Tra i numerosi articoli della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per il 2002) sottoposti da alcune regioni al sindacato di legittimità costituzionale della Corte per incompatibilità con le disposizioni del nuovo Titolo V della parte II della Costituzione [1], una significativa attenzione è stata riservata anche all'art. 33, il quale tratta la delicata materia della privatizzazione della gestione dei servizi nel settore dei beni culturali. a integrazione della disciplina già contenuta nell'art. 10 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, istitutivo del ministero per i Beni e le Attività culturali.
La norma infatti consente a quest'ultimo la facoltà di "dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e alla valorizzazione del patrimonio artistico", sulla base di modalità, criteri e garanzie da definirsi con regolamento ministeriale, del quale si indicano in maniera puntuale, ancorché non del tutto esaustiva, i contenuti.
Prima di procedere all'analisi delle motivazioni in fatto e in diritto che accompagnano i suddetti ricorsi, occorre precisare che delle sei giunte regionali che hanno deciso di appellarsi al giudice costituzionale (Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Marche, Toscana e Umbria) sono quattro, vale a dire Toscana, Emilia Romagna, Marche e Umbria quelle che hanno autorizzato anche l'impugnazione dell'art. 33 per contrasto con il nuovo art. 117 Cost. [2].
2. Ad una prima analisi risulta evidente che l'impianto utilizzato da tutte le regioni ricorrenti, seppure con alcuni accenti diversi rispetto alle varie motivazioni addotte, si concentra su due profili di illegittimità costituzionale.
Per quanto riguarda il primo profilo, si parte dall'assunto che le formule utilizzate nella disposizione impugnata, di "miglioramento della fruizione pubblica" e "valorizzazione del patrimonio artistico", costituiscono un chiaro e testuale riferimento alla materia della "valorizzazione dei beni culturali" (come definita nel noto art. 152 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112) la quale, a differenza della tutela (oggetto della competenza normativa esclusiva dello Stato), rientra tra le materie di competenza legislativa concorrente di cui all'art. 117, comma 3, Cost.
In tal caso è noto, infatti, che la competenza normativa statale si debba limitare all'individuazione dei "principi fondamentali", stante la titolarità delle regioni nella legislazione cosiddetta di dettaglio. La norma in esame, a detta dei soggetti ricorrenti, non si limiterebbe però alla sola definizione di un principio, quale potrebbe essere l'affidamento dei servizi in concessione a privati, ma disciplinerebbe in modo dettagliato e articolato le regole e le modalità della concessione stessa determinando così una palese ingerenza nel campo della competenza legislativa regionale.
Essa rinvia infatti ad un futuro regolamento ministeriale la disciplina ("tra l'altro"): delle procedure di affidamento dei servizi (con licitazione privata); dei compiti dello Stato e dei concessionari relativamente ai restauri e all'ordinaria manutenzione dei beni; del reclutamento e della fissazione dei livelli minimi retributivi del personale; dei parametri per l'offerta al pubblico e la gestione dei siti culturali; della durata della concessione e del relativo canone; dell'individuazione di un titolo preferenziale (l'inclusione di beni e siti definiti "minori") per i progetti di gestione e valorizzazione. Da questo punto di vista, si osserva in particolare nel ricorso della regione Marche, i riferimenti equivoci dell'art. 33 riferiti alla materia della tutela (circoscritti in definitiva al solo caso di proposta di offerta di servizi qualitativamente più favorevole sul piano della tutela dei beni) risulterebbero del tutto marginali e non inciderebbero sulla classificazione dell'oggetto del regolamento ministeriale.
Quanto al secondo profilo, logicamente e direttamente connesso al precedente, si stigmatizza la disposizione in esame per la parte in cui, come si è appena visto, attribuisce al ministro un potere regolamentare ai sensi dell'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che sarebbe invece escluso dall'art. 117, comma 6, Cost., secondo il quale, nelle materie di legislazione concorrente e di legislazione residuale (o "piena") regionale, la potestà regolamentare spetta in via esclusiva alle regioni.
Si tratta, per altro, di un principio già ritenuto valido prima della novella del Titolo V Cost. come si ricorda nel testo del ricorso della regione Toscana la quale, a tal scopo, richiama a titolo esemplificativo la sent. n. 204 del 1991, con cui la Corte Costituzionale aveva chiarito che il regolamento di cui all'art. 17, comma 3, della l. 400/88 potesse essere adottato "nelle sole materie di competenza del ministro o di autorità sottordinate al ministro stesso", escludendone qualunque incidenza "in materie riservate alla competenza regionale o provinciale" [3].
Tornando al primo punto, risultano interessanti le precisazioni addotte dalla regione Marche sulla questione dell'individuazione della materia posta ad oggetto dell'art. 33 della l. 448/2001: ad un primo superficiale sguardo emerge dalla disposizione il riferimento esplicito all'ambito della "gestione" dei servizi dei beni culturali, piuttosto che a quello della valorizzazione, il che renderebbe meno agevole l'interpretazione della disposizione dell'art. 33, anche in virtù dell'equivoca assenza della gestione dal modello di riparto contenuto nel Titolo V [4].
Tuttavia basta poco per arrivare a comprendere la natura reale del termine "gestione", inquadrata in un rapporto di sostanziale strumentalità rispetto alla materia della valorizzazione (e al "miglioramento della fruizione pubblica", a sua volta in posizione di species del genus valorizzazione). Una strumentalità che connota il concetto stesso di gestione e che non fa di essa una vera e propria materia autonoma (si potrebbe parlare infatti della gestione come "materia - funzione"), essendo propedeutica per struttura, a seconda delle circostanze e delle finalità, sia alla sfera della tutela che a quella della valorizzazione, così come si evince anche dall'art. 148, comma 1, lett. d), del d.lg. 112/98 ("ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle attività di tutela e di valorizzazione").
Nel caso di specie, il ricorso presentato dalle Marche precisa che la gestione dei servizi nel settore dei beni culturali è chiaramente finalizzata alla materia della valorizzazione e fa di questa il vero oggetto della disciplina dell'art. 33, come dimostrato sia dall'inequivoco tenore letterale della disposizione, sia dal riferimento esplicito alle definizioni contenute nell'art. 152, comma 3, del d.lg. 112/98, relativo per l'appunto al solo settore della valorizzazione [5].
Inoltre la regione Marche, nell'illustrare le ragioni del ricorso, tenta di confutare l'eventuale ipotesi di giustificazione della legittimità costituzionale dell'art. 33 sulla base del fatto che lo Stato possa ritenersi autorizzato, anche in materie di potestà normativa regionale, a riservarsi le funzioni amministrative che già gli spettavano in base alla legislazione vigente anteriormente all'entrata in vigore dei nuovi artt. 117 e 118 Cost., contestualmente dettandone la relativa disciplina.
In effetti, il cpv. dell'art. 10 del d.lg. 368/98 attribuiva già al ministero la facoltà di stipulare accordi con soggetti privati e costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società, ai fini generali del più efficace esercizio delle "sue funzioni e, in particolare per la valorizzazione dei beni culturali e ambientali". Un'ipotesi del genere potrebbe infatti trovare sostegno su un piano generale sia nell'art. 118, comma 1, Cost. il quale consente, in via di deroga, il conferimento allo Stato di funzioni amministrative per "assicurarne l'esercizio unitario"; sia, contestualmente, nell'art. 117 Cost. laddove, al comma 2, lett. g), attribuisce alla legislazione statale esclusiva la disciplina dell'ordinamento e dell'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, e al successivo comma 6, ult. alinea, introduce un'eccezione alla competenza residuale - generale dei regolamenti regionali, secondo la quale ogni ente territoriale che risulti titolare di funzioni amministrative godrebbe di una potestà regolamentare per la disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento di quelle funzioni [6].
Il ricorso delle Marche, tuttavia, sostiene che l'ipotesi che lo Stato disciplini liberamente funzioni amministrative che gli erano riconosciute prima della riforma costituzionale possa trovare una qualche ammissibile giustificazione "solo nell'ambito di un intervento che contempli la complessiva riallocazione delle funzioni amministrative", "distinguendo rigorosamente le funzioni da riservare a livello centrale in attuazione e nel rispetto dei parametri di cui all'art. 118, comma 1, e solo per tali funzioni provvedendo a dettare la relativa disciplina". Al di fuori di questa precisa circostanza, dunque, ogni intervento di semplice integrazione parziale della disciplina previgente entrerebbe inevitabilmente in contrasto con il sistema di regole disegnato dagli artt. 117 e 118 Cost.
Vi è, infine, un'annotazione presentata in via generale e preliminare dalla regione Emilia Romagna nelle motivazioni in fatto del ricorso alla Corte, laddove si ritiene ingiustificabile la decisione del governo di aver inserito disposizioni fortemente incisive sul piano delle attribuzioni regionali in una fonte normativa particolare, la legge finanziaria, che beneficia, in quanto strumento principale della manovra di bilancio, delle "riserve" di competenza statale connesse al "sistema tributario e contabile dello Stato" (art. 117, comma 2, lett.e) o alla "armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario" (art. 117, comma 3).
Secondo la regione ricorrente l'art. 33 della l. 448/2001 rientrerebbe infatti tra quelle numerose disposizioni che risultano essere estranee alla natura della legge finanziaria che le contiene, in quanto "prive di immediato riflesso finanziario" e, piuttosto, si presentano come "norme di carattere ordinamentale ovvero organizzatorio" la cui presenza in una legge finanziaria, come noto, è espressamente vietata (art. 11 della legge 468/1978, così come modificato dalla legge 208/1999, relativo alla disciplina dei contenuti della legge finanziaria).
L'inserimento di questa disposizione nella legge finanziaria, dunque, non può certo fornire, a detta dell'Emilia Romagna, una giustificazione di "legittimità", nei confronti delle regioni, delle disposizioni contestate dal ricorso, tanto più di fronte all'esigenza che una ponderata e adeguata attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, non possa essere lasciata a interventi disarticolati e per giunta realizzati con "le strettoie e le urgenze proprie della legge finanziaria".
La breve disamina dei ricorsi delle regioni ci permette di fare a questo punto alcune osservazioni di sintesi su quello che si può considerare il primo rilevante test sulla capacità e la volontà del governo e del parlamento di adeguarsi al mutato assetto costituzionale dei rapporti tra lo Stato, le regioni e le autonomie locali.
Almeno per la parte che qui ci compete, i risultati di questo test non possono essere ritenuti del tutto soddisfacenti: ciò che colpisce, in definitiva, è che il contenuto dell'art. 33 della l. 448 non reca alcuna visibile traccia del nuovo riparto di attribuzioni tra centro e periferia in materia di gestione e valorizzazione dei beni culturali, né pare rispettare il mutato quadro dei rapporti tra potestà normativa, potestà regolamentare ed esercizio delle funzioni amministrative.
Ciò è confermato inoltre dall'assenza di soluzioni di continuità nel rapporto che sussiste tra la disposizione in esame e il contenuto dello stesso art. 10 del d.lg. 368/98 approvato prima della riforma costituzionale, le cui previsioni, tra l'altro, sono tutt'ora prive di una concreta implementazione [7].
Certo, i ricorsi alla Corte costituiscono un'occasione preziosa per effettuare una prima verifica dei problemi effettivi che riguardano la difficile fase di attuazione del nuovo Titolo V. In particolare, nel caso delle funzioni relative ai beni culturali il contenzioso tra Stato e regioni mette a nudo un problema ineludibile: sarà difficile infatti non assistere ad ulteriori casi, oltre a quello visto, in cui lo Stato tenderà a trattenere a sé con appositi atti normativi una serie di funzioni amministrative rilevanti, non soltanto nel campo della difesa del patrimonio (anch'esse - è opportuno ricordarlo - sottoposte alla competenza generale dei comuni ex art. 118, comma 1), ma anche e soprattutto nelle materie sottoposte alla competenza concorrente, come, appunto la "valorizzazione dei beni culturali e ambientali" e la "promozione e organizzazione di attività culturali" [8]. In quest'ottica si tratterà di comprendere la portata effettiva che acquisirà l'esigenza di garantire l'indivisibilità delle funzioni amministrative (l' "esercizio unitario" di cui al cpv. dell'art. 118 Cost.) nel rispetto contestuale dei principi di "sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza" stabiliti nel nuovo testo del Titolo V.
Su tutto questo peserà non poco l'assetto organizzativo esistente, delineato prima della riforma e per questo concepito sulla base di un impianto costituzionale non più vigente: basti guardare al corposo apparato ministeriale disegnato dai dd.lg. 368/98 e 300/1999.
In buona sostanza, a meno di non voler illudersi che lo Stato possa spogliarsi da un giorno all'altro della quantità notevole di poteri di amministrazione attiva in materia di valorizzazione e gestione di beni culturali, occorrerà fare uno sforzo interpretativo e di normazione che si accompagni ad un processo graduale e sistemico di attuazione della riforma costituzionale, in grado di tenere insieme, nel breve periodo, sia alcuni degli aspetti oggettivamente irrinunciabili dello status quo, sia le esigenze di rendere effettivo e realizzabile il ruolo delle regioni e delle autonomie definito dal nuovo Titolo V.
Da questo punto di vista, allora, sarebbe stata certo compresa una legge finanziaria - si legge nel ricorso dell'Emilia Romagna - di transizione, ovvero una legge che, a differenza di quella approvata in parlamento, "di fronte alla difficoltà dell'opera pur doverosa di traduzione compiuta del nuovo quadro costituzionale in realtà operante, e di fronte alla forse inevitabile forza d'inerzia opposta dai precedenti modi di regolare situazioni e rapporti, costituisse in un certo senso un ponte tra il vecchio e il nuovo ordinamento".
[1] La decisione delle regioni menzionate di impugnare la legge finanziaria 2002 avanti alla Corte Costituzionale giunge al termine di una serie di fallimenti dei tentativi di mediazione tra la Presidenza del Consiglio e la Conferenza dei presidenti delle regioni la quale concentrava le proprie posizioni su tre aspetti: il riconoscimento del nuovo ruolo degli enti territoriali mediante la concreta attuazione del Titolo V della Costituzione (ivi compreso l'art. 119 sul cd. "federalismo fiscale", legato all'attribuzione alle regioni delle risorse necessarie per l'esercizio delle nuove competenze); la sospensione delle iniziative del Governo (giudicate "invasive delle competenze regionali" nell'ordine del giorno approvato all'unanimità dalla Conferenza dei presidenti delle regioni del 6 dicembre 2001) contenute nei progetti della legge finanziaria per il 2002 e della legge obiettivo sulle grandi infrastrutture e gli insediamenti produttivi strategici (oggi legge 21 dicembre 2002, n. 443); il pieno funzionamento delle sedi di cooperazione tra Stato e regioni istituite con il compito di provvedere all'attuazione della riforma costituzionale, a partire dalla cd. "cabina di regia" promossa dallo stesso Governo.
[2] E' anche vero che, nonostante il gran numero di disposizioni impugnate nei singoli ricorsi (tra le quali spiccano - per la frequenza - l'art. 11 sulle fondazioni, l'art. 35 sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali, l'art. 41 sulla finanza degli enti territoriali), non ve ne è una che sia stata ritenuta allo stesso modo lesiva delle proprie competenze da tutte le regioni contemporaneamente. Nel caso dell'art. 33, non stupisce che se ne siano interessate regioni che godono tutte di una consolidata esperienza tecnico-amministrativa nelle attività di gestione dei beni culturali anche in virtù dell'ingente patrimonio storico e artistico presente nei loro territori.
[3] La Sentenza n. 204 del 1991 contiene la dichiarazione di illegittimità costituzionale di un decreto dell'allora ministro dell'agricoltura e delle foreste volto a disciplinare in modo diretto le condizioni uniformi e le modalità di generale applicazione relative agli interventi finanziari programmati nell'ambito della materia dell'agricoltura, riservata alla competenza esclusiva delle Province autonome di Trento e Bolzano.
[4] Sul punto cfr. G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon 1/2001
[5] In proposito si veda M. Cammelli, Buscar oriente e tomar occidente (Ovvero: i beni culturali nella finanziaria 2002), in Aedon 3/2001. L'A., nel riferirsi all'oggetto dell'art. 33, parla infatti di "attività strumentali sostanzialmente riferibili alla 'valorizzazione' ".
[6] Il riferimento letterale della norma tuttavia è ai comuni, alle province e alle città metropolitane.
[7] Sul punto cfr. C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon 3/2001.
[8] Cfr. ancora Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, cit.