Canoni e corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni culturali: prime riflessioni sul d.m. 161/2023
Rompere lo specchio di Narciso. I diritti di immagine relativi al patrimonio culturale come occasione di imprenditorialità, autonomia e decentramento [*]
di Stefano Baia Curioni [**]
Sommario: 1. Premessa. - 2. Rigenerare la norma o cambiare la norma? - 3. Altre questioni non minori. - 4. Rompere lo specchio di Narciso.
Breaking the mirror of Narcissus. Image rights related to cultural heritage as an opportunity for entrepreneurship, autonomy and decentralization
This contribution explores some of the features and limitations of the DM 161/23 considering on the one side the history of the Italian regulation of the heritage images belonging to Italian museums and archaeological sites, and on the other the overall evolution of the images exchange practice in the global market.
Keywords: heritage; museums; ministry of culture; market for images; costs regulation.
A volte succede che il tentativo di chiarire le cose, anche nella nobile prospettiva di rendere efficace un dettato legislativo, generi conseguenze insoddisfacenti. Questo può accadere, al di là di ogni intenzione, in presenza di sistemi complessi, come quello della cultura.
I colleghi e amici di Aedon mi hanno sollecitato una riflessione sul d.m. n. 161/2023 relativo ai criteri di tariffazione per la riproduzione di immagini relative al patrimonio culturale statale. Di seguito alcune riflessioni di carattere generale.
Il primo elemento da considerare, a mio avviso, è che il decreto non modifica l’impianto legislativo precedente, ma si pone l’obiettivo di fissare un sistema univoco di parametri interpretativi e comportamenti negoziali da parte degli enti pubblici di gestione del patrimonio. È necessario quindi concordare con quanto sottolinea Antonio Tarasco, estensore dell’intervento, che respinge l’accusa di aver imposto elementi di restrizione rispetto al dettato legislativo esistente [1]. Si può anche convenire sul fatto che l’evoluzione abbastanza disordinata del micro-segmento di azione relativo al mercato delle riproduzioni del patrimonio culturale italiano, caratterizzato da tariffazioni eterogenee, negoziazioni non coordinate, rendite di posizione non trasparenti, richiedesse una azione di riordino.
In secondo luogo, in particolare sulla vexata quaestio delle tariffe imposte all’editoria scientifica, non credo si possa negare che il riferimento presente nel Testo Unico, ed ereditato dal passato, in merito ai “fair uses”, ossia agli utilizzi non commerciali e a scopo di studio (che restano nel regolamento esenti da ogni esazione) non contenesse elementi sufficienti, in punto di diritto, ad impedire di considerare il mercato dell’editoria universitaria e di ricerca come un settore, ancorché povero e limitato, appartenente all’area profit e quindi necessariamente soggetto a tariffa. In questo senso non si può mancare di notare che alcune posizioni critiche rispetto al decreto in realtà sembrano rivendicare il mantenimento di condizioni che di fatto rappresentavano “sostegni taciti” - auspicabili ma non necessariamente dovuti - all’industria editoriale e universitaria.
In terzo luogo, è vero che la griglia di tariffazione proposta, sebbene molto complicata e non di facilissimo uso, cerca di ricomprendere e formalizzare le relazioni tra tipologie di diritti (di riproduzione distinti per categoria, di uso degli spazi distinti per area e tipo di uso), scopi (profit e non profit), e tipologia di supporti, cercando di miscelare un’elevata granularità di applicazione ad una logica comune.
Ciò detto non ci si può esimere dalla considerazione di alcune problematiche di natura strategica e sistemica che l’intervento genera, forse in modo non necessariamente consapevole.
2. Rigenerare la norma o cambiare la norma?
Il d.m. si aggancia necessariamente al d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 articoli 107 e 108 relativi alle modalità di concessione di diritti economici a soggetti non statali per i beni di competenza statale. Così facendo di fatto riporta alla ribalta, ed enfatizza, il carattere specifico del trattamento imposto a quel tempo al tema dei diritti di riproduzione, che già allora mostrava alcuni limiti e molti altri ha di fatto accumulato nel tempo. La norma, come ampiamente commentato, ha trattato la questione facendo riferimento esplicitamente alle esigenze di conservazione dei beni di fronte ai danni possibilmente prodotti da particolari forme di riproduzione (calchi: non proprio una pratica al centro delle recenti innovazioni tecnologiche) e per il resto estendeva ai diritti di riproduzione la normativa propria del diritto d’autore [2]. Non considerava se non in modo generale, il problema di verificare l’adeguatezza dei contesti e degli usi rispetto al valore immateriale degli oggetti (uso di immagini a scopo pubblicitario ad esempio), né affrontava il tema della digitalizzazione e della circolazione in rete delle immagini. Fin dall’origine la norma, derivata da interventi risalenti al 1913 e tutta orientata alla conservazione fisica dei beni e alla tutela di diritti di proprietà pubblica (definita comunque in modo ampio), non offriva dunque riferimenti per le questioni più scottanti già allora poste dagli assetti organizzativi e dalle tecnologie di gestione del patrimonio [3].
Inoltre, la legge, apparsa nel 2004, si confrontava con una situazione gestionale effettiva in cui era operante la legge Ronchey da oltre un decennio, una situazione condizionata dalle disordinate modalità con cui il sistema pubblico del patrimonio stava incorporando la novità del privato, dalla grave mancanza di competenze, dalla presenza di musei ancora privi di ogni autonomia (salvo alcuni istituti speciali) e di una cultura dell’autonomia istituzionale [4].
Già lo stesso ritardo nella determinazione regolativa suggerisce il dubbio che le stalle si siano chiuse, o semichiuse, o troppo chiuse, ampiamente dopo la fuga dei buoi [5]... Contestualmente, infatti, alle prime concessioni e alla gestione privatistica delle librerie museali, ampie campagne di scatto erano state svolte da alcuni concessionari che avevano negoziato la possibilità di utilizzare liberamente e senza costi (per l’istituzione pubblica), ma anche senza costi di diritti (per l’editore) immagini destinate alla produzione di merchandising (in particolare cartoline e guide) messo a disposizione (a un prezzo e con una royalty) per i visitatori. Per la dirigenza soprintendenziale degli anni Novanta, già messa sotto pressione da rilevanti tagli dei budget ministeriali, queste proposte rappresentavano occasioni per arricchire l’offerta museale e incentivare la partecipazione e sono state accolte nei quadri concessori senza immaginare le implicazioni più complesse che sono emerse in seguito.
Questo significa che, per lo meno in Italia, quando si è avviato il dibattito relativo alla tariffazione pubblica dei diritti di utilizzo delle immagini delle collezioni e degli interni, buona parte delle stesse erano già ampiamente in mano privata con contratti che non prevedevano retrocessioni pubbliche o le prevedevano su royalties molto blandamente negoziate.
Il percorso normativo ha preso quindi forma, fin dalla sua messa in opera, in uno scenario ricco di contraddizioni: da una parte una legge ispirata da un concetto di patrimonio e di conservazione molto “oggettuale” o “cosale”, da una prospettiva principalmente orientata a salvaguardare l’integrità e l’autenticità dello stesso [6], non pienamente consapevole delle implicazioni dei processi di rivoluzione tecnologica in corso e della formazione rapida di un campo di azione, anche pubblico, in cui i percorsi di formazione del valore sono esplicitamente giocati sul terreno della dimensione simbolica e immateriale [7]. Diciamo quindi un impianto legislativo difensivo, poco orientato evolutivamente... Dall’altra, un sistema di gestione dei musei e delle istituzioni culturali rapidamente esposto, con la diffusione delle concessioni, a pratiche imprenditoriali e commerciali orientate al profitto e alla soddisfazione degli shareholders, pratiche poco regolate e non sempre orientate a garantire accumulazioni di valore nella prospettiva dei beni comuni; molto raramente gestite in condizioni e modi ottimali [8]. Un sistema che sul punto specifico dei diritti delle immagini si era già assicurato, al tempo della legge, una sostanziale immunità rispetto ai tentativi di regolazione centrale.
In queste condizioni, le normative proposte per la regolazione delle tariffe erano state improntate ad un profilo relativamente cauto di intervento: ampie zone di esenzione per le attività di studio, ricerca e fair uses; presidio centrale delle fattispecie relative al rimborso dei costi vivi di produzione dei supporti per la riproduzione da parte delle istituzioni pubbliche del patrimonio, con dettaglio relativo alle diverse tecnologie (fotocolors, fotocopie ecc. classificazioni ovviamente soggette a rapida obsolescenza); poche indicazioni rispetto alle possibilità di negoziare ulteriori forme di diritto a scopo commerciale, che comunque erano demandate alle istituzioni periferiche.
Nel frattempo, si andavano formando ampie concentrazioni industriali con la creazione di enormi banche dati di immagini [9] (Getty e Corbis, per non citare che le principali), e con esse si condivideva l’aspettativa che le immagini del patrimonio potessero partecipare ai processi di creazione del valore per automotive, design, moda, banche e finanza, restituendo quindi alle istituzioni culturali flussi di reddito nuovi e non attesi, facili da acquisire, opportunità di ricavo ancora sconosciute. Sempre in quegli anni, intense correnti critiche, rigorosamente di retroguardia, si accanivano sullo stesso tema, cercando di impedire o delegittimare ogni forma di “mercimonio” degli apparati e delle dotazioni culturali dei musei e dei siti archeologici [10].
L’elemento su cui il dibattito si andava scontornando era connesso alla presenza o meno di un “mercato” globale delle immagini e si favoleggiava in merito al ruolo che il patrimonio culturale italiano avrebbe potuto avere all’interno di esso. La realtà imprenditoriale e di mercato si è poi rivelata assai diversa e ben più deludente. Il mercato della pubblicità e quello delle immagini delle collezioni museali sono restati sostanzialmente indipendenti a parte alcuni pochissimi pezzi altamente “iconici” (Venere di Botticelli, come esempio tra pochi altri) che talvolta purtroppo sono diventati anche tristemente “comici” correndo comunque il rischio di un rapido deterioramento del loro valore simbolico.
L’inserimento di immagini delle collezioni in narrative pubblicitarie richiedeva comunque un forte processo di mediazione tale per cui di fatto l’immagine iniziale assumeva il valore di una commodity a basso valore aggiunto. Una merce - paradossalmente - altamente sostituibile (per la presenza di moltissimi altri oggetti simili agli occhi di pubblici non esperti) per cui qualunque prezzo tendeva a essere troppo alto. Le frizioni del mercato, e la sua complessiva debolezza, hanno provocato anche forti delusioni per chi ha tentato la via dei market place on line, che hanno presentano costi rilevanti di digitalizzazione e stoccaggio delle immagini e costi ancora più rilevanti per avere una distribuzione efficiente delle immagini. Anche in questo caso poi sono sopravvissuti solo i più grandi, capaci di immergere tali costi in sistemi e accessi di mercato dimensionalmente immensi [11]. Tra i possessori di oggetti e il mercato globale delle immagini si è quindi andata creando una distanza e una necessità di intermediazione tale da assorbire ogni redditività e quindi annullare gli effetti sistemici della vendita di immagini.
Insomma: prospettive tendenzialmente mal calcolate, contrastate da posizioni intellettuali arretrate, nel contesto di un paese che complessivamente incontrava enormi difficoltà ad adeguarsi agli standard internazionali per la diffusione di una cultura digitale che invece avrebbe potuto avere nel patrimonio culturale un asset fondamentale, anche a sostegno delle scuole [12].
In questo contesto non certo semplice né confortante, si sono situate le iniziative regolative connesse all’art bonus (l'art. 12 del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83 c.d. Art Bonus, recante disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo) che hanno tentato di ridurne la complessità adottando iniziative liberalizzatrici, orientate a togliere o a ridurre e semplificare radicalmente, le tariffazioni centrali per i diritti di riproduzione delle immagini [13]. I motivi di questo orientamento regolativo che ha trovato il suo momento cruciale attorno al 2014, erano chiari:
- La constatazione dell’irrilevanza economica sostanziale dei flussi di reddito prodotti dalle concessioni di riproduzione editoriale (anzi la potenziale insostenibilità di ogni azione di riscossione allo stato attuale del mercato editoriale e delle infrastrutture di delivery pubbliche).
- La constatazione dell’incapacità del ministero di dotarsi delle competenze, degli investimenti e delle procedure capaci di istituire i livelli di mediazione e delivery necessari a rendere tali flussi più sostanziali [14].
- L’istituzione del sistema museale italiano con gli istituti di prima e di seconda fascia, e con i poli regionali, che promettevano di diventare le interfacce operative - coordinabili dalla direzione musei - di ogni negoziazione avanzata rispetto agli usi autenticamente commerciali del patrimonio.
È abbastanza suggestivo osservare come il d.m. n. 161/2023 si sviluppi in modo del tutto indipendente da questa evoluzione, diciamo come se non ci fosse stata, agganciandosi alla legge originaria, senza eliminarne i difetti, ma tentando di renderla più cogente ed efficace. È possibile che questa scelta possa essere giuridicamente difendibile, ma certamente non è particolarmente comprensibile sul piano strategico e dell’evoluzione dei rapporti tra patrimonio culturale, nuove tecnologie, processi di valorizzazione nazionali e internazionali.
Il paese andrebbe accompagnato con politiche sofisticate, consapevoli della complessità dei processi di mediazione (culturali, semantici, tecnologici) che renderebbero il patrimonio culturale un vero strumento per lo sviluppo civile ed economico. Questo significherebbe certamente rifiutare ogni logica tesa a spezzare i processi con interventi tariffari centrali “erga omnes” che (per quanto articolati e resi complessi) isolano gli accessi alle risorse di immagini di beni dello stato come una sezione a parte, indipendente dalle specificità e soprattutto dalle complessità dei singoli percorsi di mediazione in cui tali accessi sono inseriti.
I sistemi sviluppati dalle biblioteche pubbliche più sofisticate, tra tutte la National Library di New York, accompagnati da sistemi di intelligenza artificiale, sono riferimenti indispensabili (e di interesse vertiginoso) per capire come un approccio di liberalizzazione accompagnato da servizi sofisticati potrebbe incentivare conoscenza, tutela, innovazione e sviluppo. Inoltre, esso sarebbe se non altro più equo, perché estenderebbe a tutti il privilegio oggi riservato ad alcuni settori e operatori a fronte di un volume di transazioni complessivamente ancora molto modesto che andrebbe incentivato, non tassato.
Ogni azione mirata ad un rilancio del settore non potrebbe passare che dagli istituti periferici (musei autonomi) che sono le interfacce naturali dei processi di collaborazione e negoziazione destinati a rendere il patrimonio culturale parte di una effettiva domanda mondiale di immagini per scopi anche commerciali. Musei che andrebbero organicamente connessi al sistema delle biblioteche e degli archivi. Una via ancora tutta da costruire.
In questo senso forse un merito, inatteso, del d.m. n. 161/2023 potrebbe oggi esser quello di rendere necessaria e urgente una riforma della legge che l’ha ispirato.
Una seconda domanda potrebbe riguardare le ragioni di questo intervento. Perché si è avvertita l’urgenza di un simile intervento? Perché non è deciso di proseguire prosegue oggi, piuttosto, in un investimento capace di rendere il sistema museale, bibliotecario e archivistico italiano una risorsa integrata per lo sviluppo del paese invece di tentare soluzioni regolative centrali?
Qui si apre credo uno snodo rimandato da troppo tempo ormai che riguarda il potenziamento delle autonomie e la gestione/formazione del personale destinato a rinforzare le capacità dei musei pubblici, un dibattito che andrebbe ripreso enfatizzando la necessita improcrastinabile di evolvere la missione dei musei stessi come istituti di cultura, snodi attivi dei processi di cittadinanza e di formazione culturale del paese, non solo più custodi di collezioni e di monumenti o, anche peggio, attrattori turistici. Un ruolo che sarebbe necessario svolgere integrando musei, biblioteche, archivi in sistemi di fornitura coordinati [15].
Entrando poi, brevemente, nello specifico della questione relativa alla tariffazione delle immagini da pubblicare in edizioni di carattere scientifico (non creative commons) il problema che si registra è che il decreto non tiene conto di una realtà di campo già complessivamente consolidata. Gli editori scientifici non solo non pagavano tariffe in virtù dei riferimenti di legge (che esentava sotto una certa tiratura e dimensionamento dell’operazione), ma in realtà, in molti casi, scaricavano sui committenti (per esempio nel caso di cataloghi), a volte sugli stessi ricercatori, i costi eventuali di tali riproduzioni (foto o scansioni ecc.).
Questo scenario rende l’intervento centralizzato non perequativo rispetto a posizioni di rendita, ma invece potenzialmente influente (al netto di recenti ripensamenti) sulle economie dell’intero settore della ricerca, e in particolare sui terminali apicali delle produzioni scientifiche e culturali: ricercatori e musei. È lecito, infatti, aspettarsi che gli editori scaricheranno, per ovvie esigenze di bilancio, su di loro i costi aggiuntivi determinati dalla tariffazione, con costi diretti o riduzione delle royalties in caso di concessioni.
Ci si rende conto che questo punto, particolarmente esposto, del decreto non è stato evitabile, ma è stato una conseguenza della decisione di riportare a nuova vita esecutiva una legge per molti aspetti inadeguata. Se proprio un riordino fosse stato necessario e urgente, meglio sarebbe stato, forse, mantenere un profilo più basso, un minor livello di accentramento, tenendo i diritti reali obbligatori a livelli irrisori e se mai fornendo le tabelle come uno strumento di formazione e orientamento per negoziazioni destinate a tener conto di percorsi complessi e strategicamente rilevanti.
4. Rompere lo specchio di Narciso
Per molto tempo la questione delle immagini del patrimonio culturale italiano e tutti i temi connessi alla loro riproduzione hanno subito le conseguenze di un clima organizzativo piuttosto autoriferito [16], come se in fondo l’immagine del patrimonio fosse destinata ad un mero, infinito e astratto rispecchiamento del patrimonio stesso e non ad agire come un lievito intellettuale collettivo. In corrispondenza di questa attitudine, da una parte la questione della riproduzione non è stata vista come un tema strategico sul piano specificamente e altamente culturale, ma come un tema prevalentemente relativo alla dimensione mercantile e, dall’ altro, ci si è illusi che le immagini del patrimonio potessero rappresentare un flusso di reddito importante e soprattutto “facile” per gli operatori del settore. Così non è stato.
Il riordino di questo ambito non può, a mio parere, essere condotto senza avere chiaro un obiettivo di sistema: fare in modo che le immagini del patrimonio e la loro veicolazione e mediazione attraverso le nuove tecnologie diventino, da una parte, occasione per ridurre il deficit di informazione e di accesso alla rete del nostro paese e, dall’altra, un lievito per la sua progettualità e il suo sviluppo.
La fragilità di fondo del d.m. n. 161/2023 è di aver tentato un intervento senza traguardare questi obiettivi, ma puntando ad una soluzione meramente amministrativa e giuridica, in sostanza monodimensionale, senza farsi carico delle necessità di trasformazione complessiva del quadro operativo e normativo.
Di fronte alla complessità dei sistemi culturali contemporanei e alla loro immensa rilevanza potenziale –cognitiva, sociale, politica - non solo non bastano buona volontà e diligenza, ma non basta nemmeno il riferimento ad ambiti disciplinari unici (ad esempio alla dimensione strettamente amministrativo-giuridica). Occorre immergere il necessario e centrale elemento regolativo e giuridico all’interno di una visione capace di connettere gli elementi e di individuare il loro ruolo all’interno di pratiche e processi il cui effetto è dilatato nel tempo, intricato spazialmente, stratificato tematicamente. Una immersione che produce, inevitabilmente, cautela e una processualità e progressività di intervento.
Merito di questo decreto è probabilmente invece di aprire un dibattito sulla visione prospettica del patrimonio e delle sue istituzioni, oggi più che mai urgente e necessario.
Note
[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.
[**] Stefano Baia Curioni, professore associato presso il dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università Bocconi, via Sarfatti, 25, 20136, Milano, stefano.baia@unibocconi.it.
[1] Intervento di Antonio Tarasco in https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Costo_immagini_replica.html.
[2] S. Stabile, G. Negri Clementi, L’arte e il diritto d’autore, in Il Diritto dell’Arte. L’arte, il diritto e il mercato, Skira, Milano, 2012, pagg. 61-140.
[3] L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I "pieni" e i "vuoti" normativi, in Aedon, 2018, 3.
[4] Credo sarebbe una ricerca interessante, a distanza di trent’anni, andare a rivedere nel dettaglio il carattere delle diverse concessioni per i servizi aggiuntivi comparandole punto a punto. Certamente emergerebbero condizioni operative sorprendenti.
[5] G. Guerzoni, S. Stabile, I diritti dei musei. La valorizzazione dei beni culturali nella prospettiva del right management, Etas, Milano, 2003.
[6] “La prima premessa è rappresentata dal predominio della materialità e della coseità che ha sempre contraddistinto la legislazione delle cose d'arte, prima, e dei beni culturali, poi. Basta leggere le disposizioni sul divieto di trarre calchi, ancora oggi presenti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lg. n. 42/2004, con riferimento alla "riproduzione di beni culturali"” in L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I "pieni" e i "vuoti" normativi, cit.
[7] L’evidenza che l’azione culturale sia essenzialmente di natura semeiotica e interpretativa e quindi si realizza eminentemente in una dimensione immateriale, fatta di cognizioni, competenze, immaginari, rappresentazioni, interpretazioni, mediazioni, in cui ovviamente la riproduzione e la diffusione di immagini sono rilevanti, si è fatta strada negli ultimi trent’anni, affiancandosi ad una visione positiva e antiquaria che enfatizzava in modo prevalente e unico la dimensione dell’autenticità originaria, materiale, dei beni. La convivenza di queste posizioni, e il loro dialogo sono oggi un tema centrale nel rapporto tra conservazione e mediazione nella gestione del patrimonio culturale e nella nozione di patrimonio e interesse pubblico, ma aprono un campo che in questa sede può solo essere accennato.
[8] Sul Sistema delle concessioni dei servizi aggiuntivi si sono susseguiti molti interventi anche in questa sede, cfr. S. Baia Curioni, L. Forti, Note sull'esperienza delle concessioni per la gestione del patrimonio culturale in Italia, in Aedon, 2009, 3.
[9] E. Blaschke, From the Picture Archive to the Image Bank Commercializing the Visual through Photography. The Bettmann Archive and Corbis, in Etudes Photographiques, 2009. J. Furner, Digital images in libraries: an overview, in VINE, 1997.
[10] Basti pensare agli intensissimi, variamente dotti e complessivamente scentrati nel merito dibattiti relativi alla famigerata sponsorizzazione del Colosseo da parte di un’azienda del mondo della moda in cambio dei diritti d’uso dell’immagine di un logo. Operazione non priva di approssimazioni, finita in un processo e un sostanziale nulla di fatto.
[11] La difficoltà di definire flussi sostenibili di reddito operando sul mercato delle immagini on line è stata percepita in modo significativo anche dalle istituzioni che partivano dalla proprietà pregressa di importanti archivi di immagini, una per tutte Alinari, per non parlare delle esperienze di archivi anche importanti come l’Archivio Ricordi o altri archivi fotografici.
[12] Sul tema abbastanza impressionante il resoconto della Corte dei Conti Spese per l’informatica con particolare riguardo alla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano (2016-2020) Deliberazione 12 ottobre 2022, n. 50/2022. E si omette qui ogni commento in merito ai reiterati e altrettanto velleitari tentativi di accentrare in portali o “vortal” digitali centrali come ad un certo momento si diceva, l’offerta complessiva di immagini del patrimonio culturale del paese.
[13] M. Modolo e A. Tumicelli, Una possibile riforma sulla riproduzione dei beni bibliografici ed archivistici, in Aedon, 2016, 1; A. Tumicelli, L'immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, 1. Si legga anche A. Serra, Patrimonio culturale e fruizione virtuale, in La globalizzazione dei beni culturali, (a cura di) L. Casini, Bologna, Il Mulino, 2010, pag. 223 ss.; G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L'immagine dei beni tra property e commons, in Politica del diritto, 2009, pag. 567 ss.; A.M. Adler, Fair Use and the Future of Art, 91 N.Y.U. L. Rev. 559 (2016).
[14] Un’altra ricerca storica interessante e vagamente ansiogena potrebbe addentrarsi nel cimitero di progetti pubblici e privati di portali, vortals, siti, B2B, B2C, basati sull’idea di sfruttare i diritti di immagini del patrimonio e nella ricca messe anche terminologia connessa che hanno costellato gli anni duemila.
[15] Un primo passo in questo senso, fatto per altro per motivi eterogenei, è l’accorpamento della pinacoteca e della biblioteca di Brera.
[16] Si veda nota 7 del presente contributo.