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Verso una definizione aperta di "bene culturale"?
(a proposito della sentenza n. 94/2003 della Corte costituzionale)

di Annamaria Poggi



1. La sentenza n. 94 del 2003, con cui la Corte ha dichiarato infondato un ricorso governativo proposto contro una legge regionale per supposta violazione di una serie di competenze statali in materia di beni culturali e principalmente per violazione della competenza statale in materia di "tutela" dei beni culturali, si segnala per essere la prima sentenza costituzionale che interviene a risolvere un conflitto di competenza tra Stato e regioni fondato sulla scissione operata dall'art. 117 Cost. tra tutela (quale competenza esclusiva statale) e valorizzazione (quale competenza regionale concorrente) dei beni culturali.

La circostanza assume un rilievo non meramente formale o statistico se solo si rammentano le accese (e non ancora sopite) dispute dottrinali che hanno seguito sia l'adozione del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112con cui quelle definizioni normative (insieme a quelle di bene culturale, promozione, gestione...) sono state introdotte nell'ordinamento legislativo (sul punto le divergenti opinioni di Sciullo, Chiti e Cammelli da un lato e Ainis dall'altro), sia l'adozione del d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 con cui talune di quelle stesse definizioni (in particolare quella di bene culturale) sono state oggetto di un ripensamento che ha mutato la prospettiva concettuale precedentemente accolta (Pitruzzella).

La sentenza in oggetto si colloca decisamente in questo dibattito, si fa carico delle difficoltà interpretative e dei conflitti istituzionali che hanno sin'ora accompagnato ogni tentativo di fondare la ripartizione di competenza tra Stato e regioni attraverso la strada della esplicitazione del contenuto delle formule della tutela e della valorizzazione dei beni culturali, indica un diverso possibile programma di convivenza.

 

2. Il ricorso governativo che ha dato luogo al giudizio di costituzionalità aveva ad oggetto la l.r. Lazio n. 31/2006 ("Tutela e valorizzazione dei locali storici") con cui la regione "al fine di salvaguardare gli esercizi commerciali ed artigianali del Lazio aperti al pubblico che hanno valore storico, ambientale e la cui attività costituisce testimonianza storico, culturale, tradizionale, anche con riferimento agli antichi mestieri promuove (...) in concorso con le Soprintendenze per i beni culturali e i comuni, iniziative tese alla individuazione e valorizzazione di tali esercizi e al sostegno delle relative attività" (art. 1, comma 1). A tal fine la legge prevede la formazione di un elenco regionale dei locali "aventi valore storico, artistico e ambientale" la cui compilazione è affidata ad uffici comunali e regionali, previa intesa con la Soprintendenza sui criteri tecnici da adottare ai fini dell'inserzione nell'elenco. L'inclusione di un immobile in detto elenco comporta la possibilità di accedere a finanziamenti regionali finalizzati a provvedere alla manutenzione o al restauro dei locali, nonché degli arredi o strumenti in essi contenuti, oppure a fronteggiare eventuali aumenti del canone di locazione. Il finanziamento concesso per la manutenzione e il restauro comporta l'imposizione sull'immobile di un "vincolo di destinazione d'uso" da trascriversi - previo assenso del proprietario, se diverso dal beneficiario - nei registri immobiliari.

Nei confronti di tale legge l'Avvocatura dello Stato ha mosso una serie di rilievi tra cui, per quanto qui interessa, l'invasione della competenza statale in materia di tutela dei beni culturali dedotta da due diverse circostanze: quella per cui la formazione dell'elenco regionale prescinde completamente dai vincoli posti dagli organi dello stato deputati alla tutela di tali beni e quella per cui l'agevolazione per interventi fisici quali il restauro e la manutenzione costituisce un tipico intervento di tutela e non di valorizzazione.

Il percorso argomentativo utilizzato dalla Corte per rigettare la questione è ricostruibile attraverso tre passaggi:

- la distinzione tra funzioni di tutela e di valorizzazione si desume dalla legislazione vigente (artt. 148, 149 e 152 d.lg. 112/1998 e d.lg. 490/1999);

- tali funzioni ineriscono i beni culturali quali attualmente definiti dal d.lg. 490/1999;

- le stesse funzioni non riguardano "altri beni" cui "a fini di valorizzazione possa essere riconosciuto particolare valore storico o culturale da parte della comunità regionale o locale, senza che ciò comporti la loro qualificazione come beni culturali ai sensi del d.lg. 490/1999 e la conseguente speciale conformazione del loro regime giuridico".

La legge regionale del Lazio, conclude pertanto la Corte, non è illegittima poiché non pretende di determinare una nuova categoria di "beni culturali ai sensi del d.lg. 490/1999". Ed infatti la qualificazione di locali storici che essa attribuisce agli immobili inseriti nell'elenco non produce "alcuno dei vincoli tipici della speciale tutela dei beni culturali di cui al d.lg. 490/1999", semplicemente rende ad essi applicabile la speciale disciplina dei finanziamenti prevista dalla legge regionale.

 

3. Due i profili della motivazione che meritano di essere sottolineati.

Il primo è di tipo metodologico. Con questa sentenza, infatti, la Corte (diversamente dall'indirizzo invece adottato dal Consiglio di Stato nel famoso parere dell'agosto del 2002) mostra di non ritenere utilmente percorribile, ai fini della soluzione dei conflitti di competenze tra diversi livelli di governo territoriale, il metodo di stabilire di volta in volta se i concreti interventi posti in essere sul bene, o comunque quelli previsti o possibili, rientrino in una delle definizioni normative attualmente vigenti (come, invece, aveva fatto con le sentt. n. 64/87 e 277/93).

La richiesta dell'Avvocatura di dichiarare compresi nella tutela anziché nella valorizzazione il restauro e la manutenzione è, così caduta nel vuoto, probabilmente perché la Corte l'ha ritenuta portatrice di una modalità di affronto del problema che va in qualche misura superata.

Ancor prima dell'entrata in vigore del d.lg. 112/1998, del resto, si erano palesate le difficoltà intrinseche ai tentativi di perimetrazione della tutela sui beni culturali (tutta statale) rispetto ad altre competenze regionali quali l'edilizia, la tutela del paesaggio, l'urbanistica. L'impossibilità di uscire dal vicolo cieco delle possibili sovrapposizioni tra competenze statali e regionali aveva spesso indotto la Corte "a rincorrere affannosamente il principio della leale collaborazione al fine di dare luce alle molte zone d'ombra provocate dalla latitanza del legislatore" (Pelillo) che non aveva provveduto a definire le competenze regionali (v. sentt. 64/87; 921/88; 277/93 e 70/95).

Tuttavia l'adozione del d.lg. 112/1998 (ispirato, come ha giustamente ricordato Ainis all'intento di opporsi alla visione "tutelocentrica" che si opponeva a riconoscere altri livelli di intervento istituzionale diversi dalla tutela o comunque non assoggettati a questa) non è stata in grado di prevenire e risolvere i conflitti, a causa di quella divorante definizione di tutela che va inevitabilmente a collocarsi trasversalmente in qualunque altro ambito (gestione, restauro, conservazione e valorizzazione).

La Corte sembra prendere atto di tali difficoltà e, questo è il secondo profilo, pare abbandonare la strada dell'individuazione del tipo di intervento per focalizzare l'attenzione sul bene oggetto di intervento. La distinzione, solo adombrata nella sentenza, vede da un lato i "beni culturali" individuati ai sensi del d.lg. 490/99 (e quelli individuabili attraverso la riserva di legge statale cui quel testo rinvia) per i quali rimane in qualche misura prevalente l'ambito della tutela (e intatti, alla luce di questa sentenza i problemi riguardanti la convivenza tra tutela e valorizzazione), e dall'altro "altri beni" che possono rivestire interesse storico o culturale per la comunità regionale o locale. Questi ultimi beni, in forza della competenza legislativa concorrente sulla valorizzazione e, naturalmente solo con riguardo agli aspetti relativi la stessa valorizzazione, possono essere assoggettati a particolari discipline legislative regionali.

 

4. La proposta che pare emergere dalla sentenza, in conclusione, è quella di sdrammatizzare il conflitto tutela/valorizzazione spostando il fuoco del problema dal tipo di intervento al bene oggetto dello stesso attraverso la riproposizione della tesi di bene culturale quale definizione aperta.

L'idea, come noto, non è nuova. Certamente innovativa è, invece, la proposta di farne il criterio di convivenza delle competenze statali e regionali così come queste sono oggi confermate nell'art. 117 Cost. scontando in anticipo che la sua applicazione potrebbe comportare reciproci (purché fisiologici) sconfinamenti: della tutela sulla valorizzazione quando oggetto di disciplina è il "bene culturale" ai sensi del d.lg. 490/1999 e della valorizzazione sulla tutela quando si tratti di "altro bene" di interesse per la comunità regionale o locale. La conferma è nella stessa legge regionale del Lazio che include gli interventi di restauro tra le attività di valorizzazione dei locali storici.

Rimangono, anche rispetto alla soluzione adottata, molti interrogativi. Certamente irrisolto è il nodo dell'insistenza sullo stesso bene di esigenze (e di interventi) di tutela e di valorizzazione. Ci si potrebbe chiedere, ancora, sino a che punto attraverso discipline di valorizzazione le regioni possano estendere i vincoli sulla proprietà privata (nel caso della legge regionale impugnata il vincolo di destinazione, anche se temporaneo). Ma ancor prima, in realtà, ci si potrebbe chiedere se siamo in presenza di un nuovo indirizzo giurisprudenziale oppure se la sentenza prende atto di una situazione di transizione che vede sullo sfondo il d.d.l. La Loggia-Bossi che distingue le attività di valorizzazione tra quelle di interesse nazionale (di competenza esclusiva statale) e quelle di interesse regionale e locale (di competenza esclusiva regionale).

La risposta potrebbe non farsi attendere poiché pende dinanzi alla Corte un ricorso governativo contro la l.r. Emilia-Romagna n. 16/2002 che ripropone alla Corte la questione della legittimità costituzionale di una legge regionale finalizzata a valorizzare attraverso interventi di recupero (restauro, manutenzione, conservazione) edifici e luoghi ritenuti di interesse storico-artistico della regione.


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