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Autonomia differenziata e beni culturali [*]

di Girolamo Sciullo

La previsione dell'art. 116, comma 3, Cost., ancorché collocata 'a monte' rispetto alla disciplina dell'autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria regionale, mi è sempre parsa, nell'economia complessiva del nuovo Titolo V, idealmente situarsi 'a valle', in un momento logicamente e quindi temporalmente successivo rispetto all'attuazione di questa autonomia 'di base'. In altre parole segnare l'avvio di un percorso 'personalizzato', dopo che comuni condizioni di partenza fossero state assicurate alla generalità delle regioni.

Ciò non per l'idea di un ruolo marginale dell'autonomia differenziata. Questa invero resta un elemento significativo anche nell'assetto derivante dalla riforma del 2001. Il mantenimento delle "forme e condizioni particolari di autonomia" delle regioni a statuto speciale (art. 116, comma 1) e la differenziazione cui dà inevitabilmente luogo l'operare del principio di sussidiarietà coniugato a quello di adeguatezza (art. 118, comma 1) ne offrono la prova evidente.

Il fatto è che in un ideale, ma ispirato a ragionevolezza, 'ordine delle cose', l'autonomia differenziata promessa alle regioni ordinarie (ho delle perplessità sul fatto che l'art. 116, comma 3, riguardi anche quelle speciali, che hanno percorsi specifici per acquisire ulteriori spazi) segue, se non il compiuto, l'almeno avanzato dispiegarsi delle nuove generali condizioni di autonomia sancite dagli artt. 117-119, giacché solo in relazione ad esse, in rapporto alle loro insufficienze o inadeguatezze, 'ulteriori forme' e 'condizioni particolari' trovano motivo per essere proposte.

E' noto però che l'attuazione degli artt. 117-119 non può certo ritenersi, sia pure per motivi diversi, soddisfacente: la consistenza delle singole materie presenta incertezze, non ha avuto luogo una riconsiderazione complessiva delle funzioni amministrative da conferire, irrisolta resta la questione del c.d. 'federalismo fiscale'.

In queste condizioni, anche esiti del meccanismo dell'art. 116, comma 3, di piena soddisfazione per le regioni proponenti si troverebbero esposti al successivo condizionamento (e ridimensionamento) determinato dall'operare di interventi statali che invocassero come titolo materie 'trasversali' o esigenze di coordinamento della finanza pubblica.

In aggiunta non vanno trascurate le controindicazioni di ordine politico. Il percorso dell'art. 116, comma 3, distrae il Governo e il Parlamento dal dare attuazione a quanto richiesto dall'autonomia 'ordinaria' e rischia di generare una gara 'ad emulazione' fra regioni, indebolendone le complessive 'ragioni'. Non è scontato poi l'esito. In presenza di un elettorato del Centro e del Sud almeno sospettoso verso la diversità (l'esito del referendum sulla riforma costituzionale mi sembra che trovi in ciò una spiegazione non secondaria) le forze politiche 'nazionali' al governo hanno margini ristretti di manovra.

Insomma, in questo momento storico, il ricorso al meccanismo dell'art. 116, comma 3, sembra presentare solo i tratti di un'operazione 'd'immagine', con i pregi (pochi) e i limiti (molti) propri del tipo.

Fermo restando che l'attuale stagione del regionalismo dovrebbe caratterizzarsi per una rinnovata richiesta di attuazione del nuovo assetto costituzionale - e in primo luogo delle previsioni dell'art. 119 - resta da chiedersi se sia prospettabile un qualche percorso 'alternativo', rispetto a quello dell'art. 116, comma 3, che dia una risposta alle insufficienze che la singola regione avverte nella sua condizione di ente di governo territoriale e, per questa via, ne accresca la autonomia, concepita in termini di effettività.

Muovendo da quanto prospettato dalle iniziative della Lombardia e del Veneto vorrei cercare di rispondere all'interrogativo facendo riferimento al settore dei beni culturali, che entrambe considerano.

Va premesso che le delibere assunte dai due Consigli regionali e contenenti il 'mandato a negoziare' con il governo (Lombardia, 3 aprile 2007, e Veneto, 18 dicembre 2007, n. 98), per il loro carattere di atti di indirizzo politico, lasciano talune incertezze sulla precisa articolazione giuridica delle richieste avanzate.

In termini generali può dirsi che ambedue muovono dall'esigenza di una ricomposizione delle funzioni relative ai beni culturali, ma la declinano diversamente.

La delibera della Lombardia si focalizza sulla richiesta di implementare per gli interventi inerenti beni culturali "una logica di integrazione con altri interventi di sviluppo territoriale" e di "acquisire [la] competenza statale in materia di tutela, sia regolamentare che amministrativa, per quest'ultimo aspetto, limitatamente ai compiti attualmente posti in capo alla Direzione regionale del Ministero ed alle Soprintendenze lombarde, con garanzia del mantenimento e valorizzazione delle alte professionalità oggi ivi operanti", "fermo restando il riferimento alle norme legislative statali in materia di tutela dei beni culturali".

Quella del Veneto, invece, tende a far "acquisire una potestà legislativa concorrente in materia di tutela dei beni culturali e il conferimento di maggiori funzioni amministrative di tutela, conservazione e gestione del patrimonio culturale locale", con particolare riguardo ai "beni appartenenti al patrimonio storico della Prima guerra mondiale di cui il territorio regionale è particolarmente ricco".

Complessivamente le richieste appaiono meno incisive rispetto a quella avanzata nello stesso ambito, durante la precedente legislatura, dalla Toscana, se non altro per il fatto che tale regione tendeva anche a conseguire la titolarità dei beni culturali statali presenti sul suo territorio.

Il quesito principale che esse pongono è se, per il loro accoglimento, risulti necessario il meccanismo dell'art. 116, comma 3.

Preliminarmente è opportuno ricordare tre gruppi di disposti presenti nel decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e succ. mod. (Codice dei beni culturali e del paesaggio).

Anzitutto quello dell'art. 5, per il quale "sulla base di specifici accordi o intese ... le regioni possono esercitare le funzioni di tutela su carte geografiche ecc." (comma 3) e, in particolare, per il quale "nelle forme previste dal comma 3 e sulla base dei principi di differenziazione ed adeguatezza, possono essere individuate ulteriori forme di coordinamento in materia di tutela con le regioni che ne facciano richiesta" (comma 4).

In secondo luogo, per l'art. 112 "lo Stato, le regioni e gli altri enti territoriali stipulano accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare piani strategici di sviluppo culturale e programmi, relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica. Gli accordi ... promuovono altresì l'integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati" (comma 4). A tal fine si prevede anche la possibilità di costituire "appositi soggetti giuridici" (comma 5).

In terzo luogo, si consente che, ancora tramite accordi, "il ministero può trasferire alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, la disponibilità di istituti e luoghi di cultura" [musei, biblioteche, aree archeologiche ecc. (cfr. art. 101)] (art. 102, comma 5).

Oltre a queste disposizioni di portata generale si rinvengono altre che prevedono accordi o intese fra Stato e regioni su aspetti specifici della valorizzazione (ad es. artt. 103, 118 e 119) e della tutela (ad es. artt. 17, 18 e 29, comma 5) [1].

Da tali disposizioni, che danno attuazione a quanto previsto dall'art. 118, comma 3, Cost., emerge chiaramente come principio cardine della disciplina dei beni culturali quello dell'accordo fra Stato-regioni, che risulta investire i profili tanto della tutela, quanto quelli della valorizzazione e della disponibilità del patrimonio culturale. La via dell'accordo politico-amministrativo, dunque, se non è in grado di incidere sull'assetto delle competenze legislative fissato dall'art. 117, commi 2 e 3, Cost., può consentire alle regioni interessate l'acquisizione di 'spazi' (in termini di nuove funzioni e di nuovi beni oppure di 'condizionamento' dell'esercizio delle funzioni statali) tali da ottenere risultati di ricomposizione (o quantomeno di minore frammentazione) della politica di settore.

Si può ora tornare all'interrogativo in precedenza posto, e cioè se le richieste avanzate dalle due regioni postulino per il loro soddisfacimento il percorso stabilito dall'art. 116, comma 3.

La risposta è in larga misura negativa. Le "maggiori funzioni amministrative" rivendicate dal Veneto e l'implementazione di "una logica di integrazione con altri interventi di sviluppo territoriale" voluta dalla Lombardia sono possibili da conseguirsi tramite gli accordi previsti dal Codice. Così come non si comprenderebbe perché l'attuale assetto delle competenze impedirebbe al Veneto di disciplinare e praticare azioni di valorizzazione del patrimonio storico della Prima guerra mondiale oppure escluderebbe che le due regioni dettino per i beni culturali (non statali) presenti sul loro territorio norme ulteriori di tutela (giusta l'opinione anche di recente ribadita dalla Corte costituzionale [2]).

Richiedono, invece, l'intervento del legislatore - ossia il percorso dell'art. 116, comma 3 - l'acquisizione da parte del Veneto della "potestà legislativa concorrente in tema di tutela" e il trasferimento rivendicato dalla Lombardia delle strutture (personale, mezzi e competenze) costituite dalla Direzione regionale e dalle soprintendenze di settore.

Comunque si giudichi la 'praticabilità politica' di queste ultime richieste, resta il fatto oggettivo che le potenzialità offerte dall'attuale contesto normativo non risultano essere state utilizzate dalle due regioni.

Che la negoziazione con il ministero dei Beni culturali presenti difficoltà, pare fuor di dubbio e il caso dell'area archeologica di Ravenna (per citare un esempio vicino) lo attesta abbondantemente, ma queste difficoltà non vengono meno con l'utilizzo del meccanismo dell'art. 116, comma 3. Piuttosto per un verso risultano accresciute (dal passaggio parlamentare), per altro verso procrastinate (la legge presumibilmente rinvierebbe per la sua attuazione ad accordi fra il ministero e la regione).

Insomma, se una 'lezione' può trarsi dal settore dei beni culturali, questa è che l'apertura di un tavolo di confronto politico/amministrativo con il governo su ambiti mirati resta il prioritario tentativo per una regione che ad un'astratta richiesta di ulteriore autonomia voglia anteporre la ricerca di concreti risultati sulla strada della integrazione (o almeno della minore frammentazione) delle politiche che intende perseguire. Non che il percorso con ciò divenga in discesa, ma perché non tentare?

 

 

Note

[*] Lo scritto riproduce fondamentalmente un intervento ad una tavola rotonda virtuale sull'art. 116, comma 3, Cost., organizzata nel febbraio del 2008 dalla rivista Le istituzioni del federalismo e i cui risultati sono destinati a comparire sul n. 1/2008 della stessa rivista.

[1] Si omettono le disposizioni, di cui pur dovrebbe tenersi conto, che prevedono intese in sede di Conferenza Stato-regioni (ad es. artt. 29, comma 7, e 114).

[2] Cfr. sentenza 401/2007, punti 6.5 e 6 in diritto.

 

 



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