1, Cost., ai livelli istituzionali inferiori. In tal caso, è da credere che anche la proprietà del bene culturale debba essere trasmessa all'ente che, per dimensione dell'interesse, risulti più adatto ad assumere tale compito di valorizzazione [22].
L'individuazione di un sistema di riparto delle competenze in materia di valorizzazione del patrimonio culturale statale fondato su un'applicazione obiettiva e ragionevole del nuovo assetto costituzionale, ed in particolare del principio di sussidiarietà ex art. 118, comma 1, Cost., sembra per altro farsi strada nell'ordinamento, secondo quanto emerge da talune recenti scelte e prese di posizione, sia a livello regionale che statale.
Da un canto, merita di essere segnalato il ricorso della regione Marche alla Corte costituzionale contro il succitato art. 33 della l. 448/2001. In tale ricorso la regione ammette la possibilità per lo Stato di "riservarsi funzioni amministrative che richiedano l'esercizio unitario a livello centrale, contestualmente dettandone la relativa disciplina, anche in materie che l'art. 117 della Costituzione attribuirebbe formalmente alla potestà normativa regionale". Tale ipotesi - prosegue la regione - può "trovare fondamento nel sistema complessivo delineato dagli artt. 118, primo comma e 117, secondo comma, lett. g), nonché dal principio generale ricavabile dall'art. 117, sesto comma, ult. alinea, secondo cui ad ogni ente territoriale che risulti titolare di funzioni amministrative non può non essere riconosciuta una potestà regolamentare rivolta specificamente a disciplinare l'organizzazione e lo svolgimento di tali funzioni".
In sostanza, ciò che la regione Marche contesta al legislatore statale non è tanto di avere mantenuto l'allocazione di funzioni presso l'amministrazione centrale in materia di valorizzazione del patrimonio culturale statale, ma di averlo fatto considerando "il nuovo sistema costituzionale delle competenze ... del tutto irrilevante", ossia varando la norma impugnata non "nell'ambito di un intervento che contempli la complessiva riallocazione delle funzioni amministrative relative ad un determinato ambito materiale, distinguendo rigorosamente le funzioni da riservare al livello centrale in attuazione e nel rispetto dei parametri di cui all'art. 118, comma 1, e solo per tali funzioni provvedendo a dettare la relativa disciplina".
La regione ammette quindi - con argomenti affatto analoghi a quanto sopra illustrato - che vi possa essere una riserva di titolarità di funzioni amministrative allo Stato anche nelle materie di legislazione concorrente (e dunque, per quanto qui interessa, in materia di valorizzazione del patrimonio culturale statale), purché tale riserva sia disposta nel rispetto del principio di sussidiarietà, ossia nel quadro di una complessiva valutazione degli interessi pubblici e delle esigenze unitarie.
A tale ordine di idee sembra aderire, ora, anche il più recente intervento del legislatore statale in materia, il quale potrebbe essere letto come il primo tentativo di attuazione, nel campo della valorizzazione del patrimonio culturale statale, del nuovo criterio allocativo delle funzioni amministrative imposto dall'art. 118, comma 1, Cost.
Ci si riferisce al sopramenzionato art. 80, comma 52, dell'ultima legge finanziaria, che ha introdotto ulteriori modifiche all'art. 10 del d.lg. 368/1998. Con quest'ultima novella, in sostanza, la disciplina concernente le forme di organizzazione dei servizi pubblici di pertinenza statale relativi ai beni culturali viene limitata ai soli beni di interesse nazionale.
Invero, il criterio stabilito dalla norma in esame per stabilire quali siano i beni culturali di interesse nazionale non è del tutto perspicuo. Si rinvia, infatti, all'art. 2, comma 1, lett. b) e c) del regolamento sull'alienazione degli immobili del demanio storico-artistico (d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283), ove sono menzionati gli immobili di interesse storico relazionale (da vincolare espressamente come tali, anche se di appartenenza pubblica, ai sensi, prima, dell'art. 2 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 e, poi, dell'art. 2, comma 1, lett. b) del d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490) e gli immobili di interesse archeologico.
Tale rinvio, da un lato, appare troppo limitato, perché considera solo i beni immobili e solo gli interessi di tipo storico-relazionale ovvero archeologico, sicché non parrebbero qualificabili come beni di interesse nazionale né la generalità dei beni culturali mobili né gli immobili aventi, ad esempio, interesse di tipo artistico-architettonico. D'altro lato, appare troppo esteso: difatti, gli immobili di interesse storico-relazionale hanno spesso attinenza con eventi o momenti della storia locale e, pertanto, non pare ragionevole predicare indistintamente l'interesse nazionale dell'intera categoria. Analogamente può dirsi con riguardo alle aree archeologiche, le quali solo a certi livelli di importanza culturale (Pompei ecc.) sembrano assumere un interesse nazionale, se non universale, mentre, con riguardo ai siti e ai rinvenimenti minori, il loro interesse obiettivamente si attenua.
Per altro, al di là della valutazione nel merito del criterio scelto per individuare i beni di interesse nazionale [23], ciò che di tale norma importa sottolineare è il riconoscimento che la potestà amministrativa del ministero in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale non riguarda, indistintamente, tutti i beni che vi sono compresi, ma solo quelli aventi un interesse nazionale, con esclusivo riguardo ai quali il legislatore statale, evidentemente, ha ritenuto sussistenti esigenze di esercizio unitario tali da richiedere il mantenimento della funzione a livello centrale, in applicazione dell'art. 118, comma 1, Cost. Né, al contrario, sembrerebbe fondato opinare che la norma vale per i beni di terzi e non per il patrimonio statale: l'intero art. 10 del d.lg. 368/1998, oggetto dell'intervento legislativo di cui si tratta, e, in particolare, il comma 1, lett. b-bis), si riferiscono chiaramente, difatti (anche) ai beni del patrimonio statale e non (solo) a beni altrui.
[1] Cfr. art. 117, comma 2, lett. s) e comma 3, Cost. Va ricordato, per altro, che le materia della tutela dei beni culturali è inclusa tra quelle di competenza legislativa riservata allo Stato per le quali le regioni, diverse da quelle ad autonomia differenziata, possono ottenere, con la procedura di cui all'art. 116, comma 3, Cost., ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.
[2] A differenza delle altre materie su cui l'art. 118, comma 3, Cost. prevede forme di coordinamento per l'esercizio delle funzioni amministrative (relativamente alle quali sono espressamente menzionati, come parti delle stesse, solo lo Stato e le regioni), nel caso della tutela dei beni culturali l'assenza di ogni indicazione testuale fa propendere per un'applicazione estensiva della disposizione, considerando possibili parti delle forme di intesa e di coordinamento da un lato lo Stato e, dall'altro, non solo le regioni, ma anche gli altri enti autonomi territoriali.
[3] N. Aicardi, L'ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela e nella valorizzazione, Torino, 2002.
[4] Si vedano i ricorsi contro l'art. 33 della 28 dicembre 2001, n. 448 proposti dalle regioni Emilia-Romagna, Marche e Toscana, in Aedon, n. 1/2002 e il ricorso della regione Toscana contro l'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137, in Aedon, n. 2/2002. Per un commento ai ricorsi contro il cit. art. 33, D. Nardella, L'art. 33 della finanziaria 2002 davanti alla Corte costituzionale, in Aedon, n. 1/2002.
[5] Art. 2, comma 1, d.l. 14 dicembre 1974, n. 657, conv. in legge 29 gennaio 1975, n. 5. Prima ancora, la legge istitutiva della Commissione Franceschini (art. 1, legge 26 aprile 1964, n. 310) aveva attribuito alla medesima un compito di indagine e di proposta sulle condizioni attuali e sulle esigenze "in ordine alla tutela e alla valorizzazione" del patrimonio culturale.
[6] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1975, 36.
[7] Art. 1, comma 3, lett. d), legge 15 marzo 1997, n. 59.
[8] In particolare, M. Cammelli, Il decentramento difficile, in Aedon, n. 1/1998; M.P. Chiti, La nuova nozione di "beni culturali" nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche, ibidem; G. Sciullo, Beni culturali e princìpi della delega, ibidem.
[9] Di nozioni "circolari", nel senso che l'una rimanda all'altra e viceversa, ha parlato S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 674.
[10] Per maggiori ragguagli sia consentito rinviare a N. Aicardi, L'ordinamento, cit., partic. 98 ss.
[11] Si veda, ad esempio, G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon, n. 1/2001, 6, il quale, pur riconoscendo che "la nuova mappa delle competenze legislative quale deriva dal nuovo art. 117 appare del tutto inadeguata", ritiene comunque di dover concludere nel senso che la disciplina concernente la gestione dei beni culturali "risulta assegnata alla potestà "piena" delle regioni". Il problema è rilevato in termini ipotetici da R. Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa e amministrativa, in Regioni, 2001, 1234, secondo cui "se si ritiene - come suggeriscono le definizioni dell'art. 148 del d.lg. 112/1998 - che i nomina che ora compaiono nell'art. 117 ... non esauriscano il complessivo settore dei beni culturali, residua alla competenza regionale di cui al 4° comma l'ambito della gestione dei beni culturali; per altro, in tale ipotesi, la stessa Autrice sottolinea come tale settore "ben difficilmente si potrà considerare sottratto ai condizionamenti determinati dalle scelte operate dalla legge statale negli ambiti dove essa detiene potestà esclusiva o concorrente, in sede cioè di tutela e valorizzazione di quei beni".
[12] A. Poggi, Dopo la revisione costituzionale: i beni culturali e gli scogli del "decentramento possibile", in Aedon, n. 1/2002, 5.
[13] C. Barbati, Tutela e valorizzazione dei beni culturali dopo la riforma del titolo V: la separazione delle funzioni, in Giorn. dir. amm., 2003, 147.
[14] Si vedano i ricorsi già citati alla nota 4.
[15] La versione originaria dello schema di regolamento, poi parzialmente modificato a seguito di un primo parere interlocutorio del Consiglio di Stato in data 1° luglio 2002 è pubblicata, unitamente a detto parere interlocutorio, in Aedon, n. 2/2002. Anche le modifiche introdotte, tuttavia, non hanno consentito allo schema di regolamento di superare il vaglio preventivo del Consiglio di Stato.
[16] Si veda, in particolare, quanto riportato, delle tesi ministeriali, al punto 3.2 del parere n. 1794/2002 in esame.
[17] Per l'uso del termine in questa accezione si cfr., ad esempio, M.S. Giannini, I beni culturali, cit., p. 36, che parla di provvedimenti ordinatori e autorizzatori concernenti la gestione dei beni culturali, riferendosi alle attività su tali beni in ordine alle quali sussistono, appunto, le potestà di tutela proprie del ministero.
[18] Tale lettura dell'art. 9 Cost. è pacifica almeno a partire dai contributi dottrinali degli anni '70: si vedano, tra gli altri, A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. edil., 1967, II, 70; F. Santoro Passarelli, I beni della cultura nella Costituzione, in Studi per il ventesimo anniversario dell'Assemblea costituente, II, Le libertà civili e politiche, Firenze, 1969, 435; G. Volpe, Tutela del patrimonio storico-artistico nella problematica della definizione delle materie regionali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 375; F. Merusi, sub art. 9, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Art. 1-12 Princìpi fondamentali, Bologna-Roma, 1975, 446.
[19] Dalla lettura della norma in questione risulta difatti inequivocabile, tra l'altro, che l'amministrazione concedente è il ministero, che il canone di concessione è corrisposto allo Stato e che, in caso di cessazione, per qualsiasi causa, del rapporto concessorio, i beni culturali conferiti in gestione ritornano nella disponibilità del ministero.
[20] Il conferimento di competenze allo Stato nell'ambito della definizione dei princìpi fondamentali è ammesso da A. Corpaci, Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo, in Regioni, 2001, 1314; R. Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001, cit., 1241; L. Torchia, "Concorrenza" fra Stato e regioni dopo la riforma del Titolo V: dalla collaborazione unilaterale alla collaborazione unitaria, in Regioni, 2002, 648.
[21] La questione, invero, andrebbe affrontata in modo più ampio, con riguardo a tutta l'attività amministrativa statale di valorizzazione dei beni culturali, la quale non è concentrata solo sul patrimonio di appartenenza statale, ma si rivolge anche a beni di terzi (attraverso, ad esempio, contributi finanziari o altre misure incentivanti), oltre a manifestarsi, in termini astratti, attraverso atti generali (ad esempio con la definizione di standard). Per altro, ciò di cui si tratta nel testo, ossia il profilo della valorizzazione del patrimonio culturale statale, è quello che, nei fatti, ha suscitato il dibattito più intenso e che sembra presentare le maggiori implicazioni, anche di tipo politico-istituzionale.
[22] Per l'ulteriore esplicazione di questo assunto, sia consentito rinviare ancora a N. Aicardi, L'ordinamento, cit., 273 ss.
[23] Invero, la definizione del criterio (o del procedimento) in base al quale giungere a qualificare o no i beni culturali come di "interesse nazionale", dovrebbe, per quanto possibile, essere il frutto di un accordo tra i livelli istituzionali; ciò anche in ragione dell'opinabilità di una valutazione d'interesse applicata ai beni in questione. Sul carattere "opinabilissimo" del criterio di riparto fondato sulla dimensione dell'interesse culturale del bene e sul fatto che lo stesso "dà luogo ad un'ingerenza pressoché totale dello Stato nella materia, dato che un interesse (almeno) nazionale è quasi sempre rinvenibile in ordine a singoli beni culturali o raccolte di essi anche se site in ambito locale" si cfr., ad esempio, V. Cerulli Irelli, I beni culturali nell'ordinamento italiano vigente, in M.P. Chiti (a cura di), Beni culturali e comunità europea, Milano, 1994, 7.